I sette giorni del cappero

Reportage dal cuore del Mediterraneo I sette giorni del cappero Una classica domanda, che di norma è rivolta a chi fa frequenti viaggi all’estero, è: “Perché andare tanto lontano, senza prima aver visitato tutta l’Italia?” L’impulso stimolato da questa domanda, solitamente, si traduce in una risposta poco gentile:...
Scritto da: Jan Solo
i sette giorni del cappero
Partenza il: 15/06/2004
Ritorno il: 22/06/2004
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
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Reportage dal cuore del Mediterraneo I sette giorni del cappero Una classica domanda, che di norma è rivolta a chi fa frequenti viaggi all’estero, è: “Perché andare tanto lontano, senza prima aver visitato tutta l’Italia?” L’impulso stimolato da questa domanda, solitamente, si traduce in una risposta poco gentile: “Perché non farsi un cesto di fatti propri?” Però, la tua educazione, impartita da genitori severi ma giusti, t’impone un atteggiamento più diplomatico. Così, la risposta assume toni più levigati: “Gentile interlocutore, per vedere ogni angolo del nostro Bel Paese dovrei vivere, più o meno, 216 anni. Non disponendo di tante ferie, sono costretto, di volta in volta, a delle dolorose decisioni. Così, esploro un luogo o l’altro, del nostro martoriato pianeta, senza discriminazioni di carattere geopolitico.” (lo so, si tratta di una risposta piuttosto articolata. Anch’io avrei preferito un più sintetico: “Vaffanculo!”) Ed è così che quest’anno sono andato a Pantelleria, insieme ad un eterogeneo gruppo di amici, tutti mossi dal desiderio di staccare la spina. Del resto, una settimana a Pantelleria può bastare, al massimo, per staccare la spina. Volendo proprio esagerare, per prendere un po’ di colore. Tanto per rendere l’idea, la tonalità della mia livrea, prima della settimana a Pantelleria, indugiava sul grigio e declinava verso l’antracite scuro intorno alle borse degli occhi. Arcipelaghi di brufoli affollavano la mia schiena; eloquente monito da parte di un fegato esausto di pronto pizza, piadine, patatine fritte, colleghi, direttori, ausiliari del traffico e tasse. Da buoni cinque mesi, ogni volta che facevo il mio ingresso in azienda, la ragazza della reception mi diceva: “Che brutto aspetto che hai.” Smise di dirmelo quando le risposi: “Taci, sacco di concime!” Giacché sono in tema di confessioni, completiamo il quadro: faccio un lavoro che mi annoia a morte, sei giorni su sette; le mie faticosissime collaborazioni esterne (vano tentativo di scalata ai vertici della piccola sotto borghesia meneghina) hanno prodotto un salasso fiscale, due travasi di bile e un enorme bruciore di culo. Grazie a una dilazione in comode rate, il Ministero delle Finanze mi ha permesso di non percepire lo stipendio soltanto per i successivi tre mesi. Motivo per il quale, d’ora in avanti, invece di sprecare il mio tempo libero lavorando, me ne starò sbracato sul divano a seguire le televendite degli elettro stimolatori. In altre parole: non guadagno quanto vorrei, non faccio carriera, al lavoro mi mummifico le gonadi, non ho giorni liberi e ho la pressione alta (quasi 100 la minima). Queste erano le premesse del viaggio a Pantelleria.

IL DADO E’ TRATTO Vedendomi insofferente, emaciato e fisicamente provato, mia moglie Rosanna mi disse: “Andiamo a Pantelleria una settimana, così potremo staccare la spina.” “Staccare la spina?! Siamo al punto di dover spegnere le macchine? Questa è eutanasia!” “Mannò, sciocchino, è solo per rilassarsi un po’…” “Ah…” Incastrare le ferie con gli altri cinque partecipanti non fu un gioco da ragazzi. Quando il direttore mi concesse gli otto giorni che gli domandai – rigorosamente per interposta persona -, sottolineò il fatto come se mi avesse regalato una Ferrari fiammante: “Ho fatto il possibile per farti andare in vacanza. Divertiti.” “La ringrazio, direttore, non lo dimenticherò per tutti i giorni che mi restano da vivere. Anzi, chiamerò mio figlio con il suo nome, se me lo consente.” Fece di tutto per farmi sentire in colpa, e ci riuscì. In realtà avrei dovuto rammentargli che avevo già accumulato 60 giorni di ferie arretrate e che per contratto avrei dovuto rimanere a casa tre mesi e mezzo a partire dall’indomani. Purtroppo, mi ero trasformato da tempo in un omuncolo, tirapiedi e leccaculo (tra l’altro, per carattere, temo l’autorità. Mi sentirei in sudditanza anche con un’operatrice di call-center). Quindi lo ringraziai e gli promisi che se un giorno avesse voluto onorarci della sua visita, avrebbe potuto scaldarsi nel letto con mia sorella (sul modello esquimese).

