Frontiera Colombia-Venezuela

“No guardi, siccome vuole passare da un visto da studente ad uno da lavoratore, deve chiederlo in un consolado all’estero. Qui in Colombia non si può fare”. Rimasi lì come un ebete a fissare la foto di un perfetto sconosciuto, che avevano affisso sul vetro dello sportello come esempio. Non ci potevo credere. Eppure era vero. L’ufficiale...
Scritto da: davovad
frontiera colombia-venezuela
Partenza il: 28/01/2009
Ritorno il: 28/01/2009
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
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“No guardi, siccome vuole passare da un visto da studente ad uno da lavoratore, deve chiederlo in un consolado all’estero. Qui in Colombia non si può fare”.

Rimasi lì come un ebete a fissare la foto di un perfetto sconosciuto, che avevano affisso sul vetro dello sportello come esempio. Non ci potevo credere. Eppure era vero. L’ufficiale dell’Ufficio visti del Ministero degli esteri colombiano mi aveva appena liquidato. Quella mattina mi ero alzato alle 5,30 per poter stare tra i primi quando aprivano. Pensavo di riuscire a fare tutto in mattinata. E invece no. Dovevo per forza uscire dalla Colombia per poter chiedere il visto, l’ottavo in sette anni. Non ci pensai molto. Le alternative erano Ecuador, Panamá, Perú o Venezuela, facilmente raggiungibili in aereo. Ma siccome in Colombia chi ha un visto deve pagare un’imposta di 50 dollari per i voli internazionali, optai per andare con un volo interno a Cúcuta e da lì passare la frontiera col Venezuela. Avevo una discreta quantità di miglia accumulate con Avianca, frutto di vari viaggi fatti per lavoro, magari ci scappava un volo gratis. Mentre mi dirigevo in ufficio inbufalito, chiamai il servizio miglia di Avianca. Con un gradevole accento paisa (di Medellín), la signorina mi riservó un volo per il giorno seguente alle 6:05 del mattino per l’equivalente di 8.500 miglia.

Alle 5:00 il taxi era già sotto casa. A quell’ora a Bogotá il traffico è quasi inesistente, non era facile pensare che dopo un’ora scarsa si sarebbero già formati i terribili ingorghi matropolitani. Ti dicono sempre di arrivare in aeroporto con un’ora d’anticipo. Ormai avevo imparato che in Colombia essere in anticipo significa arrivare mezz’oretta prima. Ma anche stavolta le più rosee previsioni andavano a farsi friggere: alle 6 eravamo ancora nella sala d’imbarco. Con molta calma, come sempre, ci avvisarono di entrare. L’aereo era gremito. Però non si muoveva. Dopo aver fatto il giro completo delle piste del complesso aeroportuale, che comprende il terminal internazionale, il nazionale e l’aeroporto militare, finalmente, alle 6:45 decolliamo.

Arriviamo a Cúcuta con 20 minuti di ritardo. Ho fretta: devo farmi fare il visto in giornata se non voglio restare un notte a San Antonio. La diminuzione repentina d’altura e l’aumento vertiginoso della temperatura si fanno sentire. Chiedo ad un poliziotto dove si trova l’Ufficio del DAS, però mi risponde che l’ufficio che c’era nell’aeroporto adesso è chiuso, per cui bisogna farsi timbrare il passaporto nel ponte internazionale. Chiedo a un taxista di portarmi dove passano i bus per il Venezuela. Arranca rapidamente, sfrecciando tra stradine bagnate dalla pioggia notturna, o meglio invase dalla pioggia, visto che alcune strade sono costellate di crateri fangosi. Ai bordi delle strade si vedono i primi ‘pimpineros’, i venditori di benzina venezuelana, che oltre la frontiera costa dieci volte meno. Ogni azienda, perfettamente illegale (ma tanté), è costituita da decine di taniche, un tubo e una bottiglia tagliata a mo’ di imbuto.

La zona di frontiera tra la Colombia ed il Venezuela vive dei diversi livelli dei prezzi nei due paesi, per cui fiorisce il contrabbando. I colombianio cercano la benzina venezuelana, mentre i venezuelani cercano i prodotti colombiani, generi di prima necessità che il Governo di Chávez non è ancora riuscito a far produrre al suo Stato petroliero.

