Havasupai Indian Reservation

L'idea di visitare la riserva indiana Havasupai è venuta, dopo averne scoperto per caso l’esistenza, spontaneamente e di pari passo con la nostra voglia insaziabile di natura e di zone incontaminate al di fuori dei soliti schemi turistici. Distante solo 56 km in linea d’aria dai famosissimi punti panoramici del Grand Canyon South Rim, la...
Scritto da: -Cla-
havasupai indian reservation
Partenza il: 24/09/2006
Ritorno il: 08/10/2006
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
L’idea di visitare la riserva indiana Havasupai è venuta, dopo averne scoperto per caso l’esistenza, spontaneamente e di pari passo con la nostra voglia insaziabile di natura e di zone incontaminate al di fuori dei soliti schemi turistici.

Distante solo 56 km in linea d’aria dai famosissimi punti panoramici del Grand Canyon South Rim, la riserva è annidata nel cuore dell’Havasu Canyon, dove piove pochissimo durante l’anno, ma dove cresce una vegetazione rigogliosissima grazie alle acque dell’Havasu Creek, un torrente di un colore verde smeraldo, che scorre tutto l’anno e che in alcuni punti si trasforma in cascate meravigliose, per le quali la riserva è famosa: Havasupai vuol dire infatti “popolo (Pai) delle acque verde-blu (Havasu)”.

Un tempo i membri della tribù Havasupai vivevano però sul fondo del canyon solo in estate, mentre d’inverno erano costretti a spostarsi sull’altopiano, perché il canyon si trasformava in un luogo freddo e inospitale, privo di legna e grandi animali da cacciare.

Il loro territorio probabilmente si estendeva ben oltre la regione oggi occupata dal Grand Canyon Village, fino a sud vicino all’odierna Flagstaff e fino a nord nei dintorni dell’attuale Tuba City, sempre in Arizona.

L’arrivo poi dei primi cercatori d’oro e dei colonizzatori inglesi portarono ad una serie di guerre che hanno ridimensionato moltissimo le loro terre e che li hanno ridotti nel numero (oggi sono solo circa 500 i membri della tribù) Essi dovettero, per sopravvivere, cedere a compromessi e accontentarsi di una piccola fetta del loro antico patrimonio territoriale, oltre a dover richiedere permessi annuali per pascolare le mandrie in territori da sempre appartenuti loro.

Le rivendicazioni e le battaglie continuarono fino al 1975, quando ottennero la restituzione di circa 81.000 ettari del loro territorio, alla condizione però che rimanesse “allo stato selvaggio” e quindi con il divieto di sfruttamento minerario e di costruzione di dighe o ferrovie.

Il sito ufficiale della riserva è , dove potrete trovare tutte le informazioni, su quello che c’è da vedere e da fare.

Per la visita l’ideale sarebbe avere tre giorni a disposizione: uno per scendere, uno per godersi le cascate e un po’ di relax, e uno per risalire…Ma se il tempo a disposizione scarseggia,come è stato per noi,si può fare in 2 giorni.

Guai però a scendere senza aver prenotato un alloggio in quanto è impossibile risalire in giornata.

Il lodge è spesso già al completo mesi prima dell’estate, e anche per il campeggio bisogna muoversi con anticipo, telefonando direttamente al tourist office del villaggio.

L’unico modo quindi per arrivare fino alla riserva è a piedi o a cavallo, o a dorso di mulo.

Si può anche prenotare (sempre chiamando il tourist office o anche una volta arrivati lì per il giorno dopo) la discesa con uno di questi animali: il cavallo se si vuole cavalcare personalmente o il mulo per trasportare solo i bagagli e poter camminare liberamente senza pesi.

I muli impiegano circa dalle 3 alle 5 ore a scendere o salire quindi, a meno che non siate dei provetti trekkers, occhio e croce arriveranno a destinazione prima loro di voi! L’idea di farci trasportare il bagaglio ci stuzzicava, soprattutto per il ritorno, ma abbiamo preferito essere indipendenti e avere la soddisfazione di scendere e risalire con le nostre gambe (oltre che risparmiare un bel po’ di soldi!) trasportando noi stessi tutto il necessario,tenda compresa (un elogio particolare va al mio moroso che ovviamente portava lo zaino più pesante!) La nostra avventura parte da Las Vegas il 26 settembre 2006.

