Fann mountains
Il pulmino, in cui noi sette e i nostri bagagli stiamo a misura, percorre alcuni larghi viali alberati della capitale e punta subito verso sud-ovest, oltre il Syr-daria, verso le Porte di ferro: un passaggio strategico al tempo di Tamerlano (F Cardini, Il Signore della paura), e quindi verso Samarcanda. Poco traffico e strada in perfetto stato. Gli occhi si muovono alla scoperta di un paesaggio nuovo e colgono la relativa monotonia dei campi coltivati quasi solo a cotone. Samarcanda ha una fonetica capacità di evocare fantasie, immagini, suggestioni che la realtà non conferma, ribadendo il misterioso potere del solo “nome” .“ Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus.” (U.Eco, Il nome della rosa ).
Della Marakand di Alessandro qualche terrapieno e nulla più, della Samarcanda di Timur-u-lang, scomparsi il tessuto e la trama, restano, qua e là, alcune perle.
Per noi, oggi, Samarcanda è il passaggio obbligato verso una terra meno conosciuta : il Tagikistan 4 agosto 2007. Noi sette e i nostri bagagli ci comprimiamo in un pulmino ancora più piccolo, ma non facciamo in tempo a lamentarci più di tanto perché, in circa un’ora, siamo alla frontiera.
Igor, il direttore della agenzia a cui ci eravamo rivolti per organizzare il viaggio, aveva preannunciato “ la solita burocrazia centroasiatica ex-sovietica”; bene eccoci al secondo assaggio ( il primo, assonnato, all’aeroporto di Tashkent) : moduli da compilare in doppia copia (naturalmente di penne neanche l’ombra), pressoché introvabili quelli in inglese, con una serie di domande ingenue/terrificanti ( sei un terrorista ? hai armi? hai droga ? hai malattie contagiose ?) o minuziosamente curiose ( quanti soldi hai ?, in quale valuta?, quali beni porti con te ? macchine fotografiche ? videocamere ? ), ritiro della copia che ci avevano timbrato a Tashkent, che, si era raccomandato l’accompagnatore, doveva essere identica in tutte le parti tranne che per la quantità di denaro, che non doveva essere superiore, pena l’accusa di illeciti guadagni sul suolo uzbeko. A nessuno di noi aprono il bagaglio e al controllo passaporti il mio nome (Giovanni) innesca, nel simpatico militare di turno, un sorriso e un… “ Trapattoni coach Juventus !”.
Il pulmino ha dovuto rimanere al di là del confine e noi abbiamo attraversato duecento metri di terra di nessuno, con i bagagli ma senz’armi, per arrivare alla dogana tagika. Impressionante la differenza tra la dogana uzbeka e quella tagika: di cemento armato con ampie vetrate e tettoie la prima, per giunta fornita di mezzi per esplorare il fondo delle autovetture (neanche una !); di legno con la vernice scrostata la seconda. Con le divise impeccabili i doganieri uzbeki e quasi in borghese (uno pareva ancora in pigiama) quelli tagiki. In altri tempi si sarebbe detta la frontiera italo-svizzera… Dall’arrivo alla dogana uzbeka erano già trascorse più di due ore e non c’era molta folla.
La bandiera tagika è tricolore, i nostri stessi colori in orizzontale, con uno stemma dorato nella fascia, bianca, di mezzo. E’ quasi identica a quella iraniana ed in effetti i tagiki provengono dalla stessa etnia ariana e la loro affinità è sottolineata anche dalla lingua, molto simile al farsi dell’Iran. La bandiera vuole forse sottolineare tutto ciò.
Il gabbiotto dei militari che ci controllano visti e passaporti è un vecchio vagone merci ridipinto in marrone e verde, a macchie, per assimilarlo alla divisa dei militari: si prova una certa qual divertita tenerezza e il controllo è molto più rapido che duecento metri prima; forse sanno che anche la nostra bandiera è tricolore ! Il controllo doganale è gestito da un pigro funzionario biancovestito (non era un pigiama a guardar bene) che non esce dal suo ex-vagone merci ridipinto di bianco, sicché una rappresentante di tutto il gruppo va a gestire la pratica che si risolve solo quando, avendo Paola finto di non capire la richiesta, le pretese banconote vengono infilate nella tasca del funzionario biancovestito dalla persona che ci stava aspettando in suolo tagiko .
