Il Brasile è la somma meravigliosa di ogni possibile contraddizione
Siamo entrati in quella somma di meravigliose contraddizioni che è il Brasile in punta di piedi, con la giusta dose di curiosità e un bagaglio leggero, pronto per poter riaccogliere tutto quello che questa terra avrebbe potuto offrirci. L’impatto con i colori, i sapori, i suoni, i paesaggi del Brasile è stato subito intenso: il rosso vivo della terra, il divario tra città e periferia, il gusto dei frutti esotici che accompagnava ogni nostro pasto, i lunghi becchi e i colori dei tucani e degli uccelli nel parco di Foz d’Iguacu, la potenza dell’acqua delle cascate… tutto ha avuto il sapore dell’inatteso e della sorpresa. Ma quello che colpisce di più è la splendida varietà dei volti che ti accolgono in Brasile, ogni sfumatura possibile di carnagione, colore degli occhi o dei capelli, “pelle di ebano di un padre indigeno e occhi smeraldo come il diamante”… come cantava Jovanotti ne “L’ombelico del mondo”. Forse è anche per questo motivo che in Brasile ti senti un po’a casa, mai fuori posto o straniero, perché in questo angolo del mondo davvero, in un modo o nell’altro, c’è spazio per tutti. Il Brasile è in fondo soprattutto questo, povertà e sofferenza ma anche bellezza e varietà di culture e colori, abbracci calorosi di sconosciuti, sguardi pieni di determinazione. Il nostro è un viaggio sicuramente insolito, non da turisti, e ci permette di toccare concretamente realtà che nessun documentario o guida turistica potranno mai raccontare: grazie alla mediazione delle sorelle francescane che ci accolgono possiamo infatti addentrarci in una riserva indios, conoscere la realtà dei “Sem terra”, incontrare realtà educative e di accoglienza che ogni giorno operano con progetti a forte valenza sociale e soprattutto muovere alcuni passi nella mondo disarmante delle favelas che circondano come una “corona di spine” la città di San Paolo. Conoscere questi luoghi significa però soprattutto incontrare decine di volti, persone, famiglie. È per questo che il Brasile ha per me innanzitutto gli occhi di Fernanda, che sin da bambina è stata costretta dalla mamma a prostituirsi e che oggi grazie alla Casa della Speranza di Apucarana gestita dalle sorelle cerca di ritrovare con tenerezza la sua innocenza e la sua fiducia nella vita e negli altri. Ma il Brasile è anche la fierezza di quella donna di 104 anni che con dignità aspetta ancora tenacemente di ottenere quello che è un suo diritto per il quale da decenni i “Sem Terra” lottano: un semplice pezzo di terra in cui vivere e lavorare. Oppure la dolcezza di una bimba nelle favelas alla quale chiedo di poter fare una fotografia e che si fa ritrarre formando un cuore con le sue manine. E poi lo sguardo ingenuo del “cow boy”, un giovane sofferente psichico accolto da un gruppo di giovani che hanno dato vita con generosità alla Casa della Provvidenza per l’accoglienza dei senza tetto, o il grido di Kelly: “desistir jamais” (arrendersi mai) e la sua grinta trascinante nel giocare a calcio, metafora di una vita in cui ha sempre dovuto lottare senza l’aiuto della sua famiglia per poter avere un po’di serenità. O il ritmo di Lucas, un bimbo che vive nelle favelas e balla la samba come se davvero avesse la musica nel sangue. Ma l’immagine più paradigmatica del Brasile è la scena alla quale abbiamo casualmente la fortuna di assistere nel centro di San Paolo. Uno spettacolo di capoeira, un’arte marziale tipica brasiliana che assomiglia a una danza, realizzato da una compagnia di giovani ragazzi disabili, con menomazioni fisiche gravi. In quel momento ho pensato che probabilmente il Brasile è soprattutto questo: persone capaci di partire dal loro dolore e dalla loro sofferenza per trasformarle in danza. Nel bagaglio che riporto a casa questo forse è l’insegnamento e il dono più bello che questa terra mi ha dato la possibilità di apprendere. E il piccolo servizio che abbiamo svolto, la fatica, il lavoro, le attività con i bimbi di strada non sono che poca cosa in confronto al tanto che abbiamo ricevuto. Al ritorno dal viaggio ciascuno di noi si porta a casa anche un semplice anello di legno, ricavato dalla noce di cocco. È l’anello di Tucum: un simbolo creato dagli schiavi e dagli indios per sancire con ufficialità i loro matrimoni pur non potendosi permettere gioielli e che oggi è diventato un segno di identificazione nel Brasile e non solo per tutti i credenti che affermano il proprio impegno per una Chiesa e un mondo in cui i diritti dei poveri siano riconosciuti e rispettati, segno di condivisione delle sofferenze degli indios, degli afro-americani, di tutti coloro che si trovano ai margini, impegno per la pace, la giustizia, il rispetto della terra e la solidarietà. Quel cerchietto di legno che portiamo al dito è allora forse anche il segno tangibile dell’impegno che ci siamo assunti con il Brasile e che siamo chiamati a onorare con senso di responsabilità e determinazione. Il dovere di non dimenticare quello che abbiamo visto, l’impegno a non rassegnarci alla sofferenza, a sospendere il giudizio nei confronti di chi vive in modo così differente dal nostro, ad assumere stili di vita e a compiere piccoli gesti concreti che esprimano la nostra solidarietà con chi vive in condizioni di disagio e con questo popolo che ha lasciato un segno così profondo nei nostri cuori e che merita, soprattutto per le nuove generazioni, di vedersi restituire sogni, desideri, aspirazioni.
Obrigada Brasil!