Il Giappone occidentale e lo Shikoku

Rieccomi a Tokyo. Sono tornato da poco con lo shinkansen, con un un po' di nostalgia e molti soldi in meno, ma contento e, a meno che non cosideriate la nostalgia come un sintomo di rimpianti nascosti, anche senza rimpianti Quello che segue e' il mio diario di viaggio, un resoconto piuttosto puntuale delle mie esperienze nello Shikoku e...
Scritto da: Andrea Montagnoli
il giappone occidentale e lo shikoku
Partenza il: 25/02/2002
Ritorno il: 05/03/2002
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
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Rieccomi a Tokyo. Sono tornato da poco con lo shinkansen, con un un po’ di nostalgia e molti soldi in meno, ma contento e, a meno che non cosideriate la nostalgia come un sintomo di rimpianti nascosti, anche senza rimpianti Quello che segue e’ il mio diario di viaggio, un resoconto piuttosto puntuale delle mie esperienze nello Shikoku e nell’Honshu occidentale.

Il viaggio e’ stato breve, solo dieci giorni, ma intenso. Mi sono immerso in una dimensione insolita per il Giappone. Mi sono tenuto lontano dalle mete turistiche piu’ frequentate, o almeno ci ho provato, e ho preferito strade meno battute. Naturalmente alcune delle mete che ho visitato, come Hiroshima, sono molto turistiche, ma non vi ho rinunciato per un dicutibile e ridicolo snobismo turistico. Avevo bisogno di staccare: basta universita’ e basta lavoro. Almeno per un po’ Lunedi’, Shinjuku. Terminata la lezione di italiano (ho un lavoro part time, o come si chiama qui, un “arubaito” come insegnante di italiano), con il mio zainone e il mio amico Nao, dispiaciuto per la mia partenza, mi dirigo verso il Kabuki cho, nella zona del Prince Hotel, dove abbondano i capsule hotel. Poiche’ il mio aereo per Hiroshima parte prestissimo, mi sono visto costretto a pernottare in un hotel “in centro”, perche’ casa mia e’ troppo lontana da Haneda e anche prendendo il primo treno della mattina, non sarei mai arrivato in tempo. Avevo un buono sconto per un capsule niente male. Arrivati all’ingresso dell’hotel, c’e’ un cartello che, con la cosueta “discreta” xenofobia giapponese, avvisa che non si accettano i signori stranieri. Ci spostiamo verso un altro hotel, gaijin friendly, consigliato dalla lonely planet. Chiuso per restauri. Ricercare un dannato loculo a Tokyo non e’ per nulla facile, aggiungi che avevo con me un bagaglio pesante, un amico che si lagnava per la sua triste vita sentimentale e il tutto succedeva a Kabuki cho. Tanto per darvi un’idea del posto, e’ al Kabuki cho che Ridley Scott si e’ ispirato per realizzare Blade Runner. Ogni due passi ti si avvicina qualcuno che ti vuole portare a fare “massaggi” con le ragazze del suo locale. Fortuna che qui sono meno insistenti che a Londra o Parigi. Facendo lo slalom tra i “butta-dentro” ho finalmente trovato un capsule disposto ad accettare un barbaro gaijin. Fatto il check in, sono andato con Nao a bere qualcosa: era presto e non avevo sonno. Tornato in hotel, faccio la doccia e la sauna, che cacella ogni traccia di stanchezza dal mio corpo e mi getta in uno stato di lucidita’ mentale e corporale che non vivevo da tempo. Risultato? Una volta entrato nel loculo (che e’ molto comodo, riesco anche a starci seduto!) quasi non dormo. Senza bisogno della sveglia, o di un miracolo, resuscito dal mio sepolcro di buon’ora, circa le quattro, e ho tutto il tempo per una colazione a base di onigiri (“rice balls”) alle umeboshi (prugne in salamoia) e kombu ( sono alghe squisite) comprati dal 7eleven vicino all’hotel. Prendo il primo treno della Yamanote e poi cambio per la monorotaia. Con la mente ritornavo a due anni fa, al mio primo viggio a Tokyo. Quello stesso tragitto, percorso in senso inverso, mi aveva dato una visione allucinante e, allo stesso tempo, affascinante di Tokyo. Grattacieli enormi sull’acqua, autostrade, costruzioni ultramoderne. Un primo impatto notevole, della cui forza il tragitto da Narita, l’aeroporto internazionale, non ha nemmeno l’ombra. Mi ricordo che mi chiedevo: “Ok, ok. A Tokyo sono in tanti, ma tutti questi grattacieli basterebbero a contenere la popolazione del Giappone! Cosa se ne faranno di tutti questi affascinanti monumenti all’era moderna? Sara’ solo la solita questione di immagine?”.

In aeroporto tutto procede senza intoppi, se non che, mi fanno svuotare lo zaino, sotto lo sguardo accusatorio e un po’ indignato degli altri passeggieri. Sono alla ricerca di un un qualcosa da sequestrare. Alla fine trovano il mio coltellino svizzero da giovane marmotta e me lo spediscono separatamente. Una volta arrivati a Hiroshima, me lo avrebbero restituito. Lo ficcano in una busta e lo catalogano come “arma”. Con i tragici accadimenti di settembre, non me la sento di accusare il servizio di controllo dell’aeroporto di pedanteria. Dall’aereo si gode una vista incredibile del Fujisan. Davvero unica: unica la vista, unica la montagna che per bellezza ha poche rivali. Leggo sul giornale che secondo un recente studio amenricano la vita media e’ sesibilmente piu’ lunga per le persone che dormono dalle quattro alle sette ore a notte. Dimentico l’ansia di essere sospeso da qualche parte nel cielo giapponese pensando alla lunghissima vita che mi aspetta. Hiroshima e’ una bella citta’. La mia Lonely Planet la definisce “vibrante”. Piena di tram, riciclati dalle citta’ giapponesi che hanno preferito la metropolitana, gli autobus o le macchine, Hiroshima ricorda un po’ Milano. Con un certo gusto per i tempi andati, anche se, ovviamente, e’ tutto nuovo. Arrivo in aeroporto e nevica. Che bello: La tanto desiderata neve giapponese! Il tempo e’ strano, nevica e poi piove, in continua alternanza e, cosa alquanto insolita, almeno per me, ci sono allo stesso tempo ampi squarci di sole. Sembra un tempo artificiale, governato da una macchina impazzita. L’ A-bomb Dome mi appare all’improvviso e mi colpisce come tutto sia…”normale”. Per me e’ sempre stato un monumento dalla forza tragica, qualcosa sotto la quale non si poteva camminare disinvolti, come se si fosse al supermercato. Ma qui, eccetto i turisti, nessuno ci fa caso. Del resto e’ ovvio che sia cosi’, la memoria e’ essenziale, ma e’ inutile soffrire ancora. Con un certo timore e una grande tristezza, dovuta ad un forte coinvolgimento emotivo, mi aggiro per i monumenti che denunciano gli orrori della bomba. Ho voglia di vedere il monumento alle vittime coreane che, con un vergognoso ritardo, e’ stato costruito solo negli anni 70. Molti sono gli studenti delle elementari in gita scolastica, alcuni portano le 1000 gru di carta e li lasciano accanto ai monumenti. Sembrano molto poco interessati a quello che vedono. Mi riesce difficile pensare che se quel 6 agosto fossi stato a Hiroshima sarei probabilmente morto di una morte orribile. Tutto nel parco e’ cosi’ tranquillo, sembra impossibile che sia successo quello che e’ successo. Il museo ha un impatto fortissimo, mi lascia incapace di parlare fino all’arrivo al ryokan di Miyajima, dove la bellezza del posto mi ridona la serenita’. L’isola, con il celebre torii sull’acqua, e’ considerata una delle tre viste piu’ belle del Giappone. Non a torto. La natura frastagliata della costa, piena di picchi e insenature, con pini marittimi che contorti si aprono varchi tra le roccie lascia a bocca aperta tanto e’ bella. Il posto mi ricorda un po’ di Portofino ma con un’aria (ma guarda un po’) piu’ giapponese e meno snob.

