Il delirio d’ islanda continua

IL DELIRIO D’ISLANDA CONTINUA Fiordi occidentali e Snaefellsness (Prima parte)Altri suoni, altre sfumature di colori hanno intaccato i labirinti della nostra memoria, da poco tornati dalla seconda “full immersion” in questo incredibile pianeta. Sarà...
Scritto da: thomas-anto
il delirio d' islanda continua
Partenza il: 21/07/2008
Ritorno il: 01/08/2008
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
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IL DELIRIO D’ISLANDA CONTINUA Fiordi occidentali e Snaefellsness (Prima parte)

Altri suoni, altre sfumature di colori hanno intaccato i labirinti della nostra memoria, da poco tornati dalla seconda “full immersion” in questo incredibile pianeta. Sarà comunque riduttivo, ma ad ogni modo ci proverò ancora, come scrissi l’anno scorso: ora, in una seconda, nuova puntata che, se Dio vorrà, non sarà l’ultima. Scorrono a nastri i ricordi, aiutati da immagini immortalate nei filmati e nelle foto, e rivivo una vita parallela, quella dei nostri viaggi, miei e di Thomas. 21 luglio 2008, lunedì : Nizza- Londra Dopo sessanta chilometri (distanza da Sanremo a Nizza), azzecchiamo il parcheggio dell’aeroporto senza sprecare molto tempo, per fortuna. Abbiamo optato anche stavolta per il volo British Airways, aiutati validamente dall’efficiente cugino Paolo che da sempre prenota i nostri viaggi tramite la sua agenzia. Al “check in” veniamo ispezionati a dovere io e il mio bustino, inseparabile compagno, che viene perquisito per il secondo anno. Anche stavolta passo indenne i controlli insieme alla flemma ormai proverbiale del compagno della mia vita. Due ore scarse e siamo a Heatrow, domani proseguiremo per Keflavik (tre ore), il tutto per 650 euro a testa, stop over necessario per il cronico mio combattimento con la colonna vertebrale…ma chi ha letto il nostro viaggio dell’anno scorso già lo sa. L’hotel Park Inn è a un chilometro circa da Heatrow, ce lo siamo permessi avendo optato, stavolta, per le fattorie. Mi riposo un po’ mentre Thomas filma la camera, davvero bella, e indugia in una doccia lunga, mentre io ho fatto in tempo a dormire un po’. Più tardi usciamo dal frigo bar i panini che abbiamo comprato all’aeroporto. Ci addormentiamo beati, pensando con gioia che non dovremo svegliarci all’alba, perché l’orario del secondo volo non sarà di mattina presto ma addirittura alle 13.00. 22 luglio 2008, martedì: Londra-Keflavik- Reykjavik =Km 37 circa (strada 41+410). Oggi si vola con Icelandair, per fortuna l’aereo non è pieno e posso stendere un po’ le gambe di lato. Il veicolo decolla su una Londra dal cielo quasi sereno come ieri (miracolo!), quindi immergiamo lo sguardo sulla campagna inglese e poi sul blu dell’oceano che alfine regna incontrastato per molto tempo. Altro avvenimento gradevole è simpatizzare con una hostess che ci dà molte informazioni preziose sull’Islanda e con la quale ci scambieremo i rispettivi indirizzi di posta elettronica appena prima dell’atterraggio. La incontriamo ancora mentre cerchiamo, una volta sbarcati, il carrello per i bagagli. Agita la mano per salutarci, tutta contenta. All’ufficio – cambio ricevo la conferma che 1 euro corrispondono a 124,95 corone islandesi, mentre l’anno scorso erano solo 98. I prezzi quindi saranno un po’ meno esorbitanti, seppur sempre cari. Fatti rifornimenti di viveri al market 1011 dell’aeroporto (panini, acqua e skyr, lo “yogurt islandese”, azzardando persino un po’ di frutta e verdura, più o meno il nostro menù fisso nei giorni che verranno) Thomas si dirige al banco del noleggio- auto. Abbiamo deciso, come l’anno scorso, di fare la super casco (93 euro), poiché abbiamo scelto un’auto di categoria B e sappiamo che dovremo fare alcuni sterrati. E, mentre usciti dall’aeroporto, cerchiamo il parcheggio C, veniamo investiti dall’aria frizzantina che ci dà la stessa euforia dell’anno scorso. Il tempo stavolta è migliore e fa meno freddo, il sole gioca con le nuvole deciso a non spuntarla. Tredici gradi, conferma la nostra nuova auto, un’onda-jazz grigia metallizzata, dove entriamo col morale alle stelle. Persino Thomas non smette di sorridere, lui che deve caricare le valigie, e la frase “possibile che debba far sempre tutto io! ” non viene ritornellata…tanto lo sa che posso portare solo cinque chili, bella gatta da pelare si è preso con me! Riprende l’incanto della terra nera, vulcanica, brulla e primitiva che ci scorre addosso, come se non fosse passato il tempo, ritorna in ogni poro dell’anima, come un sogno interrotto e ora ripreso. Purtroppo dobbiamo iniziare a concentrarci, dopo poco, perché la fattoria scelta, con bagno in camera, non si trova nel centro di Reykjavik ma in periferia. Dopo alcuni giri a vuoto, comunque, riesco a venire a capo della matassa di ingorghi di strade, anche perché tale costruzione si trova proprio adagiata su un laghetto, l’unico, almeno da questo lato della periferia. Ben altro problema, intuisco, sentendomi per un attimo una novella Cassandra profetessa di sciagure, si presenterà al ritorno, quando dovremmo raggiungere la stessa fattoria dal lato opposto della città, dopo aver attraversato il centro. E tuttavia scaccio subito dalla mente questo stàffile improvviso per dedicarmi alla madreperlacea bellezza del paesaggio, ormai colmo di nubi, bello nonostante le costruzioni un po’ anonime e ancora in fase di ultimazione in questa parte della città. Infine ci siamo: mentre la temperatura è scesa a otto gradi ed è aumentato il vento, attraversiamo trionfalmente l’ingresso della fattoria, dopo aver salutato alcuni cavalli che pascolano tranquillamente nei pressi. Thomas arranca con le valigie mentre io affronto il mio inglese molto imperfetto porgendo il mio vaucher a un signore molto alto, distinto e cortesissimo, che ci indica una camera che si rivela deliziosa per ogni particolare, dalle tendine alle finestre agli allegri colori del copriletto, dalla funzionalità e alla pulizia che caratterizzerà comunque ogni fattoria che d’ora in poi incontreremo. ++++ E qui voglio aprire una parentesi che spero sia utile a chi leggerà. Per la cronaca, la III categoria di tale tipo di pernottamento, come noteremo in seguito, comprende sempre un bagno con wc, lavabo e doccia appesa alla parete (cioè senza tubo regolabile ma incastrato al muro e comunque con miscelatore), un piccolo armadio in camera con due poltroncine e due comodini, senza tv né phon. Le uniche due nostre fattorie di IV categoria, avranno invece una camera un po’ più vasta, e nel bagno la doccia sarà fornita di tubo non incassato al muro ma regolabile, inoltre phon e tv ci saranno sempre. In soli due posti (sperduti e con pochissimi posti letto) non abbiamo trovato la stanza col bagno, pur avendo prenotato i primi di marzo. La II categoria consisterà in una camera piuttosto piccola con il solo lavabo, nessun armadio ma una o due mensole al massimo e due-tre appendiabiti. La I categoria sarà ancora più spartana: la camera, davvero piccola, non avrà lavabo, chiaramente neppure l’armadio. Nella I e nella II categoria, comunque, noteremo un bagno al piano pulitissimo (wc, phon, doccia) come del resto le camere. Ci sentiamo quindi di consigliare vivamente a tutti la “formula fattorie”( l’unico “inconveniente” della nostra I categoria, di cui vi illustreremo in seguito, sarà non trovare sempre libero il bagno : a mezzanotte e dieci occupato così come alle 6.15…ma le stanze sono saranno solo sei, scopriremo, compresa la nostra, e tutte occupate, quindi piuttosto logico!) Chiusa parentesi!!! ++++ Tornando alla nostra prima fattoria, l’unica in cui si è sentito l’ormai familiare odore sulfureo dell’acqua, ci siamo strigliati ben bene e infine gettati sulle nostre provviste. Ora usciamo un poco (io goretex chiuso sotto il maglione islandese comprato a Seydisfjordur l’anno scorso, Thomas, al solito, con una felpa e il goretex slacciato), giusto per immergerci nell’atmosfera della sera sempre chiara, immortalando il laghetto, un’oca niente affatto impaurita da noi che fa la sua passeggiatina, alcuni raggi di sole che catturano i nostri volti. L’odore leggero eppur tenace dell’erba sarà un altro ricordo indelebile, da ritrovare nei momenti acuti di nostalgia, come un oggetto che si ritrova in tasca, dimentichi di avercelo messo. Più tardi, solito cerimoniale di sempre: Thomas rapito nel sonno, io che controllo che le batterie della telecamera e della macchina fotografica si stiano caricando,”Tanto sennò chi lo fa ?”, io che mi alzo dal letto e guardo dalla finestra, catturata dall’azzurro sempre chiaro di una notte che rimane crepuscolo. 