I suoni della vita

All'inizio è il rumore. Continuo, incessante, fatto di tante voci che si mischiano e si fondono secondo ricette mai uguali, dando vita ad una – apparentemente - disordinata cacofonia. Al primo impatto, l'orecchio non distingue le tante – quante: dieci, cento, mille? - voci. Poi, con il passare dei giorni, le diverse voci prendono vita,...
Scritto da: francocavalleri
i suoni della vita
Partenza il: 01/10/2008
Ritorno il: 13/10/2008
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
All’inizio è il rumore. Continuo, incessante, fatto di tante voci che si mischiano e si fondono secondo ricette mai uguali, dando vita ad una – apparentemente – disordinata cacofonia. Al primo impatto, l’orecchio non distingue le tante – quante: dieci, cento, mille? – voci. Poi, con il passare dei giorni, le diverse voci prendono vita, acquistano forma, tempo, ritmo. Come in una orchestra di tanti elementi, suonano ognuno la propria parte, apparentemente senza armonia, in realtà dando vita ad un insieme meraviglioso e armonico di suoni. Sono i suoni della vita, che ti accompagnano e ti conquistano. Sono i clacson delle auto. Ai Mongoli piace moltissimo suonarli. Abituati ai lunghi, profondi silenzi del loro immenso paese – grande 5 volte l’Italia, ma con soli 3 milioni di abitanti – cercano di riempire questo vuoto di suoni. Il fischiare continuo dei poliziotti addetti al traffico. In mezzo agli incroci, come una volta anche in Italia – ricordate i film di Alberto Sordi? – con lo stridio acuto e ritmato del fischietto e un bastone colorato nella mano dirigono il flusso di veicoli. Come direttori d’orchestra, danno voce ora a questo ora a quell’elemento del coro, alzano e abbassano il ritmo della musica, battono il tempo, fondendo mille voci in una sola. Non esiste un vero e proprio Codice della Strada, in Mongolia. I Mongoli guidano le automobili come una volta – in un tempo che non era ieri, ma solo stamattina – conducevano i cavalli. Dove c’è spazio per una macchina, ne mettono due. Dove ce ne possono stare due, eccone, tre. E poi quattro, cinque…Passano a destra, a sinistra, occupando ogni spazio, ogni metro quadro. E se la strada non c’è, la creano: passano per i campi, proprio come avrebbero fatto i loro progenitori, i cavalieri delle orde mongole che terrorizzarono Europa e Asia insieme. Una volta percorrevano i sentieri e le piste delle grandi pianure eurasiatiche su un cavallo; oggi sollevano la polvere dell’asfalto (poco, in realtà) e dello sterrato di Ulaanbaatar a bordo macchine mosse da motori che ne contano anche un centinaio alla volta. Ogni incrocio, un ammasso di motori e lamiere. Un urlare di clacson. Un fischiare di poliziotti. Eppure, gli incidenti sono rari. E ancora più rari i momenti di tensione tra autisti. I Mongoli sono aggressivi, ma mai violenti. È un’aggressività sana, la loro. Nasce da tensioni psicologiche arcaiche, dalla grande competitività che caratterizzava la loro vita fino a un paio di generazioni fa. La vita è sempre stata dura, per i Mongoli. È una popolazione molto giovane: il 40% ha meno di 18 anni. Giovane per tradizione e per necessità, perché il clima e le condizioni di vita non hanno mai consentito defaillance anche solo momentanee: il gelo dell’inverno non perdonava i deboli e i malati. Attraversare la strada è come una partita a scacchi. Tra te, pedone, e le auto, i pullman, i pick up, i furgoni, i camion, che sfrecciano davanti, dietro. Ti circondano, ti sfiorano, ti fanno sentire l’alito caldo dei loro motori sulla schiena e sulla faccia. Ma non ti toccano. Non ti senti mai realmente in pericolo. Una mossa dietro l’altra, attraversi anche le strade maggiori: Peace Avenue, Ikh Toiruu e Baga Toiruu, il Grande ed il Piccolo Anello, le tre strade che costituiscono l’asse portante di questa città. Quattro corsie piene di macchine, vecchie Nissan o Datsun talmente malmesse da essere del tutto irriconoscibili, o SUV nuovi di zecca, appena importati dal Giappone, dalla Corea, dall’India, dagli USA. In Italia, per acquistare un Hummer H2 6.2 V8 SUV Adventure – una specie di carrarmato con i penumatici al posto dei cingoli – servono più di settantamila euro. Sul piazzale dei Grandi Magazzini di Stato di Ulaanbaatar viene venduto a quarantamila. Si vendono anche altri SUV e macchine di lusso: Mercedes, Nissan, Honda, Mitsubishi, BMW, Audi, Chrysler, Cadillac. “Tutte macchine di seconda mano”, ti rispondono quando chiedi come facciano ad avere prezzi molto più bassi della media europea. Meglio non sottilizzare troppo sul reale significato di “seconda mano”. Quarantamila euro, per l’abitante medio di Ulaanbaatar, significano duecento mesi di stipendio. Almeno. Più di quindici anni di lavoro. Ma in Mongolia c’è una classe di nuovi ricchi che è veramente ricca. Dispone di un reddito elevato. Elevatissimo. E non sa dove e come spendere questi soldi. E allora li spende in automobili. Grosse. Potenti. Comode. Veri e propri salotti ambulanti. Macchine che non passano inosservate. Retaggio anche questo della desolazione del paesaggio della steppa e del Gobi, vuoto non solo di suoni ma anche di colori. E per farsi vedere, cosa c’è di meglio di un enorme ammasso di lamiere luccicanti sotto il suole infuocato dell’estate, in grado di percorrere le steppe e le piane del nord, dell’est e del sud del paese senza bisogno di strade, piste e neppure sentieri, sollevando nugoli di polvere al pari di una delle tante tempeste di sabbia che colpiscono il Paese?


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