Far West. Viaggio “estremo” negli States
11 agosto. A n d a t a. Sveglia ore 5. Volo da Malpensa, ore 10. In aeroporto un libanese inizia a parlare con noi del più e del meno: “dove andate, che lavoro fate…” e poi mi chiede: “Are you Swedish?”… Svedese? Io??? Mah! Imbarco in orario. Saliamo a bordo. Voliamo Alitalia. Lo stewart si aggira sospetto tra i sedili con un plico di fogli e poi arriva da me e mi chiede: “lei ha il pasto speciale?” io: “no…(con l’espressione tipo: “ma di che parla?”) e lui: “Sì, lei ha il “low fat meal”!” Che cosa??? SuperTechMan ride a crepapelle e, con aria saccente, mi dice “dev’essere un’impostazione che hai messo nelle preferenze quando ti sei registrata sul sito Alitalia”… io: “mi sono sicuramente sbagliata!. Prima cosa, quando torno, vado a cercare questa voce e la elimino!” (fatto!, ndr) Dopo 8 ore raggiungiamo lo scalo di Newark, uno degli aeroporti di New York, che però si trova in New Jersey, giusto di là dall’Hudson River, da dove la vista sullo skyline di Manhattan ci mette una certa nostalgia (però… cosa non si farebbe per una bandierina!). Attesa di 4 ore in aeroporto, poi altre 6 ore e mezza circa di volo per Los Angeles. Atterraggio alle 5 del mattino del 12, dopo 24 ore dalla sveglia! In California sono le 20.30 dell’11 e dall’alto Los Angeles è immensa. Luci a perdita d’occhio. Un’estensione indescrivibile. I bagagli ci sono. Tutto bene. Hotel Hilton Int’l Airport. Stanza 3139. Sonno.
12 agosto. U n i v e r s a l S t u d i o s + L o s A n g e l e s b y n i t e. Sveglia con comodo… scendiamo alla reception e chiediamo se ci sono tour organizzati con pick up all’hotel. Scegliamo quello agli Universal Studios e, a seguire, il tour di LA by nite.
Agli Studios è stato bellissimo. Abbiamo visto Shrek in 4D, ovvero non solo i classici occhialini da indossare per vedere in tre dimensioni, ma anche esperienze realistico-sensoriali… in pratica, l’asino starnutisce in faccia al pubblico e mentre starnutisce ti spruzzano schizzi d’acqua in faccia, oppure, quando Shrek cade, il tonfo “fa muovere” i seggiolini degli spettatori… stupendo! A seguire, Terminator 2 in 3D su schermi che coprono la visuale a 180°, dando la sensazione autentica di essere parte del film; House of Horrors, dove un ragazzino faceva il fenomeno urlando in faccia a pupazzi mummificati, finché non si è trovato di fronte un uomo vero mascherato da mummia che per poco non gli fa prendere un infarto; e Special Effects… il tutto in compagnia di Kaustav Mandal, un indiano che faceva il nostro stesso tour e che non ci ha mollati un attimo. Oggi di lui sappiamo tutto… nostro malgrado. Il tour by nite, carino: Walk of Fame con foto a stelle e impronte, davanti al Teatro Cinese, lo Strip (Sunset Bld), Beverly Hills, con le case dei divi praticamente murate (“qui abita Halle Berry”, ci dice la guida… e fuori dai finestrini del bus, solo un muro altissimo…). Dopo questa “news” ci siamo addormentati, finché non siamo arrivati a una fontana –brutta– con zampilli danzanti che, solo a posteriori, abbiamo scoperto essere davanti al teatro in cui consegnano gli Oscar (che in americano sono gli Academy Awards). Vabbè, non mi sono impegnata granché nelle foto, in quanto dormiente, ma pazienza.
13 agosto. N o l e g g i o A u t o, S a n t a M o n i c a, M a l i b ù e V e n i c e B e a c h. Oggi abbiamo noleggiato un’auto allo sportello Hertz dell’albergo. SuperTechMan chiede un veicolo non troppo grande, ma con “sistema satellitare” (esoso!) e il receptionist gli dice che la sola auto con queste caratteristiche disponibile al momento era un’Audi A6. Conveniamo che non sia indicata, per cui SuperTechMan aggiusta il tiro: “ne ha una più piccola con sistema GPS?”. Così ci affidano una Corolla bianca, rigorosamente con cambio automatico e navigatore a bordo. Dopo un’ora di test drive nel parcheggio dell’albergo, per regolarsi (piede sinistro, freno… piede destro, acceleratore, niente frizione e niente marce!), partiamo, in direzione Santa Monica (circa 25 km). Dopo qualche inchiodata improvvisa ai semafori rossi (l’abitudine alla frizione è dura a morire!), arriviamo alla meta. Parcheggiamo in un parcheggio a pagamento di 8 piani e andiamo in esplorazione. Appena arrivati alla famosa “Promenade” della cittadina, una “luce” ci indica la strada: è la mela dell’Apple Store, dentro cui SuperTechMan si fionda per toccare con mano (finalmente!!!) il nuovo oggetto del desiderio firmato MacIntosh: l’iPhone!!! È bellissimo, davvero. Peccato che non si possa comprare negli States, se non con abbonamento telefonico flat locale, quindi non utilizzabile in Italia, se non con roaming internazionale. Aspetteremo l’inverno, quando arriverà anche da noi.
Ora di pranzo. Scegliamo un ristorante greco sulla Promenade, che ben presto ci accorgiamo avere la colonna sonora nostrana (persino “l’Italiano”, di Toto Cutugno!) e il bagno raggiungibile attraversando la cucina (nel senso che si entra in cucina, si apre una porta e c’è il water con il lavandino!). Si è mangiato bene, ma di fatto ci siamo consolati con la spiaggia. È immensa. Non solo in lunghezza, ma per raggiungere metà della spiaggia dalla strada, occorre andare in macchina! Punteggiata dagli immancabili baldacchini dei bagnini (foto d’obbligo!), la spiaggia di Santa Monica è davvero magnifica. Caratteristico anche il pontile con i pescatori e qualche cantante improvvisato. Torniamo al parcheggio per ripartire in direzione Malibù (35 km da Santa Monica). Arriviamo al piano, ma la macchina non c’è più. L’abbiamo cercata in lungo e in largo, poi ci siamo decisi. Denunciamo il furto dell’auto allo sportello cui pagare il parcheggio. La signora guarda il biglietto e ci dice: “la macchina non è qui, è nell’altro palazzo!” … ? quale altro palazzo? Ebbene… il nostro parcheggio era mastodontico: costituito da 4 palazzi di otto piani e noi eravamo entrati dall’ingresso sbagliato… This is America, folks! Arrivati a Malibù rimaniamo un po’ sorpresi. Sulle colline circostanti ci sono ville da capogiro, tutte vetro e metallo, terrazzi da sogno e niente tende alle finestre, con daini e cervi come animali domestici che saltellano su e giù per i pendii. Le spiagge però sono corte e brevi. Piccole calette, rare e accessibili a tutti. Molte di più sono invece quelle private, su cui poggiano le palafitte con vista Oceano. Altre spiagge saranno senz’altro state coperte dalla vegetazione, nascoste alla vista dei più, per proteggere chissà quali avventori o proprietari.
Rientriamo alla base, facendo sosta a Venice Beach. Di nuovo le spiagge immense viste a Santa Monica, con le torrette dei bagnini. C’è una passeggiata tra la spiaggia e le prime abitazioni. Una passeggiata divisa in due parti: una per le bici e l’altra per i pedoni. Da qui si guarda dentro le ville magnifiche che danno sulla spiaggia. Ville dalle forme e dai colori più bizzarri. Ville rigorosamente senza tende, sicché si possa vedere dentro e invidiarne i proprietari. Propongo a SuperTechMan un ristorante italiano. Dapprima è reticente, poi gli spiego: “ma non hai capito che qui sei molto American style se ceni italiano e vesti italiano?”. In effetti, mi dà ragione. Venice Beach è nota per i suoi ponti stile Venezia, ma ormai è sera e non li vediamo. Torneremo il giorno dopo, prima di andare a San Diego.