23 luglio, mercoledì : Reykjavik-Borgarnes per strada 410+ n.1 Ring Road+ strada 533(sterrato per Km 6) = Km 73. – pomeriggio : Borgarnes-Reykholt-Hraunfossar- Borgarnes = km 134 circa, strada asfaltata dopo i primi 6 km dalla fattoria( strada 533)+n. 54+Ring Road+n.50+n. 518+ritorno: strada 54+n.533 (sterrato km.6). Stavolta la matassa dei grovigli di strade è più complessa. Un’ora e mezza impieghiamo per uscire da Reykjavik. Per tre volte di seguito, infatti , imbocchiamo la strada per l’aeroporto, da dove siamo arrivati ieri. Infine, dopo un’intuizione di Thomas che vuole dirigersi verso un quartiere di periferia sul mare, tiriamo un sospiro di sollievo e gli ultimi sobborghi scompaiono a paco a poco ai nostri occhi. Iniziano le praterie ritrovate, il vento che fa oscillare i fiori “di cotone”, come li abbiamo battezzati noi, le balle di fieno incappucciate. E iniziano a vedersi gli animali: pecore, cavalli, capre. Nei pressi di Akranes imbocchiamo il “ Tunnel delle balene” che ci fa risparmiare la percorrenza del lungo fiordo omonimo. Arriviamo infine a Borgarnes dove facciamo provviste(supermercato Bonus) e il sole, aiutato dal vento che qui soffia parecchio forte, riesce a illuminarci con alcuni suoi raggi. Il mare inizia ad avere riflessi bluastri, poi ci inoltriamo, ripresa la guida, verso la penisola di Snaefellsnes per un breve tratto, giusto per voltare al secondo sterrato che ci conduce alla fattoria prescelta (II categoria), purtroppo senza bagno in camera ma solo col lavabo. E’ un posto molto grazioso, ex casa di pescatori inglese, anche se un tantino inquietante dall’esterno. Ci accoglie una bella ragazza che sta lustrando il pavimento, Thomas quindi carica i bagagli che improvvisamente diventano fuscelli per lui…E bravo! La nostra camera è pulita e carina, un po’piccola ma decorosa, con ovviamente solo due mensole, senza armadio, i letti separati da un comodino. Il bagno è al piano, fornito di ogni necessità. Le stanze sono sei, tre col bagno e tre senza (tra cui la nostra), ma la cosa non ci disturberà perché sospettiamo ( e vati saremo) che le altre due stanze senza bagno siano vuote! Il pomeriggio ho organizzato un’escursione a Reykholt, patria di SNORRI, eccellentissimo scrittore delle saghe. Reprimo un piccolo istinto di violenza quando la cassiera del museo ci informa che l’ora di chiusura sarà tra quaranta minuti (coiè alle ore 18.00) e che quindi il tempo sarà troppo poco per leggere in inglese le informazioni sull’antico islandese, autentico, del milleduecento, appeso ai muri sotto forma di pergamena. Thomas si limita ad annuire convinto, io invece esco stizzita perché mi sarei accontentata di dare solo un’occhiaia alla lingua originale, e mi sarei emozionata anche senza capirci nulla, visto che non posso stare in piedi molto per sperare vanamente di decifrare molte parole d’inglese. Quindi, delusa, esco e perlustro l’esterno della chiesa, dove all’interno rimane il museo. Poi mi accorgo di una scuola chiusa e una pozza non molto grande dove si dice che Snorri facesse il bagno. Mi chino per toccare l’acqua e decido che ventinove gradi saranno di sicuro. In breve mi accorgo di una corta e stretta costruzione che doveva appartenere alla cantina di Snorri. Qui, leggo sulla guida Lonely Planet, costui fu ucciso a colpi d’ascia da un suo rivale politico, col beneplacito del re di Norvegia…Non posso fare a meno di rabbrividire..Dio santo, la vita a quel tempo non valeva un solo centesimo!!! Thomas intanto mi raggiunge, filmiamo la statua di Snorri che troneggia a poca distanza e ce ne torniamo in auto. La seconda tappa saranno le cascate di Hraufossar, dopo aver cercato invano un bar per motivi urgenti e di acqua. (ho scordato la mia indispensabile bottiglietta in fattoria). Thomas, detto anche “Terminator”, invece non ha bisogno di nulla. Per un po’ cerco di spegnere gli ardenti tormenti della sete, quando infine ci rendiamo conto di cosa rappresentano le cascate di Hraufossar. Sviluppatesi sopprattutto in lunghezza, sono un capolavoro di grazia e poesia: cascate e cascatelle a manciate formano laghetti, ovunque il muschio delizia il tutto col suo soave profumo. Ma ecco un altro miracolo: la giornata è ora aperta e quindi il sole intreccia barbagli su ogni centimetro d’acqua. Attraversiamo il ponte della cascata di BARNFOSS prima di accorgercene. Qui due bambini, leggiamo poi su un cartello in pietra, un giorno lo attraversarono ed annegarono, perché la grossa pietra su cui misero i piedi sventuratamente cadde nel fiume. A parte l’eco di questa tremenda disgrazia, rimane un bellissimo caleidoscopio di sfumature e colori in fondo alla rètina e iniziamo a dirigerci sulla strada del ritorno. I vari incroci e la stanchezza ci fanno perdere per almeno due volte la strada. Io nel frattempo ho ripreso le forze, perché un bar esisteva davvero ed era proprio vicino al museo di Snorri, quindi mi sto scolando quasi un litro d’acqua e sono finalmente andata in bagno. Thomas invece ha perlustrato una seducente islandese (la proprietaria del tanto agognato bar) e scopre che ha una tutina leggerissima nera, sorretta da spalline. Come farà a vestirsi così a dodici gradi? Questione d’abitudine unita a un pizzico di civetteria? E’ un tantino volgare o sarà anche che sono un po’ invidiosa di costei? Comunque, abbiamo approfittato del posto di ristoro per comprare i viveri e finalmente torniamo alla fattoria, dove ci gettiamo su panini e deliziosi cioccolatini a forma di uovo. Uno per uno, schizziamo appena dopo sotto la doccia che per fortuna è libera. Notte tranquilla, interrotta appena da un mio, unico, provvidenziale risveglio di soprassalto,accorgendomi di un raggio di sole che sta filtrando dalla tenda scura. Afferro come un automa la telecamera e filmo il sole che sta spuntando dietro la collina. Intorno parlano il silenzio e il lievissimo scroscio di un piccolo fiume.

24 luglio, giovedì : (strada n. 1: Borgarnes- Bifrost- Bru) e strada n. 61 :svolta per i fiordi occidentali, fattoria*********, che si trova a Km12 a sud di Holmavik= km 190 circa, di cui Km 45 sterrato. Verso le nove e mezzo partiamo, dopo una sostanziosa e buona colazione. Torniamo a Borgarnes per fare la spesa al Bonus (ben fornito) e, dopo aver fatto un rabbocco di benzina al serbatoio, svoltiamo nella Ring Road, cioè la n. 1, per Bifrost e Bru.(* Attenzione.. Fare comunque il pieno a Bru, perché sino ad Holmavik non c’è più nessun benzinaio). Il tempo è sempre variabile, col sole in perenne gioco con le nubi. Rivediamo le distese d’erba costellate di pecore dell’anno precedente e, appena prima dell’imponente vulcano Grabrok, ci fermiamo a un bar accanto alla strada dove leggiamo, con una certa curiosità, che aprirà alle undici del mattino. Non potendo prendere il caffè causa palpitazioni che mi provoca da sempre, avrei voluto una tazza di the ( quello preso fattoria non mi ha dato una sufficiente sferzata). Quindi sprofondo inevitabilmente in un sonno di piombo e mi sveglio solo a Bru. A sinistra, sulla strada, ritroviamo lo snack e il benzinaio che già conosciamo dal luglio scorso (ma d’ora in poi sarà tutto nuovo per noi) e risoluta cerco ben tre bustine di the. Ora sto davvero meglio e indico con sicurezza a Thomas la strada n.61 che ci porterà nei Fiordi Occidentali (la strada n.1, invece, prosegue per Akureyri che è nel cuore settentrionale dell’isola) .I primi chilometri sono asfaltati, poi, come avevo già notato sulla cartina, inizia uno sterrato. Andiamo a 40-50 km\h, essendo su un 2×4, e meno male che non mi vedete perché, lo schienale molto all’indietro, la cartina in mano, il binocolo a tracolla e la telecamera, sono un po’ buffa. Dimenticavo..continuo a perdere e a ritrovare la lente d’ingrandimento per leggere le scritte, davvero troppo piccole, a volte, sulla mappa. ….E qui iniziano altri colori non ancora veduti. Il fiordo alla nostra destra è un continuo succedersi di spiagge brune e nere, con sfumature inconsuete. Incontriamo i primi uccelli che stanno a gruppi a tuffarsi (oche, germani, cormorani e perdonate se le nostre cognizioni in ornitologia sono così sommarie). Il resto è solitudine. Il silenzio si esprime solo attraverso queste melodie intonate dagli animali, pecore comprese. Costoro, più incoscienti di quelle già incontrate in precedenza, forse perché non avvezze al pericolo, si azzardano sino al ciglio della strada e ci guardano molto incuriosite. Rarissime sono le auto che incontriamo in senso inverso. Facciamo la conoscenza con un curioso cartello stradale collocato al centro della strada che indica, con una freccia diagonale verso il basso, a destra, di non guidare in mezzo alla carreggiata poiché c’è un rialzo del terreno. Tuttavia sappiamo che non conviene neppure guidare troppo sul ciglio, perchè il manto stradale lì è piuttosto sconnesso. Comunque tutto è fattibile, bisogna solo mantenere un’andatura moderata e stare attenti. Intanto i chilometri si susseguono, il tempo è sempre variabile, la strada sta per lasciare il fiordo (Hrutafjordur) e la natura continua a lanciarci immagini a manciate: qua e là scogli, un villaggio minuscolo con la sua chiesina dal tetto rosso, come le sue quattro case ad incorniciarla, un improvviso prato di fiori gialli che digrada verso il mare perlaceo. Entriamo in breve in un altro fiordo, più corto e più stretto, la strada ritorna asfaltata insieme ai miei sospiri di sollievo, ma tutto è comunque una fiaba narrata sottovoce, accanto alla sinfonia del motore dell’auto che riprende fiato per un po’, sino a intonare nuovamente le sue marce basse un po’ più