Mia moglie faticò altrettanto, per ottenere i suoi micragnosi otto giorni, ma alla fine ce la fece e giunse per entrambi il momento di fare le valigie, tirare fuori dall’armadio le maschere da snorkeling e preparare l’olio abbronzante. IL VIAGGIO Aereo in orario, decollo perfetto, nessuna turbolenza. INTANTO 4.000 chilometri a Nord di Pantelleria, occhio e croce sulla bassa steppa siberiana, una corrente di non comune intensità, spingeva di gran carriera una perturbazione di rara portata verso Sud. Il tutto con una velocità ai limiti del doping. La Corrente del Golfo, umiliata da tanta veemenza, tipicamente sovietica, nicchiava placida sulle coste dell’Irlanda e se ne lavava gli scogli. Frattanto, un paio di mila chilometri più a Sud, l’Anticiclone delle Azzorre fabbricava incessantemente nuvoloni carichi di pioggia, lanciandoli come palle da bowling verso i birilli. Ogni birillo aveva un nome: Filicudi, Alicudi, Salina, Favignana, Lampedusa e… Pantelleria.

La bassa pressione che stazionava su tutta la parte centrale del Mediterraneo, avrebbe fatto il resto. In altre parole, avrebbe costituito il ricettacolo per tutto il troiaio meteorologico di almeno tre continenti. In pochi giorni, la bassa pressione, si sarebbe trasformata in alta pressione (almeno quanto la mia minima) e fu così che il fottuto anticiclone atlantico, aiutato dai freddi venti bolscevichi, fece strike. Tanto che i monsoni dello Sri Lanka e gli uragani del Pacifico dovettero mettersi sull’attenti ad applaudire.

Non lo sapevamo ancora, ma presto si sarebbe scatenata sulle nostre teste “LA TEMPESTA PERFETTA”. I COMPAGNI D’AVVENTURA Prima di proseguire, concedetemi un breve profilo del gruppo. Oltre al sottoscritto, ovvero uno dei più grandi umoristi di questo secolo, c’era Saro, un tipo creativo: regista televisivo, fotografo delle dive, ex operatore di guerra (durante l’assedio al dittatore Aidid, in Somalia, un proiettile sibilò vicino al suo lobo sinistro, terminando la corsa nelle chiappe del solito sfigato inviato della Reuter). Oggi vende case nel varesotto e al massimo rischia un controllo fiscale. Per il resto, tutte donne: di Alina e Rosy parleremo più avanti, il pericolo è il loro mestiere. Non infierirò su di loro, dal momento che già sono tifosissime del Verona e della Nazionale italiana di calcio. Mancava loro solo una vacanza mandata a culo dalla pioggia. Di mia moglie Rosanna non posso che parlare bene, ce l’ho in casa. Durante il viaggio a Pantelleria la soprannominammo “Mastro Panza”, dal momento che conteneva da cinque mesi il mio primogenito (futuro centravanti della Nazionale maggiore). Io vorrei chiamarlo Tommaso, ma a lei non piace (voi cosa suggerite?).