14 agosto. V e n i c e B e a c h, S a n D i e g o e L o n g B e a c h. Torniamo a Venice Beach per vedere i ponti e i canali che la rendono caratteristica. Visto che, oltre ad averli nella Venezia vera, noi li abbiamo anche a Comacchio, non li abbiamo trovati particolarmente entusiasmanti. Qualche scatto “di dovere” e poi via, verso San Diego (circa 195 km da Los Angeles), attraversando in velocità Marina del Rey.
Mi aspettavo una San Diego più folkloristica, più messicana. Invece l’ho trovata abbastanza tranquilla. Una city tutta palazzoni-specchi-metallo in riva al porto, un quartiere più turistico, Gaslamp, con qualche casa in stile spagnolo e tanti ristoranti. Città pulita e tranquilla, senza strana gente in giro. La cosiddetta “città vecchia” (Old Town), invece, è da tutt’altra parte rispetto al “centro” di oggi. E Old Town, sì, che è folkloristica. Per lo più è diventata una sorta di “Skansen” americana. Ovvero una serie di strade con case basse, stile Far West, il Museo degli Sceriffi, e in ogni abitazione un negozietto o un ristorante. Little Italy non è distante da Old Town, e si trova esattamente accanto all’aeroporto. Quando gli aerei atterrano, si possono comodamente contare i passeggeri. Il frastuono è chiaramente infernale, ma le case sono proprio belle.
Serata a Long Beach. Tramonto bellissimo, con sole e cielo rosa intenso/rossi. Peccato che il sole sia calato sul porto, che è una vera città nella città, togliendo molta poesia. Cena di pesce per me e a base di hamburger per SuperTechMan.
15 agosto. C o m i n c i a m o i l t o u r d e i p a r c h i, a n z i n o, r i m a n i a m o a L o s A n g e l e s.
Siamo arrivati a Los Angeles con due voucher distinti: uno per l’albergo, in cui si contavano 4 notti (partenza il 15) e uno per il tour, la cui prima data era il 15 agosto. Quindi il 15 agosto facciamo il check out, pronti a partire. Appuntamento alla reception alle 7.30 e bus alle 8. Sbagliato. Alle 8.30 ancora non c’è nessuno. Il concierge, Robert, dopo un po’ si convince a chiamare Miami, sede del nostro Tour Operator (Travalco). A Miami sono le 6 del mattino, e ci risponde una signorina gentile, ma chiaramente ancora addormentata, che ci garantisce che il tour era quel giorno e non si spiegava come mai ci avessero detto alle 8, quando la partenza era alle 10. Aspettiamo fino alle 10.30. Ancora nessuno. Richiamiamo Miami e non saprei se la stessa signorina, ora sveglia e pimpante, o un’altra decisamente più presente, ci dice che è previsto che noi si arrivi oggi a Los Angeles, perché il tour inizia domani. E alla mia domanda: “scusi, quindi noi abbiamo il pernotto anche per questa sera in questo hotel?”, lei candida mi dice di sì. Ritorniamo al check in. Ci ridanno la stessa stanza.
Abbiamo perso qualche ora preziosa, ma decidiamo di sfruttare la giornata per vedere Los Angeles di giorno. Purtroppo, avendo consegnato l’auto il giorno prima, ci dirigiamo a Hollywood con il taxi (salasso: 55 dollari!). Foto alle stelle del Walk of Fame, foto al Teatro Cinese, con tutte le impronte dei divi nella piazzetta, perlustrazione del Kodak Theater, foto alla scritta Hollywood sulla collina, poi scegliamo di fare il tour sull’autobus turistico. Primo giro, per toccare tutti i luoghi tipici della città (Beverly Hills, Rodeo Drive e tutti i locali, parchi, persino le stazioni di polizia, che hanno ospitato i set di alcuni dei film americani più famosi. Secondo giro, per fare tutte le foto del caso. Los Angeles è un set a cielo aperto. E abbiamo scoperto inoltre che a Hollywood esiste un monumentale cimitero dedicato alle star (Hollywood Forever Cemetery – o Hollywood Memorial Park: http://www.Hollywoodforever.Com/Hollywood/), dove sono sepolti, tra gli altri, Rodolfo Valentino, Tyrone Power e Charlie Chaplin Jr. –il figlio di Charlie Chaplin–. Se, per mancanza di tempo, anche voi non potrete andare a visitarlo, cliccate qui per il percorso: http://www.Seeing-stars.Com/Maps/HollywoodMemorialMap(full).Shtml) NOTA: Marilyn Monroe non è qui. Alla sua morte, l’ex marito, Joe di Maggio, decise di seppellirla al Westwood Village Memorial Park Cemetery –Los Angeles–, dove per 20 anni, tre volte la settimana, ha fatto recapitare sulla sua tomba una dozzina di rose rosse.
16 agosto. C o m i n c i a m o i l t o u r s u l s e r i o Questa volta è vero. Partiamo per il tour che ci porterà a fare quasi 10mila km (contando anche quelli già fatti fino a oggi). In pratica, 3 volte l’Italia da nord a sud, andata e ritorno. E’ oggi che incontriamo, dopo averla sentita ieri sera al telefono, Mara, la guida che ci accompagnerà fino a Las Vegas. Conosciamo inoltre alcune coppie che saranno con noi per gran parte o per tutto il viaggio: Valter+MariaRosa, Maurizio+Silvia, Pablo+Alessandra, Francesco+Mariella, Carlo+Michela, Andrea+Enrica. Mara è una tipa particolare. Mara ha 35-40 anni. E’ bergamasca, ma da 10 anni vive all’estero, a seguito del marito, ricercatore italiano, che ha lavorato per anni in Australia, in Giappone e ora in California. Raccontando la sua storia a ogni gruppo che si porta in giro, giustifica il suo italiano davvero scadente… che con tutta probabilità aveva già qualche limite prima di uscire dal Bel Paese. Mara dice “bensì” invece di “ben” (tipo: “ci sono bensì undici milioni di abitanti nella contea di Los Angeles”)… e lo dice per ogni cosa, il che dopo un po’ diventa ossessivo. Mara ci parla del “Camino Real”, ovvero dell’itinerario, oggi turistico, che un tempo fu battuto dai pellegrini che cristianizzarono la California e i nativi del territorio. Questi monaci crearono diverse missioni, legate tra loro proprio da questo percorso, oggi segnalato da centinaia di campane (http://www.Californiabell.Com/) che si trovano lungo la strada. Le missioni più importanti si trovano a San Diego (la prima), a Santa Barbara e a Carmel. Su tutti, grande missionario cristianizzatore fu tale Padre Junipero Serra, autentica superstar dei racconti di Mara, cosa che ci ha indotto a dubitare delle sue effettive conoscenze storico-culturali (possibile che avesse fatto tutto lui?? a pensarci bene, mancava poco che pure l’Effetto Serra fosse colpa sua!). L’incubo Serra è entrato nelle nostre vene. Sicché noi 14 ci si è battezzati “Junipero Serra Fan Club”… (per contatti: juniperoserra.Fanclub@gmail.Com … noi si fa le cose seriamente!) Ma veniamo al percorso di oggi: Los Angeles-Santa Barbara-Santa Ynez-Solvang-Santa Maria (circa 264 km).
