Furius khan
Non ho figli, ho quasi quarant’anni e sono gay. Al di là delle mie mancanze riproduttive, della mia venerabile età e delle mie preferenze sessuali, che qui non c’entrano nulla, o quasi, avevo pensato, all’insaputa di Paolo, il mio compagno, di fargli una sorpresa regalandoci una piccola vacanza di tre giorni. Il luogo? Non aveva importanza. La cosa che mi stava a cuore era scappare. Volevo evadere. Sentirci liberi anche solo per poche ore non pensando alle nostre responsabilità. Volevo che tutti e due riuscissimo finalmente a rilassarci.
Ore 8:00. Stanza 1006. Hotel El Paso: – ‘ma vuoi stare calmo che il parco apre alle 10:00?, è solo a 3 minuti da qui…’ – disse lui – ‘e se troviamo le code all’ingresso?’ – ‘siamo ospiti in uno degli alberghi del parco, abbiamo il pass e oggi è il 24 aprile. La gente normale non viene ai parchi divertimenti il 24 aprile, solo i pazzi come tu’ – mi rispose mentre si copriva di nuovo con le lenzuola -‘ non si sa mai, magari oggi i pazzi siamo in seimila. Io mi avvio’ – e uscii dalla stanza.
Ore 8:15. Ingresso Portaventura: Manco un’anima. Solo io e la mia macchina fotografica. Silenzio quasi totale. Sugli alberi poche foglie litigano fra loro. Non c’e quasi vento. Cancelli ermeticamente chiusi, parcheggi vuoti e un pò di cartacce in giro. Il tutto ha un’aria alquanto malinconica. Ma è presto. Molto presto. Da lì a poco sarei entrato per la prima volta nel luogo dove c’erano due montagne russe alle quali erano mesi che pensavo spesso. Dragon Khan, il rosso dragone eterno che da anni offre le sue incredibili inversioni agli amanti delle emozioni forti. Tipo sentirsi per due minuti il cervello al posto delle chiappe. E più recentemente Furius Baco, l’ultima fatica degli ingegneri della intamin. Fisica pura e tangibile per gli amanti del brivido fulmineo. Guardo l’orologio: un’ora e quarantacinque minuti ancora. Credo di aver contato tutte le begoniette, i gerani, le puzzoline e le altre cavolo di piantine che abbelliscono l’ingresso. Ho capito cos’era l’impazienza. Confermando anche il fatto che definitivamente il lavoro non ti lascia mai: di mestiere faccio il giardiniere.
– Ma nessuno si rende conto che sono qui? – dico a voce alta quasi senza rendermi conto, e vergognandomi dopo come un ladro. Ho girato la testa di 360 gradi pregando che veramente fossi da solo. Rosso in faccia mi accendo l’ennesima sigaretta e inizio a canticchiare qualche stupida canzoncina, come per assicurare me stesso che non sono del tutto idiota. Ma sento una voce dietro di me: – ‘Señor, el parque abre a las 10 de la mañana, estoy limpiando y porfavor no bote los cigarrillos al piso. Vuelva mas tarde con sus hijos’ – mi dice una signora dagli occhi neri e l’addome possente, guardandomi in cagnesco.
Ecco, cretino! penso fra me e me, guarda che questa qui s’immagina che sono il tipico padre apprensivo e maniaco che vuole controllare tutto molto prima che questo tutto abbia inizio. Sono scappato. Meglio tornare poco prima dell’apertura. Così non mi vede più la balena che deve pulire le mie cicche dal pavimento. Così non si rende conto che sono il 40enne attempato, senza figli, senza moglie e in più con un compagno annoiato per il fatto di dover essere lì e non in un vero luogo di rilassamento magari su qualche spiaggia o al massimo con una discreta offerta di spazi dedicati alla cultura e all’arte. E se la grassona risulta chi sa chi e poi spiffera la mia propensione a insudiciare il suo mondo? Se poi in qualche modo fa sì che non mi facciano entrare? Panico. Corro giù lungo il viale d’ingresso fiorito. Torno in albergo ed entro nella grande hall dove trovo di già un sacco di gente. Vere famigliole ognuna con dozzine di bambini che gridano, che si spingono e corrono e sudano, impazziscono. Il tutto per una figura vagamente umanoide di gommapiuma. E’ niente meno che Betty Boop. Io non ci posso credere. E’ veramente pazzesco. Non per il fatto di vedere Betty Boop davanti a me (da un pò so che esistono i pupazzi con ripieno umano) ma per il fatto che qui la Boop ha 2 guardie del corpo. Due ragazzoni vestiti di nero che fanno come si fa coi politici o le star in qualsiasi paese del mondo: respingono gli ammiratori troppo focosi ed evitano che siano in troppi allo stesso momento a pretendere la mano del personaggio di turno. Credo che adesso Betty soffra di allergia ai bambini. Ed è una vera star.