Con noi c’era anche Ilde, un tipo tranquillo e disponibile al dialogo, ma guai a parlarle male di Marco Masini. Infine, la Chicca: psicologa dell’età evolutiva, ha trascorso il 95 per cento della sua vacanza a spedire messaggi e a chattare con il suo videofonino d’ottava generazione. Si è accorta di essere stata a Pantelleria una volta tornata a casa, guardando le foto. Oggi lavora al Manicomio Criminale di Castiglione delle Stiviere e quando le domandai per quale motivo stesse tanto tempo ad interagire con quel cellulare, mi rispose: “Cosa vuoi, è più lucido di tutti i miei pazienti messi insieme”. Nel complesso, un buon gruppo, pantescamente affiatato e armonizzato dalla condivisa inclinazione all’etilismo (al termine della vacanza contammo 189 bottiglie scolate, senza contare i cicchetti di Ballantine’s).

IL DAMMUSO Costosetto, ma meraviglioso. E’ il Dammuso, classica costruzione pantesca: pietre a vista, tetti bianchi, giardini fioriti, gazebo, barbecue, stanze dipinte, due gatti impiccioni. La vista della nostra dimora ci fece tornare un sorriso completo. Quello che s’era leggermente increspato, pochi istanti prima, alla vista di due piccole e banali nuvolette che spuntavano “innocue” a Sud-Ovest. Ognuno prese possesso della sua stanza e subito pianificammo le esperienze del pomeriggio. Con i due scooter e la Panda, ci mettemmo presto di buzzo buono. Per inciso, gran macchina la vecchia Panda. Gli americani ne avrebbero fatto un mito, proprio per il suo modo di essere: spartano, essenziale, ma al tempo stesso potente e agile. Noi italiani, al contrario, l’abbiamo cestinata, facendone la classica utilitaria superfiga da città. E poi ci stupiamo se la General Motors lo mette in quel posto alla Fiat.

L’ampio tour geografico che facemmo quel giorno ci lasciò senza parole: montagne, altipiani, pianure, ripide discese a mare; piantagioni di Zibibbo, cespugli di capperi, pietre laviche e mare di un blu intenso. Tranne che per l’immensità del Mediterraneo, tutto era in miniatura, raccolto in 80 chilometri quadrati di superficie. Pantelleria, uno spettacolo della natura. Un’isola da mille e una notte. Almeno quanto il “Donna Fugata” che sorseggiammo la sera stessa, di fronte al fuoco acceso e ad una variegata grigliata di pesce. Intanto, canti stonati da vacanzieri – stanchi, ubriachi, ma felici – si levavano fino al cielo, dove le stelle cadenti disegnavano fugaci traiettorie. Ed ognuno di noi espresse il suo desiderio: “Dopo un anno di lavoro, non chiedo altro che una bella settimana di sole.” URAGANO Per dare l’idea di cosa avvenne nei giorni seguenti, mi basta ricordare la frase del nostro anziano ortolano. Un tipo vecchio stampo, con un garage pieno di frutta e verdura, non distante dal nostro Dammuso, che ci riforniva di zucchine mai assaporate prima: “In sessant’anni che vivo qui a Pantelleria – disse – non ho mai visto un tempo del genere”.

Dopo due giorni bigi e con poco sole, infatti, si scatenò l’inferno. Tre giorni interi con: lampi, tuoni, saette, acqua a catinelle, vento. Un delirio. Sigillati nel Dammuso, ognuno di noi ebbe il tempo di leggere un paio di libri, fare 100 partite a carte, dormire, mangiare, cagare, lettere e testamento. Una sorta di casa del Grande Fratello, con sette cavie da laboratorio, ognuna (come direbbe Vasco Rossi) immersa nei suoi pensieri.

