Il drago addormentato
Accompagnata dallo sguardo di elefanti dipinti sui muri, mi ritrovo in una stanza con arredi in legno scuro intagliato. Mi guardo intorno e incrocio lo sguardo leggiadro del maharaja ritratto in un dipinto, questa casa signorile era stata sua dimora.
Mi siedo sul pavimento a scacchi bianchi e neri e aspetto in silenzio, i rumori della strada restano fuori dal portone borchiato con il grande lucchetto attaccato al chiavistello aperto.
Il ventilatore al soffitto è immobile, il caldo mi annebbia la vista.
Il tintinnio di campanelli si fa sempre più vicino, i passi leggeri scendono la scala e la sua esile figura si muove verso di me.
Il sari rosso porpora cucito con fili d’oro la rende magica, il volto è nascosto dal velo ma si intravede la treccia di capelli nerissimi.
Si siede di fronte a me e con dolcezza prende le mie mani e inizia a disegnare la mia pelle con una abilità mai vista.
Torna la corrente, il ventilatore ricomincia a girare.
Il velo le scivola sulle spalle scoprendo i suoi giovani tratti, è molto bella e aggraziata.
Le guardo il bindi luccicare sulla fronte quando i suoi occhi scuri mi penetrano nell’anima.
Mi sento nuda ma non provo vergogna, i suoi occhi non giudicano ma raccontano della sua amata terra, saccheggiata, colonizzata e poi liberata.
Nei suoi occhi leggo l’amore per i fiumi gonfi d’acqua da venerati monsoni che ogni anno ridanno la vita ai campi coltivati e agli animali assetati.
La devozione per i laghi sacri, per i templi imponenti.
Il profumo dell’incenso al cinnamomo invade la stanza e mi avvolge silenzioso, le mie mani ormai sembrano indossare dei guanti di pizzo, perfetti ricami ornano le dita un po’ tremolanti per la piacevole sensazione.
La ragazza ha finito la sua opera, ma non mi mette fretta, resto seduta a bere il tè al ginger e cardamomo, bevanda bollente ma dissetante e rinfrescante al palato.
Il suo sguardo complice mi racconta che è vegetariana, mentre impasta il chapati, come nella maggior parte del Rajasthan insaporisce i suoi piatti con miscele speziate a base di curcuma, cumino e pepe.
La saluto con un namastè sincero e pieno di gratitudine e riporto i miei piedi per strada facendo attenzione a non pestare qualcosa o qualcuno.
Milioni di persone intente a fare qualsiasi tipo di mestiere pur di mangiare, tra mucche placide che camminano indisturbate.
Mi avvicino ad un wok infuocato sulla brace ardente, un ragazzo frigge le samosa, deliziosi triangoli di pasta con ripieno di verdure.
Ne mangio una e poi ancora un’altra, davanti al sorriso sbigottito e divertito del cuoco da strada.
Le note di un sarod mi portano dentro un’abitazione dove un anziano di bianco vestito sta suonando il suo strumento.
Chiudo gli occhi e mi lascio ipnotizzare dalla melodia che sembra venire da più strumenti.
Mi muovo sul dorso di un elefante che placidamente mi porta su, e ancora più su, dentro il forte di Amber, tra le mura di arenaria rossa respiro la storia dell’impero Moghul.
Affacciata dalla sommità di una delle torri guardo in basso e il muro smerlato adagiato sulla verde collina sembra la coda di un drago addormentato e i miei occhi non riescono a vederne la fine.
Frastornata, eccitata e travolta dai colori forti, dai sapori forti, dalle contraddizioni forti, mi specchio per qualche interminabile secondo nell’acqua davanti al maestoso Taj Mahal e vedo la mia sagoma infinitamente piccola.
Le mie certezze sparpagliate si librano nel cielo e vorrei anche io volare per ammirare dall’alto la grandezza dell’India, un paese dove tutto è possibile che accada e dove tutto ciò che accade è pura normalità.