Mentre guardo attonito questa scena così stimolante, mi si avvicina il mio compagno e mi dice: -‘senti, ho già fatto colazione, ho già fumato 6 sigarette (siamo l’uno per l’altro…) e mi sto annoiando’ -‘ti stai cosa?’ – rispondo un pò allarmato – ‘annoiando. Non hanno La Repubblica ne Il Corriere, nemmeno La Nazione, solo giornali in catalano. Ma mi dici che alberghi trovi?’ – disse lui, guardandomi fisso nelle palle degli occhi e con l’incredibile scena di Betty Boop alle spalle. – ‘primo, siamo in Spagna e se non lo sai qui si trovano giornali in lingua locale, una cosa piuttosto abituale; secondo, la giornata deve ancora iniziare, vedrai come fra poco non ti annoierai più. E terzo, questo è un mega albergo dove hai dormito molto comodamente ieri notte e lo farai anche oggi’ – chiusi discorso facendo un’espressione molto seria e sicura. E pregando che una giornata in un parco tematico non lo facesse impazzire.
2.
Sono passati 13 mesi da quando Paolo aprii il suo negozio di copisteria. L’ha acquistato da una bella signora latinoamericana che in patria, anni prima, si dedicava all’allevamento di formiche. Secondo me una delle tante storie strambe che inventava per convincerlo a comprare. Un pomeriggio, poco prima di prendere possesso del negozio, entro nel locale e li trovo a parlare: -‘ mi sono fatta da sola, ero poverissima, ho cresciuto 4 figli che non vedo da molto tempo… Ho fatto di tutto per sopravvivere, e quando dico tutto è tutto, e adesso questo negozietto mi sta stretto. Voglio fare altro, magari mi compro un furgoncino e faccio le consegne. Lo sai che con le consegne si guadagna? – ‘sul serio? Non lo sapevo – rispose Paolo – ‘certo, con questo non voglio dire che qui non si guadagni ma ormai ho 50 anni e non posso stare qui quasi 7 giorni su 7′ – ‘si, capisco..’ Peccato che non aveva capito un bel niente. L’intraprendente signora ha preso i diecimila euro della cessione ed è tornata in patria a rifarsi le tette. Il negozio non lascia nulla e praticamente il mio compagno ed io ci vediamo solo a cena verso le 9:30 di sera, quando va bene. Qualche vecchio cliente racconta che ultimamente alla signora l’ha vista in giro e, orgogliosa del suo nuovo ingombrante decolté, si dedica a portare sulla retta via giovani pecorelle che secondo padri di famiglia spaventati, sembrano dimostrare poca attrazione per le pecorelle del sesso opposto.
La signora ha capito tutto nella vita. Sa che i ragazzi sono curiosi, che i furgoni sono scomodi da guidare e che i pacchi possono essere molto pesanti. Farà un sacco di soldi da vecchia psicoterapeuta.
Inizio febbraio.
– ‘sono un po’ stanco di essere rinchiuso qui da mesi..’ – mi dice una sera Paolo in negozio mentre fuori pioveva e dentro non c’eravamo che lui ed io.
– ‘abbiamo fatto bene a comprare questo negozio?’ – rispodo con una domanda – ‘non so, ma dobbiamo pagare la banca e da qui non ci muoviamo’ – ‘e se si chiude una paio di giorni e si va da qualche parte? Anch’io prendo ferie’ – azzardo io – ‘ma sei pazzo? neanche per idea’ Sabato notte. Collegamento internet. Un pacchetto di Pall Mall mezzo vuoto. Un posacenere quasi pieno. Trovato albergo. Biglietti aerei. Tre giorni. Sorpresa. Scappiamo in Spagna. Madrid? No.