Santa Barbara. Cittadina sul mare. Carina, ma molto simile all’outlet di Fidenza, il Fidenza Village: edifici bassi, un negozio dietro l’altro… sembra un grande centro commerciale. Siamo arrivati mentre nelle vicinanze un incendio si stava divorando ettari di bosco e non solo, ma l’abbiamo saputo molto dopo. Ci siamo così trovati in un paesaggio dai colori surreali, tendenti al giallastro. Sembrava di essere in una cartolina ingiallita dall’usura del tempo e da una eccessiva sovraesposizione alla luce del sole. In più, sui vestiti pareva si appoggiassero pesanti granelli di polvere. “Sembra cenere!”, ho anche detto a SuperTechMan mentre riprendeva il paesaggio… ma non avrei mai pensato a un incendio. Santa Ynez. Visita all’azienda vinicola Gainey (http://www.Gaineyvineyard.Com/). Era di strada, e con tutta probabilità le guide che portano gruppi di turisti in questo posto ricevono qualche bonus, soprattutto se i turisti, e succede quasi sempre, comprano qualche bottiglia. È un’azienda vinicola come tante, con diversi tipi di uve e una signora che dopo aver lavorato come agente immobiliare, una volta in pensione si è riciclata come sommelier e grande esperta di vini. A noi è sembrata semplicemente ubriaca, ma tant’è… anche questo è molto iù es ei… la terra dove quello che vuoi, puoi! Solvang. E veniamo qui all’apoteosi dell’assurdità americana. Una famiglia benestante proveniente dalla Danimarca si stanziò qui anni e anni fa, e per mantenere vive le proprie tradizioni costruì un villaggio, Solvang, appunto, in tutto e per tutto danese: con i panettieri che fanno i famosi biscotti danesi, i negozi in cui si vendono i souvenir danesi e un grande mulino a vento che campeggia nella piazza… che per noi europei fa molto più Olanda che Danimarca… ma tanto qui, che vuoi che ne sappiano… Europe is Europe. Però i biscottini erano buoni, ndr. Santa Maria. Un posto perduto della California. A Santa Maria, l’edificio più antico è l’albergo dove abbiamo pernottato: l’Historic Santa Maria Inn (http://www.Santamariainn.Com/html/central-coast-bed-and-breakfast-inns.Html), un hotel datato 1917 che assomiglia tanto a una baita di montagna, con alcune stanze, come la nostra, cui si accede da terrazzini all’aperto, con tanto di panchine, seggioline in ferro battuto, e vasi di fiori appesi fuori dalle finestre. Poco distante dall’ingresso principale, un’immancabile campana del Camino Real. La sera abbiamo scelto di cenare fuori dall’albergo, in un vero e proprio “juke box bar” anni Settanta, uno autentico, non ricostruito. Uno dove servivano cibo messicano, tipo i nachos, ma rigorosamente con formaggio fuso e fagioli. Uno dove mancavano solo Fonzie e Ricky Cunningham. Nel percorso per rientrare abbiamo visto anche un’altra perla da film: il classico motel americano, con tutte le stanze in fila che si affacciano su un corridoio esterno, cui chiunque può accedere da una facilmente raggiungibile scaletta. Un po’ come le case di ringhiera a Milano, in effetti… Si è dormito bene all’Historic Inn. E il giorno dopo, abbiamo fatto colazione a base di anguria, davanti a un camino acceso! Anche questa è contraddizione americana! 17 agosto. S a n t a M a r i a – M o n t e r e y – S a n F r a n c i s c o (299 miglia = circa 482 km) In questa tratta ci sarebbe piaciuto tantissimo percorrere la famosa costa californiana sulla Strada Statale numero 1, ma purtroppo avremmo impiegato troppo tempo e la nostra tabella di marcia era davvero fittissima. Ci siamo accontentati pertanto di sbucare a strapiombo sulla costa di tanto in tanto, dall’autostrada (la famosa US 101, che percorre tutta la costa ovest, da Los Angeles al confine con il Canada), procedendo da Santa Maria a Monterey.
Santa Maria-Monterey-17 Mile Drive-Pebble Beach-Carmel by the Sea (180 miglia = circa 290 km) Questo tratto di strada, per molti versi anonimo, stupisce solo per le tante trivelle-cerca-petrolio disseminate ovunque, tra una campana del Camino Real e l’altra. Diventa magnifico dopo Monterey. Ma andiamo con ordine. Monterey è una cittadina costiera di artigiani e pescatori. Ha un bel molo (Fisherman’s Wharf), disseminato di negozietti e ristoranti. Al termine del molo, in acqua, galleggiano i leoni marini, qualcuno pagaia con la canoa, alcune barche a vela sono ancorate al largo e i gabbiani volteggiano. C’è vento a Monterey e c’è freschino, ma questo contribuisce ad avere una vista limpidissima dai colori estremamente nitidi. Il centro storico di Monterey è costellato di palazzi in stile spagnolo, molto carini. Noi però siamo incappati in un garage! Un garage enorme che ospitava una mostra di auto d’epoca dai colori pastello –rosa e azzurro su tutti-, stile Grease (foto di rito, ovviamente). Interessante è anche Cannery Row, dove un tempo si inscatolavano le sardine. È la strada che diede il titolo all’omonimo romanzo di John Steinbeck. Persino le strade hanno un sito internet negli Stati Uniti… ulteriori informazioni su questa le trovate su www.Canneryrow.Com. A chi fosse in cerca di un piatto tipico locale, si consiglia la Clam Chowder, ovvero una zuppa di vongole servita all’interno di una pagnotta privata della mollica (qui la ricetta, per chi volesse provare a farla a casa: . Alcuni ristoranti sul Fisherman’s Wharf la propongono come loro fiore all’occhiello. Lasciata Monterey, siamo entrati in un tratto di strada meraviglioso, il 17-Mile Drive (da Pacific Grove a Pebble Beach): un tratto costiero di una bellezza ineguagliabile. È uno degli esempi più spettacolari di costa frastagliata e rocciosa californiana. Ci sono ville da favola, campi da golf a strapiombo sull’Oceano e spiagge piene di scoiattoli. Si trova qui anche la famosa casa diroccata in cui Hitchcock ha girato il film “Uccelli”… e di fronte, sugli scogli, gli uccelli continuano a farla da padroni… a centinaia! A un certo punto, proseguendo su questa strada, si incontra il famosissimo “Lone Cypress”, il cipresso solitario, cresciuto su uno scoglio, emblema del territorio di Pebble Beach, cui si ha accesso, pagando, attraverso un’entrata controllata. Pebble Beach è un immenso villaggio privato, pieno di ville impeccabili, incorniciate di fiori, con giardini curatissimi, e golf club frequentati da ricchissimi provenienti da tutto il mondo. Ci siamo fermati in uno, giusto per respirare l’atmosfera, ma eravamo decisamente fuori luogo! Meglio passare oltre… verso Carmel.
Carmel-San Francisco (119 miglia = circa 192 km) Non che a Carmel sia pieno di proletari, anzi! Qui addirittura non si possono fare affissioni. Nemmeno dei nomi delle vie, che infatti sono installati sui pali dei segnali stradali (c’è persino Junipero Street!). Siamo rimasti qui giusto il tempo di una passeggiata su Ocean Ave, per dare un’occhiata ai negozi. Tutti ordinati, tutti precisi. Poi ci siamo rimessi in marcia. Destinazione San Francisco, dove arriviamo in serata. Ancora c’era luce, e ci sembrava di sprecare tempo chiudendoci in camera. Così, abbiamo chiesto a un taxista, dietro consiglio del concierge dell’hotel, di portarci a Fort Point, il punto migliore da cui vedere il Golden Gate Bridge. Il taxista ci porta a Fort Point. Fort Point è sotto il ponte, e al tramonto è di fatto uno spettacolo bellissimo. Il sole si adagia dietro il ponte e lo rende rosso fuoco, oltre a scaldare lo skyline della città e l’isola di Alcatraz. Peccato che al tramonto questo posto diventi deserto. Non passano mezzi pubblici. Non passano taxi. Non solo: i taxi non rispondono neanche al telefono! Abbiamo quindi dovuto camminare a gambe levate attraverso un parco, verso il centro, sperando di arrivare prima del buio. Di fatto c’era ogni tanto qualche persona che faceva jogging e io non avevo paura. Ma SuperTechMan non era sereno, soprattutto preoccupato all’idea di dover difendere me da un eventuale attacco di malavitosi. Chiaramente non è successo nulla. Siamo arrivati al Fisherman’s Wharf, Pier 39 –il molo più noto-, e abbiamo cenato al “Café Dante”: fish and chips. Anche dopo cena rintracciare un taxi è stata un’impresa, ma alla fine siamo riusciti a raggiungere sani e salvi il nostro hotel (Holiday Inn Golden Gateway, in Van Ness Avenue).