Da parte mia, trattandosi di una vacanza, tentai di non pensare alle solite cose della vita quotidiana. Così, se a Milano mi capitava spesso di farmi aggredire da pensieri orrendi, tipo le tasse, le bollette, la luce, le multe e il lavoro, dentro al Dammuso del Grande Fratello, durante i giorni di acquazzoni, potei concentrarmi su altro. In pratica, su: tasse, bollette, luce, multe e lavoro, più i 1.600 euro cacciati per trovarmi in quella situazione (oltre tre milioni delle decrepite lire. In altri termini: tre pali). Stordito dall’emorragia finanziaria, schiacciato da un’economia domestica al limite del collasso – nemmeno il mio commercialista fosse Tremonti – e ormai senza quasi più polso, reagii da par mio. Presi il coraggio a due mani, andai da mia moglie nella stanza delle carte e ruppi gli indugi: “Cara, cheddiamine, siamo in vacanza… Fanculo, questa sera ARAGOSTA!” Il conto fu di 75 euro a testa. La reazione di Saro fu diversa. Durante gli strali del maltempo, maturò l’idea di acquistare un Dammuso. Per lui si trasformò in una sorta di chiodo fisso, quasi un sogno. Fu quindi assai mortificante la notizia che il nostro ortolano, giunto a controllare se eravamo ancora vivi, gli diede tra capo e collo, senza giri di parole: “Quanto costa un Dammuso? Beh… si parte da 5.000 euro al metro quadro.” Per Saro, il sogno del Dammuso s’infranse. Di contro, prese corpo l’idea di un attico da 400 metri quadrati, in Piazza San Babila a Milano. Sarebbe costato meno.

Strani pensieri balenarono nella mente di Saro in quei giorni. E non poteva essere altrimenti, dato che alloggiava, da solo, nella dependance del Dammuso, e che gli avevo ricordato che in ogni film horror che si rispetti (tipo Venerdì 13), il primo ad essere squartato vivo è proprio lo sfigato della dependance. A maggior ragione se non si ha sottomano un inviato della Reuter da dare in pasto, in tua vece, al Freddy Kruger di turno.

Di certo, gli dissi, ci saremmo accorti di lui a decomposizione già abbondantemente avviata. L’ISOLA DEI VIP Pantelleria è anche considerata l’isola delle celebrità. Lo avevamo già immaginato, una volta interiorizzato il valore di un singolo Dammuso, e il villano ce lo confermò. Dopo aver affossato il morale di Saro, infatti, l’ortolano aggiunse che dalle nostre parti c’erano anche i dammusi di Sting, Armani e Paola Barale. Fu così che, una volta salutato il mezzadro, attendemmo l’uscita di un flebile raggio sole, lambiccandoci su quanti dischi aveva dovuto vendere Sting per poterselo permettere. Non solo, ci domandammo anche quanti vestiti aveva dovuto inventare Armani per poterlo acquistare. Infine, ci chiedemmo, una come Paola Barale, quanti… PERICOLI E CONTRATTEMPI Alcuni disguidi furono causati esclusivamente da noi stessi, senza che vi fossero responsabilità specifiche da parte dell’isola. Le classiche imprudenze da villeggianti. Altre insidie risiedono, invece, nelle particolarità orografiche e geografiche dell’isola. Cominciando dalle prime, direi che i momenti di massima tensione furono sostanzialmente due, anzi tre: 1) Il ruzzolone dagli scogli di Cala Tramontana di Alina, abile ad attutire la caduta con zigomo sinistro, mandibola e natica destra (per inciso, le possibili conseguenze di quella grattugiata su pietra lavica frastagliata, ci impedirono di fare quello che sarebbe stato giusto fare: una sonora ghignata). Abrasioni multiple e una contusione al polso, le conseguenze.

2) Il mio penoso tentativo di risalita dal mare alla roccia, nelle vicinanze del Club Nautico La Vela (zona Scauri). Ogni volta che sembrava fatta, un’onda mi riportava inesorabilmente in pieno marasma. E così per svariati giri di chiglia. Una volta salito, tentai di camuffare la sfiorata tragedia con un brillante “Voilà!”, ma non ci cascò nessuno. Qualche escoriazione e tanta paura, le conseguenze. 3) Per tutta la vacanza incombette su di noi un pericolo subdolo: fu la leadership del gruppo, imprudentemente affidata all’amica Rosy. Ebbene, durante la vacanza smarrì la sua patente, mise una bottiglia di vino bianco in freezer, facendola esplodere, e incorse in altre svariate malefatte. In poche parole, capimmo che perdeva colpi (vuoi l’età, vuoi le numerose cadute sugli sci). In futuro, prima di affidarle nuovamente incarichi di responsabilità, dovremo pensarci attentamente. Comunque, per ciò che è fatto, nessuna conseguenza.