Poiche’ non ci sono ostelli sull’isola, mi vedo costretto, con mio grande piacere, a scendere nel ryokan che sembrava essere il piu’ economico dell’isola. Ippaku nishoku cioe’ “due pasti e un pernottamento” nella “suite” mi costano circa 7000 yen di piu’ di qello che avevo preventivato, ed ero stato molto alto nel preventivare. Ma che importa! Sono praticamente l’unico ospite dell’isola (grazie bassa stagione!) e delle centinaia di turisti in autobus che mi ero preparato a sopportare, neanche l’ombra. L’atmosfera e’ di pura magia. Fattosi buio, infilo i geta (zoccoli tradizionali di legno) forniti dal ryokan e passeggio, un po’ rumorosamenrte, con i piedi ghiacciati dal gelo e incastonati in quegli affarini di legno piu’ piccoli di almeno quattro o cinque numeri (Io ho il 45, che corrisponde al 30 giapponese: qui si riescono a trovare al massimo scarpe e calze taglia 27, ma quei geta saranno stati un 25). Nell’isola vivono numerosi cervi e vedersi un paio di corna sbucare fuori dal nulla, nel buio della notte, puo’ lasciare un po’ atterriti, ma superato lo shock, tutto ritorna magico come e piu’ di prima. Privilegio dei fortunati ospiti paganti dell’isola, e’ la possibilita’, di notte, quando orami non ci sono piu’ traghetti per la terra ferma, di passeggiare sotto il grade torii rosso, inaccessibile durante l’alta marea diurna. Ma solo quella passeggiata serotina “in mezzo al mare” e’ valsa la cifra folle che ho speso per dormire nell’hotel.

La mia stanza e’ enorme, composta da ingresso, ofuro, toilette, bagno, armadio a muro, “living” di dodici tatami (casa mia ne conta sei) piu’ tokonoma con dipinto a inchiostro e una semplice ma raffinata composizione d’ikebana, zona video, elegantemente nascosta da una tendina tradizionale, e piccola stanzetta all’occidentale con vista sulla baia. Unico neo: il neon. Diventato, con la sua piatta radiazione azzurrina, l’illuminazione del Sol…Calante.

Il pasto, servito in camera da due anziane cameriere, e’ raffinato ed abbondante. Ristorato dall’ofuro, lo mangio di gusto. Ah gia’! L’ofuro! Una meraviglia. Dava su di un bellissimo giardino tradizionale. Avevo l’ofuro in camera, ma quello comune era molto piu’ bello. Unico neo (a parte i neon) e’ il signore entrato poco dopo di me. Tutte le guide sul giappone, e numerose altre pubblicazioni, avvisano lo sprovveduto gaijin che prima di entrare nella vasca d’acqua calda, bisogna pulirsi meticolosamente. Durante la prima parte dell’ofuro, il tuo nemico non e’ lo sporco, ma il primo strato epidermico. Ti devi pulire con una precisione maniacale e poi ancora e ancora, fino a quando, senza piu’ una traccia di sapone, il rituale catartico non si e’ concluso. Ho detto rituale, perche’ e’ qualcosa di religioso. Non si tratta semplicemente di rimozione di sporco. Ecco, l’anziano signore era sicuramente “ateo”. Annuncia il suo arrivo nell’ofuro con una sollenne scatarrata e, ignorando le piu’ elementari regole dell’igienismo giapponese, si immerge nell’acqua, senza essersi lavato precedentemente. Io sono stato gettato in uno stato di profondo imbarazzo. La magia e’ stata rotta. Con esibito disgusto, mi allontano dalla vasca. Ritornato in camera, leggo un po’ Bocchan comprato in edizione economica da Kinokunia, una delle librerie piu’ grandi di Tokyo. Sicuramente una delle meglio fornite di testi inglesi, piu’ ancora della Tuttle di Kanda (ma molto meno affascinante). La scelta del testo di Soseki non e’ stata casuale: sono in procinto di partire per i lughi in cui il famoso romanzo ha luogo: Matsuyama, nello Shikoku. La lettura e’ un po’ faticosa: senza dizionario molte parole mi sembrano intraducibili. Stanco mi addormento, un po’ dispiaciuto di non poter piu’ godere della bellezza della stanza.

La mattina, sveglia alle sette, leggo un po’ e non riesco a trattenermi dal fare un’altro ofuro, nella speranza di essere da solo e di non fare spiacevoli incontri. Mi e’ andata bene.

Colazione, non piu’ nella mia stanza, ma nella sala comune. Disgrazia ha voluto che il signore dell’ofuro, quello un po’ poco attento alle regole del vivere civile, fosse seduto al tavolo accanto al mio, con la moglie che, diciamo, condivideva la sua… Filosofia di vita. Cercando di ignorare l’allegra coppia, che divorava il cibo in un modo un po’ urtante (per i miei standard di gaijin), ho progettato il tour sui colli di Miyajima. Lo spettacolo offerto dalla natura del luogo era “di mistica bellezza” e il fatto di essere, a quanto pare, l’unico visitatore della montagna, rendeva il tutto ancora piu’ misterioso, in quell’atmosfera di serena e religiosa solitudine. Nei luoghi piu’ remoti dell’isola si trovavano templi bellissimi, con qualche monaco, dall’aria annoiata, intento, come la consuetudine vuole, a pulire e riassattare. A fatica riesco ad impormi di ritornare nel villaggio per predere il traghetto alla volta dello Shikoku. Le vie del centro del paese sono popolate di banali negozietti che vendono ricordini di una bruttezza agghiacciante. Un ultimo saluto al torii gigante (ci sono particolarmente affezionato: da piccolino ne guardavo le foto e mi dicevo:”Come vorrei andarci! Ma e’ cosi’ lontano! Non ci andro’ mai!”, e invece!) e salgo sul traghetto. Purtroppo la mia reticenza nel lasciare l’isola mi ha fatto perdere l’ultimo traghetto utile per lo Shikoku, e sono costretto dormire a Hiroshima. Nell’ostello. Diciamo che il Ryokan era un’altra cosa, ma lo staff del posto e’ cosi’ gentile da non farmi sentire la mancanza della bellezza di Miyajima. Addirittura la cuoca dell’ostello, cordiale e anglofona, offre a me e al mio compagno di stanza svizzero del macha, il te’ della cerimonia del te’, con tanto di dolcini della cerimonia del te’, arrivati, freschi freschi, da Kyoto, omaggio dei genitori per la figlia cuoca. Ho passato la mattinata al castello di Hiroshima, che pero’ e’ una ricostruzione degli anni 50. Non ci sono quasi castelli antichi in Giappone (non c’e’ quasi niente di antico), tutti bruciati e distrutti, prima o dopo la guerra, figurarsi quello di Hiroshima, spazzato via dalla bomba.

