Hong Kong, il mio passaporto per la Cina

Il mio viaggio a Hong Kong, da sola, a ridosso del capodanno cinese. Laggiù ho davvero respirato l'aria dell'Estremo Oriente... sensazioni ed emozioni indimenticabili
Scritto da: Ferrari Lara
hong kong, il mio passaporto per la cina
Partenza il: 01/01/2009
Ritorno il: 12/01/2009
Viaggiatori: 1
Spesa: 1000 €
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Anche se la visione di Hong Kong, e in particolare del quartiere di Kowloon, che emerge dal film “Contagion” di Steven Soderbergh che ho appena visto al cinema, mi ha steso per la terribile rappresentazione dei sintomi della Suina, la famigerata A H1N1, allo stesso tempo mi ha riportato alla mente e al cuore lo straordinario viaggio, autentico sbarco in Cina meridionale, fatto nel gennaio 2009 con destinazione proprio Hong Kong e Macau. Prima volta nell’Impero Celeste, emozionatissima e anche un po’ intimorita e perché no, con qualche pregiudizio in attesa di essere sfatato. Era quasi primavera laggiù, io mi accingevo a raggiungere un mio carissimo amico, Stefano, che si vede in foto. Prendo un volo Virgin Pacific e so in coscienza che da quel momento nulla sarà più come prima. Quella traversata oceanica, intercontinentale e planetaria infatti ha avuto un po’ il sapore della perdita dell’innocenza nella mia vita. Io e Stefano, che proveniva dall’Australia e stava tornando a casa, ci eravamo dati appuntamento a Macau, ex colonia portoghese, alle 12 allo Starbucks di Largo do Senato. Primo approdo, Kuala Lumpur per lui, la grande città cinese per me. L’atterraggio a Hong Kong è morbido e colmo di promesse. Un universo da scoprire, fatto di ideogrammi cinesi che solo parzialmente avevano accanto la traduzione inglese e le cerimonie dei locali, comunque guardinghi nei confronti dei turisti e con un comportamento che oscilla tra il rassegnato e l’operoso.

Sono sempre indaffaratissimi i cinesi e reggono sporte e carichi faticosi da portare. In tutti i sensi. Venditori ambulanti, hostess, galoppini di hotel, ristoranti e centri massaggi, ma anche perdigiorno che ti fermano e ti bersagliano di domande in mezzo alla via… questa è la variegata fauna nella quale ci si imbatte sulle strade di Kowloon, vicino a Salisbury Road… all’altezza delle Chungking Mansions. Qui alloggiava il mio amico durante il soggiorno a Hong Kong. Lungo Nathan Road si svolgeva la maggiorparte della vita a downtown, mentre i businessmen prediligono l’altra parte della strepitosa, immensa baia hongkonghese, il Financial District, nel quale si trovano alcuni degli svettanti e ripidi grattacieli che costellano la megalopoli, come la sede centrale della Hsbc e la Bank of China Tower. Io non lo sapevo, ma attualmente Hong Kong conta 38 milioni di abitanti. E non immaginavo nemmeno che il cinese tipo potesse essere vanitoso o attento al proprio aspetto. Avevo la mente ottenebrata da tutti quei facili preconcetti che circolano sulla popolazione: solamente dedita al lavoro.

In un palazzo anonimo nel quartiere a luci rosse sorgeva il mio hotel, pieno di americani. Eravamo dopo Tsim sha sui. Stanza terribile, odore di fogna risaliva dal bagno, minuscolo e respingente, in compenso la camera era un quadratino alla bisogna, che mi faceva dubitare assai sul rispetto delle norme igieniche. L’unica nota lieta era al mattino, quando dalla mia finestra potevo scorgere i vecchietti fare Tai-chi. Durante la mia permanenza nella regione speciale della Repubblica Popolare cinese incontrerò Vianna, mia grande amica, e Phoenix, il suo allora fidanzato. Devo a lei la scoperta, il primo giorno, dello spettacolare osservatorio di Hong Kong, perso lassù, in mezzo alla nebbia che si alza nel primo pomeriggio a coprire tutta la baia, tagliando a metà i palazzi di vetro. Da quella particolare prospettiva scoprirò la città delle mille tentazioni, dove i cinesi dei paesini vengono desiderosi di vivere come un occidentale.