Bilbao? No. Barcellona? Quasi. Tarragona.
3.
Ore 9:45. Alla mia destra passano tremila e rotti piantine fiorite. Sono su un trenino che ci porta dall’albergo al parco in 10 minuti. Sono disperato e potrei fare una strage. Se facevo a piedi quei pochi metri che separano El Paso dal parco, arrivavo in soli 5 minuti. Ma devo sorridere. Il mio compagno è seduto davanti a me e per la prima volta in diverse ore ha un accenno di sorriso in faccia. Ho poggiato il braccio sul finestrino nella maniera più naturale e matura possibile, cercando di nascondere con l’altra mano le vene che, gonfie e pulsanti facevano di tutto per scoppiarmi sul collo. Sorrido e addirittura scatto qualche foto. Magari se faccio la parte del tipico turista da parco divertimenti tutto contento con il vomito di cose e immagini di cui questi luoghi sono pieni, il mio compagno si sente più a suo agio. Dal treno scatto foto ad una panchina vuota, ad una palma spelacchiata e a due turisti obesi che fanno una fatica inumana lungo la salita per arrivare al parco. E mi vengono pure mosse. Come se ci fosse qualcosa di più interessante dei due meravigliosi mostri d’acciaio che mi aspettano dietro i cancelli di Portaventura.
Ho in mente ancora la scena di Betty Boop che ho visto pochi minuti prima in albergo. E penso a cosa mi aspetta una volta dentro il parco con questi soggetti di gommapiuma. Neanche da piccolo mi piacevano quegli esseri finti che pretendono infinita attenzione da parte tua e si credono simpaticissimi. Sono semplicemente mostruosi e alquanto ridicoli. Vieterei i pupazzi nei parchi. Per legge.
Ore 9:55. Ci siamo. Scendo da quel trenino lento e noioso. E corro. Inutile dire che non ho visto chi c’era davanti a me. Se qualche bambino o qualche vecchietta hanno dovuto passare la mattinata nella infermeria del parco, veramente l’ho fatto senza accorgermene. Il mio compagno? La più pallida idea. Passate dogane varie e fatto vedere passaporti vari, sono finalmente entrato nel parco. Facevo fatica perfino a respirare. Alla mia destra e alla mia sinistra intuivo negozietti pieni di cianfrusaglie e bar e ristoranti ancora chiusi. Una marea di locali inutili per uno come me, che in quel momento non riusciva nonostante il passo veloce, a vedere quello che dicono tutti si vede non appena varchi le porte di Portaventura: il Furius Baco. A mio parere i parchi divertimento esistono per due motivi. Uno perché dei miei colleghi riescono a fare cose molto belle con le piante e i fiori. Si rimane a volte come ipnotizzati guardando le migliaia e migliaia di piantine che a macchie di colori e piene di voglia di farsi notare ti sfidano a guardarle. E’ un gioco di seduzione fra te e loro. In qualche modo è un gioco eccitante. Il secondo perché al mondo esistono anche delle ditte che costruiscono montagne russe. Come è ovvio, da qualche parte devono piazzarle. E queste montagne russe sono anche eccitanti. Infinitamente eccitanti. Il resto è solo riempimento. False stradine e false casette. I non-luoghi per eccellenza, dove non c’è niente. Il vuoto. Stupidi pupazzi. La Finzione. Le Facciate. Il nulla. I parchi, per me, sono solo fiori e roller coasters.
Terrorizzato mi fermo e mi giro. Non a cercare Paolo; mi giro a gridargli con uno sguardo tutta la mia disperazione per essere arrivati proprio il giorno dopo lo smantellamento del nuovo accelerator coaster. Lui capisce al volo. E come si fa con i pazzi e con i cretini mi guarda con occhi vuoti, senza speranza, e mi dice: ‘sarà più avanti, cazzo, non fare lo stupido…’ Sollevato dalla sua intelligente previsione riparto nella mia folle corsa verso questo coso che le nonne chiamano ottovolante. La giornata è chiara, limpida, fresca e azzurra. Vedo acqua. Vedo blu. Mi sembra di vedere dei binari. Sono dei binari. Eccolo lì. Mi sta aspettando. Io l’aspetto da molto. E’ il fiore all’occhiello del parco, l’invenzione di un lucido pazzo. C’è l’ho fatta, è davanti a me. Ora devo solo arrivarci. Si può avere gli occhi lucidi davanti a qualche tonnellata d’acciaio e bulloni? Certo. Si può.