Una volta imboccata da Las Vegas la interstate I-515, passiamo per la Hoover dam, la diga più grande degli Stati Uniti: è alta 222 m e previene gli allagamenti dovuti all’ingrossamento del Colorado, rifornendo di energia elettrica gli stati del Nevada, dell’Arizona e della California.

Proseguiamo alcuni km e usciamo per Kingman, paesino che si trova sulla AZ66, unico tratto della mitica route 66 (“the mother road”) che non sia stato rimpiazzato da strade più recenti e rinominato.

Per la notte abbiamo prenotato dall’Italia una camera al Hualapai Lodge, che si trova a Peach Springs, paesino dopo il quale non c’è più assolutamente nulla fino alla riserva, per 68 miglia e 2 ore circa di viaggio (bisogna quindi fare rifornimento di benzina, cibo e acqua per due giorni).

Si tratta proprio del classico agglomerato, come possiamo immaginarcelo dai vecchi film western, con una decina di case sulla strada principale, una vecchia ferrovia e nulla più! Arriviamo al lodge quando è ormai già buio (il tramonto in Arizona in questo periodo è verso le 6 di sera); scopriamo che la nostra camera è bellissima, spaziosa e molto pulita (al costo di 98 $ tasse comprese).

L’hotel è gestito dagli indiani Hualapai, vicini di casa degli Havasupai (i quali non sono altro che un ramo di essi, che si trasferì in fondo al canyon secoli fa) L’unica pecca è che ogni 20 minuti passano dei treni merci, con quel suono caratteristico (anche questo fa molto selvaggio west!) …Ma dopo un po’ ci si abitua; addirittura alla reception un cartello dice che su richiesta vengono forniti gratis dei tappi per le orecchie! La mattina dopo lasciamo i nostri bagagli al deposito del lodge per non doverli lasciare in auto questa notte e li ritroveremo domani, di ritorno dalla riserva per passare qui un’altra notte, prima di continuare il nostro tour, alla volta del south rim del Grand Canyon.

Con noi portiamo i nostri zainoni dove abbiamo stipato cibo e acqua, la tenda e i materassini.

Si parte! Il paesaggio che ci circonda è splendido: passiamo in mezzo ad uno spoglio deserto ricoperto di cespugli di artemisia, che in breve si trasforma in una fittissima foresta di pini gialli, che virano dal verde al giallo secondo la luce; sono davvero bellissimi ed è incredibile ce ne siano così tanti in una zona desertica! La regione che stiamo attraversando si chiama Coconino Plateau.

Arriviamo al Hualapai Hilltop dove la strada finisce e si deve parcheggiare…Non immaginavamo, ma di auto ce ne sono un bel po’! Da qui parte il Hualapai Trail, il percorso che conduce al villaggio scendendo a zig zag lungo il fianco della collina, la Coconino Sandstone.

L’escursione è nel complesso fattibile, anche se sicuramente impegnativa, soprattutto per chi non è uno sportivo ed è poco allenato come me.

Sono 14 km in totale fino al villaggio, poi se ci si ferma al lodge si è arrivati, altrimenti se si deve proseguire fino al campeggio come abbiamo fatto noi, ci sono altri 2 km (bisogna percorrerli comunque per raggiungere le cascate Havasu).

Ci spalmiamo di crema protettiva e iniziamo la discesa, quando sono ormai le 10 passate.

La vista è meravigliosa, e ciò che più ci colpisce è il contrasto di colore tra alcune rocce più chiare, quasi bianche, e quelle rossissime di arenaria…Proviamo una sensazione mista di smarrimento e serenità di fronte a questo luogo immenso e selvaggio.

Il nostro sguardo vaga sul sentiero che ci attende e che si mostra pian piano e timido ai nostri occhi. Dopo pochi minuti dall’inizio della nostra discesa il cielo si annuvola improvvisamente e comincia a piovere! Continuiamo a scendere imperterriti; dopo una ventina di minuti smette, pian piano ritroviamo il sole e vediamo le nuvole allontanarsi velocemente da noi.

Presto comincia a fare caldissimo e quasi quasi rimpiangiamo la pioggia fitta di prima! Ormai è finito il primo tratto di discesa ripida (circa 1 miglio, quindi 1 km e mezzo, che chiaramente al ritorno sarà di salita!).

Il dislivello però non è proibitivo: sono infatti 565 m di dislivello totali sviluppati in tutti i 16 km, di cui la maggior parte nella prima parte di discesa/salita e nel tratto dal villaggio al campeggio. Il percorso scorre quindi quasi pianeggiante, su un fondo sabbioso e anche qui ricoperto di artemisia, e dolcemente scende fino al fondo del canyon, dove si trova il villaggio.