I Re Magi sul grande baldacchino arancione posto nella piazza centrale di Macau lasciano il passo all’orribile hotel – casinò Lisboa, crocevia dell’azzardo in questa oasi di piacere meridionale. Sulla baia di Hong Kong, all’arrivo di sera, domina un galeone rosso, ora ristorante di lusso per turisti. Stefano si diverte a mettersi in posa accanto a una gigantografia di Doraemon, poi mi trascina in mezzo a un vicolo dove i piccioni fanno a gara con le macchine lanciandosi a perdifiato lungo la discesa, sollevando un gran polverone di piume e sporcizia. Ci ritroviamo a un lato della strada, dove un ambulante vende i frutti “draghi rossi” e io ne addento uno, golosamente. Il giorno che Vianna mi fa scoprire la bellezza di Hong Kong siamo sulla filovia, ma per conoscerla meglio siamo invitati, io e Stefano, nella sua casa nei New Territories. Ci arriviamo dopo un avventuroso viaggio a bordo di un double-decker e la vediamo addobbata a festa, in attesa del Capodanno. Piccoli altari votivi con ceri rossi e statuette precedono l’ingresso nelle stanze, la cena è servita dalla mamma di Vianna, una signora tenerissima, che fa abbondante uso di vivande fra cui gamberoni, palle di pesce e ortaggi. Le verdure sono protagoniste anche dei pupazzi, come mostra il ravanello gigante con faccina disegnata sul fusto che ci accoglie sul divano. Una foto souvenir è d’obbligo! In Cina, come nel vicino Giappone, vanno pazzi per i personaggi dei fumetti, da Hello Kitty a Dragonball trionfano su t-shirt, accessori e manifesti e le bambine fanno a gara a indossare le loro icone. Bellissima la locandina di “Ponyo”, il film di Hayao Miyazaki di imminente uscita nelle sale cinesi.

Una delle prime sere in un quartiere caratteristico della città Vianna e Phoenix mi portano a cenare all’aperto, in mezzo alla via, tra bancarelle di pesce, ortaggi e chincaglieria elettrica. Il ricordo è sfacciato, un pugno nello stomaco e indimenticabile. Gli odori e le maniere ti mettono ko, dita nere di olio bollente si allungano a trascinare piatti ricolmi di vongole mentre turisti si accomodano su seggiolone traballanti. Dagli usci delle case si affacciano massaie rapide e attente a prendere le ordinazioni della sera. Si tratta di una festa molto sentita nella Hong Kong popolare, ogni famiglia della porta accanto cucina qualcosa e allestisce tavolini di ristoranti improvvisati. Sono titubante, devo ammetterlo, i miei amici se ne accorgono e io non so come levarli dall’imbarazzo. Alba di un nuovo giorno, altro scenario.

Attraverso il mare con il traghetto e scopro la loro “walk of fame”: Bruce Lee e Wong Kar-Wai, prima di ributtarmi nell’arteria di traffico principale, verso gli East Territories e Prince Edward. La sensazione di essere un puntino in un formicaio aumenta passo dopo passo, non c’è caldo, siamo a ridosso del Capodanno cinese, ma l’umidità si fa sentire, l’aria è un lenzuolo reso sozzo dall’inquinamento, il cielo ha il colore del cemento, le gambe sfrecciano veloci accanto alle tue, risate e parlate frenetiche ti attraversano i timpani, insegne enormi pendono dal cielo in mezzo alla strada, c’è poco spazio per pensare, per respirare. Mi sento a un tratto debolissima. A Prince Edward mi fermo per la colazione, scelgo un locale non turistico. Sento gli sguardi su di me, straniera, capitata lì per caso. E’ lì che avviene il passaggio: occidentale certo, ma non più solo quello, anche se lontana anni luce dalla cultura orientale. Mi avvicino alle ChungKing Mansions. Ma che razza di posto è? Premesso che è impossibile rendere l’idea da lontano o per allegorie, leggo dalla mia guida: “Questa serie di squallidi ostelli, dormitori e cinema di terz’ordine in mezzo allo sfavillio di Nathan Road è diventata negli anni spunto di leggende, resistendo a reiterati tentativi di demolizione. I tre piani inferiori ospitano negozi di tessuti, fast food e loschi noleggi di video. Non è difficile incappare in un tossicodipendente svenuto in mezzo ai ratti o in insidiosi cavi elettrici scoperti. Nel 1994 Wong Kar-wai vi ha ambientato il film Hong Kong Express. Chi intende farsi un’idea del luogo, dovrebbe cenare in uno dei tanti ristoranti indiani …” Di mio aggiungo che il via vai a pian terreno è frenetico compulsivo, la gente – indiani, pakistani, ghanesi, nepalesi, afgani – cammina così veloce, o al contrario così lentamente da venirti addosso, ma mai sui piedi… ad ogni angolo un chioschetto di cibi fritti, salse curry, carne che sfrigola sulla graticola, intorno a te venditori di tappeti, commessi di negozi di apparecchi elettrici – ma quanti sono?!? – impiegati ai banchi per il Change, tutti quanti accomunati da un’unica caratteristica: l’imperturbabilità. O peggio, il sarcasmo. La mia inadeguatezza è palese, così come quella di americani, tedeschi e inglesi, sottolineata di continuo e fors’anche involontariamente dalla diffidenza orientale. L’ascensore che conduce alle guest house (ce ne sono vari), è un piccolo cubo che costringe alla convivenza i gruppi più eterogenei di persone per una quindicina di piani almeno. Le file davanti alle porte, rigorosamente “indiane”, si prolungano fino al pian terreno, quello adibito al commercio, in compenso una volta in cabina si attende che arrivi il proprio turno pazientemente, e il viaggio può durare parecchie salite e discese.