18 agosto. S a n F r a n c i s c o Secondo la guida che ci ha dato il tour operator, questa sarebbe la “Città sul Baio”. In realtà è la città sulla Baia omonima… ma vabbè, l’importante è capirsi. Avevamo solo un giorno per vedere la città, così, concentrazione, pianificazione e via. San Francisco è tutta un saliscendi, perciò non consiglio le passeggiate, soprattutto se si ha poco tempo. Il rischio è di trascinarsi su per le salite con il fegato in mano, senza riuscire ad arrivare da nessuna parte. Molto meglio prendere i mezzi pubblici (San Francisco colleziona tram da tutto il mondo: anche Milano ha inviato un suo esemplare) e, senz’altro, approfittare dei famosissimi Cable Cars (i caratteristici tram da prendere al volo). tappa uno, il Civic Center, dove campeggia il municipio; tappa due, Japan Town, il quartiere giapponese, dove il nome delle strade è anche in giapponese e dove è stata costruita una pagoda post moderna altissima; tappa tre, visita alle Painted Ladies, le più belle casette di stile vittoriano tutte colorate, oltre le quali è molto bello lo skyline della città; tappa quattro, sopra Twin Peaks, le colline gemelle alle spalle della città; da qui si apprezza the gloom, la caratteristica nebbia di San Francisco, che ora c’è, ora non c’è, poi ora c’è di nuovo, e ancora se ne va, poi torna subito… insomma… la vista è abbastanza “caratteristica” e quando c’è la nebbia non si vede proprio niente; tappa cinque, il Conservatory, ovvero la immensa serra vittoriana realizzata sul finire dell’Ottocento, imitando i Kew Gardens londinesi; qui pensavamo di aver visto 7 matrimoni messicani contemporanei… in realtà, a casa, guardando le foto, ci siamo accorti che mancava una donna… mah! tappa sei, il Golden Gate Park, e il famoso Presidio, ovvero il quartiere che porta alla spiaggia infinita della città tappa sette, il Golden Gate Bridge: passeggiata sul ponte e un pacco di foto e di riprese; siamo stati fortunati: non c’era un filo di nebbia, bensì un sole favoloso e un cielo così blu che il ponte rosso sembrava disegnato! Nel pomeriggio, dopo aver preso un hot dog al volo, ci siamo imbarcati per la Crociera nella Baia. Abbiamo oltrepassato il Golden Gate Bridge in barca e circumnavigato Alcatraz. L’isola di quello che fu il penitenziario più temuto al mondo è ancora oggi un monumento favoloso. Vederla da fuori mette una certa ansia, spettrale, desolata. Se avessimo avuto almeno un giorno in più ne avremmo approfittato per sbarcare e visitare le carceri. Purtroppo occorre prenotare con un certo anticipo, perciò, chi fosse interessato, è bene che si muova per tempo. Scesi dall’imbarcazione, ci siamo diretti verso Ghirardelli Square, questa volta a piedi, costeggiando l’Oceano (North Point Street). Questa piazza è un grande parco, su cui dà una fabbrica con l’insegna “Ghirardelli”: è la fabbrica di cioccolato (vera) usata nel film La fabbrica di cioccolato. È da qui che abbiamo deciso di sperimentare le salite di San Francisco a piedi. Su per Hyde Street… dopo 500 metri, visto un Cable Car approssimarsi, mi sono fiondata per pigliarlo al volo… e SuperTechMan con me: preso! Ci ha portati fino a Lombard Street, la strada più famosa di San Francisco e più tortuosa del mondo. Siamo scesi lungo la strada, fotografando le auto che facevano la gimkana (avessimo avuto più tempo, ne avremmo senz’altro noleggiata una per provare il brivido) e, dopo aver scattato una foto alla famosa Coit Tower, che da qui si vede molto bene, siamo arrivati alla Columbus street, nel quartiere italiano. Da qui, con l’autobus, abbiamo raggiunto Union Square, in downtown, il centro commerciale della città. E qua SuperTechMan è impazzito: una corsa frenetica contro il tempo… entrare in quanti più negozi-grandi-firme possibili, prima della chiusura. Avevamo poco tempo. Abbiamo cominciato da Nike Town: incredibile… non avevano la maglietta supermegatecnica che SuperTechMan aveva visto in uno spot americano… che delusione! Sarebbe stata perfetta per correre con l’iPod inserito in una specifica tasca applicata a una manica. Peccato! A entusiasmi parzialmente smorzati ci siamo fiondati da Macy’s… piccolo break da Jamba Juyce (tutti i succhi più naturali dell’universo) e dopo qualche visita ai piani, SuperTechMan ha fatto l’incontro del secolo. Una macchinetta distributrice di oggetti Apple… da noi si comprano le merendine, le bevande, ultimamente nella metro di Milano anche il latte alle macchinette… qui no. Qui inserisci la carta di credito, digiti il numero dell’oggettino che vorresti tanto comprare e puff… la macchinetta te lo dà. SuperTechMan, con lo sguardo del bimbo felice, ha comprato una fascia da braccio porta iPod da indossare per andare a correre… alla faccia della maglietta Nike. La sera, cena in un locale di e per appassionati di surf sul Pier 39. Il giorno dopo ci siamo svegliati e dalla nostra stanza si vedeva il sole albeggiare dietro i grattacieli, nascosto dal gloom. 19-20 agosto. S a n F r a n c i s c o – L a s V e g a s (571 miglia = 355 circa km) Questo percorso, California-Nevada, è stato spezzato in due parti: una da San Francisco a Mammoth Lakes, alle porte del Yosemite National Park e la seconda da Mammoth Lakes a Las Vegas.
San Francisco – Mammoth Lakes (193 miglia = circa 120 km) La punta di diamante del tragitto è il Yosemite National Park. Un parco nazionale ricco di vegetazione e acqua, che purtroppo quest’estate era in secca. Nessuna traccia delle famose Yosemite Falls. Abbiamo visto qualche spruzzo di una cascata… che tristezza vedere che il Pianeta sta soffrendo questo! Il macigno caratteristico del Yosemite si chiama Half Dome e ha la forma di una mezza cupola, mentre la montagna più nota è il granitico El Capitan. Dal Capitan siamo ripartiti, abbiamo attraversato una regione stupenda, la Yosemite Valley, con laghi immobili e cieli limpidissimi, con una breve sosta a Tuolumne Meadows, sulla Tioga Pass Road, alla ricerca di animali selvatici da fotografare. Il percorso era in salita, come dimostravano i sacchetti di pop corn gonfi al limite dello scoppio, e in serata abbiamo raggiunto Mammoth Lakes (hotel Mammoth Mountain Inn -http://www.Mammothmountain.Com/plan/lodging/mmi/index.Cfm-, una struttura antica, che ricorda tanto le baite di montagna… del resto qui in inverno si scia, come dimostrano gli impianti poco fuori dall’hotel). La nostra stanza è al piano terra e fuori dalla finestra vediamo un coyote. Fa freddo e siamo stanchi morti. Il paesello è poco distante e raggiungibile in autobus, ma ce lo sconsigliano. Qualche temerario tenta l’avventura e torna subito indietro: si gela, è tutto chiuso, nessuno in giro. Andiamo a dormire.
Mammoth Lakes – Las Vegas (308 miglia = circa 192 km) Attraversare la Death Valley non è una passeggiata. Non lo è certamente in macchina da soli, ma nemmeno in pullman. Perché succede questo. Si è raggomitolati nel pullman al gelo, con tanto di piumino e felpa, in stato di semi incoscienza provocata dall’assideramento dell’aria condizionata, che negli States è rigorosamente sotto zero, ci si ferma nei punti da visitare e si scende dal mezzo. Temperatura esterna: 49 gradi. Fossero stati 50, avrebbero chiuso gli accessi, perché attraversare la Valle della Morte a certe temperature è pericoloso. Il caldo è irrespirabile. Si suda stando fermi, si sciolgono le parti in plastica delle fotocamere, il ghiaccio che ti danno con le bibite, versato nel baule dell’auto non si scioglie. Evapora direttamente. E il baule rimane asciutto. La Valle della Morte è affascinante. In un punto ci sono dune di sabbia a perdita d’occhio. Poco oltre c’è il famosissimo Zabriskie Point, reso celebre dall’omonimo film di Michelangelo Antonioni. Ci siamo fermati a pranzo a Furnace Creek, ma purtroppo non siamo arrivati a Badwater Basin, il punto più profondo dell’emisfero occidentale, 86 metri sotto il livello del mare, perché non era sulla via per Las Vegas.