Il piccolo fuoristrada di fabbricazione russa è compatto, solido e un po’ militaroide : un driver, un copilota, noi sette e i bagagli sul tetto. Il rettilineo, interrotto dai posti di controllo, prosegue immutato in Tagikistan; per alcuni minuti stesso paesaggio con le montagne che a poco a poco innalzano i loro profili ma, in lontananza, velati dalla calura, si scorgono i primi monti innevati.
Il suolo stradale cambia: non più il regolare asfalto uzbeko ma buche che ben presto diventano autentiche voragini, tratti sterrati, irregolarità che cominciano a giustificare il piccolo fuoristrada russo.
Anche il territorio perde la noia della monocoltura: alberi da frutta, girasoli, orzo.
All’improvviso alla nostra destra uno sterminato stuolo di identici prefabbricati a casetta ci segue per alcuni chilometri. Non sembrano (più) abitati. Hanno accolto l’immensa massa di profughi causata dalla guerra civile di non molti anni prima. Tra Andy Warhol e land art, sono una icona della stupida irrazionalità delle guerre.
Chi sa o si ricorda della guerra civile in questo Paese ? Eppure il numero di vittime è stato tra i più alti che la storia ricordi in rapporto alla popolazione tagika.
Attraversiamo Pendjikent, più un villaggio che una cittadina, imbandierata quasi a festa e la strada comincia a seguire più distintamente il fiume Zeravshan che scava il suo corso tra grigie pareti di roccia sempre più a picco. Ci fermiamo là dove il grigio è interrotto da una macchia di verde e dove sgorga acqua dalla parete di roccia. Sotto il pergolato della locanda qualcuno mangia una zuppa, qualcuno pane e pomodoro e, alle nostre spalle, due merli indiani che finiscono di gustarsi quello che resta di un’anguria: molto meglio dei nostri autogrill. La nostra meta sono i monti Fan o Fann che dir si voglia, un contrafforte occidentale del massiccio del Pamir. Si lascia la strada parallela allo Zeravshan e ci si immette in una valle che corre da nord a sud con un percorso accidentato e scosceso che mette a dura prova il nostro piccolo fuoristrada russo ma soprattutto Sandro e le sue vertigini. Anche non guardando egli riesce a immaginare con ottima approssimazione ( non è un ingegnere per caso) la distanza tra le gomme, il ciglio della mulattiera, e, cinquanta metri sotto, il torrente.
Attraversando confini artificiali (staliniani) e confini naturali (il fiume, la catena montuosa) verso il tardo pomeriggio arriviamo ad Artush Alplage a m 2650: campo base da cui partono tutti i sentieri della zona dei Monti Fan e regno di un gruppetto di tenere, deliziose, sorprendenti donne russe.
5 agosto 2007. Alloggiamo in una casetta di legno dipinta di bianco e dal tetto color mattone, che ospita anche una signora, che si muove con le stampelle, ma dal fisico ancora molto asciutto. Stava rassettando le stanze al nostro arrivo e si era rivolta a noi in buon inglese. Poco prima avevamo incontrato la “capa” del campo: Rufina. Sui sessantacinque-settanta, minuta, fornita di 3 o 4 cellulari e di un radiotelefono e con un sorriso arguto ma vagamente canzonatorio. Il suo inglese meno sciolto di quello della signora con le stampelle ma essenziale. Per prima cosa ci informa che la signora con le stampelle è stata olimpionica di salto in alto negli anni sessanta ! Argento a Roma, bronzo a Tokio, dietro a Jolanda Balas; ma due volte oro agli europei.