4.
Ore 10:03. C’è uno spaventapasseri appollaiato sul cartello dell’attrazione. O almeno a me sembra tale. Non indugio e vado oltre. Devo essere fra i primi. Non male se riesco a essere il primo. Salgo, salto scalini, educatamente spingo persone e le sorpasso. Sono quasi tutti di nazionalità francese e come non capisco gli insulti in quella lingua me ne frego. A niente sono servite le supplichevoli preghiere del mio compagno, il quale stranamente mi ha seguito questa volta a meno di 50 centimetri: ‘non possiamo prima prenderci un altro caffè?’ – domanda totalmente fuori luogo. Risposta: ‘no, non possiamo’ Ovvio.
A mala pena faccio attenzione alla distesa di piante di vite che decorano le terrazze e che mi invitano fino alla cima, fino alla mia meta. Arriviamo e non siamo i primi. Guardo le decorazioni, i macchinari che ci vogliono far sentire all’interno di qualche strana fattoria dove si producono strani vini catalani. Ma non c’è molta gente. Sono felice. Sono eccitato. Felice eccitato. Feliceccitato. Vado avanti in fila, rispettando il mio posto mentre dico qualche cosa a Paolo. Anche davanti a lui so di dover nascondere la mia troppa eccitazione. E’ solo una montagna russa, mi dico. Cercando di essere nella più totale calma gli spiego, cosa che a lui non interessa affatto, cos’è un accelerator coaster, la velocità che raggiunge, cosa lo fa funzionare. Ma mentre parlo e mentre lui fa finta di ascoltarmi, guardo e conto i metri che mancano al nostro turno. Sento il rumore del treno che parte a 135 chilometri orari e soprattutto sento le grida delle persone che li cavalcano.
10:17. Adesso è il nostro turno. ‘Siamo in due’, dico alla ragazza che incredibilmente vedo già seccata del suo lavoro nonostante l’ora. – ‘Primera fila por favor, y rapido’ dice lei con voce stanca ma firme. Non cammino, sono a 10 centimetro da terra, volo. Fatti i due metri per arrivare al cancelletto, che mi sono sembrati 25, si sente una voce dagli altoparlanti che dice: ‘avisamos nuestros clientes que la atracciòn furius baco se encuentra fuera de servicio…’ Pietrificato guardo Paolo e perfino lui aveva in faccia una smorfia che lontanamente richiamava qualcosa di simile alla disperazione. Io morivo. E di morte non naturale. M’avrei suicidato ipso facto. ‘Què pasa, señorita? sono riuscito a dire con un filo di voce. ‘Què? Ah, nada. Debemos meter otro tren. Uno no es suficiente. Cuestiòn de pocos minutos. No se preocupe’ Tornavo in vita e addirittura assistevo all’inserimento del treno numero 2 in prima fila. Interessante.
Una volta sistemato questo sui binari, hanno sparato il numero 1 senza passeggeri. Vuoto. Senza di me. Che spreco. ‘Adesso si parte!!’ dico al mio compagno, ma non appena il treno arriva in stazione, in 38 secondi, sparano il secondo, il nostro, anch’esso imperdonabilmente vuoto. Inizio a innervosirmi.