tardi (altro sterrato), mentre il mare occhieggia ancora insieme a qualche sorriso del sole che riesce a forare le nubi a strati sottili. Un’altra volta la strada prosegue all’interno, un altro nulla segue a un altro niente, ritorna l’asfalto e il vento a cantare il meriggio più rasserenato, via via che guadagnamo strada e chilometri e usciamo dalla bocca di un altro fiordo, l’ultimo, per oggi. Sono circa le tre e mezza e, nella seconda parte del Kollafjordur, la strada ritorna asfaltata mentre i nostri occhi si fanno più attenti ancora, perché poco ormai dista la fattoria prenotata, a soli dodici chilometri dal villaggio di pescatori di Holmavik, tappa prevista per domani. Eccola, infine, un po’ rientrante dalla strada : due piccole costruzioni e accanto un’auto già ferma con dentro una coppia (svizzera, scopriremo tra poco) che aspetta come noi qualcuno che non è in casa. Una delle porte, tuttavia, non è chiusa a chiave. Entriamo, dopo aver chiesto permesso per un po’. Tutto è pulito e accogliente, i ladri qui evidentemente non esistono, oppure hanno troppo freddo. Attacco discorso con la signora svizzera. Anche lei si chiede come mai non ci sia nessuno e solo dopo dieci minuti buoni sentiamo la frenata brusca di un’auto ed eccoti una giovane donna col volto arrossato e biondi capelli scomposti che si scusa immediatamente con un largo sorriso. Era andata a far compere ma adesso non dobbiamo preoccuparci, ci mostrerà subito le stanze, dice in perfetto inglese. Thomas ed io veniamo indirizzati nella costruzione a sinistra, alla coppia invece verrà indicata la casa a fianco. Buon Dio, scopriamo che ci sono solo sei stanze per un bagno al piano, la categoria della fattoria è la più sobria, non c’era null’altro per diversi chilometri. Un letto matrimoniale, un attaccapanni e un paio di poltroncine sono tutto ciò che vediamo nella cameretta, peraltro pulitissima. Quasi tutto diventa in breve semi invisibile perché coperto dai nostri vestiti. Resta da notare ancora un minuscolo tavolino accanto al letto con una radio sveglia e una bibbia, naturalmente in islandese. Thomas è più pratico di me e si rifiuta di uscire dall’auto il suo bagaglio, perché messo nella stanza non rimarrebbe neppure il posto per poggiare un piede, visto che la mia valigia aperta occupa quasi tutto il pavimento. Il bagno al piano in compenso è fornitissimo, ci tuffiamo immediatamente a ristorarci in una doccia. Intuiamo che poi sarà occupato…e non sbaglieremo! La nostra stanzetta, dotata di un buon impianto, in breve si riscalda e riusciamo ad osservare nuove cose che prima non avevamo notato: ninnoli come piccoli vasi, nanetti, pupazzi, tutti costruiti artigianalmente e dipinti con grazia( poi ci diranno che l’artista in questione è la suocera della ragazza bionda, proprietaria della fattoria). Nel corridoio, dove si aprono le stanze, oltre al bagno, scopriamo una rientranza con bambole e lettini, insomma, in uno spazio ristrettissimo da “casa di Biancaneve” è stato ricavato un angolo per i bambini. In fondo al corridoio, invece, si apre un cucinino attrezzatissimo e con un angoletto dove sono sistemati divano e tv. Mangiamo per tempo i nostri panini e un po’ di frutta comprati al mattino, per poi decidere coraggiosamente di fare un giro attorno all’isolato. Altri turisti sono ormai arrivati ad occupare le stanze rimanenti. Io e Thomas usciamo appena in tempo per vedere una coppia giovane rientrare precipitosamente, chiaramente infreddolita. Goretex, sciarpa, cappello e guanti, mi affretto a filmare il più possibile, mentre si gela alternativamente la mano senza guanto che in quel momento sta azionando la telecamera. Ecco qui: tre, quattro gradi al massimo respirano la notte bianca, col sole che a tratti striscia sul mare. La rada azzurrina si staglia nel vento, da qui alle piccole luci sul lato opposto della baia, dove sorge Holmavik. A tratti si unisce il concerto di oche, anatre e altre innumerevoli qualità di volatili. Un coniglio bianco, naturalmente molto impaurito, si nasconde sotto una delle auto parcheggiate. Noncuranti del freddo, un gruppetto di bambini gioca in un piccolo piazzale facendo alcuni tiri a un canestro (felpe, cappellini, null’altro). Noi resistiamo ancora un po’, poi Thomas ha pietà di me e quindi rientriamo, anche se spiace a tutti e due voltare le spalle a questi riflessi lilla del mare e a un raggio di sole che insiste caparbio oltre la collina di Holmavik. Poco più tardi socchiudo gli occhi nella penombra, avvolta in un caldo piumone, mentre saluto un nanetto occhialuto sulla mensola della finestra. Forse è Dotto, mi pare narrasse la fiaba di Biancaneve… Thomas, naturalmente, già dorme. 25 luglio, venerdì : (strada n. 61: fattoria ********* – Holmavik – Miojfjordur: fattoria ********), Km 105 di cui Km 21 sono sterrati. Il sole sembra più deciso, oggi. Partiamo non propriamente presto (verso le dieci) dopo aver fatto colazione dalla gentile signora di ieri, che ci aspettava nella costruzione attigua col marito e una timidissima suocera, rimasta tutto il tempo su un divanetto a sferruzzare. In breve tempo raggiungiamo Holmavik, villaggio di pescatori dove ci affrettiamo a trovare un market (discretamente fornito), appena dietro il benzinaio (è necessario avere il serbatoio pieno perché la pompa seguente sarà a Sudavik, a soli km 9 prima di Isafjordur!). Qui di carino scopriamo le costruzioni multicolori, ma una di esse , in legno, con nostro disappunto, è chiusa: avremmo voluto infatti entrare nel caffe Riis, un edificio storico risalente al 1897. Non è aperto neppure il Museo della Stregoneria, ma dobbiamo ammettere che non lo avremmo comunque visitato perché non ci interessa un gran ché. Ma dove saranno tutti?, ci chiediamo, poiché davvero non c’è un’ anima in giro, a parte qualcuno che fa benzina o la spesa. Risaliamo in auto mentre la giornata, miracolosamente, sta diventando assolata, e tale resterà sino a sera. Arrivati in bocca allo Steingrimsfjordur, proseguiamo a sinistra per la strada 61, perché risalire il fiordo equivarrebbe per noi a sbagliare strada, entrando nella regione desolata dello Strandir, magnifica ma fuori dalla nostra rotta che invece ci porterà oltre ad Isafjordur, domani. ..E qui ci vorrebbero altre parole ancora, che non so trovare, perché ecco, per fortuna asfaltata, la strada ora sale e pare si debba raggiungere il cielo, ormai terso e di un azzurro indefinibile. Entriamo dentro un nulla diverso ancora, fatto di prati, di vento, di fiori gialli, violetti e bianchi che paiono soffice ovatta, mentre raggiungiamo la cima dell’altipiano e accanto a noi si staglia un’unica costruzione rossa(un rifugio), che pare uscita or ora da un telefilm di fantascienza. Sono circa le tredici quando decidiamo di fermarci proprio qui, a giocare con vento, e scopriamo che i pomodorini comprati ad Holmavik sono i migliori del mondo e anche i panini forse hanno qualcosa in più. Vediamo una, forse due auto, in un’ora intera, sorpassare il nostro veicolo parcheggiato. Infine riprendiamo la marcia e affrontiamo con cautela i tornanti in discesa, sino ad un autentico “oh” di stupore per il primo dei fiordi occidentali, l’Isafjordur, perché raccontare di questi momenti è difficile e neppure io, di solito così ciarliera, riesco neppure più a parlare. Sembra di scendere con un veivolo che con estrema dolcezza si va a posare sul fiordo. Ogni tanto accostiamo, immortaliamo istanti con macchina fotografica e telecamera, poi arriviamo alla bocca del fiordo, dove scopriamo un pontile e un gruppo di sterne codalunga niente affatto contente di noi. Dopo una breve lotta Thomas guadagna il passaggio, costretto a lanciar loro una o due pietre, infine arriviamo a una spiaggetta dove l’acqua è quasi tiepida perché riscaldata da un sole a dir poco cocente. Saremo a diciotto, forse venti gradi. Iniziamo a togliere goretex e maglione, ora basta la felpa. …… Quanto tempo saremo rimasti? E’ difficile lasciare questo angolo di paradiso, ma bisogna pur continuare il nostro itinerario! Consultando la cartina, Thomas decide di dar retta a un mio suggerimento. I fiordi saranno molti e quasi tutti dovremo affrontarli domani, è meglio non arrivare sino a Reykjanes (dove il benzinaio c’è e così le provviste, ma noi ne abbiamo a sufficienza per stasera), e quindi risparmiarci circa cinquantacinque chilometri. Quindi, invece di imboccare lo sterrato 633, giriamo a sinistra restando sulla strada 61, dove anche qui finisce l’asfalto ma si taglia all’interno. I chilometri sono undici e si sale su un altro altipiano, più corto del precedente, dove appare un altro rifugio, sempre rosso. Si sbuca infine, dopo altre meraviglie di prati, brevi corsi d’acqua e un piccolo ghiacciaio, nel Miojfjordur, a pochi chilometri dalla fattoria scelta per stasera. Ci concediamo un’ultima sosta presso un ruscelletto idilliaco e rimaniamo in silenzio ad ascoltare l’incanto del suo rigoglìo. I nostri occhi hanno ancora i riverberi del sole nell’acqua quando scorgiamo il cartello che indica la fattoria. Gli ultimi chilometri (dieci) sono puro sterrato ma ci aspetta una camera