Ci sono parecchie rocce e sassi di ogni forma e dimensione e in alcuni tratti si fa un po’ fatica a camminare (le classiche scarpe da tennis non sono adatte, occorrono categoricamente gli scarponcini da trekking) Molto spesso incontriamo file di cavalli o muli legati tra loro e condotti da alcuni Havasupai (sempre molto gentili e pronti a salutarci…A parte qualcuno un po’ malmostoso) che trasportano provviste e anche posta dal villaggio all’Hilltop e viceversa: il percorso è infatti disseminato dei loro “ricordini” e a volte è proprio impossibile evitarli! Il percorso continua seguendo il letto di un torrente ormai asciutto, fra le pareti rosse che lentamente salgono sempre di più a formare le due fiancate del profondo e stretto Hualapai canyon.

Lo spettacolo è mozzafiato e ad un certo punto comincia a esserci un po’ d’ombra, data dalle rocce spioventi, e ogni tanto da qualche albero La maggior parte del percorso è comunque sotto il sole cocente e quindi occorre assolutamente essere attrezzati con cappellino, occhiali e creme solari ad alta protezione.

Il paesaggio diventa poi un po’ monotono, ed è un problema perché sembra sempre di essere allo stesso punto e di non arrivare mai! Ora siamo al punto d’incrocio con l’Havasu canyon ed era qui che si trovava il villaggio di Supai, fino a quando la terribile inondazione del 1910 li costrinse a spostarlo più avanti, dove si trova ora.

Imbocchiamo un fitto boschetto e dopo un po’ cominciamo a sentire il suono dell’acqua che scorre…È l’Havasu Creek che emerge dalle crepe della roccia.

Il torrente ha un colore blu-verde meraviglioso, mai visto nulla di simile! Dopo una breve salita ci ritroviamo in una radura erbosa, e la presenza di case, mucche e cavalli al pascolo, nonché di panni appesi ad asciugare e bambini che corrono, ci fa capire in un baleno di essere arrivati finalmente al villaggio di Supai.

In lontananza si vedono due pilastri di roccia che spuntano in alto dalle pareti rosse del canyon e dominano il villaggio come due piccoli grattacieli gemelli: sono i “wigleeva”, che gli Havasupai considerano come i propri spiriti guardiani, uno maschile e l’altro femminile.

Intorno a noi vediamo pochissime casette, alcune di legno e altre prefabbricate, immerse in un ambiente di raro fascino.

Intravediamo il lodge e l’ufficio postale, l’unico negli Stati Uniti che ancora riceve e invia la posta a dorso di mulo! Continuiamo a camminare senza riuscire a trovare l’ufficio turistico (e menomale che il villaggio è piccolo!), ma una coppia di signori inglesi ci indica subito la strada, non appena notano i nostri zaini.

Finalmente arriviamo, compiliamo il modulo per la registrazione e paghiamo.

Proseguiamo poi verso il campeggio: il sentiero costeggia la scuola del villaggio e dopo nemmeno un km di strada sentiamo lo sciabordio inconfondibile di una cascata: sono le Navajo Falls, costituite da più sezioni e alte 23 m; sono poco visibili dal sentiero perché circondate da molta vegetazione e sgorgano dalla parete più distante del canyon (bisogna avvicinarsi un po’ per poterle ammirare meglio) Sono le cascate più piccole e meno spettacolari della riserva e devono il loro nome a Capo Navajo, un capo tribù degli Havasupai del XIX secolo,chiamato così perché venne rapito bambino dai Navajo, crebbe come uno di loro e fece ritorno fra la sua gente solo da adulto.

Attraversiamo un piccolo ponticello e subito prima di arrivare al campeggio troviamo ad attenderci una veduta dall’alto delle stupende Havasu Falls, un’impetuosa cascata doppia che lascia senza fiato, per la sua maestosità e per il contrasto netto dell’acqua turchese con le pareti rosse da cui sgorga.

Si può scendere per osservarle anche da sotto, ma siamo esausti (soprattutto io, sono già le 6 di sera!) e lasciamo la piacevole scoperta per l’indomani mattina.

Il campeggio si estende per oltre 400 m ed è ombreggiato: si trova infatti sotto grandi pioppi neri e lungo le rive del torrente.