Gli ingressi delle house non si trovano sempre al piano desiderato, ma vi si accede attraverso scalette interne che si aprono su piani mezzanini e cunicoli inattesi. Lo spettacolo dalle finestre sul cortile interno è impressionante: le vite di centinaia di nuclei famigliari entrano di prepotenza nella propria attraverso le scene abituali dei pasti, dei salotti, dei saluti, a cui si assiste semplicemente affacciandosi. Filari lunghissimi di stenditoi, uno per almeno tre famiglie, scendono vertiginosamente da un piano all’altro. Fuori lo scenario non è meno inquietante. Sul muro delle Mansions, dove ha preso dimora Stefano, che danno sul vicolo, micro capsule e condizionatori corrispondenti ad altrettanti flat ci danno l’idea della situazione residenziale congestionata all’interno. Fantasia, incubo? No realtà, ma così seducente agli occhi di un regista come Wong Kar – wai, e chissà quanti altri dopo di lui. Sembra una lotta continua per la vita. Sì, la Cina è un altro mondo davvero.

Una delle esperienze gastronomiche e sensoriali che ci capiterà di vivere a Hong Kong è il Dim Sum, equivalente del nostro pranzo domenicale, che qui viene di preferenza vissuto nelle grandi sale degli alberghi, imbandite per l’occasione. Sono i “locali” Vianna e Phoenix a fare da cerimonieri, introducendo me e Stefano all’arte di questi piatti esotici: all’interno delle scodelle roventi, collocate dentro recipienti di legno circolari, ecco una varietà infinita di palline di carne e verdura, oltre che di pesce, spesso chiuse in involucri di spuma bianca e salsa marrone. Ci avviciniamo all’ultimo giorno, Phoenix mi presta la sua Playstation handle per sfidarlo in qualche partita che ha già il sapore dell’arrivederci. Siamo tutti e quattro in una caffetteria, io e Vianna giochiamo a fare le dive con gli occhiali Vivienne Westwood, ma ci si legge negli occhi una grande commozione. Sul tavolo ho una scatola di biscottini Bento a forma di Panda e nuovi regali, fra cui una confezione di noodles istantanei. Prolunghiamo quel momento fin quando è possibile, Vianna e Phoenix sono stati amici – guida preziosi, ci scambiamo baci e abbracci. Mentre ci salutano, ci porgono altri dolcetti e scompaiono da dietro il vetro, salutandoci con la mano e piegandosi nel loro costume locale. Io e Stefano riprendiamo a parlare, un po’ scossi, quando i nostri nuovi amici ci stringono le spalle e ci depositano i loro regali beneauguranti fra le mani, in mezzo ai nostri “Oh” di imbarazzo, riconoscenza e incredulità. E’ un bufalo rosa con le corna gialle! L’animale simbolo dell’anno nuovo. Pensieri, nostalgia e tantissime nuvole, fermate in uno scatto fotografico dal finestrino dell’aereo, sono il tesoro che mi porto via nel volo da Hong Kong a Londra. Europa, quindi. Casa mia.

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Hong Kong, Financial District

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Lavanderia

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Con Doraemon

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Vicino alle Chungkin Mansions

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Il rapanellone

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Locali

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Vianna's home

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Appena arrivata, pronta per la teleferica

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Verticalizzazioni

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Nathan Road

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Festoni nella Hong Kong Bay

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A casa di Vianna per cena

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Playstation handle

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