con bagno privato di quarta categoria, la migliore. Un cane prima e un pappagallo dopo ci accolgono, insieme a una signora anziana sorridente. La fattoria si trova in una valle che è un vero e proprio paradiso ornitologico, con tanto di cartelli esplicativi. La stanza è ampia, il letto, unica pecca, un po’ troppo morbido (senza le doghe), ma il resto, bagno compreso, è all’altezza delle nostre aspettative. Mentre Thomas mi precede in bagno, io resto senza più forze sul letto, mentre la schiena urla pietà e io cerco di non darle troppo retta guardando un canale alla tv (l’unico…che strano..) e scopro che stanno trasmettendo l’interminabile finction “Sentieri” in islandese, sottotitolata in inglese… Un colpo al cuore….Dio, non c’è “campo”!!!, sospetto atroce che diventa certezza appena guardo il cellulare. Risultato: la sera, faremo circa trenta chilometri (sterrato puro) per comunicare coi nostri cari, poiché la fattoria è stata costruita praticamente in bocca al fiordo. Altrettanta distanza bisognerà ripercorrere per guadagnare il letto e un meritato riposo. Non chiedetemi perché non abbiamo cercato di comunicare con telefono fisso, sicuramente presente in tal posto. Non so rispondere per Thomas, so solo che io non sono riuscita a pensare di restare altri minuti in piedi al telefono. Sento già odore di infiltrazioni ai dischi vertebrali.. Non voglio pensare…Maledetti siano i letti senza doghe!!!! …Il tutto si appanna nella penombra e nel quieto cinguettio avvolgente come un secondo piumone. SECONDA PARTE 26 luglio, sabato : (strada n. 61 e n. 60: – Mjoifjordur- Isafjordur-zona Flateyri: fattoria *********), Km 270. E anche stavolta ci siamo, sigillati nello sterrato, percorso in un tratto, ieri, per telefonare. Il tempo è bellissimo, sin dalla bocca del fiordo Mjojfjordur. Il sole prosegue anche dopo, a vortici lievi sull’acqua, mischiata allo scroscio di cascatelle che scendono a bagnare persino i cigli della strada, ora asfaltata. Ogni tanto un piccolo spiazzo, due panchine, per immergersi ancor più in questo abbraccio di natura, con le sterne artiche codalunga che reclamano il loro territorio e altri volatili che improvvisano duetti misteriosi. Si alternano altri fiordi : Skotufjordur, Hestfjordur, Seydisfjordur. Di fronte, limpidissimi , si stagliano l’isola di Vigur e, oltre, la penisola senza strade di Hornstrandir, col suo grande ghiacciaio Drangajokul e le sue nevi perenni. A un certo punto la poesia raggiunge il suo culmine: si sale verso un altipiano dove si domina tutto, anche il fiordo seguente, quello di Alfafjordur, sul cui versante occidentale è adagiata la cittadina minuscola di Sùdavik. Un paio di fuoristrada sono parcheggiati nello spazio dove anche io e Thomas decidiamo di fermarci. Il vento è notevole e dietro c’è un’alta propaggine montuosa verso cui Thomas sale per un po’. Mentre lui esplora, io non stacco gli occhi dall’azzurro limpidissimo del mare ed i ghiacciai di fronte. Un poco più ad est, rimane l’isola di Vigur e con lo zoom della telecamera intravedo l’unico mulino presente, accanto a una manciatina di case. E’ quasi strano aver fame in questo posto che ispira solo pensieri spirituali, ma siamo essere umani, quindi a un certo punto facciamo uno spuntino. Dopo mezz’ora continuiamo la marcia e raggiungiamo la sopra citata Sùdavik, dove facciamo benzina e un po’ di spesa nel market attiguo al benzinaio. Casette multicolori e un piccolo porto sono tutto quello che è Sùdavik. La strada è ancora asfaltata quando raggiungiamo finalmente Isafjordur, nel magnifico fiordo di Skutulsfjordur. Purtroppo il mio mal di schiena è aumentato e perciò non riusciamo a fermarci per esplorare un poco il porto e le vecchie case di legno rivestite di lamiera. Ci accorgiamo tuttavia di una grossa nave da crociera ancorata al porto e delle vette torreggianti che sovrastano la città. Dal porto partono anche le numerose crociere verso l’isola di Vìgur vista prima, un gioiello di grazia, credetemi, e sarebbe stato bello potervi andare, ma purtroppo abbiamo trovato disponibilità solo una notte nella fattoria di cui poi vi parlerò, e quindi non ci sarebbe stato tempo disponibile. (Ogni giorno c’è una partenza alle ore 14.00). Così sono saltate pure le escursioni ai vicini paesi di Bolungàrvik e di Sudùreyri, due villaggi di pescatori, il primo con un importante museo marittimo che avrei voluto vedere almeno dall’esterno, essendo un vecchio capannone d’ erba e in pietra, il secondo perché immerso in uno splendido paesaggio. La fattoria che ci affrettiamo a raggiungere, ormai alle sedici e trenta del pomeriggio, si trova nella zona di Flateyri ( la strada è ora la n. 60)e per raggiungerla imbocchiamo un tunnel lungo ben cinque chilometri. Alla fine, dopo circa sette chilometri, c’è un cartello che indica il nome della fattoria, “Kirkjubol Korpudalur”. (In questo caso ne cito il nome per intero, perché chi legge ed è intenzionato a compiere il nostro viaggio non si sbagli come è accaduto a noi.) Appena dopo c’è un ponte, che avremmo fatto bene ad attraversare, proseguendo la strada asfaltata. Invece, in una conca circondata da montagne da sogno, giriamo a sinistra in una strada sterrata difficoltosa, troviamo due Austriaci vestiti tipo”figli dei fiori” e aspettiamo con loro fuori dalla fattoria, la cui entrata risulta comunque non chiusa a chiave. Io entro spinta da un bisogno fisico impellente, e mi accorgo che è stranamente più piccola di quello che mi aspettavo, che la radio è accesa e non c’è anima viva. Dopo aver atteso almeno mezz’ora (i due Austriaci, molto seraficamente, mi informano che il proprietario è andato a far spese e non sarà di ritorno molto presto) io sono molto avvilita , riflettendo anche sul fatto che il tetto di tale abitazione è azzurro, mentre sul sito di Internet si presentava verde. Infine un po’ spazientito Thomas telefona al proprietario informandolo del nostro arrivo. Dopo un’altra mezz’ora due gentilissimi coniugi appaiono alla guida di un fuoristrada e, in seguito, leggendo il foglio della nostra prenotazione, ci informano candidamente che abbiamo sbagliato fattoria. E’ necessario ripercorrere lo sterrato, riportarsi sulla strada principale, attraversare il ponte (quindi il fiordo Onundarfjordur) e proseguire per altri cinque chilometri circa. Io sono piuttosto allo stremo perché non vedevo l’ora di stendermi a letto, ma tant’è! Quindi seguiamo le loro istruzioni e finalmente arriviamo alla tanto sospirata( e giusta)fattoria, chiamata “Kirkjubol in Bjarnardalur”. Il tetto è naturalmente verde come quello della foto vista su Internet. Peccato che sulla cartina(chiamata Landmaelingar Islands, precisissima sinora sempre) ci fosse stato il disegnino col letto indicante l’ostello per la gioventù (quello di prima), mentre il secondo “kirkjubòl”, quello giusto, fosse un semplice nome senza alcun disegno, praticamente indicante soltanto il nome di un villaggio! Parecchio arrabbiata lo sono davvero, comunque finalmente il posto giusto è questo. La categoria è la terza, quindi c’è il bagno e il letto è comodissimo. Doccia, cena piuttosto abbondante in camera grazie alle compere di oggi e pastiglie antidolorifiche seguono a chiacchiere concitate da parte mia e al cipiglio di Thomas, preoccupato per la mia sorte. La notte fatico a dormire, così ho tutto il tempo di seguire mio marito nel suo viaggio verso Morfeo, il dio del sonno, e cerco di consolarmi osservando la magnifica montagna che si ammira dalla finestra e il crepuscolo azzurrino che inizia a cullare anche me, dopo molto tempo, verso altri lidi. 27 luglio, domenica : (strada n. 60: zona Flateyri- zona Latrabjarg: fattoria *********), Km 223. Oggi non sarà comodo, perché attraverseremo una zona ricca di sterrati. Non è prestissimo, perché Thomas ha avuto pietà e mi ha lasciato dormire un po’. Verso le nove e mezza, quindi, partiamo incontro a un sole un po’pallido ma comunque tenace, dietro a una cortina di innocue nuvole. Dopo circa 15 chilometri (strada asfaltata) giungiamo nel villaggio di Thingeyri, 340 anime, dopo aver attraversato un ponte che.. Attraversa il fiordo Dyrafjordur. Rabbocchiamo il serbatoio e mi concedo una tazza di the in un bar, mentre Thomas sceglie qualcosa da mangiare per i prossimi due giorni. In uno scenario “da urlo” (intorno a picchi di roccia e pietrisco che si specchiano in un fiordo tra l’azzurro e il grigio perlaceo), riprendiamo la marcia armati di pazienza perché inizia uno sterrato che continuerà per molti chilometri( circa centosette, il più lungo di tutto il viaggio). La strada sale da subito, dietro la parte meridionale del villaggio, sino al “belvedere Sandafell”. La vista sul fiordo mozza davvero il respiro: qui cantano nel vento un paio di piccoli ghiacciai raggiungibili facilmente dalla strada. Thomas dimostra la sua maturità restando a guardarli a una certa distanza e fotografandomi mentre io invece, tornata bambina, mi getto su uno dei due, bagnandomi i jeans. La strada seguente è una serie di curve da prendere con una certa prudenza, anche perché in discesa. Il villaggio seguente è Hrafseyri, importante