Ho quindi rivisto il Parco della Pace e poi, con il tram, sono andato verso il porto. Sul tram mi e’ venuta un po’ di nostalgia di Milano, durata lo spazio di un minuto. Il traghetto ci impiega quasi tre ore per arrivare a destinazione e ho tutto il tempo per guardare il panorama offerto dalla moltitudine di isole, isolette e scogli che pericolosamente affiorano dall’acqua. L’arrivo nello Shikoku e’ stato un po’ uno shock: oltre il porto modernissimo si estendeva una campagna tranquilla e pacifica con i contadini che, al mio passare, mi guardavano incuriositi. I gaijin, qui, sono ancora una stranezza. Non sembrava quasi piu’ Giappone. Arrivato in stazione ho dovuto aspettare moltissimo perche’ arrivasse un treno. A Tokyo le macchinette distributrici accettano solo le monete da cinquecento yen nuove, nello Shikoku solo quelle vecchie. La gente parlava con un accento insolito ed erano tutti rumorosi e assolutamente maleducati. Le ragazze sembravano immuni dalla brand-mania di Tokyo. Niente borsette arabescate LV o borse della spesa D&G, VERSUS, Paul Smith, ecc… L’uso del fazzoletto, ignorato in tutto il Giappone, raggiungeva qui le estreme conseguenze. Se non sapessi che la droga e’ quasi sconosciuta in Giappone, li avrei scambiati per cocainomani nell’acme della crisi di astinenza. Tutti, poi, sembrava, tenessero moltissimo a farmi sapere che cosa stessero masticando, oppure che cosa avessero di fastidioso nel naso e che solo le dita riuscivano, dopo luuuuuuunghi compiaciuti e accurati scavi, a eliminare. Arrivo a Matsuyama, che pero’ e’ una citta’ grande, con tanto di boutique e negozi alla moda. Io mi dirigo, su di un vecchissimo tram, verso l’ostello, proprio vicino al Dogo Onsen che e’ una delle attrazioni principali, non solo dello Shikoku, ma di tutto il Giappone.

L’ostello e’ straordiario, accoglienza meravigliosa, arredamento…Beh, sembra arredato da un pazzo, ma ha fascino. Si puo’ dire che sia bello. Ho una camera privata, con TV. Mi offrono il te’. C’e’ la biblioteca, dove puoi trovare manga, Dante o testi di cucina macrobiotica (ah! che nostalgia dei miei ristorantini macrobiotici milanesi!), la sala per la meditazione e internet gratis. Il tutto per un prezzo da ostello (giapponese, si intende, cioe’ almeno il doppio di un ostello europeo, ma meno di un banale hotel di media categoria). Se capitate a Matsuyama, DOVETE alloggiare nell’ostello, che, non ha caso, ha vinto il premio come migliore ostello del Giappone.

A Matsuyama, nei pressi del Dogo Onsen, l’atmosfera e’ stata forzatamente fermata all’inizio del secolo scorso. L’occidentalizzazione del Giappone aveva modificato le abitudini di molti giapponesi. Niente piu’ scomodi kimono, ma comodi abiti all’occidentale, gessati&ingessati. Perche’ usare i cavalli o spostarsi a piedi quando dalla Germania si potevano importare moderni e comodi tram? E come resistere al fascino dei cafe’ europei? In questa atmosfera di pizzi e merletti, pasticcini alla crema e zuccherosi te’ inglesi, ha vissuto e lavorato uno dei miei scrittori preferiti: Soseki Natsume. Qui era stato trasferito come isegnante di inglese. Per i dettagli vi rimando alla lettura del manga, raffinatissimo, di Giro Taniguchi sulla vita di Natsume Soseki, edito in Italia dall’ottima Coconino Press.

Il “signorino” protagonista del suo romanzo forse piu’ caro ai Giapponesi, amava fare i bagni termali al Dogo Onsen. Per farvi un’idea, un po’ esagerata, del posto dovreste vedere l’onsen dell’ultimo film di Miyazaki. Nota: spero che dopo l’orso d’oro arrivi pure in Italia, a meno che la Walt Disney, che ne possiede i diritti, temendo una concorrenza che la vedrebbe sicuramente perdente, non ne vieti la proiezione in Europa.

Il posto e’ fantastico: avevo una camera in stile tradizionale, proprio di fronte alla stanza di Bocchan, dove mi hanno servito il te’ verde e i dolcetti preferiti da Soseki/Bocchan. Il bagno termale, uno dei piu’ antichi in Giappone, era bellissimo, anche se abbondavano i richiami ad uno stile occidentale un po’ retro’. Il giardino, in rigoroso stile giapponese, che si ammirava dagli spogliatoi era un pezzetto di paradiso in terra. Tanto per la cronaca, anche l’imperatore e’ un frequentatore di questi bagni, ovviamente nelle stanze a lui&divina famiglia riservate.

Grazie alle miracolose acque temali sono guarito dal torcicollo che mi torturava da giorni.

Nell’ostello a Matsuyama, nella sala di conversazione, mentre sono seduto beato sulle poltrone massaggiatrici messe a disposizione dall’ostello (fantastiche, sono una delle piu’ grandi invenzioni giapponesi. Vi ricordate la puntata dei Simpsons quando il fratello di Homer gli regala la straordinaria poltrona giapponese e durante il massaggio Homer “parte” per un viaggio tipo 2001 Odissea nello Spazio? Ecco, e’ esattamente cosi’) faccio conoscenza con due mie vicine di casa, abitano a Higashimurayama, proprio vicino a me. Ma guarda com’e’ piccolo il mondo! Parlucchio anche con un australiano che vive a Kochi, “perche’ la’ il mare e’ perfetto per fare surf” e isegna inglese ai bambini. Controllando la posta, trovo la tanto attesa risposta di Mason Florence, il fotografo che vive a Kyoto e in Tailandia e che fa le foto per la Lonely Planet. Gli avevo scritto per sapere se fosse possibile alloggiare a Chiiori (Mason, ormai siamo in confidenza, e’ promotore del Chiiori project, assieme ad Alex Kerr. Vedi www.Chiiori.Org). Mi dice che e’ possibile. Sono in estasi: saranno almeno tre anni che voglio vedere Chiiori, l’ho immaginata talmente tante volte che so tutto di quella casa/castello e non mi sembra possibile poterla visitare. Dopo la seconda notte in ostello, mi sveglio di buon’ora per fare l’ultimo bagno al Dogo Onsen. Stavolta vado al primo piano (che sarebbe il pian terreno italiano), quello del “popolo”, economico ma bello. Costa solo 300 yen, a differenza del terzo piano che costa 1200 yen. Ovviamente non c’e’ la camera privata e non ti servono il te’ con i dolcetti di Soseki. C’e pero’ uno stanzone enorme dal pavimento ricoperto da stuoie. E’ lo spogliatoio maschile. Con un lieve imbarazzo mi tolgo i vestiti, mentre una vecchia signora continua a ronzarmi attorno per fare le pulizie e sistemare le cose da sistemare. Non e’ un bagno misto, ma il personale femminile ha il privilegio di entrare negli spogliatoi maschili. La zona delle acque termali e’ affollata, ma riesco facilmemte ad aprirmi un varco nella vasca: con la storia che sono gaijin, i vecchi signori, con mia grande gioia, non si vogliono sedere di fianco a me, e si vanno ad ammassare nel fondo della vasca, lasciadomi un sacco di spazio. Mi viene in mente la storia che mi raccontava una mia amica “extracomunitaria”. Quando e’ sui treni in Italia, nessuno le si siede accanto. In stazione cerco di comprare i biglietti del treno riservati agli studenti universitari. Si possono usare solo durante le vacanze e costano pochissimo. Una volta in biglietteria scopro che poiche’ le vacanze iniziano a meta’ o fine gennaio, i biglietti si possono usare soltanto a marzo. Non fa una piega. Mi vedo costretto a optare per il piu’ economico autobus della JR fino a Kochi e poi per il treno fino ad Oboke. Il tour in autobus, mi offre la possibilita’ di constatare con mano quello che intende Alex Kerr quando dice che il Giappone e’ diventato uno dei posti piu’ brutti del mondo (e fino agli anni 60/70 era uno dei piu’ belli). Le valli bellissime all’interno dello Shikoku, zone pressoche’ disabitate, sono state sventrate e rivestite di cemento e autostrade che avrebbero ragione d’essere soltanto a Tokyo. Mi intristisce il pensiero di non essere riuscito a vedere il Giappone di un tempo. Ma ora non mi va di parlare di certe brutture, mi metterebbe di cattivo umore. Vi rimando alla lettura del nuovo libro di Alex Kerr “Dogs and Demons, tales from the dark side of Japan”, 2001 Penguin. E’ un’analisi precisa, attenta e spietata di quello che sta diventando il Giappone. Il fatto che l’abbia scritta Alex Kerr, uno che ama veramente il Giappone, colpisce moltissimo.