La richiesta di sapere chi sarà la nostra guida per le camminate viene sempre lasciata cadere da Rufina, non senza nostra irritazione. Finché, noi insistendo, esclama: “Qui tutti sono guide, io sono guida, Masha è guida, Rima è guida!” Di Masha e Rima diciamo dopo. Due parole sul campo: è una microenclave russa in territorio tagiko della superficie di circa due campi da calcio. Occupa una spianata della vallata dove il torrente rallenta e incurva ripetutamente il suo corso tra prati e qualche masso erratico. Ci saranno sparse due dozzine di tende, occupate in prevalenza da giovani donne e uomini che sembrano i modelli delle sculture del realismo socialista: muscoli da atlante di anatomia, senza un filo di grasso e alti dal metro e ottantacinque in su. Quasi tutti russi.
Rufina ci gestisce cambiando a sua discrezione il programma che avevamo studiato in Italia. Il primo giorno ci fa salire al passo Chapdara (m. 3430) ad est della vallata. I primi 10-15 minuti cammina con noi poi ci affida a Masha, che il mattino era in cucina a servire le colazioni, e torna al campo. Masha, 26 anni, ci dice che è un’ingegnere, assistente universitaria a S. Pietroburgo: un po’ per passione, un po’ per arrotondare collabora con Rufina durante la stagione al campo. Non deve essere molto allenata, però, perché “scoppia” a meno di metà strada. Solo Michele se ne accorge e, da gentiluomo qual è, si ferma e la scorta fin su. Gli altri si erano arrangiati battendo vie autonome, sconcertati dalla traccia di Masha. Mauro e Gabriella inoltre, per struttura fisica e mentale, avevano deciso di fare corsa a sé. Il panorama è, come si dice, remunerativo e cominciamo a familiarizzarci con le aspre montagne intorno. Per la prima volta scorgiamo il Chimtarga (5489 m) e l’Energia ( 5120 m), le più alte del gruppo, e i loro ghiacciai.
La sera a cena commentiamo tra il divertito ed il seccato l’impressione di goffa improvvisazione che il Rufina team pare averci offerto. Domani il primo mini trekking.
6 agosto 2007. Alla conca di Kulikalon da Artush ci si può arrivare, in senso sinistrorso, dal passo Laudan (m. 3630) oppure, in senso destrorso, dal quasi omonimo passo Alauddin (m. 3860). Il nostro mini-trekking, essendo un cerchio con partenza e ritorno in Artush, li prevede entrambi. Rufina ci consiglia, perché più agevole, l’anello Laudan andata e Alauddin ritorno. Così faremo. Rufina ci accompagna per non più di 10 minuti prima di affidarci a Masha, adducendo come scusa un vescicone a un piede, evidentemente non ancora guarito (ma tre giorni dopo guarirà…). Stavolta oltre a Masha ci accompagna “il cuoco”: una gentile, piccola, biondo platino, rotondetta signora con cappellino da baseball, camicetta scozzese, pantaloni da sci anni ’50 e scarpette non certo da trekking, di nome Rima. La prima ora di trekking si sviluppa tranquilla, su per un erto pendio con radi mughi e poi per prati e pascoli. Ma dalla seconda ora cominciano le stranezze. Ad una sosta, con magnifico panorama sul Pamir, in assenza del minimo goccio di alcool, Gabriella e Rima cominciano a cantare insieme, mescolando Verdi, Puccini, Toto Cotugno e canzoni partigiane. L’effetto è straniante e divertente: per l’ambiente e per il fatto che Rima non parlava una sola parola di italiano. Canta che canta, arriviamo ad un passo, che scopriamo non essere ancora il Laudan, per raggiungere il quale occorre procedere per un traverso abbastanza lungo e piuttosto esposto, non particolarmente gradito ad alcuni di noi. Finalmente al Laudan, nonostante qualche nuvola di troppo, si apre davanti a noi un grandioso panorama sui laghi Kulikalon, sovrastati dal Mirali (m. 5120), cima con enormi seracchi, piuttosto instabili, come