Filippine, camminando in equilibrio tra risaie e coralli
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Devo sempre scrivere… Se potessi, scioglierei ogni momento passato nel mio vagabondare in un inchiostro multicolore e lo metterei su carta. Annotando e scribacchiando sui miei quaderni tutti stropicciati mi sono reso conto di quanto ogni viaggio, nel bene e nel male, sia ricco di spunti per una bella storia da raccontare, come quel dolce weekend in un tiepido ottobre parigino tra mostre, vino e frutti di mare, o la scintillante atmosfera dei musical Londinesi di un maggio di sole con un piede già nell’estate. Tutto si eleva esponenzialmente esplorando mete lontane dove culture esotiche cresciute sotto cieli tropicali mi inondano di aneddoti che riempiranno pagine e pagine Dei miei diari. Le possibilità sono infinite, c’è sempre qualche emozione che mi graffia sul braccio e mi chiede di essere ricordata. Non serve che succedano chissà quali eventi, basta fare attenzione, fare un bel respiro, annusare l’aria e appoggiare la penna sulla pagina, ed allora sgorga un fiume di parole che conservano emozioni e pensieri che quando rileggerò in un freddo inverno italiano o sotto l’ombrellone in spiaggia, saranno come un fulmine che con un brivido di piacere sottopelle mi faranno tornare a rivivere quei momenti. Ed allora, misto all’odore della mia tazza di caffè, potrò sentire il profumo della crema abbronzante, l’incenso nei templi cinesi o le sostanze chimiche dell’aria condizionata di Riyadh. Il tatto sulla grana della pagina consunta del diario diventerà la soffice sabbia di Elephant Beach o il fresco legno inzuppato da una pioggia monsonica a Mae Hong Son. Il potere di un diario è quello. Ferma il tempo e conserva emozioni. Trasmette, come una capsula del tempo, a noi stessi, i noi stessi di un passato, Ma è proprio per questo che scrivo i diari. Il viaggio per me non è solo un resoconto di luoghi visitati, ma è cosa ho provato e sentito con tutti i sensi.
Mettere il principio all’inizio
Filippine: quando le abbiamo scelte non avevamo ancora in mente un’immagine di quei posti. Se avessero detto “Giappone” probabilmente avrei pensato all’istante ad Akihabara, il quartiere tecnologico di Tokyo e Lula forse alla Geishe di Kyoto. Con l’India avrei pensato al Taj Mahal e al nome “Giordania” avrei pensato subito alla bellissima Petra. Con le Filippine, no. Ok, avevamo visto tantissime foto ed eravamo stati attratti dalle belle risaie di Banaue o dal mare delle Bacuit Islands vicine ad El Nido, tuttavia, non c’era un riflesso condizionato tra il nome ed un’icona. Andavamo in un paese di cui non ne avevamo mai sentito parlare da altri viaggiatori, e questa sarebbe stata la nostra avventura, la nostra storia, senza idee o emozioni suggerite da altri.
L’anno scorso le Filippine erano già state una delle mete “papabili” con l’India, ma poi, aveva vinto il carattere architettonico/religioso/culturale della seconda opzione. Alla fine del viaggio abbiamo deciso che nel prossimo viaggio avremmo voluto avere un contatto maggiore con la natura. Ecco arrivato il turno delle Filippine!
Questa Estate (2013) ci siamo indaffarati a cercare dei voli da Milano a Manila, ma sembrava una congiura contro di noi. Quelli che costavano meno, avevano delle coincidenze folli e circa 30 ore di viaggio, mentre i voli con coincidenze migliori arrivavano a costare oltre i 750 Euro. Finché un giorno di fine Settembre, quando avevamo quasi gettato la spugna è successo l’incredibile. Un volo della Saudi Arabia Airlines andata e ritorno, con ottime coincidenze, a 218 Euro. Senza pensarci due volte, lo abbiamo acquistato. Manila, arriviamo!
A questo punto abbiamo riletto alcuni diari di viaggio, numerose proposte di tour operators per prendere spunti, ma alla fine, abbiamo deciso di organizzare un tour tutto nostro. Ispirati dalla canzone dei Negrita “Rotolando verso Sud” abbiamo deciso di partire dal Nord e scendere lentamente verso sud toccando le mete più turistiche. Le chicche da intenditore delle Filippine, saranno per il prossimo viaggio. Per aiutarci ad organizzare il viaggio abbiamo acquistato sia una Lonely Planet che una Rough Guide che spesso si sono integrate a vicenda. Abbiamo solo prenotato gli alberghi più importanti, come quello di El Nido, ed abbiamo lasciato il resto del viaggio da organizzarsi sul posto in modo da aver più libertà d’azione. Tuttavia, visto che tutto stava andando troppo liscio, a complicarci i piani ed a farci salire l’ansia ci ha pensato Haiyan, il tifone più forte della storia, era laggiù, che sembrava aspettarci. Noi, eravamo a casa a guardare lo schermo del PC, a seguirlo istante per istante, neanche fossimo i suoi stalkers e a fare ogni sorta di rito scaramantico. Questo è durato fino al giorno prima della nostra partenza, quando abbiamo avuto la conferma che Haiyan stava lasciando le Filippine. Per fortuna! Ora eravamo pronti a partire. Gli zaini erano fatti, si parte!
Giorno 1 – 9 Novembre 2013
A Malpensa faceva fresco e c’era un bel sole. Quella mattina ci ha accompagnati all’aeroporto il fratello di Lula e la sua bambina. Lungo il tragitto la canzone che ci ha accompagnati è stata una terribile “Il cane fa cip, il passero fa bau, cip, cip, bau, bau…”. Un reframe che ho avuto difficoltà a dimenticare. La prossima volta prendo quel CD e lo incenerisco.
Dopo colazione abbiamo salutato il fratello di Lula e ci siamo dedicati alla sequela di check-in e svariati controlli di sicurezza. Mentre eravamo in coda abbiamo incontrato una simpatica coppia di viaggiatori attempati che si sono definiti “biechi turisti balneari” in partenza per Santo Domingo e scherzando sul mio aspetto mediorientale mi prospettavano una serie di controlli aggiuntivi in tutti gli aeroporti di mezzo mondo… Ovviamente, ho confidato nello stesso aspetto per guadagnarmi favori nell’aeroporto di Riyadh, il nostro primo scalo.
Alle 11.00 l’aereo è decollato. Il volo è stato tranquillo ed il personale a bordo molto gentile. A fianco a me c’era seduto un Polacco probabilmente muto visto che non ha degnato di risposta nessuna delle mie domande in Italiano, Inglese e nel suo idioma nativo. Il tragitto è durato quasi sei ore e, sebbene l’aereo non fosse provvisto di schermi video personali, il tempo è passato in un attimo Atterrati a Riyadh, vista la lunga coincidenza di 5 ore, ci è stata offerta la cena in aeroporto. Immagino che sia la proverbiale ospitalità araba. Qui abbiamo anche incontrato una simpatica coppia di italiani, Martina e Mr. Marito di Martina, in viaggio verso Palawan anche loro nella speranza di non prendersi la coda del tifone. Detto questo, purtroppo l’aeroporto di Riyadh è decisamente brutto. Non ci si può fare nulla. E’ arredato in maniera fredda, l’aria condizionata ha un acre odore chimico, è molto caro (come tutti gli aeroporti del resto), piccolo, vuoto e noioso. Dopo alcune ore, io e Lula, presi da attacchi di noia abbiamo improvvisato una lezione di fitness e stretching in un’area vuota. Terminata la lezione di fitness siamo partiti con la missione di tampinare i commessi dell’unico negozio aperto, che vendeva datteri e poi siamo entrati nella Lounge da dove siamo stati opportunamente allontanati. Questo aeroporto un po’ desolato sembra esser stato creato solo per la Saudi Arabian Airlines e ci immaginavamo lo sceicco locale che, invidioso dei dirimpettai più ricchi del Quatar, Oman e Bahrein, ha voluto farsi anche lui la flotta aerea e l’aeroporto.
Alle ore 23.30 locali siamo partiti per la seconda tratta della durata di nove ore. Questa tratta è stata epicamente noiosa. Il viaggio è stato tranquillo, ma gli schermi di bordo non funzionavano e l’aereo sembrava un po’ vecchiotto. Ancora ci è venuta in mente la scenetta dello sceicco di Riyadh che voleva farsi la flotta aerea e mentre stava comprando dei vecchi B-17 della Seconda Guerra Mondiale, gli è arrivato a fianco lo sceicco proprietario della Emirates e, con una pacca sulla spalla e gli occhi pieni di compassione, gli ha regalato qualche aereo datato che gli avanzava alla Emirates e non sapeva dove metterselo. Il cibo a bordo è stato scarso, riso molle e bruciacchiato, vitello che era in realtà cubetti di grasso infiltrato di carne, caffè di decotto di segatura di palma e un dolce con cubetti di gel che veniva da chissà quale perversione culinaria di una cucina di Riyadh. Poi, le luci sono state spente e la noia l’ha fatta da padrone. Santo Lexotan!
Alle ore 13.40 ora locale siamo atterrati all’Aeroporto Ninoy Aquino International di Manila, al Terminal 1. Al contrario di Riyadh, qui regnava una bella confusione e c’era tanta vita. Evviva! Siamo subito usciti nel sole caldo dei tropici e dopo aver preso una SIM locale caricata con 500 Php, abbiamo preso la navetta che al costo di 20 Php, ci ha portati al Terminal 3, dove avremmo avuto il prossimo volo. Leggendo su internet sembrava che l’aeroporto fosse immerso in un’area di traffico infernale, ma non era così. Era il semplice traffico tipico di ogni città asiatica. Auto, camion, Jeepneys dai colori brillanti e tricycle super personalizzati sfrecciavano tranquillamente lungo le strade attorno all’aeroporto. Mi domando cos’avrebbero scritto del traffico questi americani allarmistici internettiani se fossero passati per Chennai in India o per la Tangenziale Ovest di Milano! Prima di continuare, specifico che i Jeepeneys sono dei furgoni passeggeri ricavati da vecchie jeep americane, super personalizzati e simili ai Songthaew Thailandesi, mentre i Tricycle sono i Tuk Tuk filippini, praticamente, dei sidecar, anch’essi super personalizzati.
Il Terminal 3 è dedicato ad alcune compagnie Low Cost, in particolare alla Cebu Pacific Airlines. Qui c’era una balla frenesia di viaggiatori e vi erano tanti negozietti e ristorantini. Noi avevamo qualche ora da aspettare così, prima abbiamo assistito ad una parte di una messa pubblica recitata in inglese e cantata in una sorta di one-man-gospel fatta da un lato dell’aeroporto, poi abbiamo fatto il check-in, e nell’attesa dell’imbarco siamo andati a farci fare un bel massaggio. Dopo tutte quelle ore di aeroporti, ci voleva proprio!
Un altro tramonto in aeroporto, un’altra attesa. Ci eravamo imbarcati all’alba del 9 Novembre, ed ora era già la sera del 10 Novembre. Il “giorno 2” di viaggio era ormai passato velocemente. Il tempo ormai era solo un’opinione. Alle 19.00, ci siamo imbarcati sul volo per Laoag. Il volo è durato circa un’ora ed alle 20.00 siamo atterrati nella cittadina del nord. Durante il viaggio il personale di cabina è stato simpaticissimo e hanno ravvivato il viaggio anche facendo il quiz a premi sulle procedure di sicurezza dell’aereo.
Laoag è una piccola città che fa da capitale della regione dell’Ilocos Norte, nel nord di Luzon. Quando siamo sbarcati, nel buio caldo ed umido, ad accoglierci abbiamo trovato un piccolo aeroporto già addobbato con le illuminazioni di Natale. Era stranissimo per noi essere ai tropici, sudando nel caldo umido e trovarci davanti lucine colorate intermittenti e insegne “Merry Christmas!”. Essendo Luzon un’isola tropicale, le luci intermittenti non erano su un presepe poggiato sul muschio, ma erano su una composizione di conchiglie tropicali giganti. Davvero interessante! Dall’aeroporto si può prendere un autobus gratuito che porta in centro, per avere il passaggio in quel freezer su ruote, basta registrarsi all’information centre affianco al ritiro dei bagagli. Fuori dall’aeroporto c’erano già schierate decine di Tricycle, che poi sono la versione filippina dei Tuk-Tuk, più simili a dei sidecar super personalizzati che ai Tuk-Tuk indocinesi o indiani. Comunque, noi li abbiamo evitati attentamente e abbiamo preso il bus gratuito.
Noi ci siamo fatti lasciare in mezzo ad una strada buia, eravamo io, Lula ed i nostri zaini. Un respiro, ci siamo guardati in giro, abbiamo evitato quel Tricycle che si era materializzato dall’oscurità a pochi centimetri da noi e siamo entrati in quella strada buia sterrata contrassegnata dall’arcana indicazione “Northview Hotel”. Al nostro arrivo il personale molto gentile ci ha accolti con un sorriso. In un batter d’occhio ci hanno fatto il check-in e ci hanno portati alla nostra minuscola camera che ha già visto tanti viaggiatori e molte stagioni. Tempo di disfare gli zaini che ci siamo accorti di non avere acqua corrente, quindi, dopo aver protestato, ci è stata assegnata una camera tripla allo stesso prezzo, ma sul lato opposto dell’albergo. Anche questa camera non era bella come quelle delle foto su internet, ma a confronto alle memorie dei nostri alberghi in India, sembrava una reggia. Per questa sera cena in albergo con del riso ed del Pork Adobo, una sorta di spezzatino di maiale. Da bere la nostra prima San Miguel, o San Mig come la chiamano nelle Filippine e per finire del cocco gelatinoso.
Prima di andare a dormire abbiamo chiesto informazioni per i tour che avremmo voluto fare il giorno successivo e la gentilissima consierge ci ha aiutati ad organizzare tutto. Era ora di andare a dormire, finalmente in un letto vero, ma per poche ore. La nostra sveglia era già puntata alle 5.00 del mattino.
Giorno 3 – 11 Novembre 2013
La sveglia ci ha richiamati dal mondo dei sogni alle 5.00. Queste cinque ore di sonno erano assolutamente volate. Abbiamo fatto gli zaini piccoli e siamo usciti aspettandoci di trovare la stessa oscurità che avevamo lasciato la sera prima ancora li, ad aspettarci. Invece, c’era già molta luce. L’alba era imminente pronta a scaldare l’aria fresca di questa cortissima notte filippina. Siamo arrivati allo spiazzo davanti all’albergo ed abbiamo trovato un grossa jeep con sopra tre tizi. Lui, il più grasso è balzato giù e si è presentato come Anthony. Ci ha presentato due ragazzini che erano i suoi nipoti e non appena saliti sul retro della jeep, è partito verso Laoag.
Abbiamo attraversato Laoag che brulicava già di gente ed abbiamo proseguito ad verso ovest, verso La Paz, appena fuori dalla città. Così, dopo pochi minuti ecco che eravamo giù in piedi sul deck della jeep a gridare mentre ci lanciavamo giù per le famose dune di La Paz. Si, perché Laoag sorge su un terreno alluvionale creato dai depositi del fiume Laoag, e per motivi geologici a me oscuri e che Lula ha provato a spiegarmi senza molto successo, qui e poco più a Sud, Mr. Laoag River ha creato delle belle dune. Un mini deserto che si lancia dritto nel mare della Cina terminando in un’estesa spiaggia di sabbia nera. Noi eravamo lì, a lanciarci come matti su e giù, cavalcando dune e dando il benvenuto al sole in questa meravigliosa giornata Filippina dorata! Eh si Sole, stamattina ci siamo svegliati prima di te! In mare c’erano numerose barche, chiamate “Banka”, il mare era di un blu così intenso che sembrava dipinto da un pittore che aveva nella tavolozza solo tonalità del blu. Era fantastico essere li ad ammirarlo.
Anthony era esaltato dalla nostra euforia ed ha aspettato il momento giusto per avvicinarsi con una tavola da body surf …era arrivato il momento del Sand Boarding! Con la jeep siamo arrivati in cima ad una duna delle più alte e poi, con le nostre tavole decorate con graffiti punk ci siamo preparati alla discesa. La vallata ci aspettava, la sabbia bruna e soffice era laggiù, e noi ci siamo lanciati. L’accelerazione, il vento che fischiava, i sobbalzi, i granelli di sabbia sulla faccia nella luce dorata dell’alba, cavalcavamo quelle tavole ridendo come pazzi. La sabbia in bocca e negli occhi, e tanta allegria. Era bellissimo! Non soddisfatti, siamo andati su una duna ancora più alta ed abbiamo continuato con le discese finché s’è fatto tardi per la nostra tabella di marcia.. Così, sempre in piedi sul deck della jeep, siamo ritornati all’albergo. Quando siamo scesi, Anthony ci ha inviatati a casa sua per cena e noi abbiamo accettato, purché ci lasciasse portare la birra.
Abbiamo fatto una veloce colazione con uova e ottimo bacon (finalmente fatto come si deve!) e siamo stati chiamati da un signore filippino magrolino in camicia e badge identificativo. Lui ci ha indicato un pullmino e si è presentato come l’autista del tour del nord di Ilocos Norte che avevamo prenotato la sera prima, e noi eravamo i soli e unici clienti. Meglio per noi!
Subito siamo partiti e l’autista ha attaccato con la musica soft-pop-lagnosa tanto adorata nelle filippine. Onestamente, avremmo potuto organizzare questo viaggio anche da noi, ma alla fine, facendo due conti, abbiamo valutato che il costo era irrisorio e con questo autista avremmo risparmiato tanto tempo, quindi, via col tour!
La prima tappa è stata a Pasquin dove abbiamo visitato una delle fonti di reddito principali della zona, la produzione di sale marino. L’altra attività è la produzione di dolci chiamati “Biscocho”, ma non ne abbiamo visto in vendita nemmeno mezzo, quindi rimarrà a far parte della leggenda. La produzione del sale è demandata a numerose piccole attività. In genere si tratta di agglomerati di 2-3 baracche nel fango vicine al mare. L’acqua del mare viene trasportata in secchi a riempire delle cisterne vicino ai bollitori. Grosse piastre di bollitura sono disposte sopra a fornaci che vengono alimentate a segatura e l’acqua, bollendo lentamente, sedimenta il sale. In questo ambiente buio, malsano, caldo e umido, lavorano piccoli gruppi di uomini che curano la produzione a partire dalla raccolta dell’acqua di mare coi secchi fino al trasporto del sale asciutto in sacchi sulla strada dove verrà venduto.
Abbiamo lasciato quest’area e abbiamo proseguito lungo la costa che era diventata una frangia di scogliere lambite dal mare blu intenso. Sopra di noi, un cielo di sole e poche sporadiche nuvole. L’autista finalmente ha deciso di cambiare CD ed ha messo il suo preferito che avrà tenuto per tutto il tour. Adele, senza saperlo, è diventata la colonna sonora del nostro viaggio!
La tappa successiva è stata il faro di Cape Bojeador. Questo faro, colorato in intonaco bianco, è tenuto piuttosto male. Se dovessi immaginarmi una scena dark-gotica dei mulini a vento di Don Quijote, bene, ci sarebbe stato un cielo nuvolo al crepuscolo, qualche fulmine e questo faro con attaccate le pale lacere del mulino che girano cigolando piano nel vento. Ma il nostro panorama era totalmente diverso. Il sole era alto nel cielo ed i colori erano tutti cambiati nelle loro tonalità più vive. Il vento c’era, ma era caldo e venendo dai monti profumava di vegetazione. Siamo saliti per la scalinata un po’ decadente e, passando attraverso un immobile apparentemente abbandonato, abbiamo raggiunto il faro. Non si può salire fino in cima, ma dal punto più alto abbiamo avuto la possibilità di godere di un bel panorama, e per un po’ eravamo addirittura soli! Il mare era blu ed agitato e la costa, oltre quella scogliera che ci si parava davanti, cambiava in quella che sembrava una gran bella spiaggia di sabbia bianca. Dovrò tenere presente questo posto per un futuro viaggio.
Siamo tornati al pulmino e abbiamo continuato per la nostra strada verso nord finché ad un certo punto l’autista non ha svoltato a sinistra in un punto senza cartelli. Ha proseguito per una stretta strada intervallata da importanti lavori di allargamento e ripristino finché non abbiamo raggiunto un agglomerato di bar e negozi di souvenir. Eravamo a Kapurpurawan. Una stretta stradina di terra battuta ci ha portati al mare dove una scogliera arrivava piatta al mare. Qui c’era la possibilità di noleggiare dei piccoli cavalli per farsi portare a visitare l’attrazione della zona, le candide formazioni rocciose che si ergevano sulla costa a destra della scogliera. Noi abbiamo scelto di seguire la stradina a piedi e di raggiungerle godendoci lentamente il panorama e l’atmosfera. La famosa formazione rocciosa appare come una piccola porzione di una collina che è stata lavorata dal vento e dal mare. Il resto della collinetta è coperta da vegetazione. Tuttavia, proseguendo per la strada e seguendo le tracce lasciate dei molti turisti che si sono avvicendati negli anni, si può fare il giro attorno alla collina per scoprire che il lato verso al mare è tutto stato scavato. Qui candide formazioni rocciose simili a canyons formano un paesaggio quasi lunare. Il mare aveva cambiato ancora colore ed era di un blu indaco tale che quando ho fatto vedere le foto a casa tutti credevano che le avessi photoshoppate. Abbiamo passato un bel po’ di tempo visitando queste formazioni che sembravano cambiare scorcio ad ogni angolo, poi la tabella di marcia ci ha costretti a proseguire verso le tappe successive e siamo tornati al pullmino.
Lungo la strada principale abbiamo fatto una breve sosta a Bangui dove lungo la bella spiaggia sabbiosa è stata costruita una ventina di pale eoliche. Erano li, dritte, come giganti che fissano il mare coi capelli al vento. Abbiamo vagato un po’ sulla spiaggia ed il forte vento sibilava nelle orecchie e disegnava arabeschi mutevoli sulle piccole onde del mare cobalto. Abbiamo passato un po’ di tempo su questa spiaggia, quasi totalmente deserta, e poi siamo ripartiti per la prossima tappa. Abbiamo trovato le Filippine molto pulite e ci è stato detto durante il viaggio che il governo sta puntando verso le energie rinnovabili come anche verso la raccolta differenziata.
Siamo arrivati a Pagudpud che era mezzogiorno passato. All’inizio sembrava solo un agglomerato di piccoli edifici, ma poi, una volta scesi dall’auto ci è bastato fare pochi passi per ritrovarci sulla riva del mare. Siamo rimasti senza parole! Davanti a noi c’era una delle più belle spiagge che avessimo mai visto. Una lunga lingua di sabbia color cipria si stendeva per chilometri davanti a noi ed era lambita da un mare piatto dalle infinite sfumature di turchese, che luccicava coi riflessi del sole. Siamo subito scesi in spiaggia ed eravamo soli. Tutti i turisti erano nascosti nei ristoranti a strafogarsi di frutti di mare.
Su quella spiaggia il tempo è letteralmente volato e troppo presto siamo dovuti tornare, ancora zuppi di acqua di mare, in auto e puntare verso Sud, verso Laoag. Mentre salivamo in auto, il nostro unico pensiero è stato quello che, prima o poi, saremmo voluti tornare su questa spiaggia.