A Kochi, la primavera ha gia’ fatto il suo ingresso. L’aria e’ calda e profumata e c’e’ quell’energia che si sprigiona quando tutto sta per nascere e trasformarsi.

Prendo il treno, carissimo, per Oboke. La stazione d’arrivo e’ deserta. Ci saranno, si’ e no, 20 case, e pensate che e’ una delle fermate piu’ importanti della linea! Come preventivato, e del resto non c’e’ altrnativa, faccio l’autostop. Sono decisamente imbarazzato: e’ la prima volta che faccio l’autostop. La mia guida, sugli itinerari in autostop in Giappone, dice che non bisogna sembrare troppo rilassati. Bisogna dare l’impressione che si e’ costretti a farlo. In questo sono molto naturale. Prosegue dando i consigli su come ci si deve comportare quando qualcuno si ferma, cosa bisogna fare e cosa bisogna non fare. Dice proprio tutto e mi stupisce che non dica che non e’ il caso di sputare in macchina o insultare il conducente. Con la strada tutta a curve, trovare un posto in cui fermarsi per fare l’autostop non e’ semplice. Si deve trovare un punto in cui ci sia un rettilineo, con lo spazio perche’ una macchina si possa fermare senza fare un incidente. In 10 minuti di imbarazzatissimo autostop, constato che il mondo e’ paese. Passano circa sei macchine. A guidarle sono della specie di tabbozzi locali. Mi vengono in mente i miei natii colli oltrepadani, con i tabbozzi autoctoni. Si potrebbe proporre uno scambio culturale. Sono incredibilmente simili. Purtroppo nessun tabbozzo si ferma, passano nei loro furgoni addobbati con decorazioni improbabili e vibranti al ritmo dell’ultimo singolo delle Destiny’s Child, mi guardano sorpresi e tirano dritto. La sesta macchina si ferma, e’ una vecchia coppia, gentile e premurosa. Ascoltano enka, e hanno il cruscotto straripante di oggettini che sono l’apoteosi del cattivo gusto. Mi piace. Non riesco a staccare gli occhi dai gattini di plastica e finto pelo, che miagolano sul sedile posteriore. Mi scaricano di fronte all’hotel piu’ chic della valle. Seduto su di un muretto, mi passa davanti un nutrito gruppo di turisti in autobus. Chiiori si trova piu’ o meno a meta’ strada tra Oboke e Koboke. Rispettivamente questi nomi significano: “A grandi passi e’ pericoloso” e “(anche) a piccoli passi e’ pericoloso”. Ho sempre amato l’umorismo dark, e non riesco a trattenermi dal ridere quando penso a quei posti. Ma ora, con le stradone nuove e deserte che deturpano la valle, questi nomi hanno perso il loro significato originario, e sono diventati solo bizzarri. Mentre guardavo i monti che mi si ergenvano davanti, quasi contorcendomi nel cercare un punto che escludesse dalla visuale i pali dell’alta tensione, un signore che lavorava nell’hotel, mi si avvicina e mi chiede se sto andando nella casa di Alex. Quindi mi mostra un foglietto con un numero telefonico.

E’ il numero di Yagi san. Chiamo e mi dice che tempo 10 minuti e mi viene a prendere. Dopo 40 minuti arriva un furgone scassato con un ragazzo giovane, Yuki, e il vecchio Yagi san. Mi fanno sedere in fondo, sul sedile posteriore e non mi dicono una parola. Cerco di instaurare una conversazione, ma ad ogni mia domanda, ricevo come risposta secchi monosillabi, per cui abbandono ogni tentativo. Mi domando se ho fatto bene a imbarcarmi nell’avventura Chiiori, o se forse era meglio visitare la casa solo nei miei sogni. Durante il tragitto ci fermiamo in un negozio di tofu, mi chiedono se voglio qualcosa, ora o mai piu’: a Chiiori non ci sono negozi. Faccio cenno di no.

La strada, sebbene praticabilissima, inizia a diventare degna della sua antica fama. Mentre loro finiscono il lavoro di carpenteria nella baracca vicino alla casa, io ho tutto il tempo per vedere e fotografare Chiiori. Dice Alex Kerr che casa sua e’ da sempre rifugio di stravaganti. Lo saro’ anch’io? Mi auguro proprio che sia cosi’. Chiiori e’ bellissima, solo un po’ malconcia e drammaticamente sporca. Certo che, negli anni 70, doveva essere molto diversa: veramente molto inaccessibile. Non mi sembra vero di poter girottare liberamente per i suoi stanzoni. Con Yagi san e Yuki andiamo a raccogliere, per la tenpura, che avro’ l’onore di cucinare, una specie di cavoletti che crescono spontanei nei dirupi abbandonati vicino a Chiiori. Mentre in cucina affettiamo il tofu, e laviamo il riso, ho finalmente l’occasione di parlare con i miei ospiti. Yagi san, che pensavo essere un burbero contadino della valle, si rivela essere un raffinato carpentiere/falegname, depositario delle antiche tecniche tradizionali giapponesi e con tanto di atelier a Kyoto. Addirittura ospita studenti francesi, in scambio culturale, ansiosi di imparare l’arte della falegnameria. Yuki e’ uno studente che si e’ appena laureato in legge e il cui sogno e’ di vivere nella valle di Iya, con la fidazata, in una grande casa tradizionale con ofuro dalla vista panoramica. Ha studiato legge solo perche’, prima dell’universita’, non aveva la minima idea di come funzionasse il sistema giudiziario giapponese, e non gli sembrava una buona cosa.

Mi piace questo feeling tutto giapponesema molto “take it easy”.

La tenpura che ho cucinato era buonissima, ed era la prima volta! Ho impararato a cucinare la tenpura a Chiiori! Incredibile. Vi sembrero’ esagerato, ma per me Chiiori e’ un sogno. E’ il “monumento” ai sogni che si realizzano. Non immaginate che cosa signifgicasse per me starmene cucinare la tenpura a Chiiori. Mentre magiavamo, abbiamo parlato di tante cose e come era scontato, gli argomenti ruotavano attorno a Chiiori. Parlavamo di “Alex” e “Mason”, come se fossero nostri amici. Effettivamente erano loro amici, io ho solo avuto un breve, ma intenso, scambio di mail con Mason, ma con “Alex” neanche quello. Poi i discorsi sono degenerati in un bakana hanashi, in cui Yagi san ha raccontato della sua avventura con un’impiegata della banca di Kyoto. Lui aveva provato ad invitarla a bere un caffe’ ad Harajuku, a Tokyo. Le avrebbe pagato tutto, shinkansen e caffe’, ma lei ha gentilmente rifiutato. Tra una facezia e l’altra, Yagi san mi ha invitato a casa sua, caso mai passassi per Kyoto. Mi ha anche promesso una visita nella casa di Alex a Kameoka, che, a quanto pare, e’ una vera meraviglia. Ora Alex vive in gran parte in Tailandia. Deluso da come sono andate e stanno andando le cose in Giappone, e’ andato a cercare da un’altra parte quello che cercava. Per me, essendo lui un modello da seguire, apprendere questo suo cambio di “rotta”, e’ stato un duro colpo. “Perche’ hai lasciato il Giappone? E’ diventato cosi’ un posto cosi’ invivibile?” gli chiedero’ se mai avro’ occasione di incontrarlo.