Las Vegas Arriviamo nella “città della vita notturna”, la capitale del divertimento, che è ancora giorno. Palazzi, grattacieli e gru. E’ affascinante solo l’idea che di sera si trasformi, ma al nostro arrivo Las Vegas non si svela ancora. Andiamo in hotel, il Gold Coast Hotel. Sapevamo che Las Vegas era il tempio dei casinò, ma quello che ci ha sorpreso è non solo il fatto che ogni albergo ne abbia uno, ma che la hall di ogni albergo fosse un casinò cui tutti hanno liberamente accesso, dove viene offerto da bere gratuitamente. E ci ha sorpreso il numero di anziani, anche molto malconci, che trascorrono lì giorni su giorni a tentare la fortuna. Più sorprendente ancora il “sistema ristorante a buffet”. Gli alberghi che offrono i pasti a buffet sono un trionfo di cibi di ogni tipo, tradizione, sapore ed etnia. Si paga una stupidaggine, tipo 10 dollari, e si mangia fino a scoppiare.
Dopo cena, con il Junipero Serra Fanclub abbiamo deciso di fare una “americanata”. In 12 abbiamo noleggiato una limousine nera, chiaramente con autista, con la quale abbiamo percorso lo Strip, facendo tappa in tutti i più famosi hotel di Las Vegas, che a orari precisi offrono ciascuno uno spettacolo diverso: i giochi di fontane al Bellagio, le gondole del Venice, il galeone di Treasure Island, il Luxor, il Paris, il Caesar Palace… e vista sulla città dall’alto della Stratosphere Tower, dove qualche pazzo di noi ha provato “X scream” ed Insanity… due supposte “attrazioni” tremende (http://en.Wikipedia.Org/wiki/Stratosphere_Las_Vegas)! Al rientro in hotel, puntatina alle slot machine… ho schiacciato un numero imprecisato di tasti a caso e, a fronte di una puntata di 1 dollaro, ne ho vinti più di cento. Ho lasciato subito “il banco” per cadere in piedi. Una serata memorabile.
21 agosto. L a s V e g a s – Z i o n N a t ‘ l P a r k – B r y c e C a n y o n (206 miglia = circa 332 km) Lasciamo Las Vegas e alle sue porte assistiamo a un arresto in diretta. Il poliziotto mette le manette al “criminale”, dopo di che inizia una amabile conversazione con lui. Usanze americane… Ma veniamo al percorso di oggi, che prevede l’attraversamento dello Zion National Park e l’arrivo a Bryce Canyon.
Lo spettacolo dello Zion ricorda per certi versi l’Australia: rocce rosse con arbusti verdi. Ma quello che inizia a farsi una costante del viaggio, sperimentata già attraversando la Death Valley, è la presenza dei burroni. Si sale. Si sale in alto con il pullman. E le strade americane di queste zone non hanno stranamente alcun parapetto. Nessun guard-rail. Solo lo strapiombo, ripido, vuoto. La sensazione non è di vertigine, per chi, come me, non ne soffre, ma di ansia. Ansia pura per la non fiducia, forse comprensibile, nell’autista. È gente esperta, per carità. Gente che fa questo mestiere da una vita e macina migliaia di miglia all’anno. Eppure, o forse proprio per questo, perché uno pensa che chi è abituato sia più portato a prendere sotto gamba certi tornanti, ecco, per questo il percorso si rivela al cardiopalma. Sedersi nei posti davanti è utile a chi soffre il mal d’auto. Non dà alcun sollievo, invece, a chi più si sale e più pensa alla possibilità di precipitare. Per fortuna, però, le tappe sono frequenti, e una volta messi i piedi a terra, si può ammirare un paesaggio davvero meraviglioso. E anche meravigliosamente american style: nei supermercati ci sono confezioni di patatine “formato famiglia (numerosa)” alti quanto me, banchi dove i formaggi sono ordinati per colore (e il cheddar arancione spicca su tutti) e banchi frigo per il latte, con l’altoparlante che fa sentire il muggito di una mucca! In una di queste tappe, poi, nel mezzo del nulla, ci siamo imbattuti in un negozietto di souvenir (!) che al suo esterno aveva appeso un abbeveratoio per uccellini, cui svolazzava, con il suo fare simpaticamente isterico, un colibrì. Non ne avevo mai visto uno prima… è proprio minuscolo e davvero elegante. Gli spagnoli lo chiamano “pájaro-mosca”… un motivo ci sarà.
Dopo questa sosta siamo ripartiti per il Bryce Canyon, circa 60 miglia, una novantina di km, dallo Zion. E all’arrivo è stato davvero sorprendente. Bryce Canyon è particolarissimo. Sembra una distesa enorme di stalagmiti di roccia rossa e bianca, in mezzo alle quali sono nati dei pini sempreverdi. È un bacino strepitoso, che al tramonto, quando siamo arrivati noi, dà il meglio di sé. Si può scendere per il Navajo Loop, un tour di un miglio e mezzo (2,5 km, circa) che scende nella gola, in mezzo alle rocce e alla radice degli alberi, per poi risalire… ansimanti con la lingua di fuori! SuperTechMan si è avventurato, mentre io sono rimasta affacciata ad ammirare quello spettacolo, che al passare dei minuti cambiava colore, accendendo sempre di più il rosso delle rocce. Una favola! Il pernotto questa sera era a Bryce Town, alla Bryce View Lodge, dove in tv trasmettevano Hazzard… con Bo, Luke, zio Jesse, la cugina Daisy, Rosco e Boss Hogg… prima volta che le mie orecchie li sentivano parlare in lingua originale! La parte più antica di Bryce Town si chiama Old Bryce Town, ed è una sequenza di casette tipo western, tutte in fila, ora trasformate in negozietti di souvenirs. La cosa carina è che per passare da Bryce Town a Old Bryce Town occorre attraversare una strada larghissima, di quelle tipicamente americane, che congiungono destinazioni remote. E all’attraversamento pedonale ci sono dei contenitori con bandiere color arancione fosforescente: ogni pedone deve prenderne una per attraversare e rendersi visibile alle auto, lasciandola poi nel contenitore dall’altra parte della strada. Le mettessero in Italia, dopo la prima ora sarebbero sparite tutte le bandiere!!! Da questo punto di vista, gli americani sono un popolo estremamente civile e rispettoso delle regole della collettività.
22 agosto. B r y c e C a n y o n – S a l t L a k e C i t y (281 miglia = 452 circa km = 4 ore e mezza) Il giorno successivo siamo partiti alla volta di Salt Lake City, facendo una piccola sosta a Red Canyon, che si trova appena usciti da Bryce Canyon, prima di arrivare allo Zion. Ci eravamo passati anche il giorno prima, ma senza fermarci, invece questa volta abbiamo fatto uno stop per vedere “Salt and Pepper”, ovvero una “saliera di roccia rossa” abbarbicata in alto, sopra la strada. Siamo stati fortunati, perché era una bellissima giornata e in cielo c’erano un sacco di nubi bianche a pecorelle. Un bel contrasto con i colori della roccia e della foresta (la Dixie National Forest). Per raggiungere Salt Lake City dal Bryce Canyon si attraversa tutto lo Utah, da sud a nord. Una distesa di niente. L’arrivo a Salt Lake City, invece, si annuncia con la presenza, in lontananza, di una chiesa enorme. Una cattedrale bianca grandissima. Un tempio mormone. I Mormoni sono coloro che basano la loro credenza religiosa sul libro di Mormon (chi??? Non conoscete il profeta Mormon??? Pare che sia l’autore di questo libro, scritto in una lingua sconosciuta, tradotto poi da tale Joseph Smith –chi altri, se non Mr. Smith?). Alla morte di Smith si crearono diverse correnti, di cui la maggiore è la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni (i Santi di che???)… oh, insomma, si vedono in giro anche per l’Europa: camicia bianca, pantalone nero, cravatta nera, generalmente mediamente fighi, con una targhetta riportante il loro nome sulla camicia. Ecco, i Mormoni, appunto.