Sulla strada del ritorno verso Laoag abbiamo fatto ancora una breve sosta presso la Refmad Dragon Fruit Farm. Già in passato ci era capitato di mangiare questo frutto, ma non avevamo mai visto la pianta. Così è stata una bella occasione per scoprite che tutte quelle piante che abbiamo visto quella stessa mattina, che sembravano mazzi di cactus tenuti uniti da un copertone, e per questo motivo li chiamavamo come “Piante dei Copertoni”, in realtà erano le piante di Dragon Fruit. La visita alla piantagione richiede poco tempo nel quale si può vagare tra le piante. Il posto ci è sembrato un po’ desolato e, alla fine, la parte più bella è stata la visita al negozio dove abbiamo potuto mangiare un Dragon Fruit. Il locale era carino e abbiamo potuto riposarci qualche minuto su un’amaca.
Tornati a Laoag abbiamo fatto una breve sosta per vedere la Sinking Bell Tower, cioè la Torre Campanaria che sta lentamente affondando nel terreno sabbioso sulla quale è stata costruita Ancora una breve vista alla Cattedrale e poi siamo tornati all’albergo.
Quella sera, armati di quattro grosse bottiglie di birra, ci siamo recati a casa di Anthony dove abbiamo cenato. Anthony ci ha presentato la sua famiglia e ci ha fatto visitare la sua bella casa. Ovunque regnava la confusione visto che la stavano addobbando per Natale. Infatti, nelle Filippine, gli addobbi di Natale si mettono già nei primi giorni di Novembre.
Anthony ci ha proposto una cena a base di snack tipici. Siamo partiti dalle immancabili patatine in varie declinazioni dal naturale al piccante. Poi ci sono state offerte le Empanadas, piatto preferito di Lula per quella serata, che erano delle sorte di piccoli Calzoni fritti ripieni di Salsiccia, Formaggio e Uovo. Il secondo piatto forte sono stati degli spiedini di intestini di pollo grigliati dal colore giallastro ed il Balut. Mentre Lula ha assaggiato gli intestini, il cui sapore era dolciastro, non ha azzardato toccare il piatto nazionale filippino, cioè il Balut: è un uovo d’anatra fecondato e di 18 giorni. Il numero di giorni è vincolante perché da questo se ne determina la dimensione dell’embrione che vi si trova dentro. Io non sono un patito del Balut e l’ho assaggiato solo per curiosità. Tuttavia, trovarsi davanti un uovo con incastonato dentro un embrione piumato immerso in un liquido dal gusto di zolfo, può non essere un’esperienza culinaria per tutti. Questo è un cibo che si è sviluppato, come tanti altri nel mondo, in periodi di necessità, della serie “abbiamo uova vecchie di 18 giorni, che facciamo? Le mangiamo o patiamo la fame? Vabbè, bolliamole…”, ma oggi non mi capacito perché non usino semplici uova sode. Comunque, per chi fosse interessato, il rito per mangiarlo è il seguente:
1. Rompere il guscio dal lato più tondo;
2. Togliere la pellicola della camera d’aria;
3. Bere lo Zolfo Liquido;
4. Sgusciare meglio l’uovo;
5. Mettere Sale e Aceto;
6. Mangiarlo.
Quando l’ho mangiato Anthony era incredulo di vedere questi due occidentali che non hanno battuto ciglio davanti alle tradizioni culinarie filippine e forse, magari, avrà pensato che tra tutti i turisti che si sarà portato a casa, noi siamo i più selvaggi. Comunque, il Balut sa di Uovo Sodo, un Uovo Sodo intinto nello zolfo e con qualcosa di croccante.
A tarda serata io e Lula siamo tornati al nostro albergo dove ci siamo fermati per un po’ sul bordo della piscina con due belle tazze di caffè fumante. Poi siamo tornati in camera a fare gli zaini perché il giorno dopo avremmo dovuto affrontare una tappa impegnativa.
Buona Notte Pagudpud
Giorno 4 – 12 Novembre 2013
La nostra sveglia è suonata per la seconda volta in due giorni alle cinque del mattino. Noi nonostante volessimo continuare a dormire, ci siamo buttati giù dal letto a vicenda, e vagando per la stanza in stato confusionale, ci siamo preparati. Oggi era il giorno con lo spostamento più complicato di tutto il viaggio, e dovevamo cercare di essere lucidi o almeno di fingere di esserlo. Fatti gli zaini ed indossati abiti comodi siamo partiti.
Appena arrivati alla strada principale abbiamo fermato un Tricycle e gli abbiamo chiesto di portarci alla stazione “Partas” dei bus di Laoag. Partas è una delle tante compagnie di bus che lavorano nelle filippine. Lula si è sistemata nel sidecar col suo zainetto ed i due zaini grandi, mentre io avrei viaggiato aggrappato sul sedile posteriore della motocicletta col mio zaino piccolo sulle spalle. E così siamo sfrecciati verso il centro. Oggi l’alba sembrava più buia del mattino precedente o forse era solo il sonno. Arrivati alla stazione abbiamo acquistato un biglietto per l’autobus delle 6.00 per Vigan.
Il pullman è partito in orario s’è diretto a sud. Quando eravamo ancora nella fase di scegliere quali località visitare in questo viaggio, avevamo pensato di passare la notte a Vigan: questa città è patrimonio dell’Umanità Unesco per il suo centro storico di epoca coloniale, e sembrava proprio un posto caratteristico per una serata in pieno relax. Tuttavia in seguito abbiamo visto che le parti da visitare erano tutte piuttosto vicine abbiamo deciso solo di transitarvi. Studiando i percorsi dall’Italia avevamo trovato queste due possibilità:
Ipotesi 1:
1. Laoag-Vigan (1-2 ore)
2. Vigan-Baguio (5 ore circa)
3. Baguio-Bontoc (5 ore circa)
4. Bontoc-Sagada (1-2 ore)
Ipotesi 2:
1. Laoag-Vigan (1-2 ore)
2. Vigan-Tagudin (3 ore circa)
3. Tagudin-Cervantes (3 ore circa)
4. Cervantes-Bontoc (1-2 ore)
5. Bontoc-Sagada (1-2 ore)
La seconda ipotesi sembrava la più veloce, ma tutto era lasciato troppo al caso, visto che avremmo dovuto aspettare coincidenze senza orari precisi e fermare bus lungo la strada, così abbiamo optato per la prima, più lunga, ma meno complicata.
Siamo arrivati a Vigan che era prima mattina. Il sole era già alto e dopo due ore nell’aria condizionata gelida del pullman, ora lo sentivamo bruciare sulla pelle. Ci siamo avviati a piedi verso la strada principale, Calle Crisologo, attorno alla quale si snoda il centro storico. Abbiamo passeggiato un po’ per questa strada fiancheggiata da edifici coloniali un po’ decadenti. A tratti ci sembrava di essere in un film di Zorro. Non ci saremmo stupiti nel sentire musica di chitarra e vedere un messicano panciuto in poncho e sombrero attraversarci la strada con un sigaro tra i baffoni. Poi, ad un tratto, il rumore di zoccoli di cavalli, che fosse davvero Zorro? No, era una calesa che doveva passare. Qui, nel centro di Vigan sono tipici i carri trainati da cavalli, addobbati in maniera un po’ kitsch che portano i turisti a visitare i luoghi di interesse. Ci siamo fermati per una colazione presso una bakery locale e poi, sentendo il peso degli zaini accentuato dal caldo torrido, abbiamo deciso di prendere una calesa. Al prezzo di 350 Php (Pesos) abbiamo pattuito un giro per i luoghi più turistici ed il trasporto al terminal dei Pullman.
Abbiamo percorso Calle Crisologo e siamo arrivati in Plaza Burgos e poi Plaza Salcedo dove abbiamo visitato la bella Cattedrale di St. Paul e il vicino Burgos Museum. Abbiamo poi proseguito attraverso un ponte ed abbiamo raggiunto il Santuario di Nuestra Senora de la Carida. Una chiesa piuttosto piccola e spoglia, ma accanto vi è una torre campanaria sulla cima di una piccola collina che è molto evocativa. Infatti, alcuni anni fa è stata usata anche come location per le riprese di un film fantasy filippino. Siamo così tornati in centro ed abbiamo visitato un’area dove producono i famosi vasi di terracotta di Vigan. Onestamente, questa sembrava parecchio una trappola per turisti, visto che l’area della produzione, cioè, il capannone, era letteralmente circondata da un labirinto di bancarelle di souvenir. Abbiamo fatto una breve visita e siamo tornati alla nostra calesa che ci ha portati al vicino Museo della famiglia Crisologo. Il museo è in un vecchio palazzo di proprietà della facoltosa famiglia Crisologo. Nelle varie stanze sono esposti numerosi oggetti appartenuti principalmente al Sig. Floro Crisologo e sua moglie Carmeling Crisologo, genitori dell’attuale politico filippino Vincent “Bingbong” Crisologo. Il Sig. Floro Crisologo venne ucciso in un attentato ormai molti anni fa e subito dopo fu il turno della moglie, anche lei in politica, ad essere vittima di un attentato. La sua automobile venne bersagliata da numerosi colpi di arma da fuoco, ma lei ne uscì illesa. Adesso quell’auto, con ancora i fori di proiettile, è esposta al pianterreno del museo. Il piano superiore è articolato in larghi saloni e camere. I saloni con le loro vetrate e finestre spaziose ricordano nuovamente i film di un Messico romantico, coloniale, ed ormai lontano. Non ci voleva uno sforzo d’immaginazione a figurarsi dei banchetti in quei saloni dalle tavole lunghe e massicce, le sedie intarsiate, il pavimento lucido e una bella luce splendete attraverso le finestre spalancate che portavano la tiepida brezza tropicale. Le finestre sono fatte a griglia e vi sono incastonate, al posto dei vetri, delle conchiglie “Capiz” notoriamente più resistenti ai tifoni dei normali vetri.
Siamo usciti dal museo e ci siamo fatti portare alla stazione. Quando siamo arrivati ci è stato detto che avremmo dovuto ancora aspettare circa un’ora per il prossimo pullman, così abbiamo fatto una passeggiata nel vicino mercato coperto, sebbene fosse un intrico di bancarelle di cose a noi inutili. Allora siamo entrati in un vero supermercato dove Lula è partita alla missione di cercare della bella frutta e dell’acqua, mentre io stavo di guardia agli zaini all’ingresso. Nel girovagare per il supermercato, Lula ha visto che vi erano scaffali e scaffali pieni di snacks e la gente comune non faceva altro che riempire i propri carrelli della spesa con quelle porcherie. Le Filippine hanno un patrimonio di risorse alimentari invidiabili. Viene prodotta: Frutta, Verdura, Carne e Pesce. Tuttavia, forse a retaggio della neanche tanto recente esperienza coloniale Statunitense, o forse della ben più recente pesante presenza di basi militari a stelle e strisce, ora i Filippini impazziscono per snacks quali patatine e surrogati. Mentre aspettavo Lula ho potuto vedere la stessa processione di carrelli stracolmi di sacchetti di snacks e bevande gassate in una tavolozza di colori fluorescenti, passare per le casse, dove vi erano ragazzi addetti all’imballo dei prodotti in cartoni che venivano chiusi a giri di spago dati con una maestria degna di un ragno. In quel tripudio di sacchetti stracolmi di schifezze, l’unica nota stonata era Lula che era in coda con alcune salutari arance e bottigliette d’acqua. Poi, ho abbozzato una teoria: Magari quelle persone hanno dei negozietti simili ad empori, che nelle Filippine si chiamano “Sari-Sari Store”, e quelli sono i prodotti che metteranno in vendita.
Siamo partiti da Vigan con un pullman della compagnia Partas diretto verso Baguio. Questo autista era totalmente pazzo e guidava su quelle strade credendo di essere a cavalcioni su un missile. Nei giorni successivi ho comunque capito che quella è una convinzione, forse dettata a qualche senso di inadeguatezza legato alla una qualche forma di compensazione, comune a tutti gli autisti di pullman nelle filippine. All’una abbiamo fatto una pausa per il pranzo ad un capanno lungo la strada principale. In questa stazione vi era sia una sorta di self-service che un manipolo di venditori ambulanti con uova di quaglia sode e gli immancabili snacks. Siamo ripartiti dopo un’ora di pausa e finalmente abbiamo visto il mare, sebbene per pochissimo, perché poi abbiamo iniziato la nostra salita verso Baguio. Nel giro di poche ore siamo passati dal livello del mare fino ai 1555 metri di Baguio, dove siamo arrivati poco dopo le 15.00. Troppo tardi! Avevamo perso la coincidenza per Sagada.
Abbiamo controllato le nostre guide ed abbiamo scoperto che in un piccolo terminal servito dalla compagnia “D’Rising Sun” sarebbe partito l’ultimo pullman della giornata per Bontoc. Non era Sagada, ma comunque abbastanza vicino.
Baguio non è una bella città. C’è chi dice che sia una “carinissima” cittadina universitaria, una vera e propria capitale del Nord di Luzon. Per noi non era che una città caotica circondata, se non strangolata, da baraccopoli che ricoprivano intere colline.
Appena scesi dal pullman siamo stati assaliti da un’orda di procacciatori che hanno elencatoil solito mantra “Benvenuto, tutti gli alberghi sono pieni tranne il mio, tutti i mezzi di trasporto in uscita dalla città sono partiti o bloccati qui per la notte e devi venire al mio albergo, la città è pericolosa dopo il tramonto quindi devi stare al mio albergo, il mio albergo è l’unico pulito e rispettabile. Dimenticavo, io sono l’unico procacciatore onesto della città!”. Io ho masticato una lingua incomprensibile ai più, e poi con Lula abbiamo fermato un Taxi e ci siamo lanciati dentro come degli indemoniati.
“Presto, portaci alla Staughterhouse!”
Lui ci ha guardati perplesso “Sorry?”
“Alla Slaughterhouse, presto!”
“Volete davvero andare al mattatoio, ma perché?”
“Perché se non ti muovi perdiamo il pullman!”
Ed ecco che ha capito di portarci, non al mattatoio, ma alla stazione dei pullman vicina.
Lui ha inserito subito il tassametro e si è lanciato per le strade, ma subito dopo siamo rimasti bloccati nel traffico. Ecco abbiamo centrato in pieno l’uscita di un miliardo e mezzo di giovani da un edificio. Quella folla, che sembrava la popolazione dell’India e Cina unite e moltiplicate per 10 volte erano ragazzi che avevano fatto l’esame di ammissione all’università locale ed ora stavano solo uscendo. Proprio quando dovevamo passare noi! Ciò nonostante, dopo un’attesa snervante ed interminabile, anche l’ultimo ritardatario ha attraversato la strada e noi siamo stati liberi di procedere. Abbiamo così raggiunto la stazione dei pullman e mentre io pagavo l’autista Lula s’è messa a correre coi tre zaini verso il pullman già acceso. Arrivata dal portellone, l’hanno tirata a bordo coi tre zaini e in men di un secondo si è affacciata alla porta di coda a chiamarmi. Sono riuscito a balzare a bordo; era stipato di gente, i bagagli erano ovunque e non sapevo dove camminare per raggiungere Lula, ma lei non solo aveva trovato un posto a sedere, ma ne stava tenendo uno anche per me. L’autobus è partito subito in un turbinio di vibrazioni, scricchiolii e boati provenienti dal motore. Le finestre sul nostro lato erano rotte chiuse, quelle sul lato opposto erano rotte aperte. Noi eravamo gli unici occidentali a bordo.
Alle 16.00 precise abbiamo lasciato Baguio e abbiamo iniziato il nostro viaggio mentre stava avvicinandosi il buio del tramonto. Il nostro pullman giallo e verde si è arrampicato instancabile su e giù per la cordigliera correndo come un matto e facendo curve sul bordo di precipizi sfidando tutte le leggi della gravitazione. Di tanto in tanto l’austista si fermava in mezzo al nulla, avvolto dal buio della notte, e faceva scendere alcune persone che si smaterializzavano nell’oscurità pochi passi più in la. Ma dove saranno andati? Verso le 19.30 come un miraggio è apparso un villaggio con annesso punto ristoro e l’autista ha deciso di fare una pausa di mezz’ora. Io e Lula ci siamo fiondati fuori, più che altro per fare due passi e riprendere il controllo delle nostre natiche mentre rimettevamo le ossa al loro posto. Appena gli autisti hanno finito di strafogarsi di Balut e noodles istantanei ci hanno richiamati in quel frullatore giallo e siamo ripartiti. Se la prima parte ci sembrava pericolosa, la seconda è stata anche peggiore. La strada ormai era composta solo da curve tutte in pendenza; sembrava di essere partiti dalla cima dell’Everest e di stare scendendo verso il Centro Della Terra.
Il momento più terrorizzante è stato quando abbiamo sentito un forte rumore dal tetto del pullman: Erano rocce che stavano franando dalla montagna. Una situazione terrificante!
Alle 21.30 ormai senza più sensibilità in quasi tutto il corpo e la testa con una confusione tale che sembrava di averci dentro un rave party di criceti coperti di sapone per i piatti, siamo arrivati a Bontoc.
L’aiuto-autista ci ha aiutati a scendere, e poi tempo di dire “Thank You” , il bus si era già smaterializzato in una scia di polvere. Eravamo a Bontoc: due file di case senza luci e pochi ubriachi che ciondolavano in giro. Abbiamo aperto la Lonely alla luce del neon “Welcome” di una vetrina ed abbiamo cercato indicazioni per un albergo. L’unico che riuscivamo a capirne la posizione è stato il “Churya-a Hotel and Restaurant”.
Quando l’abbiamo raggiunto era tutto tranne che bello. Ma non avevamo scelta. La receptionist è stata molto gentile ed aveva ben tre camere libere per noi. Così ho lasciato Lula con gli zaini ed sono andato a vedere le camere. La prima, il cui prezzo era 500 Php era estremamente piccola e sporca. Ho chiesto se ne avessero un’altra e la ragazza mi ha chiesto “Una più grande?” “Si, diciamo di si” in effetti in quella non ci stavano forse neanche gli zaini. La seconda camera era uguale alla prima ma aveva solo il prezzo più alto, cioè 800 Php. L’ho guardata e lei senza che dicessi alcunché mi ha chiesto “Nei vuoi una con la TV?”, “Si, io senza la TV Filippina in lingua Taglog non riesco a prendere sonno…”, e la terza camera a 1200 Php era piena di scarafaggi. “No, grazie per il comitato di benvenuto in camera, ma preferisco la prima a 500…”. Così ci siamo portati gli zaini in quella camera fatiscente. Lula appena entrata ha sospirato e, con voce rassegnata, ha detto “Siamo tornati in India… Vero? No, non è così male come laggiù… Dai, tiriamo fuori i sacchi a pelo…”. Più tardi abbiamo scoperto che per tirare la catena del WC avremmo dovuto riempire una bacinella sotto la doccia, che peraltro aveva di temperature fredda o gelida. Sul tavolo la tovaglia aveva bruciature di sigaretta e speravo che non ci fossero ragni sotto il letto.
Siamo andati a cena nello stesso ristorante ed abbiamo mangiato del riso bianco, coscia di pollo fritta, salsiccia avvolta in una sorta di pasta fillo e fritta e verdure con una specie di crema bianchiccia che solo loro sapevano che cosa dovevano aver passato nelle mani di quel cuoco pazzo. Tuttavia, la cena sulla terrazza dell’albergo è stata rilassata ed una buona occasione per riprendere fiato.
Dopo cena siamo tornati in strada a fare una passeggiata. Ormai la città era deserta. Anche l’ultimo Karaoke bar era chiuso. L’unica persona, presente era il poliziotto, così siamo andati a chiedergli informazioni sulla stazione dei bus per Sagada, ma senza esito; Lui non mi sembrava molto sveglio…
Era ormai tardi, buio e freddo. Così siamo tornati a rintanarci nell’hotel.
Buona Notte Bontoc!
Giorno 5 – 13 Novembre 2013
La notte in quel cubicolo è passata lentamente. Brevi sogni confusi mi hanno accompagnato in questa nottata nel caldo umido soffocante. Non vi era luce che entrasse nella stanza da quella minuscola finestra opaca e coperta dalla tendina floreale ammuffita. Solo quando ad una certa ora ho iniziato a sentire una sorta di richiamo accompagnato da rumore di una campanella provenire, forse, dalle strade, mi sono reso conto che l’alba doveva essere vicina. Come in India mi aveva svegliato l’omino del Tè, qui, ho fantasticato, forse era l’uomo del latte con tanto di mucca al seguito.
Quando la sveglia ha suonato, per la terza mattina di fila alle ore 5.00, ci è sembrata una liberazione. Non abbiamo avuto neanche la voglia di lamentarci per l’ora, che siamo saltati giù dal letto e dopo una doccia fredda abbiamo fatto gli zaini e siamo scappati dall’hotel.
Nella hall abbiamo estorto dalla ragazza al bancone le informazioni sulla stazione dei pullman che non eravamo riusciti a scoprire la sera prima. Ancora avevo in mente il sorriso del poliziotto dagli occhi mezzi chiusi da un sonno atavico dal quale non s’è mai destato.
Ora, alla luce del giorno, tutto sembrava facile. La ragazza non lasciava adito a dubbi. Prendi, vai giù per la strada e poi gira a destra e poi diceva parole tipo “Water…”.
Abbiamo ancora dovuto chiedere una paio di volte informazioni, ma poi siamo arrivati alla traversa a destra giusta ed abbiamo trovato la fermata. Era sotto il Walter Clapp Centrum Hotel. Quindi, la parola “Water” non c’entrava nulla.
Verso le ore 7.00 è arrivato il Jeepney per Sagada (45 Php/persona), ma abbiamo comunque dovuto aspettare che si riempisse prima di partire. Qui abbiamo conosciuto un gruppo di ragazze Filippine completamente fuori di testa. Quella che sembrava la leader del gruppo era una ragazza di Mindoro che parlava un ottimo inglese e poi nel gruppo vi era anche Mari un’Italo-Filippina tinta bionda di Manila. Tutte sembravano volerci mettere in guardia per ogni nostra prossima tappa. Quando abbiamo detto che saremmo voluti andare a Bohol ci hanno detto “Nnnoooo” che di Bohol rimaneva poco dopo il passaggio del Super-Tifone. Quando abbiamo detto che avremmo fatto tappa a Manila ci hanno guardati con apprensione e ci hanno prima detto “Nnnoooo” e poi hanno elencato un’estesa lista di cose che ci sarebbero potute capitare. Quando gli abbiamo detto che in un prossimo viaggio avremmo voluto vedere Mindoro, allora, quella dopo un “Nnnoooo” è diventata una Zona di Guerra. Ho guardato Lula e le ho detto che forse avremmo fatto meglio mettere in valigia una mimetica invece che la Havaianas.