Il momento piu’ toccante della serata e’ stato quando Yagi san mi ha mostrato il fogliettino scritto dalla precedente abitante della casa. Era attaccato alla porta, Alex l’ha lasciato dov’era. C’e’ scritto, in dialetto della valle di Iya, “Kodomo (scritto allla rovescia) noherazu”. Vuol dire “La bambina non ritorna”. Negli anni successivi alla guerra, la vita nella valle di Iya era veramente dura e i giovani l’abbandonavano per trasferirsi nelle grandi, comode, ricche e moderne citta’ come Osaka. La “bambina” aveva abbandonato la casa, troppo fredda e buia, in cui viveva con i nonni e non aveva piu’ fatto ritorno. La nonna aveva appeso quel fogliettino, come un talismano, per farla ritornare.

Notte gelida e bellissima. Il fumo del focolare non trova sfogo, come nei camini occidentali, in tubi e condotti che lo fanno uscire dai comignoli. Nelle case dal tetto di paglia, il fumo rimane nella stanza e lentamente filtra tra la paglia del tetto. Non si muore intossicati perche’ le case sono grandi e il tetto permeabile. Il fumo impedisce anche il proliferare degli insetti nella paglia, ma non il proliferare della vegetazione: un piccolo pino cresceva sul tetto. Anche se il fumo lentamente filtra via, i vestiti ne rimangono “crudelmente” impregnati. L’aroma di legno bruciato ha resistito a molti lavaggi, ed e’ stato il sottofondo olfattivo a tutto il resto della vacanza. Lascio Chiiori sul furgone immacolato di un gentile tabbozzo locale. Naturalmente ci si deve togliere le scarpe prima di entrare. Dai finestrini della tabbozzo car mi godo il panorama offerto dalla valle, o quello che ne rimane. Colonna sonora a cura di Puff Daddy e Jennifer Lopez.

Prendo, assieme a Yuki, il super rapido per Kotohira. Luogo famoso per la sua infilata di templi scintoisti, ma che prima dell’era Meiji erano templi buddisti. E’ un po’ strano vedere templi dall’architettura tipicamente buddista che hanno all’ingresso grandi torii e i leoni di pietra, uno dalla bocca aperta, l’altro dallla bocca chiusa, che danno il benvenuto davanti ai templi shinto. Stanno tutti su di una grande “collina” e bisogna farsi un bel po’ di scalini, ma la fama che hanno: essere ripidissimi e faticosissimi, e’ del tutto ingiustificata. Per cui prendere un palachino e farsi trascinare da due poveri disgraziati per tutto il tragitto mi sembra inutile. Addirittura folle, considerando che costa 6000 yen (60euro)! Una vecchia signora proprietaria di un negozio di ricordini e oggettini vari, il cui cane, vestito da coccinella, aveva attirato la mia attenzione, insiste per farmi un paio di foto, a patto che mi infili una parrucca di gomma da geisha san, che, guarda caso, aveva in negozio.

Passo la notte a Takamatsu, in un tristissimo business hotel. A tirarmi un po’ su il morale e’ la proprietaria dell’hotel. E’ gentile, completamente pazza e, a dispetto dell’eta’, molto dinamica. Io gli sto simpatico perche’ e’ in procinto di partire, con un viaggio organizzato, per l’Italia. “In business class” ci tiene a precisare. Dopo Chiiori, alloggiare in quella squallida stanza e’ avvilente. Il mattino dopo cerco di prenotare una visita presso il museo di Isamu Noguchi. Scultore e designer, amico di Charles e Ray Emes, di padre giapponese e madre americana, e’ un artista che ammiro molto. Avevo dimenticato che nello Shikoku ci fosse il suo museo e a ricordarmelo sono state le sue lampade di carta che illuminavano Chiiori.

Non avevo molte speranze: bisogna prenotare con almeno 2 settimane d’anticipo, via fax, e i giorni in cui si puo’ visitare sono martedi’, giovedi’ e sabato. Io ho chiamato di lunedi’. Caso volle che una comitiva di bambini dell’asilo fosse in programma per una visita proprio in quel giorno, e in via del tutto eccezionale, mi hanno inserito nell’elenco dei visitatori della giornata.

Al museo ci arrivo perche’ un signore molto gentile, mentre andava alla cava a prendere pietre, mi ha dato un passaggio nel suo furgone. E senza fare l’autostop! Pago i 2000 yen d’ingresso (ahhhhh!!!!!) e mi godo la visita. I bambini sono stranamente silenziosi e non fanno caso a me. Ci rimango un po’ male: pensavo che sarei stato la loro attrazione preferita. Il museo e’ bellissimo (ho in seguito scoperto che Niimi sensei, un mio professore di Tokyo, fa parte dell’organizzazione) e non mi pento dei soldi spesi. Mi riprometto di visitare anche il museo gemello, che sta a Long Island.

Quindi mi reco al porto per prendere il traghetto per Kobe. Cancellato. Non si capisce bene perche’ i trasporti giapponesi abbiano la fama che hanno: sono carissimi, sempre stracolmi di persone (trovare un posto dove sedersi e’ un miracolo) e sebbene abbastanza puntuali, non e’ infrequente un ritardo. Poi, quando meno te l’aspetti, cacellano un treno o un traghetto, senza nessun apparente valido motivo. All’ufficio informazioni chiedo di trasporti alternativi, l’impiegata insiste perche’ prenda il traghetto. A nulla valgono i miei tentativi di spiegare che erano stati cancellati i traghetti della giornata. Non ci crede, dice che e’ impossibile. Sfodero il mio giapponese migliore e piu’ gentile (l’inglese, anche negli uffici turistici, e’ spesso un’utopia), ma a fatica mi trattengo dall’insultarla. Saluto e me ne vado. Alla fine mi arrangio, sono ormai un esperto di trasporti giapponesi, e decido di andare a Kobe in autobus. Cerco l’ostello (vi ricordo che in Giappone le vie non hanno nome) nell’intricato groviglio di vie che caratterizzano kitano machi, la “collinetta europea” di Kobe, dove sta l’ostello. Io ho una teoria che non e’ mai stata smentita: “non perdere tempo a chiedere informazioni ad un passante giapponese, 99% dei casi, non ha idea di cosa tu stia parlando”. Nella speranza di smentire questa teoria, chiedo sempre indicazioni ai passanti. E cosi’ ho fatto quella sera a Kobe: ho chiesto a un ragazzo a spasso con i cani (che quindi, presumibilmente, viveva nella zona) dove fosse l’ostello. Naturalmente non ne aveva la piu’ vaga idea. L’altra mia teoria e’: “Magari i giapponesi non hanno idea di cosa tu stia domandando, ma faranno di tutto per aiutarti, spesso inutilmente, ma altrettanto spesso “utilmente””. Visto che ci sono, vi fornisco anche la terza teoria:” nelle stazioni di polizia ti sanno sempre aiutare, anche perche’ non succede mai nulla e il passatempo dei poliziotti e’ informarsi sui negozi della zona, predere i numeri di serie delle biciclette mal parcheggiate e fermare i gaijin per controllare in quali loschi affari siano coinvolti” Quel passante, addirittura, ha insistito per telefonare, con il suo telefonino, all’ostello e chiedere dove fosse locato. Era proprio dietro l’angolo. Mi dice di essere stupito: aveva un ostello della gioventu’ davanti a casa e non lo sapeva. Ma guarda tu! C’e’ da dire che l’ostello e’ nuovissimo, per cui gli si perdona questa…Lacuna.