Ora, non mi dilungherò certo a parlare di questa corrente religiosa, ma non posso non citare le “battute” della nostra guida che ci ha indicato in una mega abitazione situata presso il Tempio dei Mormoni di Salt Lake City, la casa di uno dei primi Mormoni del posto. Ci ha fatto notare che ogni comignolo della casa stava a indicare una moglie di quest’uomo, infatti, i Mormoni fino al 1890 hanno praticato ufficialmente la poligamia… che secondo la nostra guida sarebbe in auge ancora oggi. In realtà è vero che ci sono correnti poligame oggi, ma si sono discostate dai mormoni e si sono definiti “Fondamentalisti”. Vabbè… La tappa in città prevedeva la visita a quella che definirei “l’area” mormone attorno al Tempio. Perché nel Tempio possono entrare solo i pochi eletti dal “capo”. Così veniamo accolti in un museo da due ragazze. Una siciliana, e una italo-francese. Ci parlano di pace, fratellanza e tutto il corredo. Ci portano a vedere la Sala del Cristo, dove una statua di Cristo ci parla in torinese e poi ci conducono nella sala del Coro, dove intonano per noi una canzone per bambini. Fine della visita. Pomeriggio a disposizione, come si dice… Così ci siamo avventurati a piedi, da soli, io e SuperTechMan, a vedere cosa offriva la città. Ci sono bastati pochi passi per capire che l’offerta era pari a zero. Il cuore della città è Temple Square, l’area dei Mormoni e del loro Tempio, appunto. La cosa curiosa è la “legge urbanistica”. Ovvero la strada a nord del tempio si chiama 1 Nord, quella a Sud, 1 Sud, quella a Est, 1 Est e quella a Ovest, 1 Ovest. E di lì partono tutte le altre. Una sorta di scacchiera il cui cuore, incrocio delle strade numero Uno è Temple Square.
A Salt Lake City c’è una vecchia stazione, nei pressi della quale partono gli autobus che percorrono gratuitamente tour circolari nel centro storico. Si paga il biglietto solo se si deve raggiungere una zona extraurbana (questa sì che è civiltà!). Ci sono ancora i segni delle Olimpiadi della neve che si tennero qui nel 2002 (installazioni che parlano di iniziative che ebbero luogo in quell’occasione). E c’è una sorta di “varco” in metallo, sormontato da un’aquila, che apre la strada verso il Campidoglio. Il Campidoglio sarebbe la sede del municipio di ogni capitale di stato americana. Fine. Rientro al nostro hotel, il Best Western Garden Inn.
23 AGOSTO. S a l t L a k e C i t y – Y e l l o w s t o n e N a t ‘ l P a r k Siamo ripartiti. Destinazione, il parco più atteso, quello dove mi sarebbe piaciuto vedere gli orsi. Ma ci ho trovato nidi di aquile, mandrie di cervi e bisonti selvatici dalle teste gigantesche. Ci han fatto scendere dal pullman per fotografarli… E lì ho capito chiaramente che non sono fatta per i safari. Il bisonte è così enorme e ti guarda così di traverso, passandoti accanto, che davvero ti paralizza, quando vorresti correre lontano. L’emozione è grande. Sai che è un animale potenzialmente pericoloso, che se soprattutto si trova in una mandria con dei cuccioli, potrebbe attaccarti se ti reputasse aggressiva. Così mi sono fermata. L’ho fotografato, temendo che, non riconoscendomi dietro la macchina fotografica, potesse fare qualche gesto inconsulto, poi mi sono defilata e sono entrata sul pullman. La strada verso Yellowstone ci ha portati ad attraversare Jacksone Hole, una amena località persa nel nulla, dove sono degni di nota un arco fatto di corna di cervo che dà accesso a un parco, un Cowboy Bar, dove per consumare al bancone ci si siede su sedili a forma di sella, e, per qualcuno, la presenza di Natalia Estrada, che faceva shopping. Abbiamo pranzato al Cowboy Bar, accompagnando hamburger giganti con patatine fritte e la famosa Million Dollar Beer locale. Un toccasana per il fegato! La tappa successiva, invece, è stata fra le montagne. Qualche minuto soltanto per scattare un paio di foto al Grand Teton National Park, un complesso di monti su cui incombevano nuvoloni grigi e minacciosi.
Quindi, l’ingresso nel “parco dei parchi”. Lo Yellowstone National Park è enorme e lontano. Lontanissimo. Si estende nel nord del Wyoming, in Montana e nell’Idaho, e includerlo in un qualunque tour significa spendere giorni di viaggio in mezzo alle vaste praterie statunitensi, che sembrano non finire mai. Comunque, vale decisamente la pena di essere visitato. Gli incendi hanno divorato kilometri quadrati di alberi, i cui resti, in forma di arbusti secchi e grigi, segnano ancora il passaggio del fuoco, tuttavia il verde prevale. Sebbene gli orsi non si siano mostrati, abbiamo potuto però godere dell’appuntamento puntuale con il “Vecchio Fedele” (o Vecchio Fidelio, nell’italiano personalizzato della nostra guida argentinam, Jorge). Il riferimento era all’Old Faithful Geyser, che da sempre e senza sosta, ogni 33 minuti, tutti i giorni, erutta il suo sbuffo di acqua e vapore alto fino a 55 metri. Il parco è famoso per i suoi geyser naturali e le numerose sorgenti d’acqua calda, che tra i giochi di vapore, gli scenari spettrali di alberi rinsecchiti che affondavano le radici nell’acqua bollente, le pozze di acqua celeste e le distese di residui calcarei e ferrosi che dipingono il panorama di bianco e arancione, lo rendono davvero magnifico. A Yellowstone, poi, si festeggia il Natale d’Agosto, una ricorrenza che ricorda una tempesta di neve che accolse alcuni visitatori che entrarono nel parco agli inizi del 1900. Anche se sembra strano, ci si abitua presto a questa tradizione che vede alberi addobbati e souvenirs “di stagione” in tutti i negozietti di Yellowstone.
Alloggiamo in Montana, a West Yellowstone, cosa che consente a SuperTechMan di aggiungere una preziosa bandierina alla sua collezione, per ripartire l’indomani, inaspettatamente in mezzo alla nebbia. Sono nuvole basse, per la verità, e fa freddo. 24 agosto. Y e l l o w s t o n e N a t ‘ l P a r k – C o d y Ci avventuriamo per le strade del parco e ci fermiamo ogniqualvolta individuiamo qualche animale selvatico. D’altra parte, loro hanno la precedenza e se si piazzano in strada, tocca aspettare. Bisonti e cervi. Cervi e bisonti. Prima tappa di oggi, il Norris Geyser Basin, un’ampia valle tutta geyser e sbuffi, che ci offre spettacoli meravigliosi di colori, rumori e, ahimè, odori, che ci rimarranno davvero impressi. Appena arrivati, i rumori dei geyser, i fumi e le nubi basse rendevano lo scenario vagamente inquietante. Non si faticò a capire come la prima persona che scoprì questo bacino, poi fosse andata in giro a dire d’aver scoperto l’inferno. Ci fermiamo alle Yellowstone’s Waterfalls (cascate), alla Roaring Mountain (la montagna che ruggisce, da cui fuoriescono fumi e vapori in continuazione) e al Grand Canyon dello Yellowstone, dove ci appare chiaro che la natura è più forte di noi. Ma lo spettacolo a mio parere più straordinario ci è offerto da Mammoth Hot Springs, una serie di terrazze a gradoni, ricoperte di un calcare così bianco da accecare, percorso da venature ferrose arancioni che trasudano vapori, e punteggiate da alberi morti, secchi, grigi, che però in questo contesto sono meravigliosi. Abbiamo avuto la fortuna di vedere Mammoth Hot Springs sotto il sole, che l’ha illuminata. Fosse stato nuvoloso, probabilmente il risultato sarebbe stato molto meno entusiasmante.
Lasciato lo Yellowstone, abbiamo fatto una breve sosta al Pahaska Tepee, nella Shoshone Forest, dopo di che siamo ripartiti, alla volta di Cody, la cittadina di Buffalo Bill. Ovviamente tutto in città ruota attorno al famoso personaggio. Da inaspettati agguati di personaggi in costume che improvvisano sparatorie per le strade a veri e propri rodei nelle piazze, fino all’apice, il trionfo di Cody: l’hotel-ristorante The Irma, la cui titolare, tale Irma, appunto, sarebbe la nipote di Buffalo Bill. In questo locale, tappezzato di foto d’epoca, si aggirano pistoleri e damine in abiti d’epoca, che accompagnano l’avventore in un’atmosfera un po’ surreale. Che diventa tristissima, quando scopriamo che uno dei pistoleri aveva antiche origini palermitane! Nota: qui ho provato la Sarsaparilla, una bevanda chimica, dal sapore a metà tra la Red Bull e uno sciroppo per la tosse. Non faceva schifo, ma sicuramente ho bevuto di meglio! 25 AGOSTO. C o d y – C h e y e n n e Prima tappa di oggi al ponte tibetano (Swinging Bridge) dello Hot Springs State Park di Thermopolis (Wyoming), risalente al 1916. Una meta turistica di queste parti, anche se non particolarmente degna di nota. Nel centro del paesello di Thermopolis sarebbe inoltre famosa la libreria, al cui interno la caffetteria offrirebbe il caffè più simile all’espresso di tutto il Wyoming… (fonte: Jorge, la nostra guida argentina)… Noi abbiamo provato. Il caffè è solo molto corto… Il che non è condizione sufficiente, a nostro parere, per farne un buon espresso.