vedremo. Al termine della lunga discesa bisogna trovare il posto per il campo! Quelli migliori erano già stati presi da numerosi gruppi russi, che da chissà quando erano già lì. Finalmente troviamo qualche spazio libero e pianeggiante in riva ad uno specchio d’acqua. I posti apparentemente più piacevoli per piantare la tenda sono subito stati scartati perché umidissimi, e dobbiamo pertanto ripulire dai sassi le poche zone pianeggianti e secche. Rima superò se stessa riuscendo ad accendere un fuoco in gran fretta per il tè e delle merende; a complicare le cose scende un po’ di pioggia, l’unica in tutto il viaggio. Cena alle 6 e nanna alle 7. 7 agosto 2007. Sveglia alle 7 col tè di Rima. Partenza, svogliata, per i laghi Kulikalon, gemme turchesi in un deserto montano con tanta roccia, sabbia e qualche albero simile al ginepro. Davanti all’ennesimo lago, non resistiamo: ci tuffiamo! In realtà il tuffo non è stato molto lungo; poche bracciate e via a scaldarci, al sole, sulla riva. Masha, furba o pigra ?, è rimasta all’asciutto; ma all’uscita dall’acqua non ci sentivamo poi tanto male. Al ritorno breve deviazione per riempire le bottigliette d’acqua presso una sorgente individuata il giorno prima. Masha ci guarda male, dice che è meglio il tè con l’acqua del lago. Difatti i russi devono tè ad ogni piè sospinto (forse ci si lavano anche i denti). Ma siamo italiani con la puzza sotto il naso e, in mancanza di birra o vino, almeno vogliamo pasteggiare con l’acqua fresca. Qualcuno usò il pomeriggio per bighellonare verso il fondo valle, in direzione del lago superiore alla base della parete del Mirali, con la fortuna di cogliere, con la macchina fotografica pronta, un valangone da cima a base, che lascia sul bianco di neve e ghiaccio due lunghe colate di roccia rossastra, quasi un’ emorragia geologica che si diluisce nelle acque del lago. Giornata un po’ accidiosa, rallegrata a cena dal pesce che Rima prima si era procurata e poi aveva fritto ! Non era chiaro che pesci fossero, forse piccole trote, ma eccellenti al nostro palato. Ormai rodati riusciamo a cenare alle 6:30 e ad andare a nanna alle 7:30.
8 agosto 2007. Ci tocca il passo Alauddin, una sorta di “cima Coppi” del giro tagiko. Un po’ dubbiosi delle nostre capacità, attacchiamo il sentiero con grinta e riusciamo a salire con buon passo, superando altri gruppi di francesi e di spagnoli con accompagnatori tagiki. Gran giornata di Mauro e Gabriella che staccano tutti di una buona mezz’ora. In cima al passo meritato riposo con panorama grandioso in compagnia di greggi, francesi e tagiki. I laghi sono tutti blu che più blu non si può. Visti da quassù paiono proprio delle gemme turchesi. In discesa dall’altro versante, ci fermiamo presso l’omonimo lago, dove, in uno spiazzo erboso a lato di un’ansa del torrente, un’edicola ricoperta di tappeti e ombreggiata ci regala una pausa riposante che non dimenticheremo. Non lontano un piccolo edificio, da dove un magro tagiko dai denti d’oro, ci porta birra, pane pomodori e spiedini : i più buoni shashlyk (spiedini) che mangeremo in tutto il nostro viaggio. A malincuore, dopo una sosta veramente ristoratrice, cediamo i tappeti e l’edicola ad una combriccola di locali dall’aria importante: uno di loro- ci dicono- è il direttore della riserva naturale in cui ci troviamo. Vuole sapere da dove veniamo e con grandi sorrisi -dorati- chiede e ottiene la foto di gruppo insieme a noi, abbracciando calorosamente ed energicamente quelli che gli capitano vicino.
Al caldo sole del tardo pomeriggio scendiamo ad Artush per il sentiero in mezzo ai ginepri, giocando a nascondino con il torrente, che attraversiamo più volte prima di arrivare alla nostra casetta. Bella giornata.