Divido la camera con uno studente di architettura di Tokyo e con due gentili coreani culturisti che pero’, nonostante la massa muscolare, sembrano due bambine. Sono tutti sorrisi e carinerie. Giocano a carta forbici sasso e continuano a scattare foto istantanee da appiccicare sul diario delle aidoru coreane. Mi invitano per un te’ in corridoio. Spero solo che non sia sabbia servita nelle tazze rosa della barbie. Lo studente giapponese sembra un po’ stupito dall’insolito insieme offerto dai coreani e decide di mettersi a dormire.

Kobe e’ fantastica. Bellissima. L’abbondanza di case in stile europeo fa rivivere l’atmosfera cosmopolita che regnava, e tutt’ora regna, nella citta’. Ora le vecchie case sono diventate musei che documentano la vita dei gaijin nell’era meiji, oppure raffinati cafe’ o case in cui zuccherose coppiette giapponesi si sposano nel piu’ puro stile “romanchikku” che dovrebbe caratterizzare, secondo l’ottica giapponese, i matrimoni all’occidentale. L’abito bianco e’ un must have. Potrei viverci a Kobe. Nella mia brevissima visita mi e’ sembrato un posto incantevole, fin troppo perfetto. Alla fine potrebbe diventare noioso, ma mi piace e non lo vorrei in alcun modo diverso (la visita a Osaka sara’ uno sconvolgente antidoto alla geometrica eleganza di Kobe).

Visita alla chiesa di carta e metacrilato che e’ stata costruita dopo il terremoto. E’ in periferia e sebbene osannata da tutte le riviste di architettura, a Kobe nessuno la conosce (ma dai!?). Ho dovuto girare tre uffici turistici prima di scoprire dove fosse.

Non e’ cosi’ fantastica come sembrava sulle pagine di Domus o Abitare: e’ piccola piccola e il cartone invecchia rapidamente, ma rimane una bella chiesa. Sicuramente molto interessante. Nonostante sia realizzata con materiali poveri e senza l’uso del cemento (e’ stata costruita senza l’uso di escavatrici o simili, da studenti di architettura). Non so come fosse Kobe prima del terremoto, ma anche se quel tremendo avvenimento ha lasciato un segno profondo nella storia recente giapponese, Kobe si e’ ripresa benissimo. A differenza delle altre citta’ giapponesi, sembra che qui ci sia un piano regolatore. A malincuore lascio Kobe per Takarazuka: voglio vedere il museo di Tezuka Osamu, il grande fumettista. Arrivarci non e’ semplice, ma cambiando un po’ di treni, ci arrivo. Chiedo dove sia il museo ad una gentile signorina che strappa i biglietti all’ingresso del lunapark. Neanche a dirlo non ha idea di cosa io stia parlando. Neanche a dirlo, fa di tutto per aiutarmi. Si consulta con una collega che poi chiede ad un’altra collega. Confabulano un po’ e poi mi rispondono che si trova a circa tre minuti a piedi, proprio alla fine del lunapark. Mi incammino. Poi sento un picchiettio di tacchettini che cercano di raggiungermi. E’ la signorina del lunapark, si scusa, ma mi informa che il museo e’ chiuso: devono cambiare le lampadine e fare lavori di manutenzione. La ringrazio e lancio un accidenti alla signorina dell’ufficio informazioni di Kobe, che alla mia domanda:”Oggi il museo e’ aperto?”, lei ha risposto”Si’, certo!”. Mi consolo: da fuori il museo non sembra un granche’.

Prendo il treno per Osaka. Quella citta’ e’ l’esatto opposto di Kobe. E’ un casino totale. Visto che sono le 4 e che l’ostello e’ lontano, decido di visitare l’Umeda Sky Bulding prima di raggiungere l’accomodation. E’ un moderno grattacielo il piu’ alto e moderno di Osaka. Corrisponde, in fama, a quello che e’ il municipio di Tokyo a Shinjuku. A fatica esco dalla stazione: le indicazioni delle stazioni ferroviarie e della metropolitana di Osaka sono le peggiori che abbia mai visto. Chiedo a due passanti dove sia l’USB. Non lo sanno. Faccio un disegno, e’ impossibile che non lo conoscano, ci hanno girato perfino “Tristi per caso”! Niente.

Uno dei due mi indica l’edificio alle mie spalle, un palazzo a forma cilindrica, di quasi dieci piani che avra’ almeno 30anni (vecchissimo per gli sdandard giapponesi). Dico che e’ proprio quello che cercavo, ringrazio e provo ad aiutarmi da solo. Giro l’angolo ed eccolo, mi appare in tutta la sua maestosa modernita’. Era nascosto da un palazzone e non lo si vedeva. In realta’ non e’ poi cosi’ vicino e mi azzardo nuovamente a chiedere la strada ad un passante. Questa volta e’ facile, basta chiedere:”Come faccio a raggiungere quel posto la’?” E indicare con il dito (sara’ maleducato, ma dovrebbe funzionare). Chiedo al passante con l’aria meni sconvolta che mi passa davanti. Mi risponde, in ottimo inglese: “I don’t know”. In queste situazioni mi arrabbio. Ma e’ tipico qui in Giappone. Se parlo in giapponese, e’ cortese rispondere in giapponese, NON in inglese. E poi mi deprimo:”se mi rispondono in inglese e’ perche’ il mio giapponese e’ pessimo? Inutile rispondere in giapponese, tanto non capirei!”. Poi mi dico: “No, non saro’ bravo in giapponese, ma sicuramente non sono cosi’ mal ridotto. Mi rispondono in inglese solo perche’ pensano che mi trovi piu’ a mio agio con quella lingua. E’ una gentilezza da parte loro”. Ed e’ veramente cosi’.

In un modo o nell’altro arrivo a destinazione. Si domina tutta Osaka. Leggo un po’ mentre mi sbevazzo una birra. Le luci della lunga notte di Osaka scintillano sotto i miei piedi. Mi passa il cattivo umore umore che mi ha assalito dopo il museo chiuso di Takarazuka. Mi riprometto di visitarlo la prossima volta e penso che Osaka mi piace. E’ una citta’…”vera”. A Osaka del conformismo che caratterizza la societa’ giapponese non c’e’ traccia. Qui si vestono male, qui vogliono distinguersi dagli altri, le bizzarrie architettoniche sono veramente bizzarre, e anche nei quartieri residenziali, ovunque in Giappone colonizzati dalle stesse diverse versioni della stessa casa mono-famigliare prefabbricata, il panorama riesce a uscire dall’ordinario. Cio’ non toglie che, sebbene originale, Osaka sia una citta’ veramente brutta. Eppure e’ magnetica. Qui parlano un dialetto tutto loro ma sorprendentemente riuscivo a capire quello che dicevano. Qui sono sgrezzi e maleducati, ma allo stesso tempo, sono gentili. Non saranno eleganti, ma sono divertenti. Non sono vincolati dalle stesse severe regole sociali che impongono una forzata gentilezza, come qui a Tokyo. Se vogliono e possono fare qualcosa, la fanno, senza tante storie. A Osaka si leggono le righe, a Tokyo si legge tra le righe. Due diversi e interessanti approcci alla vita, ma per me, occidentale, Osaka, con tutti i suoi difetti, e’ stata una boccata d’aria fresca. Ho fatto amicizia con un venditore ambulante di takoyaki (che sono, piu’ o meno, delle frittelle al polipo) che si e’ dichiarato molto dispiaciuto nell’apprendere che in Italia non si possono mangiare takoyaki nei ristoranti giapponesi. Solo per l’ostello, Osaka merita di essere vista. Sara’ lontano dal centro, costera’ un patrimonio arrivarci in metropolitana (ad es. Il biglietto valido per due stazioni, cioe’ il piu’ economico, costa 2 euro), ma e’ bellissimo. E’ ricavato nello stadio, che sicuramente avrete l’occasione di vedere per i mondiali. E’ modernissimo, pulitissimo, rifinitissimo e ottimamente arredato. In Italia potrebbe passare per un’hotel 4 stelle. Tra gli ospiti, c’erano anche dei lottatori di sumo.