perché vi nacque il padre dell’indipendenza islandese, Jon Sigurdsson, a cui è dedicato un piccolo museo che purtroppo non abbiamo il tempo di visitare. Le meraviglie proseguono, sempre a 50 Km orari o ancor meno, costeggiando l’Arnarfjordur, un ampio braccio di mare che in seguito si divide in altre cinque parti minori. Ogni tipo di nuvola è svanita da tempo, il sole danza nell’acqua tra mille barbagli, e già da lontano è visibile la cascata maggiore dei fiordi occidentali, chiamata Dynjandi, venti chilometri dopo l’ultimo villaggio attraversato. Qui troviamo altra gente(incredibile, dopo tanta solitudine) che ha scelto questo posto per ristorarsi, come noi. Facciamo quindi un ricco spuntino davanti a questa spettacolare visione d’acqua che si getta da un’ampia scarpata, a breve distanza dalla strada n.60. La portata è ampia, tanto che io e Thomas dobbiamo alzare la voce per udirci. Dopo circa un’ora riprendiamo la strada e giuriamo che avremmo voluto fermarci ancora di più. Nuovi chilometri, identico sterrato, la schiena comincia a dolere ma provo a distrarmi nel lunare paesaggio di Glàma, spoglia brughiera coperta di tundra. Ventotto chilometri circa di questa desolazione sublime non sono pochi, anche perché l’auto deve percorrerli a marce ridotte. Gli occhi di entrambi sono molto attenti, però, anche a una deviazione che si presenterà e che verrà indicata da un cartello minuscolo. Importantissimo stare in guardia, perché si lascia la strada n. 60 per imboccare la n. 63. (la n. 60 termina a Flokalundur, a pochi chilometri dal traghetto Baldur che porta in tre ore alla penisola di Snaefellsnes ). Questo percorso noi l’abbiamo scelto perché abbiamo deciso di fare una sosta a Latrabjarg, dove ulteriori miracoli della natura ci attendono. Altri tre piccoli fiordi vengono attraversati, in bocca all’ultimo dei quali c’è una cascata. Sei chilometri prima del successivo villaggio, Bildudalur, finalmente torna l’asfalto. La schiena si placa e urla vittoria, continua a strillarla per altri diciassette chilometri, sino a Talkafjordur, anche se gli occhi non cessano di osservare l’ennesimo fiordo, ormai pervaso dagli scintillii arancioni del tardo meriggio. Raggiungiamo poi la periferia di Patreksfjordur, un villaggio più grande adagiato nel fiordo omonimo che sorge su una lingua di terra ghiaiosa e offre l’ennesimo scorcio poetico alle nostre rètine, già ubriache da tempo di colori mai visti. La strada diventa la n. 62 e bisogna risalire la bocca del fiordo e non girare a ritroso, perché anche da qui si arriverebbe all’imbarco del già citato traghetto Baldur. Proseguiamo e notiamo che la strada è diventata la n. 612. Dopo poco “carta canta”, cioè la cartina segnala inderogabilmente l’inizio di un nuovo sterrato che risale il Patreksfjordur. Sorpassate le rovine dello scafo arrugginito di un peschereccio, Thomas ignora la deviazione a sinistra per la strada sterrata n. 614 che porta a Raudissandur dopo dieci chilometri (e che spero non sarà ignorata domani dal mio caro marito, perché c’è una magnifica spiaggia rossastra). Dopo una decina di chilometri, pur stanchi, siamo lesti a notare un cartello che indica di svoltare a sinistra per arrivare alla penisola di Latrabjarg e non quindi a proseguire diritto per la strada n.615. Qui inizia una spiaggia sottostante che si insinua all’interno, foce di un corso d’acqua. E’di color pastello a sfumature di rosa e beige e noi la guardiamo dall’alto inebetiti di gioia, mentre un duetto di pecore pascola sul ciglio della strada e un terzo ovino, dal lato opposto, ci osserva curioso e per nulla impaurito. Da tempo ho provato nel mio inglese stentato ad avvisare la fattoria del nostro ritardo (dopo le 18.00 è obbligatorio telefonare se non si è ancora arrivati, perché la camera potrebbe essere data ad altri). Così, e son circa le sette di sera, arriviamo ad un’ ultima deviazione a destra, a neppure cinque minuti dalla nostra fattoria, nel villaggio di Brèidavik. E’ facile arrivarci perché le due costruzioni che la costituiscono sono adagiate, accanto a una piccola chiesa, in una distesa immensa di sabbia dorata. Arriviamo senza fiato : Thomas è forte e si domina, a me invece spuntano un paio di lacrime che proprio non riesco a trattenere. La camera, nella costruzione un po’ più vicino alla spiaggia, è di terza categoria e quindi ha il bagno. Thomas è il primo a fare la doccia. E’ un suo diritto perché è lui ad aver guidato e di sicuro è più stanco. Mi getto sulle prime provviste, ma già il mio compagno mi chiama. Mi ero appena sdraiata sul letto, due vertebre a pezzi. +++ Parentesi “fantozziana” e comunque l’unica, per fortuna, nell’intero viaggio (assolutamente obbligatorio da leggere per chiunque si voglia fermare qui). Nel vano doccia Thomas nota che non sono presenti né i rubinetti né il miscelatore, ma solo un pulsante che fa uscire l’acqua e che periodicamente si deve rischiacciare perché il liquido smette di fuoriuscire. Sopra il boiler esistono due scritte in inglese poco esaustive, comunque intuiamo che l’acqua si debba regolare dal boiler, non essendoci un modo di farlo dalla doccia. Thomas ha l’abitudine di insaponarsi e di stare poi a lungo sotto il gettito d’acqua. Purtroppo oggi non sarà così. Le sue proteste vivaci, infatti, non tardano a farsi udire, perché, essendo l’acqua troppo fredda (Thomas mi giurerà poi che più di cinque gradi non erano) mio marito regola al massimo la temperatura del boiler. E’ tutto insaponato e, dopo pochi attimi, lo sento lamentarsi che si sta letteralmente bruciando. Mi affanno quindi sul pomello del boiler per abbassare la temperatura, ma senza risultato, poiché a Tom sembra sempre di fare una sauna doppia. Ce ne vuole perché il sapone abbondante si sciacqui interamente, quindi, tra rapide entrate e precipitose uscite dalla doccia da parte di Thomas, sembra che l’acqua, per trenta secondi almeno, sia della temperatura giusta. Invano. Al trentunesimo secondo la scorta di liquido indispensabile per la vita sul pianeta sta diventando a poco a poco fredda come l’oceano che circonda l’Islanda e così Thomas, sciacquato alla bell’e meglio, esce rabbrividendo dal vano diventato per lui uno strumento di tortura. Il boiler era secondo me della portata massima di cinquanta litri, anche meno, quindi l’acqua calda, mal regolata, si è esaurita in un battibaleno. Protestando energicamente ancora un po’ sulla “doccia scozzese” a cui ha dovuto sottoporsi, Thomas si riveste e attacca a mangiare le provviste come faccio io. Fosse capitato a me, credo mi sarebbe venuta una crisi nervosa. ++++++++++ Chiaramente non posso farmi la doccia ora perché sono molto diversa da un orso polare, quindi mi limito a lavarmi la faccia, con la sensazione di essere all’interno di una delle cascate che abbiamo ammirato oggi. Thomas, detto anche “Terminator”, come avevo già scritto, supera il momento di crisi in poco tempo e mi propone di esplorare la spiaggia dorata. Lui cammina per primo, io arranco dietro a tappe, pur non perdendomi l’incanto della sabbia dorata e della poesia del vento che gioca con le ombre azzurrine mischiate agli ultimi raggi del sole della sera. Sorpassiamo una palizzata di ferro, costruita probabilmente per impedire che le pecore, presenti ovunque, possano raggiungere la spiaggia. Parliamo poco. Immortaliamo noi stessi e il paesaggio da favola con foto e telecamera, bagniamo i piedi nel gelido oceano che ondeggia i suoi spruzzi intessendo un gioco infinito con la rena. Al ritorno, udiamo una pecora chiamare la madre a più riprese, disperata di essersi perduta. Mentre ci avviciniamo alla fattoria, un altro belato stentoreo e sicuro si avvicina al piccolo ovino. In breve la coppia di unisce a un altro gruppetto che gira curioso e niente affatto impaurito accanto a un camper che ha deciso di pernottare poco lontano da noi. Dopo circa un’ora dal rientro in camera, prendo coraggio, armata di sapone, shampo e balsamo e, con la stessa foga che uso lottando col boiler minuscolo della casetta di montagna di mio fratello, chiedo a Thomas di ruotare il pomello del boiler ai tre quarti della temperatura massima. Così eseguo la doccia più veloce della storia, aiutata anche dal fatto che l’acqua termina il suo gettito a intervalli regolari e quindi ne approfitto per insaponarmi i capelli. Stesso metodo uso nella fase del balsamo. Purtroppo è stato Thomas a farmi da cavia involontaria, comunque ho capito che per qualche arcano motivo la temperatura, una volta regolata, non si può cambiare. Evidentemente sono riuscita a trovare quella giusta per un colpo di fortuna e poi ho dovuto procedere a tempi molto accelerati. Domani dovremo svegliarci non tardi se vorremo andare a Latrabjarg. Inoltre il traghetto parte alle dodici e un quarto e dovremo prenderlo. Le emozioni, tuttavia, sono state così forti e ravvicinate che nostro malgrado restiamo a lungo a parlare della giornata appena trascorsa, prima di prendere sonno. L’ultima cosa che riesco a vedere dalla finestra è un crepuscolo blu con al centro l’ombra nera di un cavallo, che credo anche lui si appresti a dormire.