Ore 10:32. Click! Aprono i cancelletti. Le mani mi sudano, come mi sudano anche copiosamente corpo e cervello. Sono un tantino emozionato. Guardo il mio povero compagno e gli dico: ma te la senti? Sistemano Paolo all’interno, me all’esterno. Vicini. Ci legano. Vedo tutto annebbiato, i rumori mi sembrano lontani, le voci sono sussurri. Tutto è pastoso, l’aria densa. Sono talmente fuori di testa che mi sembra di essere sott’acqua. Faccio movimenti lenti, mi pesano perfino le mani. Sono seduto in prima fila sul Furius Baco, accanto a quella che considero la persona più importante della mia vita. Ci stanno per sparare a molti chilometri l’ora e ho aspettato questo momento per mesi. Cerco di respirare e di calmarmi. Mi rendo conto che l’adrenalina è un quarto d’ora che c’è l’ho alle stelle. Sono come drogato e mi sento molto ma molto bene. C’è un leggero movimento del treno. Lento. Entriamo nella sala di lancio. Il treno torna a fermarsi. Ci sono anche qui le decorazioni ma la mia situazione è tale che non vedo niente, non capisco niente. Aspetto il lancio. E grido, questa volta non mi vergogno. La tensione è tale che riesco perfino a vederla uscire dalle mie narici. E’ come una nuvola di fumo. Grido di nuovo. Il treno è ancora fermo ma trema, si riempie di qualcosa, sembra una mastodontica bestia che legata non vede l’ora di scappare. Intravedo una scimmia meccanica che fa qualcosa in alto, schermi al plasma che fanno vedere immagini che a malapena afferro. Luce rossa. Tensione, silenzio per pochi secondi. Capisco e non grido più. Penso che Paolo non è molto rilassato in questo momento.
5.
Ore 10:37. Il treno parte. Luce. Forza. Elettricità. Passi da zero a 135 chilometri in pochi secondi. Ti incolli alle tue emozioni in un attimo. La dosi di adrenalina è tale che la prima volta non riesci a gridare. Vuoi farlo ma non ci riesci. Velocità. Non ti rendi conto nemmeno che sei nel vuoto, che non c’è binario sotto i tuoi piedi. Forza. Un’incredibile forza che ti fa sentire piccolo e immenso allo stesso tempo, ti fa diventare parte dello stesso treno. Per poi farti volare, ti stacchi da tutto. La prima curva la fai da solo. Non poggi su niente, la gravità ti fa uno scherzo e tu sei lì sparato a centotrentacinque chilometri orari ma ti sembra di essere a mille. Il paesaggio sparisce. Solo linee e macchie e colori, il tutto mescolato e confuso. Quando credi di tornare in te ecco che ti trovi a testa in giù in una inversione a pochi metri da terra. Stranamente quest’inversione sembra lunghissima, tu inizi a girare, girare e continui a girare. Invece è una inversione semplice. Di pochi metri. Arrivi sull’acqua ma non ci fai caso. L’ultima grande curva la fai sul lago. E questa volta senti il treno, vieni leggermente schiacciato sul sedile. La bestia è stanca. Arrivi. Si ferma il mondo. Respiri e ti asciughi gli occhi. Io rido. Altri invece no. 6.
Non ho ben chiaro da dove provenga questo mio patologico e infantile attaccamento alle montagne russe. Soffro perfino di fobia delle altezze.
Negli anni settanta i nostri genitori portavano me e le mie sorelle ai parchi divertimenti negli Stati Uniti. In tutti quei viaggi sono salito sì sugli ottovolanti ma mai con troppa convinzione. Erano i miei, e più precisamente mia madre, che pazza furiosa, non vedeva l’ora di salirci. Ricordo il Python a Bush Gardens, un corkscrew che a quei tempi era l’ultima evoluzione in materia. Morivo di paura solo all’idea di immaginarmi al suo interno. Ma ci sono salito. E diverse volte. Paura, vertigini e molto divertimento. Divertimento che però elaboravo dopo. Che digerivo solo quando vedevo gli altri scendere felici. Semplice masochismo. Ma non si può chiedere molto carattere ad un bambino introverso e complicato come ero io a otto anni. Il mitico wooden coaster Cyclone a Coney Island, dove noi turisti imitavamo di domenica i newyorchesi proletari salendo sulle già allora vecchie giostre e mangiando schifezze varie che noi bambini adoravamo. Questa montagna russa mi sembrava enorme, altissima e molto veloce. Da piccoli abbiamo propensione a ingrandire tutto. O a ridurlo, dipende dalle situazioni. Mi piacevano molto quelle domeniche a Coney Island. E tutte le volte che si andava a New York pregavo i miei che ci portassero. Sempre mi hanno dato ascolto. In fondo erano loro che non vedevano l’ora di andarci.