I pericoli insiti nell’Isola di Pantelleria, riguardano principalmente il mare, magnifico e maligno al tempo stesso. Forti correnti hanno già trascinato turisti in materassino sulle coste della Tunisia. Mentre altri, attratti dalle numerose grotte che si affacciano sul mare, si sono fatti sorprendere, sulle loro piccole imbarcazioni, da improvvise mareggiate. Visitandone alcune, guidati da capitani esperti, si possono apprezzare gruppi di svizzeri stampati come graffiti rupestri sulle pareti o sui soffitti delle caverne. Tanto che viene da domandarsi come abbiano potuto, degli svizzeri, vincere l’America’s Cup. Particolare attenzione va poi riservata all’acqua. A metà giugno, il mare che bagna Pantelleria è costituito da calippi sciolti. Le classiche due ore, da interporre tra un abbondante pasto e il bagno, sono dunque da rivedere. Vista la temperatura, il mio suggerimento è di attendere circa nove ore. In più, occhio al sole: quando esce, picchia di brutto. E se una brezza rigenerante di grecale ti fa credere di essere al riparo dal rischio scottatura, è la volta buona che ti ritrovi come un bonzo indiano in tempi di dominazione inglese: incenerito.

Infine, il cibo: ec-ce-zio-na-le. Le materie prime sono pervase da un gusto sublime. Con un cappero ci si potrebbe condire un capodoglio, tanto è saporito. Per non parlare di pesce, zucchine, pomodori ed altre meraviglie della terra. Attenzione, però. Molti piatti sono completamente ricolmi di aglio. In particolare, i buonissimi spaghetti al “Pesto Pantesco”. Ebbene, sappiate che l’aglio migliora la circolazione: quella del sangue, nelle tue vene, e quella di chi ti sta vicino, altrove. Praticamente, diventa pantesco anche l’alito. Quindi, in caso di gita romantica, limitatevi a un fritto misto.

A NOI! Si sa, quando si attracca su di un’isola, si approda anche in un mondo a parte. Isolato, per l’appunto. E in quest’ottica, Pantelleria non fa eccezione. Anzi. Ce ne accorgemmo un pomeriggio, all’interno di una spartana locanda di Tracino, minuscolo centro nell’entroterra dell’isola. Ovunque ci voltassimo si stagliavano le sue possenti mandibole, volitive e fiere. Su ogni parete, grandi manifesti, quadri e calendari che lo rappresentavano, ora in compagnia di Galeazzo Ciano, ora con il vecchio Ras isolano, ora seduto ad un bar, impegnato in una cordiale conversazione con Gabriele D’Annunzio. Entrambi intenti a sorseggiare un Campari. Ebbene si, sto parlando di lui, dell’uomo della provvidenza: il Duce! “Ah… quando c’era lui – ci disse l’oste -. Altroché, miseria. Ci ha costruito l’aeroporto, ha portato le scuole, gli ospedali. Aaahh… quando c’era lui.” Il giorno stesso ci recammo a Pantelleria, per acquistare costine e braciole per il barbecue. All’interno della macelleria, ancora una volta: le sue mani ai fianchi, le sue spalle erette, il suo sguardo fisso verso l’avvenire. Gigantografie di Mussolini ovunque ti voltassi: ora su un vecchio Caproni con Italo Balbo, ora su una fiammante Alfa con Tazio Nuvolari, ora in rassegna ad un impeccabile plotone di balilla. “Ah… quando c’era lui – ci confidò il macellaio -. Altroché, miseria. Ci ha costruito l’aeroporto, ha portato le scuole, gli ospedali. Aaahh… quando c’era lui.” Il tempo sembrava essersi fermato. Come se 60 anni di traballante democrazia all’italiana e due repubbliche, più o meno associabili a frutti oblunghi dalla buccia gialla, non fossero mai esistite. Gli anziani dell’isola erano tutti irrimediabilmente nostalgici dei bei tempi andati. Di quando c’era Lui. Nessuno fece riferimenti alla puntualità dei treni, ma soltanto perché a Pantelleria non esiste la ferrovia. Probabilmente, gli avessero fatto fare un altro Ventennio, il Duce avrebbe portato a Pantelleria anche il Pendolino. Si doveva soltanto farlo lavorare.