Quando arriviamo lì troviamo moltissime persone, alcuni addirittura stanno cucinando carne alla griglia! Ci sono moltissimi tavolini da picnic e anche delle piccole fonti di acqua (spring water) in teoria potabili; ma per sicurezza usiamo compresse a base di cloro per sterilizzarla…Il sapore non è il massimo ma è meglio andare sul sicuro (vediamo dei ragazzi equipaggiati addirittura con un depuratore).

Il campeggio era un tempo il luogo dove venivano cremati o sepolti i morti della tribù (brrrrrr) e non è propriamente un luogo attrezzato: i bagni sono delle semplici (e maleodoranti!) ”composting toilets”, in pratica quei container bui e con fossa biologica! (la torcia è indispensabile…Anche per muoversi la sera all’interno del campeggio) In ogni modo ci si adegua, l’ambiente circostante è davvero rilassante e idilliaco.

Montiamo la tenda, mangiamo le nostre insalate di tonno portate dall’Italia e crolliamo distrutti poco dopo! Ci svegliamo presto dopo una notte di sonno profondo e cominciamo a smontare la tenda, facciamo colazione con pane e nutella, e alle 8.30 siamo di fronte alle fantastiche Havasu Falls, per scattare qualche foto e ammirarla per bene prima di affrontare la scarpinata di ritorno.

L’acqua è gelata, oltre che di un colore azzurro-verdino meraviglioso, e si getta da una roccia alta 46 m, per frangersi in pozze che presentano delle scalinate veramente favolose, dovute principalmente a depositi calcarei di travertino.

Non è il caso di camminarci sopra perché possono essere scivolose oltre che appuntite ma ne approfittiamo comunque per pucciare i nostri piedini stanchi, restando seduti su dei tronchi vicini…La sensazione dell’acqua gelata è rinvigorente e riposante al tempo stesso! Vorremmo avere più tempo per goderci a pieno questa meraviglia e visitare anche le altre cascate oltre il campeggio, le Money falls e Beaver falls, ma il tempo è tiranno e sapevamo già di dovervi rinunciare.

Alle 9 lasciamo a malincuore le cascate e riprendiamo il cammino per il villaggio, dove arriviamo dopo un’oretta; ci fermiamo al piccolo negozio di alimentari e compriamo delle mele e dell’acqua (ci sono giusto poche cose e anche piuttosto care).

Gli abitanti del villaggio sembrano molto incuriositi dal nostro passaggio e nonostante si trovino in un luogo ameno e isolato dal mondo, sono forniti di stereo, che tengono altissimo, cellulare…E vediamo addirittura una ragazza che passeggia con tanto di I-pod! Ad un certo punto però ci sorpassa anche una coppia di bambine in sella a un cavallo che ridono e si divertono, dimostrandoci come in questo paradiso siano ancora molto legati al territorio e ad antiche abitudini.

La giornata è luminosa e fa piuttosto caldo, incontriamo frequentemente le solite carovane di muli, oltre a gruppi di persone che stanno scendendo e spesso ci fermiamo a bere e riposarci un po’.

Arriviamo in cima verso le 19, quando ormai è buio, e troviamo la nostra auto ad aspettarci.

Ripercorriamo la Az 18 in direzione di Peach Springs, e ogni tanto ci fermiamo per ammirare dei cervi muli che, nell’oscurità illuminata solo dai fari della nostra auto, intravediamo essere presenti sul ciglio della strada (bisogna stare molto attenti e andare piano perché c’è il rischio di investirli!) Ad un certo punto ne vediamo uno grandissimo alla nostra destra…Ci fermiamo e lo osserviamo per qualche secondo prima di ripartire (e di corsa!!): è sicuramente un maschio, ha infatti un maestoso palco di corna e ci guarda con uno sguardo fiero e assolutamente non spaventato.

E’ stata un’emozione grandissima, sicuramente un’immagine che rimarrà sempre stampata nei nostri ricordi.

Arriviamo esausti al Hualapai Lodge, e dopo aver ripreso possesso delle nostre valigie, mangiamo qualcosa, ci facciamo una doccia calda e crolliamo sul letto.

Sono trascorsi due giorni indimenticabili, e siamo orgogliosi di avercela fatta, oltre che felici di aver vissuto un’esperienza a stretto contatto con questo antico e fiero popolo,che come tanti altri purtroppo,lotta ancora oggi per la propria sopravvivenza.



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