Il giorno dopo passo la mattinata a Shin Sekai (= il mondo nuovo). La Lonely planet raccomanda molta attenzione quando si passeggia per Shinsekai: e’ l’unico quartire giapponese che si possa definire un po’ pericoloso. Alex Kerr suggerisce di andarci con un amico giapponese, preferibilmente con l’aria di un assassino. Io ci sono andato da solo e con la mia macchina fotografica al riparo da occhi indiscreti. Con disappunto constato che e’ diverso dagli altri quartieri giapponesi, ma non e’ certo pericoloso.

Di pomeriggio prendo il treno per il Koya san. Il viaggio e’ un po’ lungo. Dopo aver lasciato l’interland di Osaka, il paesaggio diventa improvvisamente selvaggio: grazie al cielo il treno passa lontano dall’autostrada e lo spettacolo offerto ai miei occhi e’ di incontaminata bellezza. L’arrivo al Koyasan e’ un po’ deprimente, c’e’ traffico e di incontaminato ha ben poco. Nota: il “san” dopo “Koya” non e’ onorifico, non vuol dire “signore”, ma e’ una lettura diversa del kanji di montagna, normalmente letto “yama”. In Giappone il Fujiyama si chiama Fujisan, cioe’ la montagna del Fuji. Non so per quale motivo in occidente il nome sia diverso, sembra un banale errore di lettura di kanji.

La mia Lonely Planet, nell’elenco dei must see della regione del Kansai, inserisce il Koyasan e consiglia vivamente di alloggiare in uno dei numerosi templi che ospitano i pellegrini e turisti ad un prezzo piu’ che ragionevole. Il Koyasan e’ sacro per il buddismo giapponese. Qui ha sede la setta del buddismo esoterico Shingon, fondata da Kobo Daishi al quale tutti gli studenti di giapponese dovrebbero essere grati e rendere omaggio: e’ il creatore dell’hiragana e del katakana, gli “alfabeti sillabici” giapponesi. Sono riuscito a prenotare una camera con una certa fatica. Sono tutti al completo. Ma ho come l’impressione che, essendo io straniero, preferiscano dirmi che sono al completo anche se sono vuoti. Alloggero’ in un tempio che la mia guida definisce elegante. In effetti e’ elegante. L’ingresso, illuminato da due lanterne non e’ appariscente ed e’ di raffinata semplicita’. Il karesansui (giardino di pietra) che si vede varcata la soglia, non e’ in stile tradizionale ma e’ una buona interpretazione moderna. Mi accoglie un monaco che, sorpresa sorpresa, parla inglese. Guarda tu se dovevo finire su di una remota montagna per trovare qualcuno che parli inglese. Prima di accompagnarmi nella mia camera, mi mostra il giardino interno, stavolta tradizionale, l’ofuro. La camera e’ elegante e, sebbene faccia molto freddo, non riesco proprio a trattenermi dall’aprire gli shoji che danno su di un piccolo giardino segreto, riservato solo per me. Come supponevo sono l’unico ospite del tempio e il dubbio che anche gli altri templi non siano cosi’ affollati come hanno cercato di farmi credere al telefono diventa quasi una certezza. Il fastidioso e gentilissimo razzismo giapponese non risparmia neanche i templi buddisti.

Sono ansioso di assaggiare il cibo che mi verra’ servito alle sei della sera. Autentica cucina vegetariana buddista. In Giappone cucino”buddista” abbastanza regolarmente, ma prima di allora non avevo mai sperimentato la vera cucina buddista, solo una mia personale e grossolana versione. A Tokyo ci sono vari ristoranti dove e’ possibile gustarla, ma vanno oltre ogni mia possibilita’ finanziaria (per poco che tu possa spendere, ti partono almeno 7000 yen), per cui ero felicissimo e non vedevo l’ora di sperimentare. Un giovane monaco mi avvisa che il pasto e’ pronto e mi accompagna nella sala dove la cena mi aspetta. Naturalmente la sala e’ bellissima, peccato solo per il megaschermo che troneggia accanto al tokonoma. Un ragazzino che sta studiando per diventare monaco e che avra’, si e no, 14 anni mi porta il brodo di miso e il riso. Sembra evidente, da come si comporta e da quello che fa, che qualcun’altro abbia scelto per lui il suo destino. Magari lui vorrebbe fare, che so, l’ingegnere! Anche per l’altro monaco (il fratello piu’ anziano?), dall’aria un po’ triste e sconsolata, l’impressione e’ la stessa. Non provano, sembra, alcun interesse per la religione, ma solo un certo fastidio. Con la mente non posso fare a meno di pensare al “Padiglione d’oro” di Mishima e un brivido mi corre sulla schiena. L’idea che in occidente abbiamo del buddismo, come molte cose riguardanti il Giappone, non trova un corrispettivo nel Sol Levante. Abbiamo una visione idealizzata, reale solo in minima parte. Qui in Giappone e’ una religione istituzionalizzata, che ha ben poco di spirituale. Vari miei amici giapponesi disprezzano i monaci buddisti: li accusano di pensare solo ai soldi e alle cose materiali e di essere disinteressati alla spiritualita’. In Giappone il buddismo e’ un grande business, il business della “morte”: qui i funerali seguono, di norma, il rito buddista (a differenza dei matrimoni che sono shintoisti). Inutile dire che sono alquanto cari. Non e’ raro vedere monaci alla guida di costose e terrene macchinone europee. Il buddismo non e’ moralista, ma ha una serie di “regole” di vita che molti monaci si guardano bene dal seguire. Naturalmente non posso generalizzare, non ho fatto ricerche a proposito, ma questo sembra l’andazzo complessivo. In Europa, fatta eccezione per i trendy buddisti (quelli che leggono “siddarta” di Hesse, lo “zen e il tiro dell’arco” e si dicono buddisti. Quelli che pensano che lo Zen sia essenzialmente un modo per arredre la casa con semplicita’ ed eleganza…), esistono molti adepti sinceramente e realmente coinvolti nella dimensione piu’ autentica della religione. Il cattolicesimo, in Italia religione istituzionalizzata e pesantemente conservatrice e che c’entra ben poco con la vera spiritualita’, qui in Giappone ha vari seguaci, veramente e autenticamente cattolici. Qui il cattolicesimo e’ una religione che va contro (o quasi) il sistema, in Italia e’ il sistema. E’ certo, pero’, che la stragrande maggioranza dei Giapponesi ama il cattolicesimo solo perche’ la cerimonia nuziale cattolica e’ bella, o le chiese sono suggestive.

Nonostante cio’ l’atmosfera che si respira nel tempio e’ veramente mistica e con solo un tocco di edonistica eleganza. Durante il pasto, ricevo una visita inaspettata: la madre del monaco del tempio. Anche lei, come gli altri nel tempio, parla un inglese ottimo. Mi racconta che ha studiato a Tokyo, proprio vicino a casa mia, durante la Seconda Guerra Mondiale. Era studentessa d’inglese presso una prestigiosa universita’ cattolica (garda tu!) che tutt’ora esiste. Mi racconta che che e’ stata lei a insegnare inglese ai membri della sua famiglia. Ha sposato il monaco di quel tempio: naturalmente si trattava di un matrimonio combinato, come l’usanza dei tempi voleva. In quegli anni la vita sul Koyasan era veramente dura, non c’era abbastanza cibo e faceva freddissimo e, come se non bastasse, il tempio era ridotto in condizioni pessime. Negli anni successivi alla guerra, moglie e marito hanno lottato duramente, ma ora il tempio e’ stato risistemato e le loro fatiche sono state ben ricompensate. Mi chiede come mai sono in Giappone, che cosa faccio ecc… E poi mi saluta, ma prima di lasciarmi mi consiglia di vedere il video in cui il figlio spiega i concetti base del buddismo. Lo guardo un po’, ma l’audio e’ pessimo e non si capisce una parola. Spengo la TV e prima di ritornare nella mia camera mi godo la bella stanza. Penso che quando tornero’ in Italia, il profumo della paglia dei tatami sara’ una delle cose che mi manchera’ di piu’.