9 agosto 2007. Il gruppo perde alcuni pezzi. Virus, o tossine, a bersaglio intestinale beffardamente scelgono come vittima il più imponente tra noi. E Mauro rinuncia alla salita al lago Mutnye, che chiude la vallata, fino ad ora percorsa solo in parte. Paola, per devozione coniugale, si unisce alla rinuncia. Partiamo in cinque più Masha, ancora nella doppia veste di guida-cuoca, e Rashid, un tagiko, anche lui guida-cuoco. Rima, non amando questa zona, per lei troppo pietrosa, resta al campo e Rufina promette che la sera verrà a trovarci e passerà la notte con noi. Nessuno le crede.
La salita è piacevole. Ancora circondati dal verde seguiamo il torrente toccando, sul lato sinistro, i tre laghi che ritmano, con colori diversi: azzurro, verde e indaco, il profilo altimetrico della valle. Quindi la vegetazione scompare e, dopo poco, anche il torrente scompare in percorsi sotterranei; noi ci sgraniamo lungo l’ultimo ripido salto che ci porta al lago Mutnye. La giornata è calda, senza nuvole, e non pare di essere più vicini ai 4000 che ai 3000 m. Ci sono solo due o tre tende montate e non fatichiamo a scegliere il posto ed allestire il campo. Il lago è il bacino del ghiacciaio che scende dal Chimtarga, a ovest. Circa 300 m in lunghezza per 100 nel punto più largo. Non ha il colore di quelli che ci siamo lasciati alle spalle. E’ di un grigio lattescente, poco invitante; il greto basso e ciotoloso di oggi è stato il fondale di epoche meno calde dell’attuale. L’ambiente è severo con montagne tra 4000 e 5000 metri, che ci circondano a 270°. Il sole sparirà presto dietro il Chimtarga oggi e comparirà tardi, domani, dopo aver scavalcato il Chapdara (m. 5050). Apprezziamo la zuppa calda che Masha prepara insieme a Rashid. Abbiamo appena finito di mangiare quando, da dietro il roccione che ripara le nostre tende, vediamo comparire una giacca a vento bianca e due bastoncini sollevati a mò di saluto. Rufina ha mantenuto la promessa ! Siamo tutti sorpresi, anche Masha, che deve rimettersi alle pentole per sfamarla e che dividerà la tenda con lei per questa notte.
Alla fine del nostro viaggio, e non per bocca sua, verremo a sapere che Rufina, negli anni ’60 -’70 è stata una delle più forti alpiniste russe, insignita, dalla Accademia Alpinistica Russa, della qualifica di “Snow Leopard“ (leopardo delle nevi), riservata a chi compie ascensioni di particolare importanza e difficoltà ! A posteriori ci vergogneremo delle nostre perplessità, dei nostri dubbi e della nostra sussiegosa presunzione al primo impatto con il Rufina team.
10 agosto 2007. La notte a 3800 metri non è stata per niente fredda. Dopo colazione Michele e Gabriella decidono di andare con Masha e Rashid al passo Kaznoch (m. 4040) per dare un’occhiata al di là della corona di cime che chiudono il lago Mutnye, verso Sud, verso l’Afghanistan. Sono molto più veloci di quanto noi tre che rimaniamo alle tende immaginiamo: in poco più di quattro ore salgono e scendono dal passo. Il cielo si copre e il sole scompare dietro grigie nuvole che rendono l’ambiente meno gradevole e caldo di quanto non fosse ieri.