Lasciata Thermopolis è iniziata, sul nostro percorso, una lunga sequenza di panorami anonimi, interrotti ogni tanto da qualche ingresso a miniere dismesse, che dal pullman lanciato a velocità stratosferiche per quel tipo di strade, cercavo di immortalare. Abbiamo attraversato il Boysen State Park, e percorso quelle lunghissime strade americane, ricavate nel mezzo di distese deserte che si estendono a pardita d’occhio. Nel pullman, Jorge aveva scelto di farci vedere “Balla coi Lupi”, interrompendo la colonna sonora di canti dei nativi d’America che ormai da giorni accompagnava il nostro viaggio. Stava cercando di farci vivere un’esperienza sensoriale, sviluppando la nostra empatia nei confronti degli indiani, per i quali lui nutriva una vera adorazione.
Peccato che Cheyenne, la nostra meta di oggi, non avesse niente a che fare con pellerossa, sioux o affini, almeno stando a quanto ci è stato possibile vedere. 26 agosto. C h e y e n n e – D e n v e r Cheyenne è la capitale del Wyoming, e vi si apprezza la fabbrica dei Wrangler, il monumento alla femminista Esther Hobart Morris, nei pressi del Campidoglio, e una serie di stivali speronati, più alti di un essere umano, dipinti con vari motivi e disseminati per la città. L’abbiamo visitata in mezzora e poi abbiamo deciso che era meglio partire per Denver, il nostro capolinea del giorno.
Il Wyoming è uno stato che conta più animali che persone. Non sorprende, quindi, il fatto che il suo attraversamento si compia su strade lunghissime, in mezzo a lande desolate. Anzi, il paesaggio dà un senso al vecchio telefilm “Quella casa nella prateria”. Posso dire che situazioni come quelle descritte nel serial, con case perse nel nulla, distanti anni luce dai centri abitati, qui sono realtà. Peccato che siano realtà, anche a distanza di oltre un secolo da quanto descritto nel telefilm, ambientato alla fine dell’Ottocento! La nostra prima tappa oggi è a Forest Canyon, su … Su … Su per le montagne, passando davanti a una casa a forma di Arca di Noè, a un Totem Indiano piantato lungo la strada, a una fabbrica della Budweiser, all’hotel in cui fu girato Shining, fino ad arrivare a un punto così freddo, che siamo stati vittime di una tempesta di neve, il 26 agosto!!! Eravamo al Forest Canyon, appunto, oltre 2.500 metri sopra il livello del mare (fossimo stati in Italia, saremmo stati in cima alle Dolomiti). La presenza di tempeste, acquazzoni, nevicate improvvise, in queste distese così ampie, è perfettamente visibile. Guardando il panorama a 360 gradi, sotto un cielo nuvoloso, si nota infatti, a un certo punto, una specie di sipario grigio scuro, calato da una nuvola fino a terra. Quella può essere pioggia torrenziale, o neve che fiocca. Ma non eravamo ancora al top. Qualche tornante ancora, e presto ci siamo trovati a 4.000 metri sopra il livello del mare (in Italia l’altezza del Gran Paradiso e del Monviso… Il Monte Bianco è a 4.800 mt), in un’area in cui la vegetazione era quella della Tundra: eravamo a Trail Ridge.
Di lì, tutto in discesa, verso Denver (Colorado), dove siamo arrivati in tempo per fare una passeggiata lungo il 16th Street Mall prima che facesse buio. La visione da questa prospettiva ci ha dato l’idea che la città fosse molto ordinata e mediamente dinamica. Abbiamo cenato all’Hard Rock Café.
27 AGOSTO. D e n v e r – S i l v e r t o n – D u r a n g o Lasciata Denver, oggi siamo arrivati a Silverton, una vera perla del Far West. Un po’ perché qualcosa si è conservato com’era, un po’ perché qualcos’altro è stato ricostruito conservando il fascino antico, un po’ perché le strade sono in terra battuta e improvvisamente perterra si vede l’inizio di un binario che sembra emergere dal sottosuolo, su cui poggia un treno a vapore vero con i vagoni dagli interni in legno, e un po’ perché ci sono le casette con le facciate di legno variopinto e i saloon vecchio stile, ecco… Un po’ per tutto questo e un po’ perché eravamo nel Far West, Silverton ci è sembrata una meta straordinaria. È un centro molto piccolino, la cui unica attrattiva, escludendo i saloon in cui pianisti di oggi suonano melodie tipiche dei film western, è questo treno a vapore che porta a Durango, un percorso che è rimasto intatto negli anni, appoggiato alle montagne, procedendo di precipizio in precipizio. Siamo saliti sul treno e abbiamo impiegato quasi tre ore per arrivare a destinazione, sotto una pioggia a tratti battente. In auto, secondo Google Maps, avremmo impiegato un’ora e sei minuti! È stato carino, se non consideriamo tutte le volte che ho chiuso gli occhi e ho smesso di pensare, per non farmi prendere dall’ “ansia da burrone”.
Anche Durango è un piccolo centro, sviluppato come altri piccoli centri visti fin qui (West Yellowstone, Cody…) lungo una strada principale piena di ristoranti e negozietti. La caratteristica che accomuna questi villaggi è la “bassezza” degli edifici: massimo un piano. Tutti in fila, tutti alti uguali, con insegne di varie dimensioni e varia “kitcheria” a richiamare i viandanti. Proprio sulla strada principale abbiamo scelto un ristorante e quando abbiamo ordinato da bere (per lo più birre), per la prima volta ci è stato chiesto di esibire i documenti. L’idea che qualcuno pensasse che potessi essere minorenne mi ha fatto molto ridere.
28 AGOSTO. D u r a n g o – L a k e P o w e l l Quella di oggi è stata una delle giornate più varie. Dalle montagne ricche di vegetazione di Mesa Verde al deserto rosso della Monument Valley, attraversando il villaggio archeologico di Chapin Mesa, con le abitazioni scavate nella roccia e un museo ricchissimo, e Four Corners, il punto in cui si incontrano Colorado, New Mexico, Arizona e Utah (tradotto: 4 bandierine in una volta, tra cui quella nuova-nuova del New Mexico, che non avevamo previsto di includere in questo tour!).
La Monument Valley è davvero magnifica. Abbiamo fatto il tour all’interno sulle jeep scoperte guidate dagli indiani del posto ed è stato bellissimo. I colori, rosso fuoco al tramonto, in contrasto con il verde luminoso dei cespugli, ha riportato la nostra testa all’Uluru australiano, ma qui l’impressione di imponenza è maggiore. Ci sono monoliti altissimi, oltre i quali si distende una pianura che li rende ancora più maestosi. Sui burroni, poi, gli indiani a cavallo sono una cartolina nella cartolina. Il tour sulle jeep è un must cui non si può rinunciare. La partenza è in un resort poco distante, dove è rimasta una piccola capannetta dove si dice alloggiasse John Wayne quando era protagonista di film girati da queste parti. Addirittura, tra i monoliti, oltre alla “mano destra”, la “mano sinistra”, “il pollice” e “l’elefante” ce n’è uno a forma di W, che, si dice, indichi proprio il cognome Wayne…! Leggende indiane! Lasciata la Monument Valley, abbiamo fatto una sosta al Navajo ShadeHouse Museum, dove si possono vedere alcune cupole rappresentanti le “saune” indiane, per poi proseguire verso Lake Powell. Sul pullman a grande richiesta è stato trasmesso l’ultimo episodio di James Bond… E io mi sono addormentata! 29 AGOSTO. L a k e P o w e l l – G r a n d C a n y o n Lake Powell è nel Glen Canyon e la sua attrattiva principale è una diga artificiale gigantesca, che crea un bacino d’acqua blu cobalto, depositato in mezzo a rocce rosso fuoco. Il contrasto è spettacolare, soprattutto la mattina presto, quando l’aria è abbastanza fresca da rendere la vista estremamente nitida! Volendo, e pagando, si può entrare nella diga, nel senso che un ascensore interno alla parete può portare dalla cima, fino alla base della diga stessa (12 piani). La cosa più impressionante è quanto si senta la pressione dell’acqua contro le pareti all’interno delle quali scorre l’ascensore. Almeno questo è quanto mi era stato raccontato… Per mancanza di tempo, non abbiamo sperimentato personalmente.