28 luglio, lunedì : (strada n. 612; n.62; traghetto Baldur: tre ore; penisola di Snaefellsnes: strada n. 58; n.54; n.574, fattoria *******), Km 230 circa su strada. Ahi, quale ritardo, oggi abbiamo poltrito! Nella speranza che ci sia posto sull’altro traghetto giornaliero, telefoniamo per avvertire. Sì, per fortuna. Il ferry partirà alle 18.30 come avevamo letto sulla tabella degli orari e valida è la prenotazione del mattino già ottenuta in agenzia in Italia. Possiamo quindi goderci l’estrema punta della penisola di Latrabjarg ed è quel che accingiamo a fare, percorrendo dodici chilometri di sterrato verso ovest, dopo esserci riportati sulla strada n.612. Prima di arrivarci possiamo goderci dal nostro mezzo un’altra bella spiaggia dorata: Hvallàtur. Anche oggi la giornata è bella e per questo ringraziamo il Creatore. Arrivati al punto più occidentale della tanto sognata penisola, ci rendiamo conto che la realtà supera le aspettative. Accanto al faro di Bjargtangar, il punto più occidentale di tutta l’Islanda, parcheggiamo l’auto in uno spiazzo occupato da altre quattro o cinque vetture. Il silenzio regna sovrano, unico protagonista il vento che danza lungo le spettacolari scogliere che si ergono sino ai quattrocento metri di altezza. Tre o quattro coppie, più esperte di noi del birdwatching e più attrezzate tra binocoli e telecamere con potenti teleobiettivi, sta osservando cormorani, urie, gazze marine, gabbiani tridattili e, naturalmente, (tanto sognate da me) le pulcinelle di mare. Un cartello avvisa di non avvicinarsi troppo al bordo del precipizio, accanto al quale Thomas, sdraiato, sta filmando (non è possibile!) proprio quest’ultimo volatile, poiché l’animaletto ha costruito il proprio nido appena sotto le ultime propaggini d’erba. Altre due pulcinelle stanno prendendo il sole in coppia e una quarta fa sporgere le proprie piume posteriori dall’anfratto di rocce che si è scelta come rifugio. Si nota che questi uccelli non hanno paura e, aggiungerei, sono anche un tantino incoscienti. Per questo c’è chi lo osserva e li caccia. Uno dei piatti principali della cucina islandese è infatti il “lundi”, cioè la carne di pulcinella di mare. A noi sembra impossibile che si possa uccidere un animale tanto tenero e indifeso. …Non ci accorgiamo del tempo che passa, ma davvero ora dobbiamo proseguire. Rifacciamo la strada a ritroso, sorpassiamo la deviazione per la fattoria di cui abbiamo usufruito la notte scorsa e tiriamo dritto per lo sterrato (sempre strada n. 612), girando quindi a destra per Patreksfjordur, che abbiamo deciso di raggiungere per fare qualche provvista e la benzina ( era davvero ora!). Però, prima di arrivare, per un quarto d’ora, ci rimango male davvero e non rivolgo più la parola a Thomas. Costui ha deciso infatti di non accontentarmi facendo una sosta a Raundissandur (la spiaggia rossastra a cui avevo accennato ieri). Si sarebbe trattato di una ventina di chilometri in più tra andata e ritorno (strada n. 614, sterrato) e credo proprio che la benzina sarebbe bastata. Comunque, rifletto poi, conviene non prendersela troppo. Thomas è super prudente e inoltre quando decide una cosa è irremovibile. Se ci fossimo fermati dal benzinaio ieri forse sarebbe stato tutto diverso, ma davvero la stanchezza mi aveva impedito di essere così previdente. Risaliamo quindi il fiordo di Patreksfjordur (strada n. 62) e riempiamo serbatoio e stomaci. Ormai è pomeriggio, ma il traghetto non è lontano per nulla. Il sole inizia a nascondersi tra nuvole livide, portate dal vento che qui fa cambiare il tempo in un attimo, quando lo decide lui. Lasciato quindi il fiordo alle spalle, continuiamo la rotabile n. 62 che lungo la bocca del fiordo è diventata di nuovo asfaltata e lo sarà sino al terminal del traghetto (Brjanslaèkur). Attraversiamo un passo e, appena giunti a rivedere il mare, inizia un acquazzone che lava provvidenzialmente l’auto e termina proprio a Brjanslaèkur. Consegnato il foglio di prenotazione al botteghino, riceviamo i biglietti. Sono circa le diciassette e il traghetto non è ancora arrivato, poiché il mezzo acquatico fa la spola tra qui e Stykkishòlmur, la nostra prima méta nella penisola di Snaefellsnes. Sono un po’ noiosa, lo ammetto, nell’osservare ad alta voce che avremmo fatto tranquillamente in tempo a fermarci alle Spiagge Rosse (Raundissàndur). Thomas infatti non mi risponde e mi volta le spalle. Anch’io sono piuttosto cocciuta. Cade ancora qualche goccia di pioggia e il tempo si mantiene livido, mentre scorrono i minuti e a poco a poco il traghetto si staglia all’orizzonte e via via si avvicina. Il viaggio è spettacolare, nonostante il freddo che patisco, distesa in coperta e sepolta da goretex, sciarpa e guanti, nonché berretto. Thomas invece ha il goretex allacciato ma si sente a proprio agio come uno scandinavo. Filma le mille sfumature grigie ed azzurre del cielo, mischiate alla spuma dell’acqua, su cui riconosce alcune pulcinelle di mare che volano basso per cercare cibo. Purtroppo ci sono anche alcune di esse che galleggiano, di cui è rimasta solo la testa. Ogni volta mi giro dall’altra parte, inorridita. Intanto il traghetto attraversa pian piano un arcipelago di moltissime isolette e devo dire che la bellezza del paesaggio resta, nonostante il tempo non sia dei migliori. In un’ora circa raggiungiamo l’isola di Flatey, su cui il traghetto fa un breve scalo. Si tratta di un’isola piatta e verdeggiante, carina, in cui è adagiato un minuscolo villaggio pieno di edifici storici con l’immancabile chiesa. Da tempo ho telefonato per avvertire la fattoria in cui alloggeremo stasera ( e domani) del nostro ritardo, e ora, infreddolita, mi decido ad abbandonare Thomas che continua a resistere impavido in coperta e mi rifugio nel “piano garage”. Mi infilo nell’auto e solo un paio di volte ne esco per filmare Stykkisholmur che sta avanzando pian piano nella nebbia, mentre inizia di nuovo a piovere. Alle 21.30 facciamo puntuali il nostro ingresso nella penisola di Snaefellsnes. Peccato non ci sia il tempo materiale per fermarci un po’, ma dobbiamo proseguire ed imbocchiamo la strada n. 54, asfaltata , direzione Grundafjordur, a circa cinquantaquattro chilometri. Dopo aver goduto di alcuni raggi di sole spuntati da una selva di nubi violacee, con mille toni arancioni e fette di azzurro, inizia una tempesta abissale proprio a Grundafjordur, e pare davvero che sia la fine del mondo. Il picco conico del Kirkjufell si intravede appena, mentre la pioggia sembra squassare tutto il paese e delle 956 anime non ce n’è nessuna in giro. Le nubi coprono interamente il cielo sicchè è buio pesto e quindi dobbiamo moderare la velocità. Il viaggio continua sulla statale 54 e, prima di Olafsvik, giriamo a sinistra per tagliare la penisola. Il tempo continua ad essere da lupi, in più inizia uno sterrato, mentre informo Thomas (che si sta inalberando) che poco dopo tornerà l’asfalto. Si va molto piano perché le nubi (o meglio le nuvole) raggiungono l’altezza della strada. Così, dopo un altro breve sterrato e un altro successivo tratto di asfalto, torniamo a rivedere il mare, se pur da lontano, perché la notte di nuvole è inframmezzata dalle luci di Budìr. A questo punto giriamo a destra (statale n.574) ed è uno sterrato morbido quello che ci accoglie. Percorriamo l’ultima ventina di chilometri per arrivare al villaggio di pescatori di Arnarstapi e di Hellnar, meta finale della tappa di oggi. Ha smesso di piovere e sono quasi le undici di sera quando entriamo in fattoria e salutiamo la gentile proprietaria, scusandoci per l’ora tarda. L’elegante signora parla un perfetto inglese e ci guida verso quella che sarà la nostra camera, quarta categoria, la migliore, squisita nel gusto, con una sottile impronta New Age. Affoghiamo letteralmente nelle provviste e in seguito in una doccia “senza giochetti di boiler”, per fortuna. Mentre Thomas entra nel mondo dei sogni io guardo per qualche minuto dalla finestra. Ombre azzurrine sembrano rincorrersi tra loro nello specchio di sereno riapparso. Qualcosa scintilla, lieve, come il respiro di un colore, lassù. Ne sono certa, è lui, il vulcano Snaefellsjòkull, la prima tappa del “Viaggio al centro della terra” di Giulio Verne. Mi addormento così, nel respiro di questo colore.

