Il cuore rosso del Perù
“Non serve dare tutta la colpa a Fujimori e al suo compare Montesino. I nostri mali ce li siamo voluti noi e non riconoscerlo porterà altre disgrazie al popolo peruviano”. Le parole di Moises Simòn, barista di Arequipa, mi accompagnano durante il viaggio di ritorno Lima-Madrid Madrid-Roma, mentre riposo sulla scomoda poltrona dell’aereo...
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“Non serve dare tutta la colpa a Fujimori e al suo compare Montesino. I nostri mali ce li siamo voluti noi e non riconoscerlo porterà altre disgrazie al popolo peruviano”. Le parole di Moises Simòn, barista di Arequipa, mi accompagnano durante il viaggio di ritorno Lima-Madrid Madrid-Roma, mentre riposo sulla scomoda poltrona dell’aereo che mi riporterà a casa. So che ora avrò tutto il tempo per ripercorrere con immagini e pensieri questo viaggio di soli undici giorni in Perù. Quella frase sembra rappresentare l’eterno dilemma dei popoli sudamericani: popoli sfruttai o popoli deboli, inermi, senza volontà? E’ stata la prepotenza dei conquistadores a ridurli in questo stato, oppure la loro stessa indole non li avrebbe mai portati a nulla di buono? Iniziamo dal principio: aereoporto di Lima. Giusto il tempo di mettere piede in questa megalopoli e di respirarne l’aria sporca e soffocante e siamo di nuovo in viaggio per Nazca, a sud di Lima, vicino alla costa del Pacifico. Sul pullman mi guardo intorno per scorgere qualcosa che catturi la mia attenzione e plachi la mia eccitazione da inizio viaggio, ma vedo solo sabbia e rocce piatte; il finestrino, anzi tutti i finestrini del pullman, propongono lo stesso paesaggio, giallino e polveroso. Mi addormento. Stiamo andando a Nazca per un solo motivo, lo stesso di tutti i viaggiatori in Perù, le linee. Animali e figure geometriche gigantesche che sembrano disegnate dalla penna stilografica di Dio, perché solo Lui possa ammirarli. Infatti, a terra non ti accorgi di nulla, se non di inutili solchi nel terreno. Saliamo sull’aereoplanino, siamo in cinque con il pilota che ha la faccia tutta bruciata, brutto segno. Dopo mezz’ora di viaggio, ci urla nelle cuffie che sta per fare una virata a destra dove, sotto di noi, potremo ammirare la prima figura: il colibrì. Ma dove? Non riesco a vedere nulla, c’è troppo sole e fuori ogni cosa si confonde nella polvere del deserto. A un certo punto riesco a distinguere delle linee sottili, vicine le una alle altre, sembra un pettine. Allargo la visuale e mi rendo conto che il pettine in realtà è la coda di un uccello. Non faccio in tempo a capirlo e a sentirmi orgogliosa di “aver visto” che il pilota sta già virando dall’altra parte per permettere anche alla fila di sinistra di ammirare la figura. Inizio a sudare, e non poco. Rivoli di acqua salata mi scorrono sulle guance, resto immobile ruotando solo le pupille, ora a destra, ora a sinistra, per riuscire a vedere le altre figure, in tutto trentacinque! A terra c’è un piccolo ristoro dove puoi vedere in TV la storia delle linee di Nazca. Ci sono molte teorie sulla loro comparsa, mi colpisce la storia di una ricercatrice inglese, che visse a Nazca per ventisette anni, unicamente per studiare la genesi delle linee. Ogni giorno saliva su una torretta nel deserto o spiccava il volo con l’aereoplanino per osservarle. Poi, nella sua casa, rifletteva e scriveva possibili risposte alla loro esistenza. Nessuna le sembrò buona, fino a quando non formulò l’ipotesi degli extraterrestri. Quella degli uomini venuti dallo spazio non è che una delle tante supposizioni che ruotano intorno alle linee. C’è una teoria che le fa discendere da una civiltà preincaica che aveva voluto rappresentare in questo modo alcune costellazioni. Altri dicono che il loro significato sia legato all’agricoltura e che fossero di buon auspicio per i raccolti. Il nostro viaggio prosegue verso sud, saliamo fino a raggiungere Arequipa, a 2.325 metri, circondata da vette ancora più alte come El Misti a 5822 metri. Arequipa è una bella città con edifici dell’età coloniale costruiti con una roccia vulcanica, il sillar, che dà alla città una luce bianca simile al bagliore lunare. Ad Arequipa ci colpisce il “soroche”: il male d’altitudine. Lasciando Lima, che si trova a livello del mare, per salire all’interno verso la zona andina, si raggiungono vette molto alte, oltre i 5000 metri; a queste altezze l’aria si fa rarefatta, diminuisce l’ossigeno e l’organismo fatica a respirare: mal di testa, spossatezza, febbre e soprattutto un continuo stato di affaticamento. La vita rallenta, le giornate scorrono placide senza inutili accellerazioni; ci adattiamo subito e rimaniamo ad Arequipa quattro giorni, il