Certo, lì su due piedi, avrei potuto obiettare che il buon Benito Mussolini, avendo insediato a Pantelleria il suo avamposto militare nel Mediterraneo, la espose al successivo bombardamento alleato. Una festa pirotecnica in grande stile, che rase completamente al suolo città e dintorni (sul modello Dresda). Ma perché fare il sottile con quelle brave persone, tutto sommato non potevo nemmeno dar loro tutti i torti. In fondo, bisogna riconoscerlo, Benito Mussolini aveva un senso del pluralismo di gran lunga superiore al nostro attuale Presidente del Consiglio.

IL VIAGGIO DI RITORNO Aereo in sensibile ritardo, decollo perfetto, qualche turbolenza.

CONCLUSIONE Mentre vi racconto questi sette giorni del cappero, sono tornato alla mia vita di tutti i giorni. In questo preciso istante mi trovo nell’enorme Palazzo del Catasto, a Milano. Forse è per questo che mi sono venuti in mente gli anziani del Littorio, in quel di Pantelleria. Il palazzo mi ricorda, non foss’altro per la sua imponenza, qualcosa di stile Impero. Ma non è detto che a rievocare la mia gita nel Mediterraneo sia un’involontaria associazione mentale: a Pantelleria l’ultimo piano regolatore risale al 1946, mentre a Milano mi fanno le pulci su un bilocale da 50 metri quadrati. Piccola digressione.

Per rendere l’idea di cosa sia l’abusivismo edilizio nella città di Pantelleria mi sarà sufficiente relazionarvi su un orrendo palazzo anni 60, alto sette piani, eretto ad un metro esatto dal castello. L’unica porzione di antiche fortificazioni rimasta in piedi dopo il bombardamento alleato. Quando parlammo al nostro fruttivendolo di quell’obbrobrio, lui ci rispose: “Già, è veramente terribile. Come è possibile, dico io, farlo verde!” Questo significa che l’abusivismo, qualsiasi esso sia, è soprattutto una forma mentale. E che ce ne dovremmo ricordare sempre, in particolar modo quando si va a votare.

Ma torniamo alla ambasce di questa mattina. Mi trovo qui, nell’immensa sala sportelli del catasto, per ottenere la visura catastale del mio immobile, necessaria al pagamento dell’ICI (non c’è che dire, sono un tipo che se la spassa). Mi guardo intorno. Sono smarrito. La coda più ridotta è composta di 73 persone. Altrettante giacciono, inerti, davanti ad un’asettica macchina al centro esatto della sala. Ed è nel momento in cui fisso quello strano marchingegno, che un signore mi fa: “Guardi che prima di fare questa fila, deve fare quella. Serve per ritirare il biglietto che le permetterà di mettersi in coda qui.” “Vuole dire che devo fare una coda per mettermi in coda?” “Esattamente.” “La coda della coda?” “Già.” Vacillo incredulo verso la coda srotolata dinnanzi al Totem, come lo chiamano loro, e mi metto ad aspettare. In venti minuti non faccio un passo avanti. La fila è cristallizzata. La controparte meccanica scoraggia qualsivoglia invettiva. Così, tutti se ne stanno inerti, nella speranza che il marchingegno emetta un suono. Esausto per la lunga attesa (durante la quale vi ho raccontato questa storia su Pantelleria), prendo nuovamente il toro per le corna, passo avanti e raggiungo la prima signora della fila.

“Scusi signora – le faccio -, la macchina ci da dei segnali? Intendo, segni di vita.” “In che senso.” “Ci offre delle speranze? E’, oppure no, come l’Oracolo che ha sede in Delfi, che non dice, non cela, ma fa cenni?” “Beh, si, qualcosa c’è scritto… C’è scritto che è esaurito.” “E’ esaurito?! Lui?! A chi lo dice…” Incredibile. Il Totem è esaurito. Povero Totem, tutto il giorno lì, al catasto. Non si può certo biasimarlo. Sapete cosa vi dico? Mi sa che anche il Totem ha bisogno di staccare la spina. Quasi quasi, la prossima volta che vado in vacanza, lo porto con me.

Antonio Voceri (anvoceri@tin.It)



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