29 luglio, martedì : giro della penisola di Snaefellsnes (strada n. 574; strada n. 54; nuovamente strada n. 574), Km 86,5.

“Do not disturb” è quello che abbiamo messo affisso alla porta della camera, per cui ci svegliamo circa alle undici, tanto stravolti eravamo dalla sera prima. Consumata la colazione in camera con le provviste rimaste, usciamo a ispezionare la fattoria che è davvero bella, piuttosto grande, rivestita esternamente in legno e quindi deliziosamente rustica. Restiamo una mezz’ora a goderci il sole e il magnifico panorama sulla baia, seduti sulla veranda. Lo Snaefellsjòkull troneggia in tutta la sua maestosità, con la cima conica coperta di neve. Oggi lo potremo ammirare da ogni lato, poiché compiremo in auto l’intero giro della penisola. Benedetti ancora una volta dal Creatore, siamo travolti dall’azzurro limpidissimo del cielo, dal mare, dal verde brillante dei prati nei dintorni, dalle graziose casette che circondano il tutto, dagli incredibili ventiquattro gradi che ci fanno rimanere in maglietta, nonchè dalla grotta sottostante, chiamata Badstòfa, abitata da una miriade di uccelli. Mentre continuiamo ad essere stupefatti, ci sentiamo rivolgere la parola in italiano da una ragazza bruna e molto cordiale che piomba all’improvviso alle nostre spalle e ci informa subito di chiamarsi Graziella e di lavorare lì come cuoca! Questo è troppo! La ragazza sorride della nostra incredulità e ci racconta che si era innamorata dell’Islanda durante un viaggio con un gruppo di amici, e quindi aveva deciso che sarebbe tornata l’anno seguente per lavorare stagionalmente. Detto fatto. Laureata in russo e in inglese, Graziella viene dalla Sardegna (Thomas è al settimo cielo perché i suoi genitori sono sardi) e restiamo a conversare con lei una diecina di minuti. La ragazza ci dà informazioni importanti sul nostro tour odierno, dopodichè promettiamo di scambiarci l’indirizzo di posta elettronica l’indomani, quando purtroppo lasceremo questo posto incantevole. Iniziamo a camminare lungo un sentiero che in due chilometri e mezzo dovrebbe portarci verso il vicino villaggio di Arnarstapi, ma le condizioni critiche della mia schiena, risvegliatasi dopo due giorni di semi- inattività, mi fanno desistere neanche a metà strada. Mi riposo quindi fra l’erba, mentre un gruppo di altre persone ci sorpassa, diretti alla stessa méta. Thomas è un po’ contrariato e comunque è nel contempo felice di immortalare scorci bellissimi del sentiero che si insinua tra rocce e fiori gialli. Pian piano torniamo sui nostri passi, rientriamo un’oretta nella fattoria per fare uno spuntino, e quindi, verso le tre e mezza del pomeriggio, iniziamo il tour in auto. Giungiamo ad Arnarstàpi, la cui baia ci promettiamo di vedere meglio domani, quando passeremo di qui per andare a Reykjavik. Proseguiamo per Budìr che raggiungiamo diciannove chilometri dopo. Il villaggio, non più avvolto da nubi nere come la sera prima, si adagia con dolcezza su una sabbia dorata. Restiamo a lungo incantati a guardarci intorno, senza accorgerci del tempo che scorre. Una chiesetta, nerissima e con finestre bordate di bianco, si staglia in riva all’oceano. E’ l’unica cosa che non filmiamo perché solerti uomini la stanno ridipingendo, e quindi il silenzio, rotto solo dalla misteriosa musica del mare, non si presenta così poetico e completo come avevamo previsto. In compenso la natura allunga i suoi spazi infiniti nel campo lavico di Budìr, e perciò ci fotografiamo alcune volte, in diverse angolature, con lo sfondo dell’onnipresente vulcano che, a proposito, sarebbe un gran centro di “energia della terra”, secondo alcuni gruppi New Age. Più tardi imbocchiamo la strada n. 54, anch’essa percorsa ieri, che ora non pare affatto così inquietante. I raggi del sole mischiati all’azzurro persistente del cielo, che neppure una nuvola osa solcare, hanno modificato radicalmente il paesaggio. Dopo quattordici chilometri di buon sterrato misto ad asfalto arriviamo dalla parte opposta della penisola e stavolta giriamo a sinistra per raggiungere Olasfvik, fiorente villaggio di pescatori. La strada ora è la n. 574, asfaltata. Non c’è tempo per l’escursione che parte da qui per l’avvistamento delle balene, ma questo lo sapevamo in partenza. Ci fermiamo solo dal benzinaio e per cercare un po’ di provviste nel market accanto. Dopo altri nove chilometri eccoci ad Helissàndur. La troviamo quasi deserta, nonostante il bel tempo. Le abitazioni sono quasi tutte villette piuttosto carine, ma è la natura, qui, a regnare sovrana: a destra l’oceano, a sinistra il vulcano sempre incombente. Due chilometri oltre il villaggio si erge una stazione radar statunitense chiamata Loran, veramente imponente, mentre intorno non c’è veramente un’anima e si ha la sensazione di essere su qualche pianeta sconosciuto. Altri minuti trascorrono a giocare col silenzio, rotto solo dal vento che qui è impetuoso. Nella solitudine più assoluta scendiamo verso sud e io noto con gioia che la strada n. 574 non diventa sterrata, come indicava la cartina, ma è asfaltata (evidentemente gli Islandesi ci hanno lavorato di recente) e quindi il percorso sarà molto più agevole. Dopo un po’ è la volta di fermarsi ai crateri vulcanici di Hòlar – Hòlar, a centocinquantametri a destra dalla strada, e poco dopo un breve sterrato in buone condizioni scende verso la spiaggia nera di Djupalònssandur. Parcheggiamo e per magia troviamo presenza umana, perché un gruppo di persone stanno cenando fuori dal loro camper. Sono ormai le sette di sera, mi accorgo incredula, e percorriamo un tratto sassoso a piedi sino a questo posto che già abbiamo intuito da lontano essere fantastico. L’antinfiammatorio e l’antidolorifico preso mi permetteranno di camminare più di un’ora rimanendo inebetita di fronte a spettacolari faraglioni e a quattro grosse pietre sulla spiaggia sassosa che gli equipaggi dei pescherecci erano soliti far sollevare per “saggiare” la forza degli aspiranti pescatori (così dice la guida “Lonely Planet”). Percorriamo in seguito un dirupato promontorio arrivando alla spiaggia di Drìtvik, dove sono disseminati i resti di un peschereccio che naufragò nel 1948 e su diciannove occupanti solo cinque sopravvissero. Anche a distanza di tempo avrò un ricordo del paesaggio un po’ inquietante, sia per via di questa disgrazia, sia per la spiaggia nera, mischiata ai raggi di un sole che pare tramontare e lo fa invece solo molto dopo, inanellato alla luce azzurrina del lunghissimo crepuscolo. Intanto, tra soste e marce, sono passate ben due ore. Gioiosa di mostrare a Thomas che riesco a farcela, lo sorpasso inerpicandomi su un secondo promontorio, dove spero di poter vedere, in seguito, l’arco roccioso Gatklettur. Il cartello indica che manca solo un chilometro. Purtroppo non ci arriverò, perché il terreno è difficile, pieno di sassi aguzzi. Thomas mi raggiunge solo dopo un po’ e il suo viso non promette nulla di buono. Saprò in breve che mio marito non aveva nessuna intenzione di proseguire ma voleva fermarsi lungo le rovine del peschereccio. Il vento e la distanza non mi avevano permesso di capire se Thomas avesse udito la mia voce che lo incitava a proseguire. Il sole adesso è tramontato davvero e solo ora mi accorgo della mia incoscienza. Dovremo rifare tutta la strada senza soste, perché il crepuscolo dura a lungo, ma impedisce di vedere bene il percorso. Storcersi una caviglia sarebbe facilissimo. Arriviamo quindi all’auto che sono stremata e quindi mi scuso con mio marito perché mi accorgo di aver sbagliato e di essere stata poco prudente. Sono oltre le dieci quando arriviamo ad Hèllnar e quindi alla nostra fattoria. Abbiamo una fame da lupi ma prima occorre strigliarci ben bene sotto il caldo getto della doccia. Più tardi Thomas fatica a firmare alcune cartoline che ho scritto sul letto. Difatti di lì a poco crolla e anch’io sono esausta. Osservo ancora per un po’ il ghiacciaio dello Snaefellsjòkull che occhieggia, giocando con le ombre azzurre della notte. Mi trovo alle porte di un sogno chiamato Islanda, il cui eco ha il suono dell’oceano e del vento che solo qui sa cantare così. Il sogno scorre tra le dita, mi culla la mente. Il tempo si ferma, senza fare rumore. 