soroche non ci permette di ripartire e la parola d’ordine è “acclimatarsi”. La notte di capodanno, le strade sono invase dagli Arequipenos, i clacson dei taxi continuano a strombazzare come sempre ma questa volta non danno fastidio. La tradizione vuole che si indossi qualcosa di giallo, il colore della festa: fiori, cappelli, scarpe, magliette, gialli come il sole e la musica peruviana è dappertutto, solare e gialla anche lei. Tutto si confonde: la musica, la testa che gira, i movimenti rallenntati; sembra di stare sulla luna, il bagliore è assordante. La mattina dopo, 1 gennaio 2001, siamo di nuovo in viaggio, il pullman si arrampica verso Puno, base di partenza per la gita di un giorno al lago Titicaca, il più alto lago navigabile del mondo, come recita la nostra guida. La febbre non ci abbandonerà più per tutto il viaggio, ma ci stiamo abituando a convivere con questo malessere che fa camminare sull’ovatta. A Puno arriviamo che è già buio, stremati andiamo subito a letto, domani mattina dobbiamo alzarci all’alba per la gita al lago. La mattina è perfetta, senza una nuvola fino all’orizzonte; con questa visibilità potremo vedere, oltre le rive del lago, le cime innevate. Sul battello siamo una ventina di turisti più due uomini dell’equipaggio e una guida. La vista ci lascia in silenzio per quasi tutto il tragitto, i colori sono netti, non si confondono mai, dove finisce uno, nell’esatto punto inizia l’altro, acqua, colline, cielo, sole: blu, verde, azzurro, giallo. Ci è stato detto che visiteremo alcune isole, ma quelle che vedo di fronte a me non sembrano isole, piuttosto zattere o case galleggianti; sono le “islas flotantes” della tribù degli Uros. Grandi come una piccola piazza di paese, le isole sono fatte di strati di canne intrecciate tra loro che, pian piano, marciscono a contatto con l’acqua e vengono sostituiti da nuovi strati in superficie. Capita a volte che un isola affondi, ma niente paura, nel frattempo gli Uros ne hanno costruito una nuova di zecca dove trasferirsi con le loro povere cose, fatte sempre di canne. Quando mettiamo piede su una delle isole galleggianti, ci sembra di camminare su un materasso ad acqua: i nostri passi affondano e bisogna stare attenti a non fermarsi troppo in un punto, soprattutto se ci sono altre persone intorno, perché si rischia di bucare l’isola e trovarsi con il piede a mollo. Anche le loro piccole barche sono fatte di canne e con queste gli Uros trasportano i turisti da un’isola all’altra e pescano: le loro uniche fonti di sostentamento. Sembra una finzione, ci viene il sospetto che ogni volta che una barca piena di turisti salpi dal porto, un’altra barca più veloce la preceda per allestire questo set da film d’avventura, per la gioia di occhi avidi di tipicità locali. Abbandoniamo il lago per raggiungere Cuzco e, nonostante la stanchezza e il soroche, siamo di nuovo eccitati come all’inizio del nostro viaggio. Ci stiamo avvicinando a Machu Pichu, la città perduta degli Incas, l’unica che rimase inespugnata, scoperta per errore nel 1911 dallo storico americano, Bingham, mentre era alla ricerca di Vilcabamba. L’eccezionalità delle sue rovine non è solo nella loro bellezza architettonica, nel buono stato di conservazione o nel mistero che le circonda, ma nel luogo che le ospita. Il paesaggio naturale che circonda il sito archeologico non può essere separato dalle rovine di Machu Pichu, è questa convivenza tra natura e storia che rende magnifica la vista e toglie il fiato. Circondata da vette innevate e valli, dove pascolano lama e alpaca, nuvole basse che sembrano nebbia avvolgono le antiche rocce. Ora capisco perché Machu Pichu sia stato scelto dai seguaci della New Age come luogo sacro e di culto. La guida che ci accompagna è una discendente della tribù dei Quecha e ce l’ha a morte con gli spagnoli ma anche con gli Incas. Racconta come il suo popolo sia passato da una dominazione all’altra, senza troppe differenze per loro: stesso trattamento e stesso odio. C’è in questa donna un profondo attaccamento alle sue origini e alla sua gente che mi commuove e mi fa domandare come mai una tale forza e una tale convinzione nei propri valori non sia stata sufficiente a questi popoli per ribellarsi, fatta eccezione per quei piccoli gruppi di guerriglieri che non sono mai riusciti a conquistarsi l’appoggio concreto dei campesinos. Il mio ultimo ricordo del Perù, prima di addormentarmi sulla scomoda poltrona dell’aereo, è una foto scattata dal trenino che ci portava da Cuzco a Machu Pichu, procedendo a zig zag per riuscire a scalare la montagna, troppo ripida. Case di fango, bambini colorati e una scritta su un muro, dentro un cuore rosso, “somos Perù”.