Appena il jeepney si è riempito siamo partiti alla volta di Sagada. Il viaggio è durato circa un’ora e siamo passati per verdi vallate terrazzate molto sceniche con un fiume che scorreva tumultuoso a fondo valle. Quando eravamo quasi alla fine del percorso la strada è diventata molto accidentata e siamo anche dovuti passare sul bordo di una strada che era franata sul lato a valle. Davvero un passaggio terrorizzante. Poi, la strada è diventata più larga fino a Sagada. Poco prima del villaggio il jeepney ha accostato lungo la strada ed il conducente ha passato dei sacchetti ad alcune persone in attesa vicino all’ospedale locale. Praticamente, gli autisti fanno anche commissioni per la gente del villaggio.
Siamo arrivati a Sagada e ci siamo trovati in un bel villaggio di montagna che non aveva nulla a che fare con la Bontoc che abbiamo lasciato la stessa mattina.
C’era un gran bel sole. Ci siamo caricati gli zaini in spalla e abbiamo cominciato a cercare un albergo. Il nostro primo tentativo è stato al Masferre, consigliato dalla Lonely, ma il personale s’è invece rivelato scostante e scortese. Quindi siamo tornati per strada e continuando a scendere abbiamo trovato la Canaway Resthouse. Il signore che ci ha accolti è stato gentilissimo ed abbiamo preso una stanza, dove saremmo potuti stare in sei, al prezzo di 500 Php a notte. La stanza aveva due finestre sulla vallata ed un balcone coperto, davvero bellissima.
Appena disfatte le valigie siamo usciti e ci siamo diretti a fare una bella colazione alla famosa Yoghurt House. Qui con davanti, uno yoghurt gigantesco, due caffè fumanti e del pane tostato, ci siamo crogiolati nella luce del mattino seduti sulla terrazza coi piedi a penzoloni sulla strada.
Una volta ritemprati ci siamo diretti al vicino paese di Demang. Questo paesino, che onestamente non se ne distingue il confine con la vicina Sagada è, molto più tranquillo. Qui vi sono ancora tradizioni e culti animisti: in occasione di eventi particolari gli uomini indossano ancora gli abiti tradizionali, cioè perizoma, piume in testa e un machissimo machete e vanno in fila ad eseguire le loro cerimonie nei boschi. Oggi la testimonianza principale di questi culti è la presenza di Dap-Ay, cioè cerchi di pietre siti nei villaggi della zona. Una ragazza di un negozietto ci ha detto che se ne possono contare dodici. Al giorno d’oggi i Dap-Ay sono aree che sono solo accessibili agli uomini, una sorta di “Bar dello Sport” dove appunto gli uomini si incontrano alla sera.
Da Demang siamo tornati a Sagada e ci siamo rivolti all’ente del turismo locale dove ci siamo dovuti registrare. Qui ci siamo informati per i tour della zona ed il signore al bancone ci ha consigliato un trekking fai da te in giornata e poi di assumere una guida locale per esplorare le grotte il giorno successivo al costo di 500 Php.
Siamo subito partiti alla volta della famosa “Echo Valley”. Per raggiungerla siamo passati prima dalla “Church of St. Mary the Virgin” col bellissimo Cristo di legno al suo interno e poi abbiamo proseguito lungo il bosco. Qui abbiamo visto apparire le prime Felci Giganti: sembravano dei veri e propri alberi!
Sul crinale vi è il cimitero cristiano di Sagada. Qui oltre alle tombe vi è anche un piccolo memoriale dei caduti in guerra. Noi l’abbiamo dovuto attraversare e ci siamo accorti che su molte tombe vi erano tracce di piccoli falò. Abbiamo ipotizzato che sarebbe potuto essere un modo locale di celebrare il 2 novembre, che era passato da pochi giorni.
Superato il cimitero cristiano abbiamo raggiunto la famosa “Echo Valley”. Questa gola tra pareti montuose a picco crea le condizioni ideali per l’eco. Rimanendo qualche minuto vicino alla parete rocciosa più ripida, dove si appostano i provetti strilloni, si può ascoltare un esteso repertorio di eco multi linguali degni di uno stormo di canarini hooligans ubriachi.
Questa vallata chiusa, con le pareti a picco e la ricca vegetazione, in passato ha avuto una forte valenza mistica. Infatti, per questo motivo è stata una delle zone di sepoltura preferite dei nativi. Dall’altra parte della vallata, in basso, riuscivamo chiaramente vedere apparire attraverso le fronde della folta vegetazione un gruppo di bare appese ad una parete rocciosa. Questa tradizione deriva probabilmente dagli antichi abitanti di origine cinese. Lo stesso rito può anche essere trovato in Cina e Cambogia. Inoltre un po’ più a valle abbiamo scorto l’apertura di una grotta, anch’essa stipata di bare.
Abbiamo visto che un gruppo di persone è passato vicino alle bare appese e quindi, guidati dalla nostra incorreggibile curiosità, abbiamo deciso di andarle a visitare anche noi. Ci siamo guardati un po’ in giro e cercando di stare lontani dal dirupo della Echo Valley, abbiamo trovato un passaggio in discesa, l’abbiamo seguito ed in breve ci siamo trovati immersi nell’alta vegetazione del fondo valle. Abbiamo proseguito e facendoci strada attraverso un torrente e sotto delle liane intrecciate. C’era odore di umidità e legno marcio. La foresta, da cupa che sembrava fino ad un attimo prima scintillava coi colori di tante farfalle. Da lontano si sentivano le grida della gente che metteva alla prova la memoria della propria eco, mentre più vicino tanti uccellini si affrontavano in un festival di canti sfrenati. Per terra, nel fango, impronte di cani e zampe suine.
D’improvviso le abbiamo viste apparire. Erano una decina ed erano appese sul lato di una parete di roccia. Ecco le famose bare appese di Sagada. Nonostante essere fossero colorate ed avessero il nome dell’occupante dipinto sopra, rimanevano lugubri. Ad un lato di alcune bare c’era legato l’ultimo oggetto toccato dal deceduto, spesso erano sedie. Poi, subito dopo ad una paio di tuoni, s’è messo anche a piovere.
Siamo tornati sui nostri passi e quando siamo arrivati al punto di partenza nell’Echo Valley abbiamo incontrato Ben, un signore tedesco, con tanto di guide turistiche in un sacchetto di plastica bianco, che ci ha chiesto informazioni per fare il nostro stesso percorso. Gli abbiamo dato le indicazioni e mentre lui scendeva a valle, noi ci siamo concessi un’altra eco e poi siamo tornati a Sagada.
Secondo la Lonely Planet un’altro punto di interesse di Sagada sarebbero state le Bokong Waterfalls. Così ci siamo messi in marcia. Dal centro del paese si deve tornare sulla strada che va verso Bontoc e, sempre secondo la Lonely Planet, avremmo dovuto prendere la traversa subito dopo il negozio “Sagada Weaving” sulla sinistra. Questa stradina era stretta e sembrava di passare nel cortile degli abitanti della zona. Tutto era molto curato e pulito. Arrivati sulla cima di questa piccola collina ci si è aperta davanti una bella vista su questa piccola valle con tanto di terrazze di riso. La Lonely Planet indicava e noi eseguivamo, come farebbe ogni perfetto turista. E nel giro di poco ci siamo trovati a dover camminare in equilibrio sui margini delle risaie con tanto di nativi che ci gridavano da lontano dove passare per non finire nelle loro coltivazioni. Ancora qualche acrobazia circense tra i cereali e dopo una piccola, scivolosissima e fangosa discesa ci siamo trovati davanti le rapide di un fiume gonfio d’acqua. Si eravamo subito dopo la stagione delle piogge e forse i tizi della Lonely, quando hanno visitato quest’area, erano passati col fiume in secca. Quindi siamo tornati sui nostri passi. Altre acrobazie tra le piantagioni, altre grida di nativi e arrampicata da free climber sui muretti a secco delle risaie per tornare al passaggio che ci avrebbe riportati al “Sagada Weaving”.
Proprio vicino al negozio abbiamo incontrato nuovamente Ben che si è aggregato a noi per andare alle cascate, Nella mappa della zona disegnata sulla Lonely c’era un’altra stradina che scendeva verso le cascate e sembrava proprio dopo un locale chiamato Rock Valley Inn & Cafè. Così, con Ben che ci raccontava del suo lungo viaggio di 3 mesi attraverso il Sud Est Asiatico, ci siamo incamminati lungo la strada. Lui l’esperto viaggiatore, io e Lula a guidarlo perché non sapeva neanche da che parte stava girato. La sua guida perfettamente chiusa ed intonsa nel suo sacchetto di plastica bianca. Superato il Rock Valley Inn & Cafè abbiamo trovato una deviazione verso valle e l’abbiamo presa. Lungo la discesa abbiamo incrociato un capanno con scritto “Cubano” che era chiuso. Siamo scesi ancora e finalmente abbiamo raggiunto le “maestose” cascate. Saranno state alte 2 metri e per fortuna che grazie alla pioggia almeno la portata dell’acqua era grossa. La cascata cadeva in una pozza profonda e l’acqua era gelida. Siamo stati qualche minuto con i piedi a mollo a fare delle foto e qui abbiamo conosciuto una coppia di Inglesi. Abbiamo parlato un po’ con loro e ci hanno detto di aver letto sulla loro guida che sul monte Kiltepan vi è una bella vista su delle risaie. Io e Lula ci siamo guardati e abbiamo deciso che saremmo dovuti andare. Così ci siamo rivestiti e con gli Inglesi siamo tornati a monte, sulla strada che sfocia vicino al Rock Valley Inn & Cafè. Arrivati sulla strada principale gli Inglesi sono tornati a Sagada, mentre noi abbiamo deciso di proseguire verso Kiltepan. Per arrivarci abbiamo ripercorso la strada verso Bontoc. Poco più avanti, al profumo di carne grigliata, ci siamo resi conto di non aver ancora pranzato, così ci siamo comprati due spiedini di maiale ad una bancarella, per Lula liscio e per me con salsa piccante, e poi abbiamo proseguito. La strada è stata lunga e deserta. A tratti le alte conifere nascondevano alla vista tutto ciò che era ai lati e non vi erano rumori. Sembrava di essere in una foresta di montagna remota. Ad un certo punto abbiamo visto il cartello che segnala la deviazione, ed abbiamo seguito una strada sterrata finché non siamo arrivati ad un cantiere in cima al monte, forse per un futuro resort anche in cima a questo monte. A sinistra della strada si arriva al belvedere: un mosaico di terrazze di riso. Alcune erano verdi altre sembravano un mosaico di specchi che riflettevano il cielo al tramonto. Qui fa sera alle 17.30 circa e stava iniziando a fare buio. Siamo rimasti ancora un po’ ad ammirare questo bellissimo paesaggio dal colore cangiante e poi siamo dovuti tornare sui nostri passi. Lungo la strada siamo stati superati alcune volte da camion di operai che lasciavano il cantiere ed abbiamo avuto un paio di volte la tentazione di chiedere un passaggio.
Siamo tornati al nostro hotel e dopo una bella doccia siamo andati a cercarci un ristorantino dove cenare Il primo posto è stato il Masferre, noi siamo recidivi, non ci era bastato come si era comportato il personale scortese quella mattina e ne abbiamo voluto avere un’altra razione alla sera. Dell’esteso menù non riuscivamo a trovare qualcosa che fosse disponibile. Ad ogni richiesta la cameriera, ribattezzata col nome “Miss. We don’t have it” continuava a rispondere che non era disponibile. Alla fine, dopo un interrogatorio degno del Mossad israeliano abbiamo estorto da “Miss. We don’t have it” la lista di cosa fosse effettivamente cucinato. Zuppa liofilizzata e hamburger surgelati. No, non va bene. Quindi abbiamo lasciato “Miss. We don’t have it” e il Masferre con la loro lista di piatti non cucinati e siamo andati a cercarne un’altro.
Siamo scesi verso valle e ci siamo fermati al Sagada Brew, uno dei pochi locali dove c’era gente. Qui il personale è stato gentilissimo e abbiamo ordinato Beef Tapa e Beef Caldereta. Questi due piatti sono stati buoni, ma non stupefacenti. La cosa più bella è stato che quando abbiamo chiesto un “Brew Coffee”, che sarebbe il caffè fatto con caffè macinato e non istantaneo, ci hanno dato anche il dolce in omaggio. Forse un premio per gli ultimi clienti della serata.
Siamo tornati in strada che faceva davvero freddo, ma era ancora presto per andare a dormire. Siamo passati davanti al Pine Bar, più che un bar sembrava una bettola, quella che in inglese chiamano Watering Hole. Ma quando siamo entrati ci si è aperto un mondo. Ogni città ne ha uno sotto un nome diverso, un locale che raccoglie sui muri tracce del passaggio di migliaia di clienti che in un laid-back-social, con musica diffusa, davanti ad una birra ghiacciata, raggiungeranno uno stato superiore di coscienza. Ci sarà chi disegnerà su un biglietto del bus usato per la tratta Baguio-Bontoc, chi firmerà il muro, chi scriverà una dedica su un tovagliolo, e tutto verrà messo in mostra come punto di convergenza di tantissimi viaggiatori.
Ci siamo accomodati ed abbiamo ordinato una Red Horse da 500 ml ed una San Mig Light (330 ml). Ci hanno subito fatto compagnia due simpatici alcolisti tabagisti filippini. Uno era Rafi di Baguio, che ha asserito di lavorare al controllo qualità della Marlboro in ispezione a Sagada, e lui amava il suo lavoro così tanto da fumare pacchetti di sigarette uno dietro l’altro, in fuga da una moglie oppressiva lasciata a casa, la quale aveva come unico scopo quello di chiamarlo ogni 10 minuti per verificare se stesse dormendo in albergo. L’altro era Mr. Montanaro, fuori di testa, ubriaco e portatore di cappello di feltro d’ordinanza con chissà quante bestie e pensieri sconci dentro. La sua abilità migliore? Stappare i tappi delle bottiglie di Red Horse usando le unghie. Il suo sogno? Diventare guida turistica di Sagada. Alla fine della serata, grazie alla birra che ci faceva parlare una lingua comune, il “Red Horsiano” ci siamo divertiti tantissimo.
Abbiamo lasciato i due pazzi che stavano stappando le ennesime birre e siamo tornati all’albergo.
Sagada sei bellissima! Buona Notte!
Giorno 6 – 14 Novembre 2014
La sveglia è suonata ad un orario che ci ha permesso di ricaricarci dalle fatiche del giorno prima, le 7.30.
Tuttavia io ero già sveglio dalle 5.00 circa. A quell’ora i galli di tutta la valle avevano deciso che non avrei più dovuto dormire e si sono messi a cantare, e poi ci sono state quelle grida. Erano state laceranti ed ero sicuro che avessero macellato un maiale.
Siamo usciti per fare colazione alla Yoghurt House. Stessa ordinazione del giorno precedente e stesso posto sul terrazzo.
Dopo questa buonissima colazione siamo andati al Tourist Information Centre dove abbiamo chiesto una guida per il tour di livello facile delle grotte. La nostra guida locale, aveva 36 anni e parlava un inglese sgangherato con un accento tutto suo. Quando gli abbiamo chiesto il nome lui ha risposto con una parola che suonava simile a “Nick”, ma non abbiamo indagato ulteriormente.
L’abbiamo seguito fino in fondo a Sagada e al villaggio successivo. Abbiamo fatto una sosta per prendere una lampada ad olio da una baracca al lato della strada. Mentre lo aspettavamo abbiamo notato tre cose:
1. Paesaggio: Davanti a noi vi erano delle bellissime formazioni rocciose a pinnacolo;
2. Mistero: Lontano, in corrispondenza di una grossa formazione rocciosa abbiamo notato che, in un punto apparentemente inaccessibile, vi erano altre bare appese, ma queste sembravano antiche e non colorate. Qualcosa vi sembrava appoggiato sopra. Usando il teleobiettivo abbiamo scoperto che erano ossa sbiancate dal sole e dagli eventi atmosferici;
3. Negozio: Sul bancone di un negozio che si apriva sul lato della strada c’era la testa di un maiale con a fianco un coltello che, sebbene arrugginito e sporco di sangue, doveva essere affilatissimo.
Non appena siamo ripartiti ho fatto notare a Nick la testa del maiale e lui mi ha confermato che era “just butchered”, cioè, era il maiale che avevo sentito all’alba. Quella mattina avevo avuto la sensazione giusta.
Abbiamo proseguito per la strada che passava per una tranquilla pineta. Tra gli alberi potevamo vedere alcune risaie. Nick ci ha spiegato che Novembre è la “bassa stagione” per il riso, quindi, una parte delle risaie erano lasciate a riposo, oppure usate come campi per gli ortaggi, in particolare Cavoli. Lungo la strada spesso vedevamo cartelli che esortavano a “Reduce, Reuse and Recycle”.
Siamo arrivati alla Sumaging Cave. In lingua Ifugao “Sumaging” significa “Grande”. A precederci c’era una coppia di ragazzi con guida, tutti e tre vestiti con attrezzatura tecnica. Noi eravamo in sandali, maglietta e già molto sudati. Ci siamo fermati qualche minuto a guardare il panorama per dar loro il tempo di distanziarci, e poi abbiamo proseguito. Durante questa pausa abbiamo avvistato altre bare appese. Nick ci ha guidati giù per una ripida scalinata e in breve ci siamo trovati davanti all’apertura della grotta. La Sumaging Cave era enorme e tetra. Al suo interno, vi erano centinaia di bare accatastate. Guardandole attentamente sembravano piccole, ed alcune avevano il simbolo propiziatorio del geco. Ho chiesto a Nick se fossero degli ossari visto che le bare sembravamo proprio piccole, ma lui ci ha spiegato che i defunti venivano posti nelle bare in posizione fetale. Questa non era l’unica “Burial Cave” della zona, ma ce ne sono molte altre.
Mentre Nick ci parlava, i ragazzi si sono addentrati nella caverna. Così gli ho chiesto se anche noi avessimo dovuto fare la stessa strada, ma lui ci ha detto che quella era la “Cave Junction” e prevedeva un percorso speleologico di livello intermedio, mentre noi, assoluti principianti, avremmo fatto un altro percorso accedendo da un altro ingresso.
Una volta tornati in strada la guida ha recuperato la lampada. Abbiamo proseguito lungo la strada con Nick che era tutto tranne che loquace fino ad arrivare ad una casupola che funzionava da negozio, punto di ristoro e ufficio di controllo dei permessi per accedere alla grotta. Qui abbiamo esibito le nostre registrazioni e ci hanno permesso di entrare.
La prima parte è stata molto scoscesa, con tanti massi scivolosi a causa del fango e del guano di pipistrello, ma arrivati ad un certo punto siamo stati costretti a lasciare le nostre scarpe e procedere scalzi. Qui è iniziato uno spettacolo incredibile.
La grotta è stata un susseguirsi di capolavori calcarei della natura. L’acqua scorreva impetuosa verso le profondità e scivolava su formazioni dalle forme più bizzarre. Alcune sembravano panettoni, altre delle tende, altre delle corone e così via. Siamo scesi ancora e per un tratto usando anche una corda. Ci sembrava di essere dei veri avventurieri!
Lungo la discesa ho sentito delle grida ed ho chiesto a Nick se secondo lui qualcuno avesse dei problemi, ma lui mi ha detto che in fondo alla grotta c’è un lago e qualcuno, forse, si era tuffato. Infatti, poco dopo abbiamo incontrato un ragazzo americano fradicio e ha detto che era stata una cosa incredibile, da provare.
Quando abbiamo raggiunto il lago. Era piccolo e buio. Chi aveva il coraggio di provare la pazzia di un tuffo? Io e Lula ci siamo guardati…non potevamo non provarci!
Abbiamo spiccato il salto e ci siamo trovati immersi nel buio. L’acqua era gelida. Il mistero era tutto attorno a noi. Paura ed energia pura!
Con quel salto eravamo balzati anche oltre ai nostri limiti. Siamo emersi gridando come pazzi e poi, a mani nude, ci siamo arrampicati fino dove ci aspettava Nick. Ci siamo rivestiti in una grotta con rocce dalle forme sinuose e sotto una volta di conchiglie fossili illuminate dalla luce danzante della lampada di Nick. Tutto era stupendamente surreale!
Siamo tornati in superficie e ci siamo goduti il sole che era spuntato tra le nuvole. Nick ci ha accompagnati al nostro hotel e dopo aver preso i 500 Php che gli spettavano s’è congedato.
Il pomeriggio è trascorso sotto un forte temporale. Siamo riusciti a raggiungere il locale “Lemon Pie” per provare la sua famosa e pannosissima torta al limone ed un caffè. Abbiamo avuto tempo di rilassarci e poi siamo andati a cena alla Yoghurt House. Questa volta abbiamo scelto due piatti di Adobo.
Era l’ultima sera nella bella Sagada, la mattina successiva saremmo andati a Banaue, così abbiamo deciso di tornare al Pine Cafè. Questa sera era quasi deserto e ad un certo punto il proprietario ha spento la musica; forse oltre una certa ora c’è il coprifuoco? Abbiamo scritto una dedica su un tovagliolino di carta e l’abbiamo appesa alla parete assieme alle altre. Anche Franz e Lula sono passati per Sagada!
Giorno 7 – 15 Novembre 2013
Ci siamo alzati alle 6.00 coi nostri zaini già pronti abbiamo, salutato il simpatico proprietario dell’hotel ed abbiamo fatto la salita fino al parcheggio dei Jeepneys. Alle 7.00 siamo partiti verso Bontoc (45 Php/persona).
A bordo abbiamo conosciuto una signora di Tokyo che viaggiava con alcune ragazze filippine, un Koreano ed un Italiano che come noi era preoccupato per la situazione nell’Isola di Bohol. Lui, apparentemente, ma solo apparentemente, informatissimo, ci ha dato le ultime notizie dall’Isola. La situazione a Bohol e Cebu sembrava drammatica. Il tifone aveva lasciato dietro una scia di devastazione di proporzioni bibliche, i soccorsi faticavano ad arrivare, qua e la c’erano focolai di epidemie che scoppiavano tra villaggi ridotti in macerie e risaie trasformate in paludi. Un quadro tutt’altro che rassicurante. Nel trambusto del jeepeny io e Lula abbiamo deciso di prendere in considerazione un cambio di piani di viaggio.
Arrivati a Bontoc abbiamo preso un Van per Banaue, qui sono scesi con noi la Giapponese con le sue amiche ed il Koreano, mentre l’Italiano ha proseguito il suo viaggio e la sua missione di creare allarmismo ad altri turisti in altre zone delle filippine. Levarselo di torno è stato un vero sollievo.
Appena partiti verso Banaue s’è scatenato un gran temporale. Io e Lula ci siamo attaccati ai nostri MP3 visto che a bordo nessuno fiatava e dalla radio si sentiva solo quella musica lagnosa onnipresente nelle filippine. Abbiamo fatto qualche tappa prima di arrivare a Banaue, un paio per scattare foto alle risaie ed una ad un punto di ristoro. Questo era un piccola baracca che vendeva cibo come Balut, Zuppe istantanee, Snacks e Caffè Istantaneo. Di fronte alla baracca, dall’altro lato della strada c’erano alcune bancarelle di ortaggi. Io e Lula ci siamo avvicinati alle bancarelle in quella pioggia finissima che creava una nebbiolina. Verdura e Frutta Esotica erano ben esposte, ma ad attirarci sono stati dei tuberi che credevamo fossero patate rosse. In realtà erano Yakon. I filippini affermano che sia molto salutare ed abbia proprietà ipoglicemizzanti. La gentile signora ce ne ha regalato uno piccolo per assaggiarlo. Era tutto interrato, proprio come una patata. L’ho lavato con un po’ d’acqua e l’ho sbucciato col coltellino. Anche senza buccia continuava a sembrare una patata, tuttavia, il sapore era, vagamente, simile a quello di un cetriolo dolce. Magari sarebbe stato bene in una insalata mista.