La salita al passo Kaznoch è quella che si definisce “un po’ rognosetta”. All’inizio un sentiero ben tracciato ma reso difficile dalla presenza di sassi in movimento, zigzagando su un’erta scoscesa e sassosa, ci porta sotto un paretone rosso e nero (ma non milanista). Poi la traccia sparisce improvvisamente: solo alcuni ometti di pietra, peraltro molto distanti gli uni dagli altri, indicano la direzione da prendere. Fortuna che il tagiko sa il fatto suo, Masha sembra un po’ persa e non si può dire che la salita segua un percorso logico. L’avanzata procede lentamente in un mare di pietre fino alla base di un nevaio che affrontiamo di petto: la neve è dura e compatta e bisogna stare attenti ma, pensiamo, almeno il terreno è meno franoso delle pietre. Alla fine del nevaio un breve colatoio di pietre porta al passo. “Quasi fatta” ci diciamo. Magari ! Quei 30-40 metri finali ci prendono quasi più tempo dell’intero itinerario precedente: un passo avanti e due indietro per tutta la lunghezza del terriccio argilloso e instabile. Per giunta la paretina di sinistra scaricava pietre che sembrava di essere al tiro a segno (dalla parte dei bersagli…). Finalmente sul colle via al safari fotografico. Panorama immenso un po’ penalizzato dall’arrivo di nuvolosi grigi, ma pur sempre sconfinato. Al rientro, lento per evitare di mettere un piede in fallo tra una pietra e l’altra, incontriamo una comitiva russa che, armata di tutto punto, dava la scalata al passo.
Ci guardano storto: ma che fanno questi qui slegati, senza piccozze, senza corda e una – Gabriella li detesta – anche senza bastoncini ? Accenniamo un saluto e dopo poco guadagniamo il campo.
Dopo Rufina ancora una sorpresa: Mauro, rimessosi, e Paola, per consueta devozione coniugale ma forse anche per piacere personale, compaiono al campo in tempo per pranzare insieme a noi.
Rufina era ridiscesa ad Artush dopo colazione, accompagnando un ragazzo russo che la notte era stato male a causa dell’altitudine: una temprata, solida settantenne che si fa carico di un trentenne male in arnese ! Paradossi della biologia umana.
Si scende, consapevoli che sono gli ultimi sguardi sulle Fan Mountains; domani ritorneremo a Samarcanda. 11 agosto 2007. Lavati, rimessi in ordine, le nostre rètine ancora impresse dai profili e dai colori di questa settimana, ci affolliamo intorno a Rufina,a Masha, a Rima e a Rashid per una foto di gruppo. L’autista è già arrivato e il pulmino è già caricato con i bagagli.
Con i baci e gli abbracci cerchiamo di trasmettere il senso di gratitudine che stiamo provando.
La tristezza di ogni partenza dopo poco lascia il posto alla preoccupazione per la strada che ci porterà in fondo valle. Oggi, chissà perché, ne vediamo meglio la pericolosità. L’autista guida con più prudenza di quello dell’andata e ciò consente visioni e riflessioni più consapevoli. Nell’attraversamento di alcuni ponti di legno che scavalcano salti di roccia e acqua ci fa scendere: per scaricare il pulmino e per guidarlo lungo le tracce apparentemente più solide. Contrariamente a quanto di solito accade il ritorno, questa volta, ci sembra più lungo. Le Fan scompaiono alle nostre spalle e da valli laterali si intravedono altre montagne, di aspetto quasi dolomitico. La valle si popola: terrazzamenti coltivati, case, antenne Tv, parabole satellitari, qualche veicolo. Rivediamo e riconosciamo segmenti o frammenti del territorio attraversato una settimana prima. Raggiunta la strada principale che ci porterà verso il confine, al luogo di sosta canonico del viaggio, incontriamo le stesse ragazze e donne che avevamo visto all’andata. Quasi amici ormai. Foto tra albicocche e pomodori che ci vendono o ci regalano. Illeggibili indirizzi scritti a mano dove spediremo le immagini scattate. Sorrisi affabili e, soprattutto, graziosi, incorniciati dai lunghi vestiti colorati che indossano. Lentamente sia per le strade sia per il pulmino che, visibilmente, non tiene le marce oltre la terza, arriviamo al confine. Il cerchio tagiko si chiude. Ci lasciamo alle spalle un paese che è una fortezza di montagne e ci appare molto chiaro come mai i tagiki siano gli unici, tra i popoli di questa area, a non avere, nelle proprie cellule, il marchio dell’impero più vasto che la storia abbia mai registrato: il cromosoma Y di Gengis Khan ( cfr. Tatiana Zerjal et al. American Journal of Human Genetics, 2003).