La mattina successiva mi sveglio alle cinque. A svegliarmi dovrebbe essere il bellissimo suono del martello di legno (non so come si chiami in giapponese) che indica l’inizio delle preghiere mattutine. Non fidandomi delle mie orecchie uso la mia solita sveglia, con il suo acuto trillo elettronico che non si puo’ certo definire piacevole. Faccio bene, il suono del martello e’ cosi’ debole e lontano che anche da sveglio si fa fatica a percepire. Fatti due conti, avro’ dormito, si e no, tre ore: che peccato sarebbe stato dormire senza godersi la stanza, che avrei lasciato dopo poche ore! A notte tarda l’atmosfera si e’ fatta meno ascetica e piu’ “terrena”, mi sono tornate alla mente certe pagine dei “Racconti del cuscino” di Shonagon Sei e certe scene del bel film di Greeneway tratto dal medesimo libro. A rompere l’atmosfera di rarefatta eleganza, il miagolio di gatti in amore che avevano deciso di incontrarsi, al riparo da occhi indiscreti, nel giardino davanti alla mia camera. Quei gatti fanno proprio come i nobili, ai tempi di Shonagon Sei, che, notte tempo, visitavano le amanti nelle loro stanze per i loro incontri segreti, che, pero’, iho sempre immaginato essere meno rumorosi di quelli felini che avvenivano oltre gli shoji, nel giardino. Nella zona del tempio dove i monaci stanno pregando, non c’e’ nessuno che mi dia indicazioni su cosa debba fare. Quindi occupo primo posto libero che vedo, accanto al monaco anziano. La posizione della seduta e’ quella tradizionale giapponese: sulle ginocchia. Naturalmente e’ scomodissima e dolorosissima. Io nelle poche sedute di zazen fatte in Italia, nelle nebbiose mattine invernali, sui navigli, prima delle lezioni di Analisi 2, mi sedevo nella posizione del loto, altrettanto dolorosa, ma piu’ comoda. Dopo trenta minuti circa di preghiere (io ascoltavo solamente) i miei piedi sono diventati di marmo, sembravano appartenere a qualcun’altro, avevo perso del tutto la sensibilita’. Mentre lentamente cambio posizione, mi accorgo che avevano preparato un posto a me riservato alle spalle del monaco anziano. “Ops! spero non si arrabbino!” penso. Naturalmente i monaci recitano le preghiere senza neanche provare a mimare un coinvolgimento o anche solo un po’ di attenzione. Sbadigliano e mi guardano curiosi, mentre recitano le solite preghiere, come ogni solita mattina. Terminato il rito, scambio due parole con il monaco anziano e mi scuso per aver occupato il posto sbagliato. Risponde che anche se ho fatto una cosa insolita, nel suo tempio non badano a certe inutili formalita’. Penso che tutto sommato creda veramente in quello che sta facendo, sembra un monaco, gentile, premuroso e sempre sorridente.

Passo la mattina nel cimitero attorno al tempio meta principale dei pellegrini del Koyasan. Il posto e’ bello da togliere il fiato, immerso nella foresta, con un po’ di pioggerella sembra il set di un film di fantasmi (tradizionali giapponesi, naturalmente). Le foto che ho fatto hanno spaventato alcune mie studentesse di italiano, che hanno trovato una certa somiglianza con il Blair Witch Project. Il tempio principale e’ una pura meraviglia, illuminato soffusamente da migliaia di lanterne che emanano una luce rarefattatta e delicatissima. Io ho contato almeno 14000 lanterne, ma ce ne sono sicuramente parecchie di piu’. Con mia grande gioia, anche questo tempio e’ deserto. Mi metto a meditare, in ricordo dei vecchi tempi. Il profumo d’incenso e’ inebriante e mi abbandono in quell’atmosfera che e’ un invito irresistibile alla meditazione. Il monaco che sta dicendo le preghiere davanti a me, seduto sull’altare principale mastica una cicca. Incredibile come un infimo pezzettino di zucchero e additivi vari possa uccidere la bellezza di un tempio. Di norma, trovo le cicche fastidiose, ma in un tempio neanche posso immaginare che una qualsiasi persona possa solo pensare di masticarle. Allo stesso tempo penso che non posso permettere che quella cosina appiccicosa mi metta di mal’umore. Decido di ignorare il masticatore. Accanto a me passsano molti altri monaci, attratti dalla mia insolita presenza: un gaijin che medita e che con la sua testa rasata come un obosan! Incredibile! Alex Kerr, nel descrivere la differenza degli studi cinesi e quelli giapponesi, sostiene che questi ultimi abbiano un approccio quasi romantico. Chi ama il Giappone e la sua cultura si fa trascinare dall’atmosfera che il giappone emana. Mentre gli studi cinesi, oltre alla lingua prevedono un massiccio studio di politica e storia, quelli giapponesi sono diversi: e’ essenziale un approccio emotivo. Per questo, quando si chiede ad uno studente di cultura giapponese che cosa gli sia rimasto particolarmente impresso nella memoria del suo ultimo viaggio in Giappone, da risposte tipo:”sono rimasto colpito dalla delicatezza del fruscio delle vesti dei monaci che mi sono improvvisamente passati accanto mentre meditavo nel tempio.” Ecco e’ esattamente cosi’: chi ama gli studi giapponesi, e’ un romantico che non riesce a farsi coinvolgere dagli accadimenti politici come invece fanno gli studenti di cinese. Potete facilmente immaginare l’emozione che ho provato quella mattina.

Il ritorno ad Osaka e’ stato piacevole. Ma che fatica orientarsi a Osaka! Tokyo e’ semplicissima da girare, ma Osaka!!! La signorina dell’ufficio informazioni, che parlava un’ottimo inglese, sostiene pero’ l’esatto contrario. Mi ha detto che quando e’ in viaggio a Tokyo non sa proprio orientarsi. Sara’. Poiche’ l’economicissimo autobus notturno per Tokyo e’ al completo, decido di togliermi lo sfizio e di prendere il carissimo Shinkansen. Non e’ quello nuovo: troppo caro e troppo… Veloce. Il mio non e’ particolarmente bello: gli interni sembrano quelli di un nostrano intercity, ma non e’ male. In pochissimo tempo raggiungiamo Kyoto, poi Nagoya, Yokohama e finalmente Tokyo, dove il mio amico Nao aveva promesso di venirmi a prendere. Gentile da parte sua, ma, al solito, era in ritardo pauroso e rischiavo, se l’aspettavo di perdere il treno per casa mia. Per cui salgo sull’ultimo treno utile e mi addormento: ci vorrano almeno 45 minuti prima di arrivare. Ricevo una telefonata. E’ Nao che si scusa del ritardo, ma doveva farsi una bevuta con il suo amico indiano in procinto di partire per Bombay. Mi dice di aspetarlo, in cinque minuti sarebbe arrivato alla stazione di Tokyo. Aveva detto lo stesso nelle altre due chiamate precedenti. Lo informo che ormai sono sul treno e che farebbe bene a ritornare a casa pure lui, se non vuole passare la notte all’aperto, in attesa che i treni riprendano il servizio. Arrivato a casa sistemo un po’ il bagaglio, facccio le pulizie, preparo il futon e mi godo,prima di coricarmi, un lungo bagno, esausto e con la voglia di ripartire per un nuovo viaggio non appena possibile .



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