Mentre aspettavamo di partire abbiamo chiacchierato con alcuni altri occidentali ed abbiamo fatto amicizia prima con una ragazza hiker-backpacker francese innamorata dell’Italia, e poi con una coppia di ragazzi di Manchester già in viaggio nel Sud Est Asiatico da tre mesi e diretti in Australia. La ragazza di Manchester ci ha chiesto i nostri piani di viaggio e quando ha sentito che saremmo dovuti passare per Manila, lei ha sgranato gli occhi e ha risposto “Oh, mio… Spero che ne sopravviviate!”. Ma che posto tremendo sarà mai Manila?
Ci siamo rimessi in viaggio verso Banaue e poco a poco la pioggia a smesso di cadere. Lungo la tratta abbiamo avuto modo di scambiare due parole con la timida signora giapponese che era di una gentilezza disarmante, una vera Lady del Sol Levante, mentre Mr. Koreano ha dato più che altro l’impressione di essere parecchio borderline La versione viaggiatrice del ben più famoso PSY.
Siamo arrivati a Banaue in orario, e siamo stati scaricati davanti all’ufficio del turismo per fare la registrazione e pagare la “Tassa Ambientale” (da leggere come: Estorsione) di 20 Php. L’addetto di una finta gentilezza tanto disarmante da sconfinare nel ridicolo, ha dato il meglio di se per “aiutarci a non perdere il meglio delle escursioni e non farci fregare” offrendoci una gita a Batad a 600 Php a persona. Questo solo se fossimo stati almeno 6, se no il prezzo sarebbe lievitato. Che gentile, mi aspettavo che tirasse fuori il registro catastale della zona per venderci, come insegna Totò, anche le Terrazze di Batad patrimonio dell’Unesco, una Piramide piccola vicino a Giza e un attico a San Pietro a Roma… Noi ci siamo guardati, e tutti abbiamo declinato la sua offerta mentre lui ci allertava su tanta brutta gente pronta a spillarci badilate di soldi se non ci fossimo appoggiati ai suoi servigi (ecco che era partito il “Mantra del Procacciatore”).
Abbiamo così salutato sia l’omino dell’ente del turismo che gli amici di viaggio, e ci siamo addentrati nella piccola Batad.
Banaue è un villaggio arroccato sulla fiancata di un monte. Arrivando da Bontoc ci si trova in un punto più in alto rispetto al centro e si deve scendere per un breve tratto di strada per arrivare nella piazza principale. Qui vi è un edificio di due piani con numerosi negozietti, in gran parte di abbigliamento, e sul lato opposto vi sono bancarelle, un internet point ed il mercato locale.
Appena arrivati in piazza siamo stati raggiunti dal personale dell’Hotel Sanafe in versione di procacciatori, questo hotel è un’istituzione a Banaue, il quale sulla Lonely è descritto come il migliore albergo della zona. Appena entrati ci hanno mostrato le camere e ne abbiamo scelto una con vista sulla vallata. La camera era spaziosa, rivestita di legno e decentemente pulita. L’unico neo era che non vi erano prese elettriche dove attaccare i carica batterie. Il costo è stato è stato di 1000 Php a notte, un po’ alto visto che era esattamente il doppio dell’albergo di Sagada. Al rientro in Italia abbiamo letto recensioni positive sul Tripadvisor, ma alcuni riportavano che le camere migliori siano riservate ai turisti stranieri, mentre ai filippini destinavano delle camere tremende, sicuramente più economiche, nell’interrato.
Visto che era ancora molto presto ed aveva smesso di piovere, abbiamo deciso di andare a fare una passeggiata. Quando abbiamo attraversato la hall abbiamo visto che anche la signora giapponese e le sue amiche si erano sistemate in questo albergo. Dalla terrazza del ristorante c’era una bellissima vista sulla vallata, sebbene dense nuvole ne nascondessero una buona parte. Mentre ci dirigevamo alla porta siamo stati assaltati da fantomatici membri del personale che volevano venderci gite per Batad a prezzi astronomici. Inoltre, era già tardissimo per andare a Batad e questa sarebbe stata una doppia fregatura.
Siamo usciti e seguendo la mappa sulla Lonely siamo tornati alla strada principale dove ci siamo fermati col van da Bontoc. Abbiamo proseguito diretti verso il villaggio di Tam-An e qui abbiamo svoltato verso l’ostello. Subito una guardia armata di fucile a pompa cromato s’è parata davanti a noi, ma ci è bastato fargli vedere la mappa ed il percorso che avremmo voluto fare, che ci ha lasciati passare e si è prodigato di darci tantissime informazioni.
Dapprima siamo passati davanti ad una sorta di centro congressi con tanto di piscina. Nel parcheggio vi erano pochissime auto. Noi abbiamo proseguito ed a un certo punto abbiamo trovato una stradina che scendeva a fianco ad un parco. Un cartello indicava che quella era la direzione per scendere al villaggio di Tam-An.
La discesa è stata facile anche se l’afa si stava già facendo sentire. Non appena arrivati nel villaggio costituito da poche capanne, tra le quali anche quelle tipiche fatte simili a palafitte con il tetto di paglia, è venuto un temporale. Siamo corsi a riparaci sotto la tettoia di lamiera di una casa.
La porta vicino a noi s’è aperta ed è uscita una ragazza. Ci saremmo aspettati di essere mandati via, ma invece, ci ha invitati ad entrare. Ospitalità filippina? No, era un negozio di souvenir. Onestamente, aveva anche cose piuttosto interessanti come delle belle statue degli Spiriti Bulul protettori del Riso. I prezzi sarebbero potuti essere buoni, ma le statue erano troppo grosse per essere trasportate ed abbiamo dovuto rinunciare. Ad un certo punto la ragazza ci ha offerto di farci vedere un rito locale: una cerimonia nella quale lei avrebbe aperto un fagotto di stoffa contenente le ossa di uno dei suoi avi. Ma subito ci ha chiesto dei soldi per comprare un pollo da sacrificare. Abbiamo rifiutato e siamo usciti per la buona pace del pollo e del nonno. La pioggia sembrava aver smesso così ci siamo avviati lungo l’unica stradina che percorreva il villaggio. Due minuti più tardi è venuto un altro scroscio di pioggia.
Io e Lula ci siamo riparati sotto una delle case a palafitta e siamo stati subito raggiunti da una signora anziana in abiti moderni, che si è subito presentata in un inglese perfetto: era la Sig.ra Roza, madre di tredici figli ed energia da far invidia a tanti giovani. Ci ha raccontato di aver lavorato in passato come guida di montagna e di venire dal villaggio di Poitan. Che combinazione! Anche noi eravamo diretti a Poitan, così ne abbiamo approfittato per chiederle informazioni. Lei ci ha indicato una stradina in discesa e poi ha detto la frase emblematica “Follow the waterway”, seguite l’acquedotto. Se mi fossi presentato col nome di Alice mi avrebbe detto di seguire il coniglio bianco fino al villaggio di Wonderland? Abbiamo passato una buona mezz’ora a parlare con questa gradevolissima signora ed alla fine, quando ci ha detto di apprezzare le cartoline, ci siamo fatti dare il suo indirizzo per mandargliene una dall’Italia.
Abbiamo proseguito in discesa seguendo le indicazioni di Roza e siamo arrivati in mezzo a delle risaie. Un mini anfiteatro era davanti a noi, una sottile striscia di terra su un muretto separava le due risaie a livelli diversi. L’unica strada percorribile, era quella e si trattava di fare gli equilibristi su una striscia di fango con l’acqua alla nostra destra e alla nostra sinistra. La risaia era piena di vita: c’erano numerosi pesciolini, granchi e conchiglie e l’acqua piatta formava enormi specchi che riflettevano il cielo screziato di nuvole.
Ci siamo persi. Siamo finiti in casa alla gente. Loro ci hanno detto “Dovete seguire l’acquedotto!”. Siamo tornati sui nostri passi, poi siamo finiti nuovamente in casa a quella gente. Loro ci hanno ripetuto “Dovete seguire l’acquedotto!”. Siamo finiti nel fango ed abbiamo guadato. Alla fine abbiamo capito l’arcano. Dovevamo guardare in basso. Quando sia arriva ad un punto che il percorso di fango sembrava finire, c’era sempre una scaletta che portava alla terrazza inferiore dove il percorso di fango proseguiva.
Il villaggio di Tam-An è sparito dietro la foresta. Ora c’erano solo i colori delle risaie, l’odore del bosco e le foreste, un mondo labirintico nel quale ci avventuravamo incoscientemente. Dopo diversi passaggi siamo arrivati in un punto dove il muretto a monte era in parte franato e scendeva una cascata esattamente dove saremmo dovuti passare noi. Sotto di noi un’altra risaia. Così ci siamo arrampicati sul muretto a monte, l’abbiamo seguito in modo precario, abbiamo saltato la parte dove tracimava l’acqua e ci siamo calati sul passaggio alla fine del muretto. Pochi metri più avanti c’era un muro di cemento sul quale si poteva camminare. No non era un muro, avevamo trovato l’acquedotto.
Abbiamo seguito l’acquedotto per più di un’ora, spesso passando in equilibrio tra il corso d’acqua e le scarpate, ma alla fine abbiamo raggiunto le scale che portavano a valle. Il canto di alcuni galletti aveva anticipato l’arrivo al villaggio. Siamo scesi a fondo valle, abbiamo attraversato un fiume impetuoso con un ponte sospeso ed abbiamo iniziato a risalire sull’altro versante.
Erravamo arrivati nel villaggio di Poitan: questo villaggio era simile ad un lungo serpente che saliva dal fondo valle fino alla strada che porta a Banaue. Lo scorcio più bello è lungo la risalita dove si possono vedere le risaie confinanti con le case del villaggio.
L’aria era calda e umida. Il fondo fangoso e scivoloso. La fatica iniziava a farsi sentire, ma non cedevamo. Ogni tanto qualche bel fiore sputava tra la vegetazione. Funghi ramificati simili a muschi arancioni erano tra i sassi del sentiero. Odore di umido. Canti di galletti.
Ormai eravamo in alto, ed abbiamo iniziato a vedere più rifiuti, poi una risaia con spazzatura che galleggiava e macchie oleose sulla superficie dell’acqua. Avevamo raggiunto la baraccopoli sulla strada principale.
Arrivati sulla strada ci siamo fermati a ammirare una ragazza che imperterrita batteva il riso in un mortaio usando un pestello lunghissimo che sembrava quasi una clava. Abbiamo seguito la strada verso Banaue e siamo arrivati nel villaggio di Bocos. Onestamente, questa informazione l’abbiamo solo trovata sulle cartine geografiche, visto che da laggiù in mezzo, ci sembrava di essere in una unica lunga baraccopoli che serpeggiava lungo questa strada inerpicata sul fianco del monte.
In questo posto abbiamo visitato il famoso Bronzesmith, un artigiano che ricicla oggetti in bronzo per creare ciondoli e statuine. Il signore sdentato è stato gentilissimo e parlava un ottimo inglese. Siamo stati suoi ospiti per un bel po’ parlando un po’ di tutto. Lì abbiamo acquistato due ciondoli portafortuna fatti con i bossoli dei proiettili in bronzo.
Siamo poi tornati sulla strada ed abbiamo attraversato la valle usando il ponte sospeso. Dall’altra parte c’era un’altra scalinata che ci ha fatti sbucare proprio a fianco all’Hotel Sanafe. Era incredibile che, nonostante fossimo appena arrivati quella mattina a Banaue, eravamo già riusciti a visitare posti non tanto turistici ed incontrare così tante persone interessanti.
Dopo una doccia ristoratrice siamo scesi per cenare ma quando stavamo uscendo siamo stati fermati dalla ragazza al bancone che ci ha informati del coprifuoco: sembra che a Banaue vi sia un coprifuoco e che gli hotel devono chiudere le porte alle 21.00, mentre il ristorante dell’albergo chiude alle 20.30. Noi ci siamo guardati ed abbiamo deciso che per quella sera avremmo cenato nell’hotel. Abbiamo preso due zuppe liofilizzate, una agli asparagi ed una ai funghi. Di secondo abbiamo preso due porzioni di Beef Adobo non proprio esaltante. Poi siamo rimasti sul terrazzo a guardare la vallata finché alle 21 non siamo stati costretti a tornare in camera visto che la porta della terrazza sarebbe stata chiusa e non saremmo potuti stare nella hall perché avremmo disturbato il sonno della vecchia padrona dell’albergo.
A letto come le galline. Buona notte Banaue!
Giorno 8 – 16 Novembre 2013
La sveglia ha suonato di buona mattina e non è stato un problema alzarsi visto che eravamo andati a dormire così presto la sera prima. Dopo esserci vestiti ci siamo lanciati giù per le scale per andare a mangiare fuori dall’albergo. Mentre uscivamo siamo stati assaltati da gente che ci chiedeva di assumerli, al prezzo di 1200 Php per farci portare a Batad. In piazza abbiamo trovato due Bakeries ed abbiamo scelto quella con dolci più invitanti. L’interno aveva dei bellissimi tavolini in legno. Abbiamo così preso due dolci e due tazze di caffè istantaneo. Ovviamente, essendo un locale per filippini, abbiamo pagato un’inezia, invece al Sanafe Hotel avremmo pagato una fortuna per cose sicuramente meno buone.
Dopo colazione, visto che non riuscivamo a trovare un jeepney per Batad abbiamo contrattato con Nathan, l’autista di un tricycle, e al prezzo di 600 Php (circa 8-9 Euro) ci siamo accordati per un viaggio andata e ritorno per la Batad Junction: è l’incrocio alla base della salita per Batad. Siamo prima passati con l’autista a prendere i biglietti del Pullman per Manila per la sera successiva (450 Php a persona), e poi siamo partiti.
Abbiamo iniziato a salire di buon passo. La natura era rigogliosa ed ai lati della strada c’erano numerose felci giganti che spuntavano qua e la. Sembrava di essere ai margini di un documentario ambientato nel periodo Giurassico, ma senza l’accompagnamento di Alberto Angela in pantaloni alla zuava khaki.
Ogni tanto passava qualche tricycle o jeepney lasciandosi dietro una scia di gas di scarico, mentre arrancavano stracarichi di persone. Lungo la salita vi erano numerosi lavori di allargamento della sede stradale. Quella che un tempo era stata una stradina dissestata di montagna, velocemente si stava trasformando in una confortevole strada larga e lastricata di cemento. Dall’immagine fantasiosa degli alberi da foresta preistorica, si prospetta in futuro un’immagine ben più concreta di ceppi di alberi tagliati e sbriciolati dalle fauci di motoseghe e ruspe ruggenti. Mentre salivamo, abbiamo incontrato dei lavoratori che seduti in un cantiere sul lato della strada, con la massima naturalezza stavano preparando un loro esplosivo artigianale, pronti per demolire qualche punto a monte della strada. Noi in questo momento ci siamo calati in una perfetta interpretazione del Bip Bip inseguito da Wile E. Coyote e ci siamo trovati a correre il più lontano possibile da quei tre pazzi.
Lungo la salita, quando eravamo ormai quasi in cima, nel momento in cui abbiamo incrociato un jeepney che scendeva a valle ci siamo sentiti chiamare. Era la Miss. Francesina che ci salutava dal tetto del Jeepney mentre sobbalzava. Una autentica pazza. Magari la presento agli operai dinamitardi! Tra folli…
La salita è lunga circa 3 chilometri e termina al “Saddle Point”. Qui la strada finisce con un parcheggio e alcune bancarelle, e qui tutti, senza distinzione di età, sesso, razza, religione, lingua e capacità di sudorazione sono costretti a proseguire a piedi. La discesa verso Batad dura circa 45 minuti con passo tranquillo. Per arrivare alla stradina si può prendere la “Short Cut”, la scorciatoia, che è una scalinata che parte tra due negozi del Saddle Point, oppure si può prendere la “Long Cut” che percorre un pezzo del monte. Noi abbiamo scelto la prima opzione.
Siamo scesi per questa strada senza problemi. Circa ogni chilometro, o forse meno, c’erano delle baracche che funzionavano anche come punti di ristoro. In uno di questi abbiamo trovato delle belle statue di Bulol, ma anche questa volta erano troppo grosse per essere trasportate. La cosa interessante era che, a detta della venditrice, erano state scolpite nel legno del fusto delle Felci Giganti.
Lungo la discesa abbiamo incontrato una coppia Canadesi in pensione. Che stavano facendo un percorso simile al nostro. Mentre parlavamo con questa piacevolissima coppia, gli abbiamo detto che la sera del giorno dopo saremmo partiti per Manila col pullman notturno e loro hanno sgranato gli occhi.
“Noooooo! Non andate a Manila! E’ pericolosissima!”
Gli abbiamo chiesto che cosa gli fosse successo e loro ci hanno raccontato che mentre erano seduti a bere un caffè ad un tavolino per strada, qualcuno è arrivato dietro a Miss. Canadese Attempata e le ha strappato gli orecchini dalle orecchie. Sembra che Manila sia un vero inferno in terra.
La prima tappa è stata il “View Point”: praticamente la casa di una famiglia che ha una incredibile vista sulle risaie. Gli abitanti della casa tengono a chiedere ai passanti di comprare qualche snack o bibita in cambio.
La tappa successiva è stata allo sportello di registrazione dove si paga la “Tassa Ambientale” di 50 Php. Poi, come da prassi, siamo stati fermati dal capo delle guide che ci ha offerto il privilegio di spendere 500 Php per una guida che ci avrebbe condotti attraverso le risaie e poi fino alle cascate. Noi abbiamo guardato il panorama mozzafiato dell’anfiteatro delle risaie di Batad. Abbiamo visto il flusso incessante di gente, che seguiva un percorso che tagliava le risaie in un luccichio di zaini e magliette colorate, non si poteva sbagliare strada neppure volendolo! Abbiamo ringraziato Mr. Guida Suprema di Batad per averci offerto quel privilegio, ma abbiamo declinato e ci siamo messi in cammino per conto nostro. Le risaie di Batad sono spettacolari! E’ un anfiteatro naturale a gradoni vecchio di 2000 anni, tanto perfetto che sembra un vero antico anfiteatro che aspetta una folla di giganti per vedere un’opera teatrale. A differenza delle altre terrazze di riso, fatte di fango e terra, quelle di Batad sono fatte con muri a secco. Lungo la strada, in equilibrio sui muretti proprio come il giorno prima, abbiamo scattato una quantità incredibile di fotografie. Eravamo eccitati. Il panorama era incredibile, colori, i suoni dell’acqua delle risaie e gli odori di questa terra tropicale ci inebriavano.
Il percorso che porta dalla capanna di registrazione alle Tappia Waterfalls dura circa 45 minuti in discesa ed attraversa sia le risaie che la fiancata del monte sul lato opposto di un promontorio sul lato sinistro di Batad.
Queste cascate sono in una stretta gola e fanno un salto di circa 30 metri. Il rumore è assordante e creano un forte vento carico di umidità. Noi avevamo caldo, eravamo sudati e sporchi di fango. Quindi, abbiamo deciso di tuffarci nel laghetto sotto la cascata. L’acqua era gelida e la corrente molto forte. Dopo pochi minuti in acqua ci siamo sentiti gelare e siamo tornati al tepore del sole filippino.
Alcuni ragazzi hanno fatto Stoning, creando pile artistiche di sassi. Noi ne abbiamo approfittato per scattare qualche foto con lo sfondo delle cascate che ricordava un luogo sacro di una qualche antica cultura sconosciuta. D’un tratto abbiamo anche visto passare il Koreano, con lo zainetto, pantaloncini blu, calzettoni bianchi al ginocchio, scarpe da ginnastica, bastoncini da trekking e cappellino.
Ritemprati ci siamo rimessi in marcia e siamo ritornati, prima nell’anfiteatro di risaie e poi fino al punto di registrazione. La salita è stata durissima e in cima abbiamo preso una Coca Cola in un chiosco. Abbiamo salutato la bella Batad e ci siamo messi in marcia verso Saddle Point, ci avrebbe aspettato una salita di 45 minuti. Quando siamo arrivati alla “Short Cut”, abbiamo deciso di provare la “Long Cut” e qui abbiamo scoperto che la stessa Long Cut sembra, più che un percorso, un lungo cantiere di costruzione di una strada. Sembra che non passerà molto tempo che Batad verrà collegata alla strada aumentando in maniera esponenziale il flusso di turisti. Da località per backpackers cercherà di inventarsi in località di turismo di massa legato alle risaie Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Chissà se sembrerà più una tranquilla e pulita Sagada o una baraccopoli come Banaue?
Siamo arrivati al Saddle Point che eravamo stravolti, sudati e coperti di erbacce adesive che non volevano staccarsi, ma ora dovevamo ancora fare la discesa. Lungo la strada ci hanno sorpassato i Canadesi col loro tricycle, ma poco dopo li abbiamo visti fermi. Mr. Canadese s’era messo a fare foto agli operai che stavano piazzando l’esplosivo casalingo per farlo detonare. All’opposto del Canadese, quando l’abbiamo scoperto, noi abbiamo preso una fuga degna della seconda parte della corsa del Bip Bip e Wile E. Coyote!
Arrivati alla Batad Junction abbiamo visto il nostro tricycle che ci aspettava. Incredibile, siamo arrivati all’appuntamento con Nathan spaccando il minuto e non con il nostro solito ritardo! Batad fa giocare brutti scherzi! Forse c’è ancora troppo ossigeno nell’aria… Quando Nathan ha scoperto che eravamo arrivati addirittura alle Tappia Waterfalls ci ha detto che solo coloro che fanno trekking dalla Batad Junction alle Tappia Waterfalls e tornano in giornata alla Batad Junction possono essere fregiati del titolo di Batad Survivors! Ecco, eravamo stati promossi! Un nuovo titolo da mettere nel Curriculum!
Ci siamo inseriti nell’incredibile traffico di day trippers che tornava a Banaue da Batad, rilassandoci nel fresco vento. Lungo il tragitto abbiamo chiesto all’autista circa il coprifuoco di Banaue e lui s’è messo a ridere “Non c’è coprifuoco a Banaue, è la vecchia del Sanafe che vi chiude dentro per usare il suo bar e ristorante”.
Siamo arrivati a Banaue che imbruniva, ma avevamo una missione da compiere: acquistare due nuovi biglietti aerei ed anticipare il nostro arrivo a Palawan, ormai avevamo deciso di scartare Bohol come prossima destinazione, perdendo ahimè i biglietti aerei già prenotati. Così, dopo una bella merenda nella stessa Bakery del mattino, siamo andati ad un internet point ed abbiamo acquistato due biglietti aerei per Palawan con la compagnia Cebu Pacific Airlines.