Anche Space Mountain a Orlando, dove ricordo che la mamma, durante una corsa che abbiamo fatto insieme, si è messa a gridare che stava perdendo il passeggero, cioè io che sedevo sulle sue ginocchia. Ho sempre pensato che scherzasse ma anni dopo scoprì che qualcosa non andava e lei era davvero terrorizzata. Mi ha confessato che a un certo punto era sicura che io sarei schizzato via dal treno in quel buio pesto, che le protezioni in qualche modo avevano ceduto. Ecco perché non siamo mai più saliti su quell’attrazione. Forse anche per quello io non ho più pensato per anni alle montagne russe. Fino a tre anni fa.
7.
Paolo ricevette una telefonata dagli Stati Uniti. Era suo fratello, che abita nel Texas, per informarlo dell’imminente arrivo di suo figlio in Italia. Rimarrebbe a casa nostra per le vacanze estive. Io di solito durante i mesi caldi non ho molto lavoro, è il periodo nel quale bisogna semplicemente dare da bere alle piante. Nient’altro. Tre ore al giorno con la gomma in mano bastano e avanzano. E quasi tutti i miei clienti sono fuori città, anche loro a fare le vacanze estive. Ho abbastanza tempo libero. A quel tempo Paolo lavorava come programmatore free lance per alcune ditte nel area fiorentina, senza orari particolari ne grossi impegni durante l’arco della giornata. Anche lui era poco impegnato e questo era perfetto per poter stare con suo nipote. Michele arrivò a Fiumicino proveniente da Dallas verso inizio giugno di tre anni fa, per fermarsi da noi più o meno un paio di mesi. Firenze non è precisamente la città più adatta per un quattordicenne americano in vacanza. Musei, gallerie e palazzi. Roba vecchia, polverosa, che puzza di naftalina. Al secondo museo il ragazzino si sarebbe tagliato le vene. Gite, campagna, mare e montagna erano le cose che facevano al caso nostro. Ma una sera che siamo a cena tutti e tre in cucina, guardando la tv, c’è la pubblicità. Si vedono i soliti brutti pupazzi, la solita musica pseudo accattivante e le attrazioni meccaniche. E’ lo spot di Gardaland, il cosiddetto parco divertimenti numero uno in Italia.
– ‘zio! e quello dov’è?’ Silenzio a tavola, sguardi preoccupati fra gli adulti e consapevolezza di dover spendere un mucchio di soldi per portare Michele sul lago di Garda da lì a poco per qualche giorno. Cosa che puntualmente si fece. Tramite amici trovai un campeggio (cosa che odio come i pupazzi imbottiti) e ci prenotai un bungalow. In una tenda neanche morto ci avrei messo piede. Con i punti accumulati facendo la spesa in un supermercato mi procurai dei biglietti per 3 persone. Ingressi per tre giorni di seguito. Fu la rivelazione. Con Michele salivamo sulle montagne russe una volta dietro l’altra. Divertimento puro. Così per quattro giorni, non solo tre. Qualcosa scattò in me. Forse semplicemente la tara latente e innata saltò fuori grazie alle terribili sollecitazioni a cui sottoposi il mio cervello durante quei giorni. Dopo ci fu il turno di Mirabilandia. Stessa storia solo che qui c’è l’Inverted Coaster per eccellenza. Inutile dire che il Katun e io siamo diventati una sola cosa. Penso di avere fatto la corsa in ogni sedile di ogni treno e in ogni situazione possibile. Folgorato. Per non parlare di Sierra Tonante. Un wooden veramente bello e generoso che regalava uniche e sempre diverse sensazioni. Da piccolo con queste bestie d’acciaio era amore-odio. Da grande era solo indifferenza. E come nella più classica delle storie d’amore, da vecchio solo poteva rimanere il bisogno, la necessità e l’amore.
8.
Ore 10:38 credo. La prima corsa della giornata era finita. Scendi dal treno che non senti le braccia. Ho afferrato lungo tutto il tragitto le protezioni per puro istinto di sopravvivenza. Sono morbide, imbottite e comode. Non ho fatto il duro alzando le braccia, era la mia prima volta su questa montagna russa. Dovevamo prima conoscerci. Paolo e io eravamo intontiti da tanta forza, da così tanta velocità. Lungo il corridoio d’uscita mi girava la testa ma ero felice e anche a lui stranamente era piaciuto. Questo mi tranquillizzava non poco. Meritava un caffè. Como in tutti i parchi del mondo appena scendi dall’ottovolante ti aspetta la sala foto on ride dove puoi acquistare le tue smorfie ad un punto specifico del percorso. Qui invece, oltre alla foto trovi il video. La videocamera della nostra postazione era guasta. Non abbiamo video del nostro viaggio di 38 secondi insieme. Questa fu l’unica corsa di Paolo sul Furius Baco ma per me solo la prima. Dopo ne vennero altre. Sei per la precisione. Della quarta ho il video. E con le braccia alzate. Ormai eravamo intimi.