Il taxista mi lascia all’incrocio tra l’Avenida Zero e la Diagonal. Mi consiglia di prendere un bus che dica ‘directo autopista’, per evitare di fare il giro di insignificanti paesini. Mentre aspetto sul marciapiede bagnato, mi tolgo le calze ed il giubbotto. Passano molti bus urbani, ma nessuno che dica San Antonio. Chiedo a due poliziotti se da lì passano i bus per il Venezuela, mi rispondono affermativamente. Anzi, ad un certo punto uno di loro mi fa cenno che sta arrivando. Si tratta di uno dei bus più sgangherati con cui abbia viaggiato, pitturato con tutti i colori possibili, nelle poche parti dove rimaneva traccia della carrozzeria. Dal fondo bucherellato entrava in cabina il forte odore di benzina mal raffinata che appesta l’aria di Cúcuta. Il bus attraversa i quartieri marginali della capitale del Norte de Santander e sferraglia allegramente lungo la campagna riarsa. Non poteva mancare il venditore, che dopo aver annunciato il sequestro della sua mercanzia di contrabbando da parte delle autorità, chiede ai viaggiatori di andarlo a trovare in un certo locale del quale fornisce le coordinate, dove si potranno trovare televisori ed altri oggetti a prezzi di saldo. Nel frattempo fa girare degli eleganti astucci contenenti orologi, che offre a prezzi ridicoli.

Il bus passa senza interesse per Villa del Rosario, dove si trova la residenza che fu del generale Santander e le rovine del Templo Antiguo, dove fue firmata la prima Costituzione colombiana. Se non era per questi particolari storici, al suo posto ci sarebbe già stato un Mac Donald.

Finalmente, ci fermiamo in un ingorgo terribile. La strada principale è intasata di veicoli che cercano di entrare sul ponte internazionale; di fianco si apre un’area destinata a percheggio e ristorantini, pieni di macchine che cercano di immettersi sulla strada principale. Decine di bambini si guadagnano da vivere fermando i veicoli col proprio corpo per permettere alle macchine provenienti dal parcheggio di immettersi. Nel mezzo venditori di mandarini, cambiavalute, contrabbandieri. Un caos. Valuto che il bus impiegherà almeno mezz’ora prima di poter passare. Per cui scendo e mi incammino a piedi al DAS. Quando esco mi dirigo al bus, che era ancora ben indietro. Ma se lo avessi saputo sarei andato a piedi a San Antonio del Táchira, che si trova giusto dopo il ponte. Ma non lo sapevo, per cui mi sorbisco altri 15 minuti di coda. Scendo dopo il ponte alla Migración venezuelana. Da lì si scorge il campanile della Cattedrale. Mappa in mano mi dirigo al consolato colombiano. L’indirizzo corrisponde, ma l’edificio è vuoto. Chiedo ad un gruppo di anziani seduti su una panchina del parco adiacente e mi dicono che si è trasferito 4 isolati più in là. Uff. Finalmente entro.

Il consolato è un disordine, tutto normale. Su una porta aperta un cartello dice Visas. Fuori c’è gente che aspetta. Chiedo se stanno facendo la fila, mi dicono di no. Aspetto. Ma nel frattempo i nuovi arrivati entrano a chiedere informazioni, passano davanti senza chiedere se c’è un ordine di attesa, tipica usanza colombiana. Dopo irate proteste, finalmente entro. La console mi fa sedere, però nel frattempo continua a parlare con altra gente, dà indicazioni ai nuovi arrivati, riceve documenti di gente che era arrivata anteriormente. Insomma, dopo un’ora esamina il mio caso. Avevo preparato i documenti seguendo scrupolosamente le indicazioni dei vari decreti che disciplinano la materia dei visti. Però la console mi esige altri documenti. Miracolo! Esco, chiamo l’ufficio a Bogotá, per fortuna che a San Antonio entra la linea del cellulare colombiano. Chiedo di mandarmi per fax alcuni documenti. Poi vado a un internet café per stampare il mio curriculum.

Quando torno nel consolato la console è alle prese con un attorucolo da telenovela, tutta attenta e salameleccosa. Mi fa aspettare un’altra ora, passandomi davanti non so quante volte. Finalmente mi riceve, e mi dice di fare delle fotocopie dei nuovi documenti… Ma non me lo potevi dire prima? Esco e torno. Mi da il visto, ma prima mi fa fotocopiare tutto il fascicolo… Quando ritorno il consolato è chiuso. Riesco ad introfularmi, non c’è nemmeno l’ombra di una guardia fuori. Però la console sta pranzando. Finalmente, con molta calma, mi stampa l’agognato visto sul passaporto.

Mentre cammino verso la frontiera, chiamo Avianca per riservare il volo del ritorno: volo delle 18:45. Passo rapidamente la migración venezuelana, dove mi estorcono 25.000 pesos, non so se legalmente o se finiscono nelle tasche del funzionario. Su un muro ci sono diverse immagini del Libertador Simón Bolívar. Uscito dal DAS mi si affianca un catorcio, l’autista mi chiede se vado a Cúcuta. Salgo. Ci accordiamo per 2.000 pesos. Fatta.

Mi lascia dove ho preso il bus per San Antonio e passeggio lungo l’Avenida 0 in cerca dell’ufficio di Avianca. Visto che è presto, mi fermo in un ristorantino anonimo dove divoro una bandeja de arroz con pollo e una birra gelata.

Compro il biglietto e mi incammino in autobus verso l’areoporto: c’è troppo caldo per rimanere in città. Arrivo in areoporto con tre ore d’anticipo!



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