Tornati in albergo abbiamo fatto una doccia veloce e siamo usciti a mangiare in un ristorante vicino, il Las Vegas. Qui abbiamo preso del riso all’aglio che aveva uno strano sapore di vaniglia, era davvero ottimo e da bere delle birre San Miguel.
Siamo rientrati in albergo che erano ancora le 20.30, ed abbiamo scoperto che la vecchia aveva già fatto chiudere l’ingresso. Abbiamo dovuto bussare sulle porte a lungo prima di vederci aprire la porta. Ovviamente, quando ci hanno aperto ci hanno accusati di essere usciti senza il loro permesso, nonostante la sera prima ci avessero detto che la prigione chiudeva i battenti alle 21.00. Era follia!
Altra notte a dormire coi polli e tutte quelle formiche che ci avevano invaso la camera. In questo hotel non ci sono finestre, ma pannelli di plastica in diagonale. Li ci passa ogni tipo di animale.
Buona Notte Bella Batad!
Giorno 9 – 17 Novembre 2013
I galletti di tutta la vallata, precisi come se avessero il passaporto svizzero e la coda rossa tatuata con la croce bianca, hanno iniziato a cantare che erano le 5.30. Noi, non avendo la finestra chiudibile, non abbiamo potuto far altro che svegliarci ed aspettare un’ora decente prima di alzarci. Gli zaini erano già pronti sull’altro letto e noi avevamo il pensiero fisso sul fatto che quella sera saremmo partiti per Manila. Quella che sembrava la nostra nemesi inevitabile. La città che tutti hanno nominato come un posto tremendo.
Alle 7.00 siamo usciti dall’albergo dopo aver evitato la solita folla di gente che voleva offrirci tours per Batad, e siamo andati nella seconda bakery della piazza. Abbiamo scelto i dolci e ci siamo concessi due belle tazze di caffè istantaneo.
Per prima cosa abbiamo fatto una puntata al mercato locale dove abbiamo visto le Uova Rosse, numerosi tipi di frutta esotica e il popolarissimo pesce chiamato Milkfish. Noi abbiamo comprato alcuni mandarini e ci siamo organizzati per partire.
Abbiamo liberato la camera, abbiamo fatto il check-out, scritto qualcosa sul Guest Book sul fatto che la sera precedente ci hanno chiuso fuori alle 20.30 ed abbiamo lasciato gli zaini nella stanza-deposito. Poi, siamo usciti.
In piazza abbiamo cercato il nostro driver del giorno precedente, ma non l’abbiamo trovato. Così abbiamo iniziato a contrattare con vari autisti di tricycle per assumere quello che ci ha chiesto di meno. Oggi saremmo voluti andare nella località di Hungduan ed abbiamo spuntato il prezzo di 600 Php totale. La località di Hungduan è famosa per le terrazze di riso ampie e basse, e per una fonte termale.
Il tragitto è durato circa un’ora. La strada era tutta dissestata e numerose frane invadevano la sede stradale. Ad un tratto sono anche dovuto scendere ed ho aiutato l’autista a spingere il tricycle che si era impantanato.
Ad Hungduan abbiamo pagato la Tassa Ambientale di 20 Php a persona e poi abbiamo proseguito fino ad una scuola. Qui c’era una bellissima vista sulla vallata. Il sole era spuntato e ravvivava i colori del panorama. Le terrazze di riso erano larghe, poco alte, e intervallate da qualche casa. La prima sensazione che ho avuto è stata di un posto molto più tranquillo e meno turistico di Batad. L’autista ci ha fatti scendere e ci ha accompagnati all’inizio di un percorso. Dandoci le indicazioni per raggiungere le terrazze di riso e le fonti termali.
Siamo partiti convinti che dopo tutta la pioggia della notte precedente avremmo passato la giornata nel fango, ma invece, il percorso è quasi tutto di lastre di cemento. La gente del posto è povera e diverse persone hanno cercato di convincerci ad assumerli come guide al prezzo esorbitante di 500 Php. Ovviamente, abbiamo optato per il fai-da-te.
Mentre passavamo lungo il bordo di una risaia abbiamo incontrato qualcosa che io ho identificato come la materializzazione di uno dei miei incubi: un ragnone che sa anche correre sull’acqua; la mia aracnofobia ha raggiunto l’apice!
Un breve tratto attraverso a una serie di larghe risaie a riposo vicine ad un fiume tumultuoso, un tratto attraverso un piccolo villaggio dove tutti gli abitanti ci hanno intercettati per dirci “Hellooo!” …eccoci! Siamo arrivati alle Hot Springs di Hungduan! Le vasche erano due, di cemento. Il cielo era terso con un gran bel sole. L’aria aveva un forte odore si zolfo. Noi eravamo soli, così abbiamo messo i nostri panni zuppi di sudore a stendere e ci siamo immersi nelle fonti termali. Ci siamo stesi e rilassati. L’acqua calda ci scorreva addosso, il vento soffiava dalla foresta e da poco lontano veniva il rumore dell’acqua del fiume. Di tanto in tanto la temperatura dell’acqua termale cambiava da calda, a fresca, a bollente. Mentre pranzavamo con arance e panini di pasta soda è arrivato un gruppo di ragazze francesi con tre ragazzi/guide filippini in preda ad un attacco testoteronico. Mentre le ragazze si rilassavano in acqua, i ragazzi hanno sgozzato due galline e ne hanno raccolto il sangue in una pentola mentre uno di loro è andato al fiume a prendere acqua in una bottiglia di liquore vuota.
Noi ci siamo messi in marcia e, incredibilmente senza perderci, siamo tornati al nostro tricycle. Lungo la strada, mentre attraversavamo un villaggio abbiamo incontrato anche un “rassicurante” anziano signore che a torso nudo con un coltellaccio stava facendo la manutenzione al suo fucile, ma era sorridente e ci ha salutato con un bel “Hellooo!” che risuonava di una voce sorprendentemente giovanile.
Raggiunto il nostro tricycle abbiamo avuto il tempo di una Coca Cola e di scambiare due chiacchiere con una signora del posto e ci siamo messi in viaggio di ritorno verso Banaue. Il tragitto è durato un’ora ed è stato anche peggiore dell’andata. Il fondo era dissestato, forse il nostro tricycle aveva dimenticato da tempo la parola “manutenzione” e forse il nostro autista era ancora immerso in parte nel sonno dal quale l’abbiamo destato col nostro arrivo, ma tutto questo ha reso il viaggio di ritorno epico. Non so quanti colpi abbiamo preso, quante volte abbiamo slittato e quanti incidenti abbiamo evitato, ma quando abbiamo raggiunto Banaue avevamo un’incredibile voglia di baciare la terra.
All’Hotel Sanafe la vecchiaccia ci ha permesso di fare una doccia nel bagno della servitù, si per lei sono servi, non addetti. Ci siamo lavati con acqua che sembrava provenire da un ghiacciaio Himalayano e con la pelle d’oca, tremanti, ma puliti, siamo tornati nella hall dell’albergo a riprenderci gli zaini.
Merenda con spiedini nella piazza, una puntata all’internet point per stampare i due biglietti aerei e poi abbiamo cenato presto al Las Vegas nuovamente col riso all’aglio e pollo. Da bere una San Miguel ed una Red Horse.
Alle ore 19.00 in punto siamo partiti col bus notturno della Ohayami. La notte è passata quasi insonne. Il motivo principale è stato perché ogni 40 minuti l’autista ci ha fatto fare sosta davanti a qualche fast-food. E’ stata interminabile! Non volevo credere a quanta spazzatura si sono mangiati i nostri compagni di viaggio.
Alle 3.30 del mattino siamo arrivati a Manila. Eravamo entrambi sconvolti. Abbiamo preso un taxi senza la forza di contrattare; con 300 Php il driver ci ha portati allo Shogun Hotel, dall’altra parte di Manila, comunque, piuttosto onesto.
Quando siamo entrati nella hall del nostro albergo, il personale ci ha comunicato che la camera sarebbe stata ufficialmente “libera” solo a partire dalle ore 6.00. Alla fine, dopo un lungo ed attento consulto tra consierge, hanno decretato di poterci concedere la camera, ma in cambio ci avrebbero negato la colazione del giorno del check out. Gli avrei dato una testata e spaccato il bancone sulla schiena se tutti i problemi dell’albergo gravitavano attorno alla nostra colazione, ma non ne avevo la forza. Un facchino gentile che non portava gli zaini ci ha condotti alla nostra camera. La camera che era piccola, moderna e pulita.
Siamo crollati sul letto e ci siamo goduti due beate ore di sonno. Si, perché alle 6.00 ci saremmo dovuti alzare per andare fino al Lago Taal.
Giorno 10 – 18 Novembre 2013
La sveglia ha suonato alle ore 6.00 e con gesti dettati dall’inerzia, ci siamo preparati e siamo scesi a fare colazione. La sala, nonostante l’ora, era già gremita di gente che si accalcava al buffet. Noi abbiamo fatto una colazione abbondante e siamo scesi nella hall.
Qui, con una sensazione di Deja-Vu sul Sanafe, siamo stati avvicinati da un ragazzo del personale che sorridendo ci ha chiesto dove saremmo voluti andare. Gli ho detto del Lago Taal e lui ci ha proposto uno dei suoi convenientissimi drivers. Il prezzo era un oltraggiosissimo 4000 Php per il trasporto, ma poi, noi avremmo dovuto aggiungere il costo delle tasse ambientali, il cibo e la barca per attraversare il lago. L’ho guardato e gli ho chiesto se lui prenderebbe un driver a quella cifra e s’è messo a ridere. Così siamo usciti e dopo esserci consultati con un autista di tricycle abbiamo scoperto che lungo la nostra stessa via c’era la stazione di Minivan che al costo di 320 Php (in due) ci avrebbe portato a Tagaytay, sulle alture del lago Taal. Questa zona è molto verde ed abbiamo visto diversi frutteti lungo la strada. Sembra che coltivino tanti Ananas. Quando siamo scesi, l’autista ci ha indicato una stazione di tricycle dove, dopo aver contrattato, ne abbiamo preso uno che ci ha portati al lago alla cifra di 250 Php con la promessa di sborsarne altrettanti per il ritorno. Lungo la discesa ci siamo fermati ad un viewpoint e qui è stato uno spettacolo. Il Lago Taal è un lago sito nella caldera di un gigantesco antichissimo vulcano. Al suo centro sorge un’isoletta vulcanica con un cono vulcanico, al cui centro , c’è un altro lago. La vista, era fantastica!
La cittadina sulle rive del lago è chiamata Talisay. Mentre andavamo in tricycle ho notato molte insegne con scritto “Boat Rental”. Siamo così entrati in un resort sulla riva del lago. Qui quei mafiosi del tricycle volevano costringerci ad affittare una barca al prezzo di 2000 Php, ma mi sono rifiutato. Allora, indossati i nostri zaini ci siamo diretti verso l’uscita. Arrivati vicini al cancello un ragazzo ci ha raggiunti e ci ha detto “Ok 1500, meno non posso fare”. Ci siamo guardati ed abbiamo deciso di accettare. La traversata è stata agitata. Siamo stati costretti ad indossare dei giubbotti di salvataggio e i barcaioli cercavano di prendere male ogni onda che incontravano per bagnarci.
Sbarcati a Volcano Island siamo stati costretti a pagare la tassa ambientale di 50 Php a persona e poi siamo stati assaltati da decine di persone che volevano farci da guida a 500 Php. Stessa situazione già vista e stessa decisione: Viva il fai-da-te!
Su quest’isola c’è moltissima povertà e l’unica fonte di reddito è la spremitura dei turisti. Il business principale è l’affitto di cavalli per la risalita, la gran parte dei turisti erano asiatici e tutti pagavano per il trasporto.
Noi ci siamo incamminati lungo la salita, che si è rivelata facile, tra strati di pomici e fumarole dalle quali usciva il fumo. Era incredibile per me, visto che fin’ora le avevo solo viste nei documentari. A tratti eravamo soli lungo la salita e ci sembrava di essere su un’isola vulcanica deserta e con una ricca vegetazione.
La vista che appare della cima della “Volcano Island” toglie il fiato! Una caldera dalle pareti interne ripide che si tuffano in un lago color smeraldo screziato da increspature argentee disegnate dal vento. Laggiù, sulla riva del lago alla nostra sinistra c’era anche un piccolo cratere fumante!
I venditori delle varie bancarelle sono abbastanza assillanti, in particolare quelli che vendono palline da golf da lanciare nel cratere. Abbiamo quindi preferito evitare figuracce golfistiche e ci siamo messi a goderci il panorama all’ombra di una tettoia. Qui abbiamo conosciuto due simpatiche signore filippine che vivono negli USA.
Le nostre macchine fotografiche hanno dato del loro meglio e tra il mio teleobiettivo e le opzioni panoramiche della macchina fotografica di Lula abbiamo ricavato proprio delle belle foto, ma non eravamo ancora soddisfatti, volevamo raggiungere il punto estremo, il famoso “Red Lava Point”. Abbiamo seguito un percorso passando prima attraverso cespugli spinosi e poi sul bordo del cratere fino ad arrivare ad un punto oltre il quale non si può proseguire. Questa è la vetta, la punta, sopra poi c’è il cielo e più avanti un dirupo. La vista da lassù era fantastica! A fianco a noi, proprio sulla punta del “Red Lava Point” c’era una fumarola che sbuffava in continuazione. Che emozione essere lassù!
Siamo tornati alle bancarelle e ci siamo concessi una bella noce di cocco guardando la caldera. Saremmo voluti stare in quel posto fino al tramonto, ma avevamo ancora tantissima strada da fare per tornare a Manila, e quindi, dopo un “Arrivederci” ci siamo incamminati sulla strada del ritorno.
Siamo scesi incontrando numerose persone che salivano a cavallo e diverse, con sguardo compassionevole come se stessero guardano dei pellegrini penitenti su una via espiatoria ci hanno chiesto per quale motivo non avessimo affittato il cavallo. Semplice siamo dei Trekkers e le vette ce le vogliamo conquistare!
Arrivati a riva un’altra litigata. Questa gente stava tirando fuori il peggio di me. Infatti, al momento di salire sulla barca ci hanno invitati ad usare una passerella costituita da una semplice tavola di legno appoggiata tra la riva e il bordo della barca. Ma appena messo il piede sulla passerella ci hanno chiesto 40 Php. Quella cifra è assolutamente irrisoria, visto che si parla di circa 0,50 Euro, ma è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Tutto il giorno a chiederci soldi, e molti ce li avevano già estorti con tricycle, questa barca dal prezzo assolutamente fuori mercato nelle filippine, la tassa ambientale che era più un dazio che altro visto che in giro c’era spazzatura praticamente ovunque, e ora volevano ancora soldi? No, non esisteva. Io sono sceso e dopo avergli detto tutto quello che pensavo sui 1500 Php che ci avevano già preso e che non avrei sborsato un centesimo di più, sono salito in barca issandomi da un lato. L’autista del tricycle rideva, lui pregustava gli altri 250 Php che gli avrei dovuto dare, ma si sarebbe sbagliato. I marinai non ci hanno più fatto indossare il giubbotto di salvataggio, sono andati come pazzi e ci hanno fatti infradiciare. Siamo arrivati a riva che grondavamo dell’acqua satura di chissà quanti scarichi della zona. Siamo scesi dalla barca e ci siamo diretti ad asciugarci ad una panca. Subito è arrivato l’autista di tricycle a chiederci se fossimo pronti per tornare sul monte, ma noi, senza mezzi termini l’abbiamo congedato.
Lungo la strada verso la salita per Tagaytay siamo stati fermati da un ragazzino che ci ha chiesto se avessimo voluto magiare qualcosa e pensandoci bene,avevamo voglia di toglierci gli abiti bagnati e di scaldarci al sole. Ci ha fatti accomodare sotto un albero in una specie di gazebo sulla riva del lago e poi ci ha chiesto che cosa avessimo voluto mangiare. Quando gli abbiamo detto che ci sarebbero piaciuti due pesci fritti, lui è corso dalla nonna in una casa dall’altro lato della strada a chiederle il prezzo e poi è tornato. Con 200 Php, poco meno di 3 Euro ci avrebbe portato due pesci, due insalate e due bottiglie d’acqua. Così, mentre aspettavamo il pesce io e Lula abbiamo occupato tutte le panche per mettere a stendere le nostre cose. Eravamo super fradici e avevamo anche sabbia attaccata ovunque. Fortunatamente le nostre macchine fotografiche, infilate al centro degli zaini non s’erano bagnate.
Mentre mangiavamo quei gustosi pesci, il ragazzo è venuto a parlarci e ci ha detto che sua mamma lavorava in Italia e a lui gli italiani stavano particolarmente simpatici in quanto trattano così bene sua madre. Spero che sia vero sia per lui che sua mamma. Quando ci ha chiesto di quanto avevamo pagato, non so se per farci felici o perché fosse effettivamente vero, ci ha detto che siamo due “Bargainers” e che non avremmo potuto spuntare prezzi più bassi. Lui ha puntato con un dito un gruppo di asiatici e ci ha detto “Vedete, loro pagano, non fanno storie. Tu non paghi il prezzo? Poi vengono loro e si prendono la tua barca a prezzo pieno”. Esattamente come avevamo visto a Bali qualche anno fa. Il ragazzo poi è sparito e poco dopo, è riapparso con due Polacchi. Il ragazzino, forse credendo che ci vuole un occidentale per far capire ad un altro occidentale qualcosa, ci ha chiesto di spiegare ai Polacchi che non avrebbero potuto avere la barca per 500 Php, ma il prezzo più basso era 1500. Per mia esperienza diretta i polacchi sono degli zucconi patentati ed è stata dura farglielo capire. Tuttavia oltre averci fatto capire che loro due sono tutt’altro che grandi viaggiatori, non si sono arresi e più tardi li ho visti ancora litigare ancora per avere quella barca a 500 Php.
Quando abbiamo saldato il conto abbiamo chiesto al ragazzo di indicarci la strada per un jeepney per Tagaytay, ma lui ci ha spiegato che c’era un’altra strada forse più economica, sebbene un po’ più complicata. Io e Lula ci siamo guardati e visto che andiamo a braccetto sia con “Più Economica” (il mio sangue genovese non mente) e “Più Complicata” (vocazione di Lula) abbiamo scelto questa opzione. Lui, il ragazzino, trasformato in un tour operator mi ha scritto una tabella di marcia sul quaderno e ci ha fermato il primo jeepney. L’abbiamo salutato e gli abbiamo augurato tutto il meglio che possa ricevere, poi, è sparito dietro un curva mentre ci allontanavamo seduti nel cassone del jeepney.
Siamo finiti in coda alla processione per la festa del giorno dopo. C’erano carri allegorici, la banda e, le majorette. Sarebbe stato bello tornare il giorno dopo!
Quando ci siamo sbloccati dal traffico il nostro jeepney, tutto scassato, s’è messo ad arrancare lungo la strada costiera del lago. La corsa fino a Tanawan ci è costata in due 100 Php. Da qui abbiamo preso un tricycle fino alla fermata del bus (40 Php). Il pullman con aria condizionata ci ha portati a Buendia a Manila al prezzo di 190 Php in due. Siamo arrivati a Manila che era già buio, ma non demordevamo. Un’altra corsa in Tricycle e siamo arrivati all’hotel. Quando siamo entrati nella hall ci siamo sentiti proprio come i concorrenti di Pechino Express!
La gita ci era costata 2340 Php in due contro i 4000 Php che ci avevano chiesto solo per il noleggio dell’auto. Ci è sembrato di essere stati proprio bravi.
Una bella doccia bollente per esorcizzare le paure di Manila e con un Taxi ci siamo fatti portare a Harbour Square su Roxas Boulevard. Qui, che è una sorta di centro commerciale all’aperto, abbiamo cenato dal cinese Hap Chan a base di Dim Sum e Siu Pao, poi Caffè Caramellato da Starbucks ed abbiamo finito la serata a scroccare la musica dal vivo di un locale sul lungomare. E’ stata una bella serata passata a rilassarci alla musica e alla brezza marina.
Il ritorno all’albergo è stato con Gerry un tassinaro assolutamente folle ma simpaticissimo che dopo vari tentativi trovare lo Shogun Hotel giusto, è riuscito a riportarci al nostro.
Siamo arrivati in albergo stanchissimi e felicissimi. Buona Notte Manila! Ora siamo amici?
Giorno 11 – 19 Novembre 2013
Oggi saremmo dovuti andare a Bohol.
Quando siamo arrivati a Manila sentivamo che i nostri piani iniziali erano andati a monte, ed ora avremmo dovuto improvvisare anche questa seconda parte del viaggio che sarebbe dovuta essere dedicata al relax. Manila invece ci ha accolti ed intrattenuti per queste 24 ore in modo ormai inaspettato.
Manila è la capitale delle Filippine, larga, complessa e caotica. Ti disorienta. Ti colpisce da tante direzioni, in modi diversi e contemporaneamente, sempre quando non te l’aspetti. Non è che, come dice un’amica inglese “I breed on danger”, cioè che mi nutro di situazioni pericolose, ma non l’ho trovata più trafficata di una “mia” Bangkok. Era sicuramente più pulita della “mia” India. C’erano ondate di gente nell’ora di punta. Il traffico era un mosaico di Jeepneys, Auto, Camion, moto e tricycle, ma nessuno o quasi suonava il clacson. Eravamo in zona Pasay Rotunda, quindi non in uno slum, ne’ tantomeno in una zona trendy, ma tante persone ci hanno aiutato ad orientarci disinteressati, homeless che facevano la loro strada, uomini “minacciosi” di notte, ma che poi erano nient’altro che scaricatori di frutta del mercato che si facevano la pausa-sigaretta. Ma la mia Manila, oltre a questo, aveva di più, era diversa. Lei è una città che sta correndo attraverso una enorme crescita. Lei è una bella signora con delle cicatrici, ma lei, si sta cambiando d’abito, e mentre tira su una spallina dell’abito da sera in lamé copre le cicatrici con le brillanti luci del waterfront. Ecco che inizia una rumba sulla pista di Harbour Plaza. Mi concede questo ballo, Madame?
Puerto Princesa, Palawan
Siamo partiti con la simpatica e sgargiante Cebu Airlines alla volta di Palawan, il paradiso tropicale che tanto avevamo sognato.
Siamo atterrati che era quasi mezzo giorno all’aeroporto di Puerto Princesa e ad aspettarci c’era il van dell’hotel che avevamo contattato qualche giorno prima, Arrivati all’ Hibiscus Garden Inn siamo rimasti senza parole da quanto era bello. Tutte le camere sono affacciate su un giardino curatissimo, ricco di fiori e pezzi di artigianato locale. Ogni camera ha un’amaca su cui cullarsi nell’atmosfera tropicale.