E dopo fu il Dragon Khan. Questo parco è suddiviso in zone geografiche e paesi. Ovviamente il Dragon si trova nella Cina. Pagode (finte) ristoranti (finti) e gli immancabili pupazzi in tema. Olivia e Braccio di Ferro in versione riso alla cantonese. Inguardabili. Grazie al nostro pass dell’albergo avevamo la possibilità di fare certe attrazioni senza fare un minuto di fila. Nel Dragon l’abbiamo utilizzato subito. Ma abbiamo capito, grazie agli sguardi d’odio nei nostri confronti dei poveri mortali che dovevano fare la fila, che non era il caso di approfittare troppo del nostro improvviso status di VIP.
Questo coaster è imponente. I suoi binari sembrano la Firenze-Mare, con i suoi supporti quadrati, tipici della B&M, la ditta costruttrice.
Gli addetti ci sistemano nell’ultima fila. Ogni gruppo di sedili è come un comodo salotto per quattro persone. Una volta ancorati al treno mi giro e guardo Paolo. E subito penso: ma chi glielo fa fare? Ma capisco che è meglio non rispondere e mi concentro su quello che ci aspetta.
Una salita lenta e lunga. Qui sei tu che mentre il treno sale ti riempi di qualcosa. In alto c’è la curva per allinearti con la discesa. Da lì vedi il groviglio di binari rossi che farai fra qualche secondo. Serpente gigante che ormai ti ha già divorato. Sei nella sua pancia. Si parte. Meraviglioso. Inversioni. Tante. Le senti tutte, è possente questo apparecchio. Ti colpisce anche il rumore che fa, inconfondibile. Un armonioso boato continuo, che senti da qualsiasi parte ti trovi nel parco. Non è musica ma poco ci manca. A differenza del Furius qui la corsa è eterna, sembra non finire mai. Due minuti di potenza e allo stesso tempo leggerezza. Il percorso è fluido, solido ma sciolto; nelle cime senti un vuoto molto particolare, il così detto air-time che ti prepara al vortice fra discese e inversioni. Bellissimo. Il Dragon nell’ultima fila è potenza e velocità. In prima è adrenalina. Il Furius cambia molto a seconda ci si sieda esternamente o internamente. Sarà che le forze cambiano, non lo so. Ma di sicuro le emozioni si.
Nel giro di otto ore sono salito molte volte sia sul Dragon che sul Furius, mentre Paolo sempre mi aspettava al bar davanti al suo amato caffè. Provavo diverse collocazioni sui treni. Per una persona da sola è facile, c’è sempre un posto libero dove sedersi. Sei giustificato a saltare la fila visto che sono gli addetti a chiamarti. Nessuno mi guarda più con voglia di uccidermi. Posso fare a meno del pass. E poi è vero, pochi salgono su questi cosi da soli. Solo i pazzi furiosi. 9.
19:00. Giornata finita. Stanchezza. A letto senza cena. Prima di addormentarmi penso alle corse fatte. Paolo ha mal di testa. Colpa mia. No, è colpa sua. Sta con me e non ha ancora imparato ad essere un pazzo furioso. Il giorno dopo dobbiamo tornare a casa. In Italia. Al lavoro. Per ora dobbiamo riposare. Ci accomodiamo fra le lenzuola e io l’abbraccio forte. Sono dispiaciuto ma non posso fare altro. Si addormenta. L’albergo è mezzo vuoto. Pochi rumori arrivano dall’esterno. La stanza è buia e io sorrido. Continuo a pensare alle corse fatte. A quello che questa esperienza mi può lasciare. Forse nulla. Non importa. Io mi addormento felice. Sono abbracciato al mio compagno, consapevole di essergli debitore e riconoscente per stare lì accanto a me. Era importante. Lui lo sa. Sa sempre tutto. E mi accompagna. Anche in questo. Grazie.