30 luglio, mercoledì : Hellnar – Reykjavik (strada n. 574, n. 54 e n. 1 cioè la “Ring Road”, fattoria *******), circa Km 200. Una fetta di malinconia mi attanaglia, mentre chiudiamo i bagagli e li trasciniamo fuori dalla stanza. Sono circa le dieci e oggi stiamo per completare l’ultima porzione di cerchio del nostro tour. Sono convinta che anche Thomas abbia il mio stesso umore, mentre va a chiamare Graziella per salutarla. La abbracciamo, scrivendo sul mio notes la sua e mail. Anche lei ci dà il suo indirizzo di posta elettronica e aggiunge: “Trascorrerò l’autunno e tutto l’inverno ad Edimburgo, come l’anno scorso. Per la prossima estate non so ancora, forse torno qui, mi piace troppo. Sto imparando due vocaboli islandesi e un verbo al giorno. Fatemi sapere come state, mi raccomando”. Continuo a salutarla dal finestrino, mentre Thomas si porta sulla strada n. 574 alla volta di Arnarstàpi, per cui gira a destra. Qui facciamo benzina e io ingoio una tazza di the mentre Thomas gusta il kàffi, caffè lungo islandese. Poi ci prendiamo il tempo per inquadrare la graziosa piccola baia, illuminata da un magnifico sole (anche oggi!) che danza riflessi sull’acqua. Ripresa la marcia per Budìr, stavolta la sorpassiamo senza cambiare direzione e ci immettiamo sulla statale n. 54, diretti a Bòrgarnes. Lo sterrato è finito almeno per quest’anno! Naturalmente si procede più spediti e sarà questo, sarà il tepore della giornata e le notti di sonno non continuo e un po’ agitato..insomma, mi addormento sino a Végamot, cioè per poco meno di quaranta chilometri. Thomas quindi mi risveglia, facendomi notare che il luogo è in realtà solo un piccolissimo punto sulla cartina, neppure scritto sulla guida “Lonely Planet”. Però c’è un posto di ristoro, quindi ne approfittiamo per comprare le ultime provviste. La giornata luminosissima e serena ci permette di fare ulteriori foto alla penisola di Snaefellsnes che stiamo per lasciare. Mangiato un panino, riprendiamo il viaggio per Bòrgarnes, a cui giungeremo tra un’ottantina di chilometri. Qui speriamo di trovare qualche souvenir che sinora non abbiamo intravisto in nessun luogo (Forse avremmo scovato qualcosa ad Isafjordur se non ci fossero stati i contrattempi già menzionati). E’ il primo pomeriggio quando vi arriviamo e infatti acquistiamo qualcosa nel buon centro commerciale che comprende un grosso supermercato e un reparto per turisti, completo anche di libri e cartine. Appena prima di inoltrarci nella piccola cittadina di oltre 1200 abitanti avevamo salutato lo sterrato che giorni prima ci aveva condotti in una delle nostre fattorie. Ora invece imbocchiamo il ponte sul Borgarfjordur, direzione Akranes, e quindi paghiamo il pedaggio per il “tunnel delle balene”. Stessa strada dell’andata, diversi gli stati d’animo. Inizio intanto a studiare sulla cartina quali strade percorrere per arrivare alla fattoria di Reykjavik dove avevamo già pernottato giorni prima. Quando mi sembra di aver capito tutto o quasi, iniziano invece le complicazioni. Dalle quattro alle cinque e mezzo del pomeriggio restiamo aggrovigliati nei quartieri periferici. “Cercasi un GPS disperatamente per il prossimo viaggio!” ci diciamo all’unisono. Il fatto principale, comunque, è che le strade della periferia di Reykjavik non sono indicate da cartelli (strano ma vero!) e questo lo avevamo notato già giorni fa, quando eravamo arrivati dalla parte opposta, cioè da sud (aeroporto di Kéflavik). Parecchio spazientiti, ci rendiamo conto che l’impresa è titanica, perché più facile era stato entrare, l’anno scorso, dalla parte meridionale, perché avevamo prenotato in un hotel del centro città, non lontano dall’aeroporto dei voli domestici, e quindi avevamo potuto leggere le vie sui cartelli. Neanche alla fine del viaggio, quindi, avevamo avuto problemi ad indirizzarci verso l’aeroporto. Thomas alla fine prende in mano la situazione e chiama il proprietario della fattoria. Nonostante il suo inglese sia molto più fluente del mio e la sua capacità di comprensione più elevata, mio marito ammette poi di aver capito a fatica una tal via, poiché la perfetta pronuncia islandese dell’uomo non è precisamente uguale a come noi tentiamo di leggerla sulla carta. Il filo di Arianna teso dal proprietario della fattoria quindi non basta e consultiamo una ragazza che sta lavando la sua auto presso un benzinaio: “Andare sino al semaforo laggiù, girare a destra”. Infine ci siamo, abbiamo nelle mani il filo mancante! Per fortuna, a differenza di Teseo, non dovremo affrontare nessun Minotauro, ma ritroviamo semplicemente l’odore sulfureo dell’acqua della doccia. Ventisei gradi a Reykjavik sono davvero troppi! E pensare che una settimana fa qui c’erano solo otto gradi! Più tardi giriamo brevemente intorno alla fattoria per salutare l’ultima nostra serata in Islanda. Io invano cerco l’oca che avevo incontrato giorni prima, Thomas vede invece alcuni cavalli a cui lancia dei biscotti, suscitando negli animali una piccola rissa per il possesso di queste prelibatezze. Noi, invece, rifocillati a dovere con frutta e verdura , finiamo di scrivere le ultime cartoline. Solito rituale, sguardo prolungato alla finestra, malinconia acuta che si imprime in ogni poro dell’anima. Thomas dorme ma la sua espressione di poco prima era stata chiara. Neppure lui ha voglia di tornare. L’amore per l’Islanda, nato giusto un anno fa, è quasi un delirio che ci porteremo dietro in ogni istante dei giorni che seguiranno. Verrà in mente di colpo, nel caos più completo di nove classi di alunni che mi devo gestire, lieve carezza a lenire il mio stress. “Devo convincere Thomas a riportarmi qui per la terza volta” è il ritornello che mi ripeto sino a stordirmi. Cado infine dell’abbraccio della notte, chiara, senza vento. “Leopardi, vero?” mi chiedo. Poi affondo nel nulla. 31 luglio, giovedì : Reykjavik-Keflavik e volo per Londra (aeroporto di Heathrow). Tristissimi, usciamo non prima delle undici, perché il volo sarà nel tardo pomeriggio. Consegnamo l’auto all’aeroporto, l’Onda Jazz che tanto egregiamente ha fatto il suo dovere. Accarezzo furtivamente il cofano. Thomas se ne accorge ed annuisce in silenzio. L’attesa all’aeroporto è un po’ estenuante, anche se dal lato fisico non ho problemi perché mi stendo su una stuoia che porto sempre piegata nello zaino. Decolliamo col sole islandese che ci fa un’ultima carezza e lambisce un poco la nostra estrema malinconia. Ad Heathrow cambiamo poche sterline per gli eterni panini e prendiamo il rapido bus che ci conduce al Park Inn distante appena un chilometro. Purtroppo abbiamo dovuto attendere quasi un’ora per riavere le nostre valigie, quindi sono già le dieci di sera. La camera è più spettacolare di quella dell’andata e Thomas è in estasi, ammirando ogni cosa. Ne approfitto per fare per prima la doccia. Raddoppio la mia dose di farmaci antidolorifici, perché stavolta la schiena è davvero andata. Esorto dolcemente Thomas a spicciarsi perché domani avremo un volo piuttosto mattiniero. Comunque ha ragione lui: la camera è strepitosa. Un’ottima consolazione per chi, come noi, non si è concesso neppure un pasto al ristorante delle fattorie ( dai quaranta euro in su a testa). 1 agosto, venerdì : Londra Heathrow – Nizza + Km 60 sino a Sanremo(in autostrada). Ancora alle soglie del dormiveglia affronto le formalità doganali. Thomas è solerte a ricordarmi di cambiare le sterline. Il volo decolla con un po’ di ritardo e dopo due ore sbarchiamo a Nizza. Durante il viaggio ricordo un signore molto maleducato che a voce altissima enumerava alle hostess tutte le manchevolezze dell’aereo. Qualcosa ho capito, al limite mi son serviti quei momenti per sturarmi un po’ le orecchie riguardo al mio inglese che non ho mai avuto sinora il tempo di rispolverare. Per fortuna a Nizza è nuvolo, perché fa già abbastanza caldo. La cappa d’umidità che a Sanremo conosciamo bene ci avvolge da capo a piedi. Il corpo è sulla via del ritorno, ma il cuore ancora là, abbarbicato a qualche fiordo azzurro o blu cobalto o al limite a una spiaggia dorata! +++++++++++++ Diagnosticatami un’ernia che mi sono curata per due mesi e che ora è sotto controllo, ho deciso di strapazzarmi un po’ meno nei prossimi viaggi. I quattro interventi chirurgici precedenti in effetti non sono uno scherzo e il viaggio di quest’anno è stato più impegnativo di quello dell’anno scorso. Dopo un mesetto di comprensibile prostrazione psicologica, ho ripreso il mio buonumore e ho già abbozzato altre due puntate d’Islanda, diverse perché non si tratterà più di un circuito ma di scegliere al massimo tre fattorie e di pernottare almeno tre notti in ognuna, compiendo un itinerario circolare ogni volta. Il tutto sarà anche meno stressante per Thomas, che comunque rimane “ il mio Terminator”. Dove ho deciso di andare esattamente? Ma lungo i fiordi settentrionali, naturale! E poi perché trascurare, se Dio ce lo concederà, in una quinta puntata, l’arcipelago delle Vestmannaeyar, a sud, con un volo interno da Reykjavik di appena trenta minuti? Per convincere Thomas, che ha assicurato di non volerne sapere di andare nello stesso posto per tre volte di seguito, rispondo, come Rossella O’Hara nell’ultima battuta del mitico film “Via col vento”: – Dopotutto, domani è un altro giorno! – FINE



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