Dopo i primi momenti di enorme euforia ci siamo organizzati e siamo usciti. La consierge ci ha consigliato di andare alla “vicina” Pristine Beach. Prima abbiamo portato i panni in lavanderia e poi ci siamo incamminati verso la spiaggia. Dopo una lunghissima camminata nel caldo torrido siamo finiti in un porticciolo e della spiaggia neanche l’ombra. Abbiamo chiesto in giro, ma tutti ci hanno guardati con uno sguardo che sembrava dire “Mi stai prendendo in giro, vero?”, ma poi l’autista di un tricycle ci ha spiegato che in quel punto eravamo lontani da una “vera” spiaggia e che comunque Pristine Beach faceva schifo, oltre al fatto che, essendoci le Mangrovie, è anche infestata dai Pappataci. Visto che avremmo comunque avuto ancora un paio d’ore di luce, gli abbiamo chiesto di portarci a Honda Bay. Un lunghissimo viaggio in Tricycle per poi arrivare ad uno scalo di Banka, cioè le imbarcazioni locali a bilanciere. Anche qui nessuna spiaggia. Ma dove le hanno nascoste? L’autista del tricycle ci ha detto che da Honda Bay, o meglio, dal suo porticciolo, partono imbarcazioni per Day Trips per le isole dell’arcipelago di fronte, e quelle dovrebbero essere belle per davvero. Eravamo un poco delusi, speravamo di fare un tuffo in un mare azzurro e di sollazzarci su una spiaggia bianca, ma né dell’uno, ne dell’altro neanche l’ombra! Avevamo capito che Puerto Princesa è solo un punto di partenza per le diverse day trip sulle isole di fronte.
Tornati in centro a Puerto Princesa ci siamo fatti portare in un’agenzia locale dove abbiamo prenotato la Day Trip per le isole di Honda Bay per il giorno successivo al prezzo di 1200 Php a persona. Confrontato con le altre agenzie ci è sembrato un prezzo in linea con la media.
Arrivati in albergo abbiamo chiesto alla gentilissima consierge informazioni sul tour del Sabang Underground River, soprattutto per l’ottenimento del pass d’ingresso. Lei ci ha spiegato che se fossimo andati da soli ci sarebbero costati 160 Php l’uno ma saremmo dovuti andare all’Ufficio del Turismo di Puerto il cui orario di apertura combaciava purtroppo con quello del nostro tour del giorno seguente, Se invece avessimo usato l’agenzia dell’hotel, il prezzo sarebbe salito a 260 Php l’uno, ma avevamo la certezza di ottenerlo per la sera successiva. Il tempo è denaro, quindi abbiamo scelto di goderci la vacanza e di usare i servizi di questa agenzia dell’hotel.
Abbiamo cenato nel locale “Kalui” che con 480 Php abbiamo avuto una ottima cena per due con: Zuppa di Tonno, Uva di Mare, Bistecca di Tonno, Involtini di Pesce al Latte di Cocco, Verdura fritta impastellata, Riso, Macedonia e due frullati di frutta. E’ un ristorante arredato in stile balinese dove si rimane a piedi nudi (all’ingresso si devono togliere le scarpe): spettacolare e godurioso!
Abbiamo finito la serata al Kataboom, un pub dove suonano musica dal vivo. Per una raccolta di fondi per le vittime del tifone, c’era una promozione sul “Rum y Cola” e noi, per solidarietà siamo stati ben felici di contribuire attivamente! E’ stata davvero una bellissima serata!
Giorno 12 – 20 Novembre 2013
Questa mattina ci siamo svegliati alle 6.00, ma eravamo ben ricaricati dopo gli intensi giorni scorsi. Ci siamo concessi due European Breakfast al ristorante dell’albergo e eravamo pronti per il nostro tour.
Il van è venuto a prenderci in perfetto orario e dopo aver fatto salire un gruppetto di asiatici siamo partiti verso il porticciolo. Lungo il tragitto abbiamo fatto amicizia con due ragazzi di Manila (lei in realtà era cinese). Al porticciolo, dopo aver dato il tempo a tutti di procurarsi le maschere da sub ( noi avevamo le nostre), siamo stati caricati su una banka e siamo partiti verso le isole. Il mare era agitato e soffiava un forte vento che sollevava spruzzi scintillanti.
La prima tappa è stata Starfish Island: si tratta di una isoletta con un po’ di reef ed ha la particolarità di ospitare una quantità enorme di stelle marine, sia tozze e bitorzolute che sottili Durante le immersioni abbiamo potuto vedere moltissimi pesci da barriera corallina come il Pesce Pappagallo, il Pesce Palla ed anche un Pesce Leone.
La luce del sole creava un forte riverbero sulla sabbia bianca, il vento ci asciugava la pelle a tempo di record e la sentivamo bruciare. Una lingua si sabbia candida deserta creava una curva che lambiva il mare indaco e raggiungeva un bosco di mangrovie. Sul lato opposto c’erano le capanne per i day trippers. Un ragazzo stava sbracciando. Sarà stato invaso da una colonia di zanzare? No, era la nostra guida di quel giorno che ci chiamava, era già l’ora di pranzo! Il tempo era letteralmente volato.
Il banchetto è stato organizzato all’ombra di una fresca tettoia ed il menù è stato: Tonno alla brace, Pollo in casseruola, Pancetta di maiale saltata in padella, Riso, Granchi lessati e Frutta. Tutto era ottimo! La cinesina mi ha sfidato a chi mangiava più granchi, ma alla fine, ha vinto lei.
Mentre ci concedevamo delle fotografie trash usando delle sagome di sirene vicine all’area ristoro abbiamo anche conosciuto due italiani che stavano facendo il giro del mondo. Beati loro!
Nel primo pomeriggio siamo partiti per Lilu Island, isola con la caratteristica di sparire in parte con l’alta marea. La sabbia era bianchissima, ma l’acqua era torbida. Qui, come attrazione per i turisti, viene dato da mangiare ai pesci, con la conseguenza di trovarsi in acqua circondati da centinaia di pesci che si azzuffato per il pane che gli viene dato. Il sole è stato troppo forte e ci siamo dovuti rintanare sotto una veranda.
La terza isola del tour è stata Cowrie Island. Siamo sbarcati su una spiaggia di sabbia chiara e ben curata. Alle spalle della spiaggia vi erano strutture dove affittare le Banana Boats.
Io e Lula ci siamo sistemati all’ombra di un grosso albero. L’isola era piccola e i tours avevamo portato davvero tanta gente con conseguente confusione. D’un tratto, un signore asiatico ha sistemato un cocco spaccato in due nella sabbia ed ha fatto una foto trash con una ragazza messa lontano che in prospettiva sembrava uscire dalla noce di cocco. Di conseguenza, ogni coppia di turisti che passavano, volevano fare la stessa foto. Ci siamo tuffati in mare, ci siamo fatti una bellissima nuotata e poi ci siamo rilassati in spiaggia. Sul tardi, quando non mancava più molto alla partenza, abbiamo fatto una passeggiata lungo la spiaggia fino a raggiungere le mangrovie. Lungo la battigia abbiamo trovato tantissime conchiglie, stelle marine ed un bel granchio da sabbia giallo. Dietro le mangrovie vi erano delle capanne e corde con panni stesi, forse erano gli alloggi dei dipendenti di questo “resort”. Abbiamo ancora avuto tempo per una noce di cocco, una foto anche noi con la noce di cocco rotta in due e poi, alle 16.00, siamo tornati in barca. Il mare si era ulteriormente agitato ed il vento ora era molto forte. Lula sembrava tranquilla, forse con la sua testa era alle attraversate che abbiamo fatto un anno fa alle Andamane, e a confronto, oggi era calma piatta. Una lunga serie di balzi sulle onde che sembravano diventare sempre più grosse, una serie di tonfi in acqua che si trasformavano in luminose nubi iridescenti. La barca che scricchiolava ed il rumore del motore che sbuffava. Le scintille d’arcobaleno che arrivavano salate sulla pelle e sulle labbra. Gli occhi abbagliati da questa luce di un sole vicino al tramonto. Avremmo voluto che questa attraversata fosse durata qualche minuto di più.
Arrivati al porticciolo siamo subito stati caricati sul Van ed a turno tutti siamo stati accompagnati ai nostri alberghi. Abbiamo salutato i nostri amici di Manila e li abbiamo seguiti con lo sguardo finché non sono spariti in una nuvola di polvere.
Entrati in albergo abbiamo ricevuto la bella notizia che i pass per l’Underground River erano arrivati e tutto era filato liscio, meno male! Ecco che eravamo riusciti ad organizzarsi un tour che a detta dell’agenzia sarebbe stato impossibile.
Quella sera, dopo aver ritirato i panni dalla lavanderia, abbiamo cenato al “Kinabuchs Grill and Bar”: l’abbiamo scelto non tanto per il posto quanto perché volevo assaggiare un piatto tipico di Palawan: il Tamilok. A detta di tutti, è una prelibatezza imperdibile, un mollusco tanto brutto quanto buono, che ha il gusto di ostrica, in realtà non è altro che una specie di lombrico che vive nelle mangrovie masticandone il legno. E’ viscido mucoso, il sapore è di lumaca cruda, ma ripiena di segatura. Davvero da voltastomaco! Non per niente il giorno dopo mi sono imbottito di Plasil. Lula ha preso il “Tonno Sizzler” che però era coperto da una salsa grassa ed accompagnato da verdure mal cotte. Io, dopo aver lasciato il Tamilok mi sono lanciato su qualcosa di più tradizionale ed ho scelto una “Beef Rib”, cioè, una costina di vitello, ma non era altro che un osso con attaccato molto grasso striato solo da qualche infiltrazione di carne. Da bere abbiamo preso due frullati di mango, ma più che altro sembravano due granite. Cena tremenda e cara, visto che abbiamo speso più di 800 Php.
Abbiamo concluso la serata al Kitaboom come la sera precedente ascoltando musica dal vivo e bevendo Coca e Rum.
Arrivati all’Hibiscus siamo crollati. Buona notte Palawan!
Giorno 13 – 21 Novembre 2013
La nostra sveglia è suonata alle 6.00 del mattino e sebbene adorassimo questo hotel, ci siamo dovuti già mettere in marcia verso una nuova meta: Sabang.
Prima una corsa con un lentissimo tricycle che sembrava spinto da un branco di bradipi, poi un autobus della linea “D’Christ”. Dal colore verde acido e un’età che difficilmente si identificava se più vicina al Giurassico o al Triassico, era un ammasso di bagagli di ogni natura forma e volume ammassati da esperti costruttori di piramidi sul tetto di una corriera tenuta assieme dalla ruggine. Prima di partire a turno io e Lula siamo andati al mercato a prendere un po’ di frutta per il pranzo. Abbiamo comprato delle arance e due manghi gustosissimi. Non tanto saggiamente, ci siamo accaparrati dei posti in ultima fila e ci siamo sistemati con le ginocchia raccolte sotto al mento, con lo zaino sulla pancia e scatole con chissà che cosa sotto i nostri piedi.
L’autobus è partito alle 10.00 esatte, ha fatto 20 metri e s’è fermato. Era arrivato un tricycle strombazzante che l’ha fermato. Era un tizio che doveva portare verso Sabang una enorme quantità di sacchi di chissà che cosa. Altra sosta di mezz’ora a sistemare i sacchi in quella piramide infinita che avevamo sul tetto, e siamo partiti. La prima parte del viaggio è stata scorrevole, poi quando abbiamo lasciato la strada principale ed abbiamo iniziato quella sobbalzante, l’autista ha iniziato a fare frequenti soste. Abbiamo così scoperto che la gran parte del materiale che avevamo caricato non era di proprietà dei passeggeri, ma l’autista aveva fatto commissioni persone per ogni gruppo di case o capanne che abbiamo incontrato lungo il percorso.
Dopo tre ore di sobbalzi su quei sedili duri e stretti, siamo arrivati nella piccola, e semi deserta, Sabang che erano le 13.00 passate. Quando abbiamo lasciato l’Hibiscus ci è stato consigliato l’Hotel Dayunan, così tra i vari procacciatori abbiamo trovato quello giusto e ci siamo fatti accompagnare. L’albergo è senza pretese, la camera era semplice, ma decente. Il prezzo di 1000 Php a notte è stato un po’ troppo alto, ma vista la scarsità di hotel fanno i prezzi che vogliono e ci siamo dovuti adattare.
Appena disfatti gli zaini siamo corsi in spiaggia. Il mare era agitato e la spiaggia di sabbia dal colore ambrato era deserta. Abbiamo passato in rassegna i resorts che si affacciavano sul mare, ma anch’essi sembravano deserti. Gli unici segni di vita erano le rare tende di massaggi con annesse massaggiatrici annoiate che non vedevano clienti da giorni. Ci siamo sistemati davanti al bel Green Verde Resort, all’ombra di alcune palme cariche di cocchi. Loro, le palme, ondeggiavano nella brezza profumata di mare con un movimento che, visto dal basso, era ipnotico. Dopo un bel bagno nel mare caldo e agitato ci siamo rilassati facendo sculture di sabbia e noci di cocco, alcuni cani randagi sono venuti vicini ed hanno iniziato a scavare buche con noi, ecco, ora avevo la mia gang di cani randagi minatori. Mi ci mancava proprio questo in un angolo di pace.
La sera siamo tornati all’Hotel divorati dai pappataci, in particolare, io sono stato identificato dal Masterchef dei Pappatachi come il piatto vincente e tutti si sono accaniti su di me. Dopo una doccia gelata per sedare il prurito, siamo prima stati un po’ sul balcone a fare un aperitivo improvvisato con Coca e chips di mais e poi siamo tornati al Green Verde Resort per la cena. Abbiamo ordinato Tonno Grigliato, verdure saltate in salsa d’ostrica, Riso al Burro ed Aglio, acqua. Il ristorante era pulito, davanti al mare, arredato in modo originale con artigianato locale (maschere tribali, conchiglie, ecc…) e complementi d’arredo autoprodotti (rami trovati in spiaggia, noci di cocco lavorate, ecc…). Il cibo è stato ottimo e la cameriera dalla voce da zanzara (acuta e velocissima) è stata molto cortese e gentile. Cosa volevamo di più?
Sulla via del ritorno ci siamo fermati per un caffè ed una Red Horse Stallion. Poi, quando il locale ha chiuso alle 22.00 siamo tornati in albergo. La corrente a Sabang viene erogata solo dalle 18.00 alle 6.00.
Buona Notte Sabang!
Giorno 14 – 22 Novembre 2013
Nel nostro peregrinare del giorno precedente ci siamo recati ad informarci per l’Underground River e sebbene noi avessimo il Pass valido per le 11.30, il personale ci ha detto di passare pure alle 9.30 che essendo bassa stagione ci avrebbero potuto anticipare il tour. In un giorno possono entrare nell’Underground River solo 600 persone.
Abbiamo così deciso di svegliarci tardi e fare colazione con calma. Abbiamo scelto un bar in piazza. Io ho ordinato una colazione “Americana” Lula una “Europea” con 2 caffè. Mentre mangiavamo abbiamo fatto conoscenza col proprietario, un simpatico signore che prima ha diffuso musica italiana, e poi ci ha chiesto di posare per una fotografia da mettere sulla sua pagina di Facebook. Tra le foto che ci ha fatto vedere ce n’era una con Nick Nolte, il quale sembra recarsi spesso a Sabang.
Ci siamo recati agli uffici del tour dell’Undergound River. Qui regnava un bel caos e per qualche momento mi è venuto in mente l’Ufficio Immigrazione dell’aeroporto di Port Blair nelle Andamane. Tuttavia, sorprendentemente, in pochi minuti sono state sbrigate le pratiche di registrazione (80 Php in due) e di affitto della banka (700 php). Siamo stati fatti accomodare sotto un tendone dove abbiamo aspettato la nostra banka, contrassegnata dal numero 24, e quando è arrivata siamo partiti.
La navigazione è durata circa 15-20 minuti in una sorta di processione di molte altre barche che, simili alla nostra, andavano e venivano. La barca è attraccata assieme a tante altre su una spiaggia di sabbia soffice alle cui spalle sfocia l’Underground River. Qui abbiamo fatto un’altra breve coda dove far vedere nuovamente i nostri biglietti e dopo aver indossato gli elmetti ed affittato una audio guida in Inglese (200 Php), ci siamo nuovamente imbarcati. La nuova barca era una banka senza motore e la condividevamo con altri 5-6 turisti. La grotta si apriva davanti a noi.
La prima zona è denominata “Zona di Luce” che indica proprio l’ingresso. Qui vivono animali legati all’ecosistema esterno. Subito si passa alla “Zona del Tramonto” o “Sunset Zone” dove vi sono animali che usano la grotta come rifugio, fino ad arrivare alla “Zona Scura” dove vi è un ecosistema di animali completamente adattati al buio della caverna. In questa caverna sono stati rinvenuti i resti fossili dell’unico sirenide antico rinvenuto in Asia. Il percorso si è snodato per circa 2 km di canali stretti che si alternavano a camere larghe i cui margini si perdevano nell’oscurità. L’unica fonte di luce, tra l’altro precaria, era una torcia elettrica in mano al passeggero di prua che seguiva gli ordini di dove puntarla impartiti dal barcaiolo. C’era fresco, odore di umido e di guano di pipistrello. Spesso incrociavamo barche di turisti che andavano in senso opposto al nostro. Il barcaiolo che ci faceva da guida ha dato qualche informazione sommaria in un inglese stentato fornendo delle informazioni non troppo scientifiche per far divertire i turisti: è stata molto meglio la nostra audio guida, “Vedete quella roccia dalle forme sexy? Si chiama Stone, Sharon Stone!”.
All’uscita, tornati nella Zona di Luce abbiamo visto alcuni Monitor Lizards (Varani) e Mudskippers, i pesciolini che si sono adattati a vivere fuori dall’acqua e che camminano usando le pinne pettorali come zampette.
Siamo tornati alla spiaggia di Sabang che era prima di mezzogiorno ed il tempo si stava rannuvolando. Il mare era agitato, ma la barca a bilanciere sembrava stabile e, grazie agli abili marinai, non ci siamo bagnati come al Lago Taal.
Appena attraccati abbiamo avuto il tempo di salutare i nostri barcaioli che già altri turisti si sono avvicinati per salire sulla nostra banka. Noi ci siamo fatti strada sul molo e siamo tornati alla piazzetta dietro ad esso. Era presto ed avevamo voglia di fare una passeggiata, così, seguendo i consigli che ci sono stati dati quella mattina, abbiamo deciso di andare a visitare il “Chinese Temple” e la “Cascata di Sabang”. Per raggiungerla avremmo dovuto seguire il litorale verso sud. Appena lasciato il molo siamo passati prima davanti ad alcuni ristorantini e poi attraverso il famoso Dab Dab Resort. Inizialmente, seguendo i suggerimenti delle nostre guide che avevamo letto a Puerto Princesa, avremmo voluto prendere una camera qui, ma adesso, vedendolo, sembrava in abbandono totale. Forse era chiuso visto che eravamo ancora in bassa stagione.
Abbiamo proseguito attraverso un villaggio di pescatori alle cui spalle vi era anche un curatissimo piccolo albergo di cui non abbiamo trovato il nome, ma i turisti che vi alloggiavano sembravano godersi un beato relax.
In questo agglomerato di case vi è anche un punto dove ci si deve registrare per il trekking verso la cascata e dove, prontamente, l’addetto al taccuino ci ha chiesto un’offerta, ma gli abbiamo detto che gliel’avremmo data al ritorno. La registrazione sembra essere fatta in modo da controllare che tutti coloro che si recano alle cascate tornino senza problemi. Il metodo infallibile di controllo, è la firma di “entrata” ed “uscita”.
Appena usciti dal villaggio di pescatori abbiamo incrociato un pescatore che stava lavorando con accetta e martello su una barca. Ci siamo fermati qualche minuto a parlare con lui e ci ha detto che le due barche che aveva vicino, una con un motore e l’altra con due, le aveva costruite entrambe lui. Ci ha consigliato di assaggiare un pesce locale chiamato “Lapu Lapu” che sembra essere pregiatissimo e dal gusto divino. Sicuramente doveva esserlo, sennò perché i Filippini avrebbero dato a questo pesce il nome del loro eroe nazionale? A pensarci bene, io non troverei un pesce chiamato “Garibaldi” o “Mazzini” tanto accattivante.
Abbiamo salutato il gentile Sig. Maestro d’Ascia e abbiamo proseguito lungo la costa dove abbiamo raccolto un noce di cocco dalla forma panciuta. Subito si è scatenato un temporale degno dei monsoni da manuale e noi ci siamo dovuti rifugiare sotto la tettoia di una vecchia villa abbandonata. Fortunatamente, qui qualcuno aveva anche abbandonato delle panchine e delle sedie. Magari è la gente del posto che vi si reca alla sera a godersi il tramonto sul mare antistante alla villa.
Qui, simili a novelli Robinsoe Crusoe accampati al riparo dal monsone, abbiamo pranzato con degli ottimi manghi che abbiamo comprato il giorno prima, poi, per passarci in tempo, abbiamo letto un po’ di un libro mentre a turno pulivamo la noce di cocco coi nostri coltellini. Lula, col suo fiore in testa e l’abbronzatura sembrava una vera nativa polinesiana alle prese con la sua noce di cocco.
Mentre eravamo accampati abbiamo visto passare un paio di gruppi di ragazzi filippini diretti verso sud, probabilmente anche loro stavano andando alla cascata.
Quando ha quasi smesso di piovere ci siamo rimessi in marcia e poco distate abbiamo raggiunto il piccolo Tempio Cinese Lam Hai Putso. Il giardino tutto attorno era ben curato, mentre il tempio era molto spoglio. I muri sono bassi e fatti di cemento e sassi arrotondati dal mare. Sopra vi sono pareti di canne di bamboo incrociate a griglia e poi un ampio tetto di lamiera. Gli interni erano deserti e spogli. Appena dietro alla porta vi era un tavolo con una scatola per le offerte e dei grossi incensi. Lungo la parete principale vi erano due altari. Su quello piccolo vi era una statua scura rappresentante le effigi della Divinità Kuan Yin nella sua versione maschile seduta con la mano sul ginocchio ed in testa la corona del Buddha Amithaba. Davanti alla statua c’erano numerose piccole statue tra le quali di Buddha e di Kuan Yin nella versione femminile, un leone, altre divinità che non conoscevamo ed un braciere per gli incensi. L’altare più grande era dedicato sempre a Kuan Yin, ma nella sua versione femminile. Qui vi erano diverse statue di diverse divinità tra le quali una della divinità “Heng Ha Er Jiang” simile ai “Nio” giapponesi, ed una di un Bodai il “Buddha Pancione” benevolo. In quasi tutti i nostri viaggi abbiamo incontrato la Dea Kuan Yin o Kannon, ed anche questa volta siamo stati felici di rincontrarla anche nelle Filippine. Qui abbiamo lasciato qualche offerta, abbiamo acceso due incensi e suonato la campana tibetana. Ormai stiamo entrando nello stile orientale.
Mentre eravamo nel tempio si è scatenato un altro temporale. La pioggia tamburellava la lamiera e colava dal soffitto bucato dando, un ulteriore senso di abbandono.
Quando siamo usciti stava ancora piovigginando, ma volevamo raggiungere la cascata. Ci siamo così incamminati lungo il litorale fatto da una lunghissima distesa di massi arrotondati e levigati dal mare. Ogni tanto cartelli ci proponevano frasi di Buddha per farci riflettere. La strada iniziava a farsi pericolosa anche perché molti di questi massi non erano stabili e noi avevamo solo i sandali leggeri. Quando ha ripreso a piovere siamo tornati sui nostri passi.