La destinazione di oggi è la più ambita: il Grand Canyon. Procediamo da Lake Powell con breve sosta fotografica al Canyon Colorato, dove le rocce hanno striature di tinte diverse. Ci fermiamo anche a Cameron, un grosso centro commerciale dove, secondo Jorge, avremmo trovato manufatti indiani autentici. A noi è sembrata una gran bufala… Per cui un consiglio: prima di arrivare qui, incontrerete bancarelle di indiani lungo la strada. Approfittatene, perché, almeno in apparenza, i prodotti che vendono sembrano meno artefatti di quelli che troverete qui.
Da Cameron al Grand Canyon il percorso è molto suggestivo. Ai lati di una delle solite strade lunghissime che si percorrono per arrivare a destinazioni lontanissime, tipicamente americane, la terra comincia a spaccarsi. Guardando dal finestrino, si inizia a notare come la pianura improvvisamente si rompa per lasciar spazio a crepacci impressionanti. È stato uno spettacolo straordinario. Non è come salire su una montagna e vedere un burrone, né come entrare in una valle, per quanto stretta, e vedere le montagne più alte. Qui la sensazione è quella che la terra si sia rotta sotto i piedi, aprendo voragini spaventose! E, ciò che è peggio, è che si potrebbe camminare sulla pianura senza accorgersi di niente per decine di metri, salvo poi fermarsi di colpo, sull’orlo del precipizio. È questa la natura del “canyon”. Una natura che, però, a mio parere, nel Grand Canyon non si coglie appieno, a causa della sua vastità: è grande quanto la Pianura Padana e la sua visione d’insieme ricorda a un paesaggio montano.
Noi siamo arrivati al Grand Canyon dalla Northeast View, dove ha sede la WatchTower, una torretta costruita per offrire una visuale più ampia. Il Grand Canyon non mi ha tolto il fiato, purtroppo, anche se si tratta di uno spettacolo senza paragoni. Abbiamo scattato un sacco di foto, molte delle quali ai condor in volo sopra il precipizio, dietro la Bright Angel Lodge. Vere scene da Far West. L’ultima tappa di oggi era a Tusayan, 6.540 piedi sopra il livello del mare, un cinema Imax, un hotel (il nostro) un supermercato, i vigili del fuoco, qualche ristorante che prometteva di offrire “spaghetti western” e “real Italian food”, un “Mc Donald’s”, una pompa di benzina e un centro commerciale minore dove si poteva prelevare dall’unico sportello bancomat esistente. Tutti dislocati lungo l’autostrada.
Abbiamo cenato ordinando pizza in uno di questi ristoranti e, avendo fatto l’errore di chiederne una a testa, ricevendo in cambio dischi enormi con cui in Italia si mangerebbe in due, abbiamo richiesto la “doggy bag” e ci siamo portati gli avanzi in hotel. Volevo tanto fare una cosa del genere negli States!!! 30 AGOSTO. G r a n d C a n y o n – P h o e n i x Oggi, il volo in elicottero sul Grand Canyon. Non sono andata, perché mi ha preso male l’approccio: per salire sugli elicotteri della compagnia Papillon che consentono di fare questo tour, occorre prima subire un’autentica tortura. Bisogna pesarsi! Non esiste! Non mi peso a casa mia, men che meno in pubblico per salire su un elicottero, che poi a ben guardare mi fa anche paura. No way. È andato SuperTechMan, dotato di telecamera. Lo spettacolo valeva davvero la pena! La cosa più impressionante: dapprima si sorvolano gli alberi e d’improvviso si è sospesi sopra burroni profondi chilometri. La stessa sensazione del Reef sul Mar Rosso, ovvero quella di cui parlavo sopra: la terra che ti viene a mancare sotto i piedi.
Dopo il volo, destinazione Sedona, set di numerosissimi film western. Arriviamo all’ora di pranzo… In tempo per finire le nostre pizze avanzate la sera prima. Giriamo un po’ nel piccolo centro in cerca di souvenirs, ma facciamo appena in tempo a rifugiarci sotto un portico che un violento acquazzone annaffia la località senza dar alcuna tregua. Lasciamo così Sedona sotto la pioggia alla volta di Phoenix. Poco prima di entrare in città facciamo però una sosta ai Jack Ass Acres, una catapecchia nel mezzo di una vallata di cactus saguaro. Uno spettacolo davvero suggestivo, sotto un caldo afoso che quasi impediva la respirazione. Quindi entriamo a Phoenix, ma ci dirigiamo subito al nostro resort, vedendo ben poco della città. Ci sorprende invece, all’interno del complesso “Renaissance Scottsdale Resort”, un’area di negozi e ristoranti “in”, che si chiama “The Borgata” e che rappresenta una ricostruzione di San Gimignano! Grazie al mio inglese, che la signorina della reception dimostra di apprezzare e, soprattutto, comprendere (“your accent is really very good!”) è qui che poniamo fine a un’agonia durata giorni, ovvero il dubbio che l’hard disc che SuperTechMan aveva comprato prima delle vacanze, al fine di scaricare comodamente le schedine SD piene, non funzionasse. Non avendo un monitor, non riuscivamo a capire se di fatto catturava il contenuto delle card e siccome dimostrava di non riuscire a caricarsi e a rimanere carico, temevamo che non stesse lavorando. Invece era solo un problema di alimentazione. La signorina della reception, cui avevo chiesto la possibilità di accedere al web, ci aveva fatti entrare nell’ufficio sul retro del desk, dove noi abbiamo collegato l’hard disc e controllato ogni cartella catturata. Per fortuna, c’era tutto!!! 31 AGOSTO. P h o e n i x – L o s A n g e l e s Ritorniamo in California per chiudere il cerchio. Prima tappa di oggi, un supermarket on the road, con area docce, bagni e lavanderia per i camionisti. Faceva ridere vedere questi uomini giganteschi seduti a vedere la tv, con accanto la bottiglia di detersivo, in attesa che il bucato uscisse asciutto dalle macchine a gettoni.
È stata poi la volta di Palm Springs, il posto più caldo sulla faccia della terra. Le panchine bruciavano e tra i vari ristoranti della città, spiccava, ironia della sorte, una taverna che si chiamava “Kalura Trattoria”. Dopo le foto di rito agonizzando nell’afa, ci siamo rifugiati in una frullateria e siamo usciti solo per tornare al pullman! Palm Springs è territorio ricco, di ricchi, con le stelle tipo “Walk of Fame” sui marciapiedi, campi da golf e una distesa di mulini a vento che si nota mentre si lascia la città.
Rientriamo a Los Angeles, che ormai conosciamo bene, e decidiamo di fiondarci nuovamente agli Universal Studios, ma anziché entrare nel parco, questa volta percorriamo l’adiacente City Walk, cui la prima volta avevamo dato uno sguardo sommario. Negozi, sale cinematografiche, ristoranti e il tempio del popcorn. Ne ho comprato un sacchetto “small”, che si è rivelato essere un sacco enorme che nessuno sarebbe mai riuscito a finire. Per di più si trattava di popcorn caramellato, finito nella spazzatura! Prima di lasciare il City Walk e tornare all’albergo, ci facciamo rapire da un bravissimo percussionista, che suona in strada, del quale abbiamo acquistato ben 2 CD. Bravo davvero.
Il rientro in albergo ci riserva una sorpresa agghiacciante: nel cortiletto interno, una luce intensa illumina una statua di Junipero Serra!!! E’ con quest’immagine che, due giorni dopo, siamo ripartiti per l’Italia.