Siamo arrivati a Sabang che eravamo fradici. Lungo la strada non abbiamo incontrato l’uomo della registrazione, tantomeno il suo prezioso taccuino. Probabilmente era andato a ripararsi dalla pioggia con qualche amico e a bersi una San Mig ghiacciata.
In paese abbiamo contrattato con un procacciatore per il trasporto per El Nido del giorno dopo, così al prezzo di 650 Php, circa 9 Euro ci siamo aggiudicati due posti in partenza per la mattina successiva.
Abbiamo passato il resto del pomeriggio in spiaggia. Il mare era mosso così siamo stati solo sulla battigia.
Quella sera abbiamo cenato nuovamente al Green Verde Resort con Seppia alla Griglia, Riso all’Aglio, Verdura saltata in padella con Salsa d’Ostrica e Riso al Vapore tutto ottimo! Dopo cena siamo andati in un locale per ancora una birra. Qui c’era un gruppo di fricchettoni che suonava e cantava a turno. Abbiamo fatto conoscenza col simpatico Roy Acustic. Un filippino cantante, chitarrista, falegname, lavoratore di cuoio, amante della pasta alla carbonara e totalmente ubriaco di Rum e Cola.
Finita la birra siamo tornati in albergo sotto una volta di stelle. Buona Notte Sabang!
Giorno 15 – 23 Novembre 2013
La Sveglia è suonata all’alba, quando in una Sabang ancora sonnecchiante c’erano poche persone in giro. La gran parte delle attività di questo villaggio sono rivolte ai turisti che vengono a visitare l’Underground River, quindi Sabang inizia ad animarsi attorno alle 8.00 circa.
Noi avevamo l’appuntamento alle 7.00 per partire verso El Nido, quindi, prima ci siamo concessi una colazione a base di biscotti e del Nescafè.
Il primo mezzo di trasporto è stato un jeepney stipato all’inverosimile di gente e oggetti. Più che un surrogato di bus, sembrava una grossa partita di twister semovente. A bordo, con noi, gli unici altri turisti erano un gruppo di ragazzi svedesi che lavoravano a Pechino e una famiglia (madre, padre e due figlie).
Il Jeepney ci ha portati fino a Salvacion dove abbiamo incontrato il freezer travestito da minivan che ci ha portati a El Nido. Il viaggio da Sabang a El Nido è durato 7 ore.
Abbiamo fatto una sosta vicino a Tay Tay dove abbiamo comprato una busta di snacks. Erano dei legumi e cereali tostati e salati. Il misto comprendeva Arachidi, Piselli, Fave e Cereali Soffiati. I filippini sono appassionati di snacks!
Abbiamo raggiunto Corong Corong, il villaggio prima di El Nido, alle ore 14.00. Qui al “Greenviews Resort”ci attendeva Il proprietario, un inglese di Derby, ciarliero e simpatico, di nome Dave. Abbiamo passato qualche minuto a parlare con lui mentre il personale finiva di preparaci il bungalow e ci ha raccontato di essere molto seccato dalle ultime manovre del governo locale. Infatti, sembra che da due settimane il governo avesse inasprito il regolamento sulle persone che operano nel turismo e che fosse stato imposto un aumento del costo dei tour nell’arcipelago Bacuit in modo da equiparare i prezzi in ogni agenzia. Oltre a questo, ci sarebbe stata anche da pagare la Eco-Tassa di registrazione di 200 Php. C’è da dire che, se la tassa e l’aumento che alla fine non è eccessivo per noi, aiutasse la conservazione dell’ambiente non mi lamenterei più di tanto. Lo stesso se le regole sulla navigazione che a detta di Dave imponevano “Marinai con patente nautica e Guide Turistiche con Licenza” avessero permesso ai turisti di essere più sicuri durante i tours, ma nei giorni successivi, io e Lula avremmo avuto comunque qualche dubbio.
Dave ci ha fatto vedere una tabella che illustrava i tours, che sono uguali in ogni agenzia di El Nido:
Tour A: Small Lagoon, Big Lagoon, Payong Payong, secret Lagoon, seven Commandos Beach. Il Prezzo era salito da 700 Php a 1200 Php.
Tour B: Pangulasian Island, Snake Island, Cadugon Cave, Cathedral Cave, Pinangbuytan Island. Il prezzo era salito da 800 Php a 1300 Php.
Tour C: Mantiloc Shrine (Mantiloc Island), Secret Beach, Almond Beach, Hidden Beach, Helicopter Island. Il prezzo era salito da 900 Php a 1400 Php.
C’è anche un Tour D, ma tocca isole piuttosto lontane.
Il nostro cottage era carino sebbene l’arredamento molto British con tanto di centrini, tendine, copriletto floreale e piatti con disegnati fiori appesi alle pareti stonasse un pò con le Filippine. Comunque, c’era da dire che avevamo anche l’acqua calda! E non è stata una cosa da poco!
Ci siamo subito recati in spiaggia, ma a Corong Corong il mare è basso oltre che con molte alghe. La stessa spiaggia è marroncina e non sembrava molto pulita. Così abbiamo deciso di andare a vedere la cittadina di El Nido. Siamo tornati sulla strada e dopo circa 3 Km siamo arrivati al villaggio. Il prezzo di un tricycle da Corong Corng a El Nido è di 50 Php, circa 0,80 Euro.
In genere i turisti che vengono al El Nido lo fanno per visitare l’arcipelago Bacuit che è proprio davanti e non per il paesino, di cui molti ne parlano proprio male. La spiaggia non è adatta per fare il bagno visto che viene usata (ed abusata) come attracco per le barche che portano a fare i tours nell’arcipelago Bacuit, ma ciò nonostante, il paesino ci è piaciuto. Dopo paesi decadenti e desolati come Bontoc e Banaue, almeno qui c’era un po’ di vita.
Ci siamo concessi una bella merenda con dei Sio Pao (panini cinesi ripieni di carne) caldi e abbiamo prenotato un tour per il giorno successivo. Abbiamo scelto il “Tour A” visto che le previsioni meteorologiche erano incerte e sperando di fare il “Tour C”, a detta di tutti il più bello, in un giorno in cui fosse previsto bel tempo.
Abbiamo cenato in riva al mare allo Sea Slug. Il locale è carino, anche se il personale non è granchè. Comunque il menù è stato: Fish and Chips (il pesce orrendamente tagliato a bocconcini fritti), Totano grigliato (Ok), Riso al Vapore (Ok), Insalata di Cetrioli e Pomodoro (il piatto migliore della serata).
Sulla strada del ritorno ci siamo ancora fermati per un caffè ed una Red Horse al locale Aplaya sulla spiaggia di El Nido. Un po’ di relax ascoltando musica e guardando le barche dondolare pigramente in questa serata tropicale.
Non ancora stanchi ci siamo fatti una passeggiata fino a Corong Corong sotto un cielo stellato che presagiva ad una giornata di sole cocente. Buona notte Corong Corong!
Giorno 16 – 24 Novembre 2013
I suoni della natura che hanno accompagnato il nostro sonno per tutta la notte, con l’alba si sono tramutati in una sveglia assordante. Alle 5.00, perfettamente precisi come galletti svizzeri, tutto il pollame ed i volatili della zona si sono uniti in un enorme coro cinguettante. Sembravano impazziti nel tentativo di sovrastare con il proprio canto quello dei pennuti vicini. Nulla da fare, non si poteva più dormire, così ci siamo preparati e siamo andati a fare una bella colazione al ristorante del resort. La vista era bella, sulla spiaggia e sull’Arcipelago Bacuit, ma la scelta delle colazioni implicava combinazioni strane abbinate a prezzi esagerati. Così ci siamo limitati a ordinare due ciotole di cereali e due tazze di Nescafè.
Alle 9.00 eravamo a El Nido pronti per imbarcarci. Qui abbiamo incontrato Eduardo, il ragazzo che ci ha venduto i biglietti il giorno prima e lui ci ha detto che prima avremmo dovuto registraci, pagare la “Tassa Ambientale” di 200 Php e poi saremmo potuti salire in barca.
Appena imbarcati ci siamo resi conto che eravamo solo tre europei, mentre tutti gli altri erano simpatici ragazzi filippini. La guida ci ha detto che avremmo fatto il tour inverso in modo da evitare il grosso delle altre imbarcazioni e poi siamo partiti.
La nostra barca, chiamata “Prince Ken” si è lanciata in questo mare blu cobalto. La prima tappa è stata la vicina Seven Commandos Beach. Qui la guida, per fortuna patentata e questo ci dava sicurezza, ci ha detto che questo sarebbe stato un buon posto per lo snorkeling e non avremmo avuto bisogno di protezioni per i piedi.
Appena entrati in acqua ci siamo trovati davanti Tracine, Razze e Ricci. Alla faccia dei consigli della guida patentata. Comunque, il reef è stato bello ed abbiamo visto i nostri primi Pesci Pagliaccio. Sembrava di essere in un documentario! Bellissimo! E questo era solo l’inizio!
Quando siamo usciti dall’acqua abbiamo raggiunto i nostri compagni di viaggio asiatici che non erano andati a nuotare, ma stavano seduti sulla spiaggia. Non sanno cosa si sono persi. I ragazzi erano per la gran parte di Manila ed erano simpatici. All’opposto, abbiamo fatto conoscenza con Mat, un ragazzo Polacco, , con la vocazione dell’eremita.
La guida ci ha chiamati a bordo e siamo ripartiti. La tappa successiva è stata “Secret Lagoon”, i nomi “Secret”, “Hidden” e similari in questa zona si sprecano e dopo un po’ è facile confondere i posti.
Ci siamo fermati davanti ad una spiaggia dove c’erano già diverse barche. Per accedere alla laguna si deve passare per un buco nella parete rocciosa ad un lato della spiaggia. Così ci siamo gettati in mare ed abbiamo nuotato fino a riva. Ma questa volta ci siamo messi le scarpe da surf! Il fondale purtroppo presentava i segni lasciati da tutti questi anni di sfruttamento. Forse i filippini dovrebbero pensare a costruire un pontile di legno o qualche modo da evitare che i turisti devastino il reef come ormai succede quotidianamente da anni.
Una volta attraversato il buco al lato della spiaggia ci si trova in questa laguna che se non fosse stata super gremita da tutta quella gente, sarebbe stata un posto stupendo. L’acqua bassa era circondata da ripide pareti di roccia scura dalle forme aguzze e bizzarre. Davvero molto bella!
Dopo qualche minuto la guida ci ha richiamati alla barca e siamo partiti verso la prossima tappa.
Siamo arrivati alla spiaggia chiamata Payong Payong che erano circa le 11.00 e qui abbiamo avuto molto tempo per rilassarci e fare snorkeling mentre i marinai preparavano il pranzo. Questa spiaggia aveva un bel reef ed era a poche centinaia di metri dal famoso e costoso Miniloc Resort. A mezzo giorno ci è stato servito: Pesce alla griglia, Calamaro alla griglia, Maiale a bocconcini, Pollo alla griglia, Insalata, Riso bianco, Anguria e Ananas. Tutto buonissimo!
Abbiamo parlato un po’ coi filippini e siamo riusciti a farci prestare la loro canoa. Ci siamo messi a pagaiare verso il Miniloc Resort ed abbiamo trovato una baia con acqua cristallina ed un reef incredibile. Qui siamo riusciti anche a vedere una stella marina a strisce bianche e rosse. Siamo tornati alla barca che ci stavano dandoci per dispersi.
La nuova tappa è stata Big Lagoon con l’ingresso intasato da un incredibile ingorgo di Banka. Qui siamo dovuti scendere e farci un bel tratto a piedi, mentre alcune altre barche, forse con marinai più abili o forse col pescaggio più basso, riuscivano a navigare fino alla Laguna. La laguna, dopo un breve tratto dove l’acqua e molto bassa, diventa nuovamente profonda. L’acqua era torbida dal traffico di persone e barche e anche qui abbiamo pensato che il posto è già bellissimo, ma senza gente sarebbe stato un posto stupendo.
Pochi minuti per fare alcune foto e siamo già stati richiamati alla barca per partire verso la tappa successiva. Non appena ci siamo avvicinati a Small Lagoon i mariani ci hanno detto che saremmo dovuti scendere dalla barca e nuotare, così, io e Lula, ad una velocità supersonica abbiamo indossato le maschere e ci siamo lanciati in mare. Abbiamo nuotato furiosamente come due atleti olimpionici in fuga dalla Guardia Costiera, e siamo riusciti ad entrare nella laguna che non c’era ancora nessuno. Per entrare si deve passare attraverso un varco nella roccia e ci si trova in una piccola laguna di acqua verde e circondata da pietra nera. Ci siamo spinti a nuoto fino alla parte profonda della laguna dove, sul lato sinistro, si apre una piccola baia e il paesaggio è perfetto per essere fotografato. Pareti di guglie nere a picco su una laguna di mare smeraldo. Una natura selvaggia di alberi avvinghiati alle pareti. Il canto di qualche uccello e lo sciabordio dell’acqua. Poca gente, finalmente un posto dove rilassarsi!
La guida ci ha chiamato e mentre tornavo alla barca un mio vecchio “amico”, il Damsel Fish, famoso per mordere chi gli passi vicino, ha pensato bene di mordermi un paio di volte un gamba. Ecco, ora avevo anche il tatuaggio dei denti del pesce.
Siamo tornati a El Nido ed abbiamo trovato la spiaggia che era un enorme ingorgo di imbarcazioni dei tour che scaricavano gente. Noi ci siamo avvicinati alla spiaggia e mentre scendevo dalla scaletta ho messo male un piede. Sono finito in acqua con tutto lo zaino! Lula rideva come una pazza ed io sono riuscito a tirare subito fuori lo zaino ed evitare danni alla mia macchina fotografica.
Abbiamo approfittato della merenda al bar Aplaya sulla spiaggia per cambiarci e poi ci siamo incamminati verso Corong Corong. Siamo arrivati al resort in tempo per il tramonto che da questa spiaggia è assolutamente spettacolare. Il mare era una distesa scintillante, il cielo aveva 1000 tonalità di rosso e le isole Bacuit facevano da sfondo a tutto questo. Un vero spettacolo!
Per cena siamo tornati all’Aplaya di El Nido dove abbiamo provato il famoso Lapu-Lapu, ma alla fine aveva lo stesso sapore del merluzzo. Era una cernia cucinata male, nient’altro. Come contorno abbiamo preso della buona verdura e del riso bianco.
A El Nido tutto ha iniziato a chiudere presto, così abbiamo comprato una bottiglia di Rum Tamiguay, un paio di Coche e ci siamo goduti il resto della serata in spiaggia con due Cuba Libre improvvisati sotto un cielo tropicale stellato e al suono del mare. Buona Notte Dolce El Nido!
Giorno 17 – 25 Novembre 2013
Sveglia all’alba. I galletti cantavano in coro con una moltitudine di uccelli sotto steroidi. Io ero già sveglio da parecchio. La nostra camera, e la finestra a fianco al letto, per la precisione sul mio lato, senza vetri e solo con una zanzariera, dava sul muro di confine col villaggio affianco. Quella notte, gli abitanti hanno deciso di uccidere un maiale e dove l’hanno fatto? Sotto la mia finestra. Dai rumori e le grida che ho sentito sembra che l’operazione sia stata un disastro e mi sono alzato con la voglia di evitare di mangiare maiale per un bel po’. Per fortuna che i galletti e gli uccelli mi hanno tirato su coi loro canti!
Come ogni mattina ci siamo alzati presto e ci siamo concessi una bella colazione al Greenviews Resort con Pane, Marmellata e Nescafè davanti all’alba sulle Bacuit Islands. Davvero bellissimo, ma il prezzo è fuori mercato, per la mattina successiva avremmo dovuto trovare un’alternativa.
Con la solita fretta siamo tornati a El Nido ed abbiamo cercato Eduardo, il ragazzo del tour del giorno precedente e ci siamo iscritti al “Tour C” che sembra essere il più bello di tutti.
All’imbarco abbiamo incontrato sia i ragazzi filippini che la guida del giorno precedente e a bordo abbiamo conosciuto un signore inglese Mr. Justin di Exeter che ha raggiunto il figlio che era in viaggio già da qualche mese. Che invidia per il loro spirito!
La prima tappa è stata Helicopter Island. La spiaggia era chiara ed il mare era calmo. Appena attraccati, come il giorno precedente la guida ci ha detto di entrare scalzi in acqua, ma noi non l’abbiamo ascoltato e siamo entrati in mare con le nostre scarpe da surf.
Il fondale presentava cavità circolari e, ad un tratto, in un di esse ho visto spuntare una murena dai colori che le davano un aspetto striato. All’ultimo sono riuscito a spingere via Lula che le stava finendo sopra Ci siamo allontanati da quella zona e più al largo il reef era migliore dove abbiamo anche visto un’attinia blu coi pesci pagliaccio!
Siamo tornati in barca e dopo una breve navigazione siamo arrivati a Hidden Beach. Questa è una piccola baia di sabbia chiara circondata da ripide pareti scure. Essa non può essere vista dal mare perché nascosta da una sottile isola di roccia nera. Passando davanti sembra che l’isola faccia parte dello sfondo.
La barca ha attraccato da un lato dell’isolotto dove ce ne erano molte altre e noi siamo scesi nell’acqua bassa e abbiamo camminato fino alla spiaggia. Questo posto è bellissimo. Per dirla come Mat, se fosse stata deserta sarebbe stato meglio, ma era comunque imperdibile. Il pensiero ricorrente è stato che sarebbe stato un posto perfetto per passarci la notte ed ho chiesto al barcaiolo che era con noi se qualcuno organizzi notti sulle isole, lui ha detto che i prezzi sono molto alti, ma comunque, si può organizzare. Sulla via del ritorno alla barca ho visto qualcosa muoversi in acqua e ho scoperto che era un piccolo serpentello marino terrorizzato da quel traffico. Poverino, avrei voluto prenderlo e portarlo alla baia, ma sono sicuro che avrebbe frainteso il mio gesto e mi avrebbe riempito di morsi.
Era già tarda mattina e noi, dopo aver costeggiato Mantiloc Island, abbiamo raggiunto Almond Beach. Qui il reef è da documentario ed è anche a pochi centimetri sotto la superficie dell’acqua per poi scendere a parete nel mare blu scuro. La nostra barca ha puntato dritto la spiaggia e come un mostro mitologico è entrata a sfondamento sul reef, rompendo, strisciando e macinando il corallo che si è trovato sulla sua strada. Poi, la guida ha invitato i passeggeri a raggiungere la riva camminando sui coralli, ma facendo attenzione a non tagliarsi.
A El Nido abbiamo dovuto pagare un tassa ambientale di 200 Php, e questo potrebbe anche andare bene se servisse per proteggere questo arcipelago. I tour operator, pena salatissime sanzioni, devono avere guide patentate e marinai qualificati, e può andare bene per la sicurezza del turista. A El Nido la fonte di reddito principale è il turismo e stanno cercando in tutti i modi di portare sempre più turisti. Stanno venendo costruiti sempre più resorts, le strade sono state rifatte e verrà a breve portato anche il bancomat, che ad oggi non c’è. Tuttavia, le persone vengono fino a El Nido per ammirare le Bacuit Islands con le loro barriere coralline e non per la città di El Nido che non ha nulla da offrire. Se i filippini non avranno cura del loro patrimonio ambientale, ne pagheranno le conseguenze in un futuro, forse, neanche troppo lontano.
Io e Lula, come anche gli inglesi, forse mossi da un istinto di conservazione della natura, ci siamo tuffati dalla barca dove il reef era più profondo, mentre gli asiatici hanno tranquillamente camminato sulla barriera. Mi chiedo ogni loro passo quanto danno abbia fatto.
La barriera era meravigliosa, per me è stata la più bella di tutto il viaggio. I pesci colorati, i coralli, alghe, conchiglie e tutto il cast dei migliori documentari marini era davanti a noi. Io e Lula abbiamo cercato di fare più foto e video possibili in modo da potere conservare, in qualche modo, sebbene riduttivo, l’immagine di questo posto fantastico.
La parte più difficile è stata arrivare alla spiaggia perché i coralli in alcuni punti arrivavano a pelo d’acqua. Il risultato è stato qualche taglio.
Il menù è stato lo stesso del giorno precedente e noi ne abbiamo approfittato per passare qualche minuto per parlare con gli inglesi. Justin, ex insegnante di inglese, ha detto di adorare l’Italia e di esserci stato giusto un mese prima con la figlia. Beato lui che può viaggiare così tanto!
Finito il pranzo siamo dovuti tornare alla barca. Quindi, i quattro occidentali pseudo-ecologisti si sono cimentati in una nuova gimcana acquatica tra i coralli, hanno guadagnato nuovi graffi e per salire sulla barca si sono cimentati in un numero di comicità-equilibristica-circense arrampicandosi sul pattino laterale della banka, poi sul braccio di legno, per poi arrivare alla parte coi sedili. Gli asiatici devono aver pensato che siamo quattro folli.
La tappa successiva è stata Secret Beach. Qui vi era un altro ingorgo di barche. Per arrivare alla spiaggia si deve saltare in mare e si deve nuotare attraverso un varco nella roccia. Qui c’è da fare molta attenzione visto che quando entrano le onde dal buco, poi l’acqua defluisce con violenza. Io e Lula ci siamo immersi con le maschere, visto che il passaggio è sufficientemente profondo, e siamo emersi dal lato opposto del varco e lì abbiamo trovato tanta gente. La spiaggia è decisamente molto bella, è chiara, circondata da alte pareti di roccia frastagliata, vi sono anche alcuni cespugli e palme. In acqua un tempo doveva anche esserci una bella barriera corallina, ma il turismo di massa ne ha lasciata ben poca. Se non vi fosse tutta quella gente e fosse stata lasciata integra, sarebbe un posto degno di un libro d’avventura.
Abbiamo aspettato che se ne andassero un po’ di turisti per goderci la spiaggia in santa pace per qualche minuto, poi quando è arrivata un’altra orda di gente, siamo tornati alla nostra banka.
Mentre navigavamo verso il Mantiloc Shrine abbiamo preso un gran bel acquazzone. A tratti non riuscivamo nemmeno a vedere l’isola. Fortunatamente il temporale è durato poco e quando siamo attraccati stava già finendo di piovere.
A Mantiloc tanto tempo fa hanno cercato di costruire una sorta di resort con molo d’attracco privato, un ascensore interno e a fianco un piccolo tempio in stile Liberty. Poi tutto è stato abbandonato ed oggi i tour guidati attraccano al molo del resort per portare i visitatori a vedere il tempio. Qui vi è una statua che raffigura la Madonna circondata da colonne e candidi angeli che tengono in mano delle grosse conchiglie. Su un lato del tempio è stata scavata nella roccia una scalinata che porta sulla cima di uno scoglio piuttosto alto e da li c’è una bella vista sullo specchio d’acqua tra Mantiloc Island e l’isola di fronte. Il tempio è comunque molto romantico e deve essere molto bello col sole.
Siamo tornati alla Banka e ci siamo diretti a El Nido. Lungo il viaggio di ritorno abbiamo parlato con una coppia di ragazzi cinesi che ci hanno chiesto molte informazioni sull’Italia e in particolare della Toscana. Ci siamo stupiti quando ci hanno chiesto in che zona sia Monteriggioni perché vorrebbero visitarla!
Quando siamo tornati a El Nido la barca ha dovuto attraccare un po’ più lontano dalla riva rispetto alla barca del giorno precedente e il mare era un po’ agitato. Lula si è fatta avanti per scendere prima di me, ma mentre scendeva dalla scaletta in acqua ha messo male un piede ed è scivolata in mare con tutto lo zaino, esattamente come avevo fatto io il giorno prima! Ora ero io che me la ridevo!
Come la sera prima ci siamo fermati all’Aplaya per fare merenda ed abbiamo usato il loro bagno per cambiarci con indumenti asciutti.
Anche questa sera siamo riusciti a tornare al resort giusto in tempo per il tramonto, che è stato davvero bellissimo: il cielo era rosso fuoco con striature violette ed in controluce c’erano le sagome nere delle palme: un paesaggio da cartolina!
Quella sera siamo tornati a cenare a El Nido. Dopo il pesce mal cotto delle sere precedenti, questa volta abbiamo scelto di cenare con un menù di terra e siamo entrati al Lucky Alofa. All’interno c’erano molti clienti e una bella musica.
In un tavolo, solo come un eremita agorafobico misantropo c’era Mat. Convinti di fargli piacere, ci siamo seduti al suo tavolo per fargli un po’ di compagnia. Abbiamo ordinato due ottimi Ranchero Burgers con patatine fritte e Coca. Davvero ottimi! Mat invece ci ha raccontato di essere stato male tutta la notte precedente, in effetti, guardandolo bene, la sua pelle aveva una strana tonalità di verde, ed aveva scelto di passare tutta la giornata ad annoiarsi da solo in santa pace a El Nido.
Durante la serata lui s’è fatto un po’ più loquace. Abbiamo parlato dei posti che abbiamo visitato nelle Filippine e quando gli abbiamo detto di aver dovuto saltare Bohol, lui ci ha detto che abbiamo fatto male. Lui c’era stato solo pochi giorni prima e non aveva visto grosse tracce lasciate dal tifone. Le foto che ci ha fatto vedere parlavano chiaro. Abbiamo fatto male ad ascoltare l’italiano del Jeepney tra Sagada e Bontoc come anche i consigli di gente non informata. Peccato, saremmo potuti andare anche noi!
Quando siamo tornati al resort Mat si è aggregato a noi. Abbiamo scelto di farci una bella passeggiata e mentre lasciavamo El Nido, in quelle strade totalmente buie, il cielo si è acceso di una quantità così grande di stelle che non avevo mai visto prima! Comunque, per fortuna dopo l’India non partiamo più senza le nostre torce e così siamo riusciti ad evitare alcuni cani che dormivano beati in mezzo alla strada.
Visto che non era ancora particolarmente tardi, ci siamo ancora concessi due “Cuba Libre” in spiaggia che era popolata da tantissimi granchioni. Buona Notte Corong-Corong!
Giorno 18 – 26 Novembre 2013
Ci siamo svegliati più presto del solito. Fatti gli zaini ci siamo messi per strada. Vicino alla stazione dei bus c’era il mercato e qui abbiamo potuto vedere tantissimo pesce fresco ben esposto sui banchi. Molti pesci erano di specie per noi insolite. Per esempio, oltre al Lapu-Lapu che è una cernia, c’erano degli Snappers di cui non so il nome in italiano, pesci pappagallo, pesci unicorno, squali, cozze lisce, tonni e tanti granchi.
Appena arrivati in paese abbiamo fatto colazione alla Midtown Bakery con Ciambelle, Plum Cake e Muffin, tutti caldi e ottimi. Poi ci siamo diretti da Eduardo dal quale ci siamo iscritti al “Tour B” e mentre finivamo i nostri caffè all’Aplaya ci ha chiamati per partire.
A bordo della nostra barca c’erano i nostri nuovi compagni di avventure, che erano una coppia di koreani, coppia costituita da fratello-e-sorella filippini, una ragazza filippina cicciotta dalla faccia da polinesiana, una coppia di polacchi insicuri, io e Lula. Ad accompagnarci la superstar, cioè Eduardo in persona.
La prima tappa è stata Pangulasian Island. Qui l’acqua era profonda ed abbiamo potuto tuffarci senza dover indossare le scarpe. In mare il reef non era molto grande e il fondale era principalmente sabbioso. Tuttavia, era ben conservato ed è stato un piacere nuotare in questo angolo incontaminato.
Da Pangulasian Island ci siamo spostati a Snake Island. In realtà il nome deriva dal una striscia di sabbia sinuosa che con la bassa marea emerge e collega due isole vicine. Già vederla in foto è affascinante, ma esserci sopra è sorprendente! Una sensazione indescrivibile che coinvolge tutti i sensi, camminare su quella lingua di sabbia sentendo le conchiglie sotto i piedi, udire il canto degli uccelli sul sottofondo dello sciabordio del mare da entrambi i lati e sentirne anche il sapore salato sulle labbra, provare il calore del sole cocente sulla pelle, sentire l’odore della brezza che viene dal golfo, della resina degli alberi sulle rive e della crema solare.
Su una delle isole si può fare una breve passeggiata che porta sulla vetta della collina dalla quale si può godere di un bel panorama e vedere dall’alto la striscia di sabba che unisce le due isole.
A mezzo giorno abbiamo pranzato con lo stesso menù dei giorni precedenti. Durante il pranzo abbiamo parlato con Fratello-e-Sorella ed abbiamo scoperto che lei ha vissuto per qualche anno in una base NATO vicino a Napoli in quanto moglie di un militare. Ora fa l’ispettrice alimentare a Manila.
Con la nostra banka ci siamo spostati alla Cadugon Cave, nella quale si entra solo strisciando attraverso un buco nella roccia. All’interno l’erosione del mare e del vento ha conferito alle rocce delle forme sinuose. Qui Eduardo si è arrampicato in punti improbabili per farsi fotografare come “modello”.
Una volta usciti abbiamo ancora avuto qualche minuto per rilassarci sulla tranquilla spiaggia su un’amaca e poi abbiamo fatto un po’ di snorkeling. Qui abbiamo visto sia dei Damsel Fish che un Lapu-Lapu.
Da questa spiaggia siamo andati alla Cathedral Cave, una grotta enorme, dove si può entrare solo a nuoto. E’ bellissima e così alta che guardando verso la vota sembra di essere in una cattedrale gotica con tanto di formazioni che ricordano delle colonne slanciate ai lati.
Quando siamo usciti due pescatori con la faccia da pirati si sono accostati alla nostra banka. Hanno contrattato con il Sig. Fratello il quale con 1000 Php, circa 14 Euro, si è aggiudicato un pesce enorme e due aragostelle.
L’ultima tappa di questo tour è stata Pinangbuytan Island. E’ l’isola tropicale per definizione. Spiaggia di sabbia soffice, palme, vegetazione e reef! Non c’è da stupirsi che sia stata scelta per girare le puntate del reality “Survivor”. Con Lula abbiamo scovato una roccia piatta e ci siamo addormentati accarezzati dal mare. Avremmo voluto passare la notte su quest’isola, ma siamo dovuti tornare a El Nido.
Attraccati ad El Nido abbiamo ancora fatto una tappa all’Aplaya per un Te ed un frullato di Mango e poi passeggiata fino al resort. Questa sera cena al Lucky Alofa con Burrito Vegetariano e una specie di Calzone ai Formaggi.
Siamo tornati al resort più tardi del solito, quindi, niente Cuba Libre, ma tantissime stelle a sorriderci! Buona Notte!
Giorno 19 – 27 Novembre 2013
Oggi non abbiamo programmato nulla, quindi, sveglia tranquilla e poi una passeggiata a El Nido dove abbiamo fatto colazione alla Midtwon Bakery con delle ciambelle e poi un caffè all’Aplaya. Dopo colazione abbiamo incontrato Eduardo e gli abbiamo chiesto se conoscesse qualcuno che avrebbe potuto affittarci un motorino, ovviamente si!
Nel giro di pochi minuti eccoci già in sella di una motocicletta in strada verso Nacpan Beach. La prima parte di strada è bella, ma poi diventa dissestata. Il recente tifone ha fatto affiorare molte pietre appuntite, ma sono anche in corso lavori di asfaltatura. In circa 45 minuti, con Lula che si lamentava delle sue chiappe doloranti su quel sellino duro grazie anche alla navigazione di Lula che non mi ha fatto perdere, siamo arrivati a Nacpan Beach. Davanti a noi un mare cobalto accarezzava una lunghissima distesa di sabbia chiara e soffice. Se esiste il paradiso, voglio che sia così! Non abbiamo potuto resistere, abbiamo buttato gli zaini in mezzo alla spiaggia, ci siamo messi a correre e ci siamo lanciati in mare. La spiaggia era così lunga che le persone erano tanto distanti da sembrare su una spiaggia deserta. Abbiamo fatto lunghi bagni in quel mare che iniziava ad essere agitato.
Il nostro pranzo è stato con degli ottimi manghi coltivati nella zona e delle piccole, ma saporitissime, banane.
Abbiamo passeggiato lungo la spiaggia, abbiamo visitato il villaggio di pescatori e poi abbiamo ancora nuotato. Saremmo voluti rimanere ancora tanto in spiaggia e magari passarci anche la notte, ma sarà per il prossimo viaggio nelle filippine!
Nel tardo pomeriggio siamo tornati a El Nido. Quella sera il tramonto è stato il più bello di tutto il viaggio. Sembrava che El Nido avesse voluto riservarci il meglio per la nostra ultima sera!
Per la cena siamo tornato allo Sea Slug di El Nido. Questa volta abbiamo ordinato uno Snapper grigliato, Gamberi alla griglia, Verdura stufata in salsa d’ostrica. Eravamo in riva al mare e tutto è stato buono!
Per il dopocena abbiamo prima provato ad andare al Lucky Alofa per provare il suo Rum aromatizzato al Mango, Ananas o al Peperoncino, ma era chiuso, quindi abbiamo ripiegato sul Marber’s. Qui c’era una bella folla di pazzi e musica commerciale, finalmente un po’ di vita! Nel locale c’era anche Justin col figlio al tavolo con una Ladyboy e altra gente con più alcool nel sangue di quanto ne produca una distilleria in un mese. Mentre ascoltavamo la musica è anche arrivato Eduardo con un altro ragazzo e siamo rimasti a parlare un po’ e brindato a Rum e Mango. Che tutto quel rum sia un segno che dovremo tornare a Cuba in uno dei prossimi viaggi? La serata è stata divertente e il Marber’s è stato una rivelazione per l’ultima serata. Avrei voluto scoprirlo prima!
Siamo tornati al resort a piena notte. Abbiamo fatto gli zaini e poi nanna. Buona Notte Palawan!
Giorno 20 – 28 Novembre 2013
Stamattina ci siamo svegliati all’alba. Le isole Bacuit stavano iniziando ad essere illuminate, il cielo era terso e la marea era bassa. Ci siamo accomodati al ristorante del resort al tavolo vicino alla finestra. Questa mattina: Latte, Cereali e Caffè (alla cifra oltraggiosa per le filippine di 300 Php in due), ma La vista di quel mare e quelle isole era impagabile!
Abbiamo ancora avuto tempo di sistemare meglio gli zaini e poi siamo partiti per la stazione dei pullman (corsa in Tricycle a 20 Php), abbiamo preso due biglietti. In quei giorni c’era un’offerta ed il prezzo era di 294 Php a persona per il pullman senza aria condizionata e un prezzo un po’ più alto per quello in versione freezer siberiano. Avendo avuto già modo di apprezzare nei pullman di questo paese tropicale la strana sensazione di congelamento delle estremità diverse volte, abbiamo scelto la prima opzione.
Alle 8.00 siamo partiti con il pullman della compagnia Roro. L’autista, forse un parente stretto e più spericolato dell’autista che ci ha portati da Vigan a Baguio, ha guidato come un pazzo. Velocità folle, curve prese contro mano, frenate improvvise, salti su e giù dall’asfalto dove c’erano dei lavori, senza mai rallentare. Dopo un’ora di viaggio avevamo già perso il conto di quanta gente era stata male. Fortunatamente, lungo il tragitto ci sono state concesse due soste, una a Tay Tay ed una a Roxas. Dove abbiamo potuto sgranchirci e prendere due caffè. In 6 ore di sballonzolamenti siamo arrivati a Puerto Princesa. Proprio vicino alla città abbiamo incontrato un forte temporale, ma l’autista non ha pensato mai di rallentare. Alcuni finestrini erano rotti e non si potevano chiudere, quindi, per alcuni, è stata una vera doccia. Fortunatamente, a Puerto Princesa la tempesta è passata e siamo arrivati che non pioveva.
Una corsa in tricycle dalla stazione dei pullman e siamo arrivati in centro dove abbiamo avuto ancora qualche ora prima di dover andare in aeroporto. Qui abbiamo fatto l’ultimo shopping. Prima siamo andati da Asiano, un negozietto di artisti locali, a comprare degli oggetti di artigianato. Poi, dato che non avevamo pranzato, siamo andati dal popolarissimo fastfood Jolly Bee Lungo la strada verso l’aeroporto ci siamo concessi un bel massaggio di coppia al centro massaggi Venus a 850 Php. A me è capitata una massaggiatrice mastodontica dalla forza inaudita, ma comunque, è stata molto brava.
Alle 18.30 siamo arrivati in aeroporto dove abbiamo fatto il check-in. Qui abbiamo scoperto che i nostri zaini superavano i 10 Kg di franchigia. Abbiamo così disfatto gli zaini sul pavimento e abbiamo trasferito l’eccesso negli zaini piccoli. Tranne la bottiglia di Rum che l’abbiamo regalata ad un addetto del ceck-in.
Al controllo passaporti abbiamo dovuto pagare una “tassa di uscita” di 100 Php ciascuno e alle 20.30 siamo decollati.
Il volo dura circa 45 minuti e alle 21.15 eravamo a Manila. Ritirati i bagagli abbiamo preso un Metro Taxi. La Lonely Planet dice di imporre i tassametro in quanto, sembra, che a Manila non si possa spendere più di 170 Php. Noi per fare qualcosa come 5 Km ci siamo trovati con un tassametro che marcava 282 Php. E pensare che una settimana prima avevamo attraversato tutta Manila a 300 Php!
Siamo arrivati allo Shogun Hotel e lo staff gentilissimo ci ha assegnato una bella stanza spaziosa.
Era ormai tardi e non avevamo ancora cenato, così abbiamo deciso di lasciare le cose di valore in camera, ed uscire per strada a cercare qualcosa da mangiare. Nelle vicinanze dell’Hotel non c’era neanche una bancarella, così ho chiesto ad un poliziotto dove avessimo potuto trovare qualcosa da mangiare. Lui, poliziotto in una pericolosissima città che non dorme mai, dai riflessi di un Cobra Reale Affamato, dall’occhio da Aquila che ha visto una succulenta ciambella e preciso come un GPS-Gastronomico è scattato e mi ha puntato dall’altro lato della trafficatissima Pasay Rotunda. Per attraversala abbiamo dovuto usare diversi cavalcavia pedonali, gli stessi che si usano per entrare nella Edsa Station della metropolitana sopraelevata che attraversa Manila. Sulle scale e sui cavalcavia c’era molto sporco, l’aria era satura dall’odore acre di urina e c’erano accampati molti homeless. Ma nessuno ha fatto caso a noi due.
Sul lato opposto di Pasay Rotunda abbiamo trovato delle bancarelle dove si servivano i nativi. Dovevo stabilire un contatto. C’era un banco di Balut così mi sono avvicinato e ne ho ordinato uno. Era bollente! Non si riusciva a tenere in mano! La commessa sorrideva a vedere un occidentale alle prese con il loro snack nazionale, e un ragazzo traccagnotto e sorridente s’è messo subito a parlare con me. Mi ha confidato che il segreto per un ottimo Balut era di usare una salsa arcana in un bottiglino dall’etichetta strappata a base di aceto e peperoncino. Lui me l’ha allungata e senza battere ciglio l’ho versata sul mio Balut. La signora rideva e il ragazzo era contento quando gli ho detto che era buonissimo. Non era vero. Era aceto e uovo. Uguale a tutti gli altri Balut, ma non mi costava nulla fargli credere di essere un novello Gordon Ramsey filippino delle uova sode.
La tappa successiva è stata in un banco di Siomai (ravioli al vapore) gestito da una Ladyboy. Abbiamo chiesto dove ci saremmo potuti sedere e gentilmente Miss. Ladyboy a detto qualcosa in Taglog ad una ragazza che passava e dal nulla s’è materializzato un tavolino in ferro battuto che sembrava teletrasportato direttamente dal giardino del palazzo di Windsor con tanto di sedie abbinate.
Appena seduti Miss. Ladyboy ci ha detto che, visto che stava chiudendo se poteva sedersi con noi al tavolo. Ovviamente si! Nel frattempo sono arrivate anche due sue amiche. Mentre Lula spettegolava con Miss. Ladyboy, io parlavo con Princess, una ragazza di Cebu con una storia degna di un film di Quentin Tarantino: si era trasferita a Manila dopo che la madre era stata ferita in un conflitto a fuoco ed ora trafficava in abiti prodotti in Sri Lanka col fidanzato a sua detta Ispanico-Pakistano. Se avessi avuto tempo sarei andato a comprarmi un abito low cost nel suo negozio! Visto che le stavamo particolarmente simpatici, ci ha anche offerto una porzione di zampe di gallina fritte, impossibile rifiutare! Lula rideva come una matta dalla scena surreale che si era creata.
Siamo tornati all’Hotel che era mezza notte. Troppo tardi per fare gli zaini. Abbiamo guardato un po’ di X Factor America e poi a nanna. Buona notte Manila!
Giorno 21 – 29 Novembre 2013
Questo era il giorno del rientro in Italia, ma avevamo ancora del tempo per visitare Manila. Colazione in albergo con Uova, Wurstel, Pane, Burro, Confettura di Mango e Caffè e poi verso l’antica Intramuros.
Mentre facevamo colazione un cameriere mi ha consigliato di usare la metro per andare ad Intramuros, molto più veloce di un Taxi e più economica. Siamo così usciti dall’Hotel e siamo saliti alla stazione metro Edsa. Qui la coda per il biglietto a 15 Php era lunga, ma scorreva bene. Vi erano guardie armate che perquisivano chi saliva ed altre guardie che gestivano le file di persone allineate nei punti dove si sarebbero aperte le porte. Un’organizzazione seconda solo al Giappone. Senza tenere conto che in Giappone non c’è bisogno di perquisire i passeggeri e la disposizione ordinata in fila senza fare baccano è impressa a fuoco in un cromosoma del patrimonio genetico nipponico.
Siamo saliti in metro provando la sensazione di passare attraverso uno schiacciapatate e ci siamo trovati stipati come sardine in convogli con compressa dentro più o meno tutta l’umanità. Tuttavia, la metro ci ha messo davvero poco ad arrivare alla nostra fermata, quella di United Nations Street.
Intramuros è il quartiere dove abitavano gli spagnoli agiati. Purtroppo durante la Seconda Guerra Mondiale, fatta eccezione per la St. Augustin Church e pochi altri edifici, Intramuros è stata praticamente rasa al suolo. Secondo informazioni che ho trovato, Manila è stata la seconda città più devastata durante la Seconda Guerra Mondiale solo dopo a Varsavia. La distruzione è stata causata sia dai Giapponesi che dal fronte di liberazione (Filippini alleati ad Americani), ma c’è da tenere presente che comunque nel teatro di guerra filippino, l’esercito imperiale giapponese è riuscito a commettere alcuni dei suoi misfatti più efferati.
Il quartiere di Intramuros, a partire dagli anni 1950, è stato ricostruito ad arte, ed oggi sembra davvero un quartiere antico.
Il primo punto d’interesse è stato Rizal Park. Qui è stata eretta una imponente e fiera statua di Lapu-Lapu, capo tribale delle Visayas che uccise Magellano, oggi preso come simbolo di Libertà.
Abbiamo seguito Maria Orosa Avenue e poi Gen. Luna Street che attraversa prima un campo da golf e passa a fianco alla Puerta Real. Siamo entrati così entrati ad Intramuros, l’antico quartiere fortificato da mura. La prima tappa è stata la St. Augustin Church, ma era in corso la celebrazione della Prima Comunione per una marea di bambini, così abbiamo deciso di visitarla al ritorno. Ancora su per Gen. Luna Street fino a “Plaza de Santa Isabel” dove si erge il piccolo monumento dedicato ai caduti della Battaglia di Manila. Seguendo Anda Street a destra si arriva al Bahay Tsinoy, un palazzo che ospita il Museo dei Cinesi Lavoratori delle antiche filippine. A Manila c’è un quartiere-slum chiamato Tondo che è la più antica China Town del mondo; oggi è anche il luogo più pericoloso in assoluto di Manila, quindi è altamente sconsigliabile visitarlo.
Siamo tornati su Gen. Luna Street e abbiamo visto la Cattedrale di Manila e Plaza Roma dove un tempo si tenevano le corride.
Ancora su per Gen. Luna Street e ci siamo trovati davanti al traguardo del nostro viaggio, l’ultimo monumento: Fort Santiago.
Pagato l’ingresso di 75 Php abbiamo visitato il curatissimo parco e poi siamo arrivati al fossato che ci separava dal portale di Fort Santiago. Per terra c’erano le orme di Rizal che segnalavano il suo percorso dalla prigione al patibolo; noi in modo un po’ dissacrante le abbiamo percorse a ritroso correndo, perché questa rappresentava la tappa finale del nostro viaggio e come fossimo i concorrenti di Pechino Express, dopo il ponte, il piazzale, il portale, con un balzo siamo arrivati al cospetto della statua di Rizal! Era il nostro trionfo in questo incredibile viaggio!
Abbiamo ancora avuto tempo di visitare i dormitori dei soldati un tempo usati anche come prigione di Rizal, ed oggi usati come teatro dal nome Rajah Suleiman Theatre, ed il museo di Rizal nella Falsabraga de Sta. Barbara.
Sulla strada del ritorno abbiamo visitato il museo di St. Augustin dove c’è la statua dell’Immacolata Concezione con la Madonna dai tratti vagamente asiatici. Anche il chiostro con le palme è molto bello! Salendo alcune rampe di scale si più accedere alla terrazza dell’organo all’interno della chiesa. Da lassù si vedeva la distesa di bambini in abiti da Prima Comunione.
E’ stato toccante visitare questa chiesa, unica testimone superstite della storia di questa città da quando si chiamava ancora May Nila (tradotto: “Qui cresce il Nila” che è una specie di Mangrovia). Chissà quante storie ci può raccontare questa chiesa!
Siamo tornati in albergo prendendo ancora la Metro. Poi, fatti gli zaini, ci siamo diretti all’aeroporto (taxi contrattato 250 Php). Alle ore 15.30 siamo decollati alla volta di Riyadh.
Siamo atterrati a Malpensa alle ore 6.30 del 30 Novembre 2013. Era freddo e piovigginava, ma non importava. Noi avevamo ancora dentro il calore del sole e della gente filippina.
Arrivederci!
Makita Kang Muli!