FACCETTA NERA – Ethiopia 2005 – 2006
Sicché eccomi qui, con 20 giorni a disposizione, un po’ di soldi in tasca, e la compagnia di una tipa conosciuta durante il viaggio in Iran.
Nonostante abbia cercato di prenotare il volo fin da ottobre, complice il periodo natalizio durante il quale molti etiopi tornano a casa, siamo riusciti a trovare posto solo con l’Ethiopian Airlines, alla modica cifra di 1.032,50 euro a persona.
L’aereo era un 757 vecchiotto, ma ci ha portato a destinazione in anticipo, con il vento favorevole.
Con 50 birr un taxi ci porta al Baro Hotel, prenotato per telefono da Roma (siccome tutti i numeri di telefono sull’edizione 2004 della Lonely Planet sono cambiati, per conoscere i nuovi occorre andare sul sito www.Telecom.Net.Et, dove c’è una pagina apposita per convertire i vecchi numeri in quelli aggiornati).
La stanza al Baro Hotel, che paghiamo 80 birr (8 euro), non è un granché (probabilmente è di quelle che vengono affittate alle coppiette, come d’uso da queste parti), ma la nottata in aereo e la fretta di organizzare i giri da fare non mi lasciano tanta voglia di farmene mostrare altre.
Il posto è comunque pieno di giovani e meno giovani viaggiatori: diversi con la jeep con tenda sul tetto (una porta la scritta “Cape Town-Cairo-Nordkapp”!), uno con una BMW enduro targata Repubblica Ceca, una coppia di S. Francisco che gira già da due mesi con i mezzi pubblici (tappe precedenti, Tanzania ed Uganda)… insomma, la solita buona e composita compagnia.
Tramite una “dritta” dell’ottimo Fabio, conosciuto nel “giro” di www.Viaggiareliberi.It, ho contattato la Sami Tours (www.Samiethiotour.Com), che per 1.200 euro ci metterà a disposizione jeep ed autista per i prossimi 17 giorni.
Nel frattempo, per 300 birr prendiamo (sempre da Sami) auto ed autista e ci facciamo portare un po’ in giro per la capitale.
Non che ci sia molto da vedere, in realtà: il Museo Nazionale (10 birr) è poverello, e pure la famosa Lucy è solo una copia (quella vera è custodita nei sotterranei), il Merkato è grande ed incasinato, ordinato come al solito per settori merceologici, la cattedrale ed il museo di S. Giorgio (20 birr) sono pressoché insignificanti, e pure il panorama da Entoto Road è coperto dai numerosi eucalipti importati dall’Australia.
Siamo così finiti a “rinfrescarci” nella sauna dell’Addis Filwoha Hot Spring Hotel, dove per 24 birr ognuno ci siamo depurati alla bisogna.
Meno male, anche perché al Baro Hotel non è che l’acqua calda abbondi (il lavandino della nostra stanza nemmeno funziona…).
Cena al Dashen, molto osannato dalla Lonely Planet, ma la cui scarsissima illuminazione ci ha a malapena permesso di capire cosa fosse stato depositato dal cameriere sulla nostra injera: non eccezionale, freddino, 48 birr in due.
Tutto sommato, il tempo che richiede Addis Abeba per essere visitata (avendo a disposizione una macchina) è al massimo mezza giornata, e per vedere luoghi che – con l’eccezione del Merkato, che pare sia il più grande di tutta l’Africa – risultano di scarso interesse storico-architettonico.
Bahar Dar, 27 dicembre Dopo una notte insonne per via del letto in pendenza da un lato, fatta colazione con biscotti e cornetti (che sono sempre solito portare con me per i casi di emergenza) ed una spremuta d’arancia (6 birr l’una, 60 centesimi di euro), abbiamo fatto la conoscenza del nostro autista per i prossimi giorni del viaggio.
Elias è giovane, sposato con due figli piccoli, parla un inglese molto approssimativo, ed ama guardare le partite di calcio dei campionato europei, sicché non potrò sottrarmi agli inevitabili commenti su Del Piero, Maldini, e compagnia bella.
La jeep è una Toyota Land Cruiser scassatella dalle gomme arrivate alla fine della loro carriera, e che lascia un fumo da denuncia penale: speriamo bene! La strada per Bahar Dar è inizialmente buona, con un bel nastro d’asfalto, ma ad un certo punto questo termina con una linea netta, ed iniziamo 45 km di noiosissimo sterrato, dove occorre spesso chiudere prontamente i finestrini per non mangiare la polvere alzata dai mezzi che incrociamo.
Dopo una sosta a Debre Markos per il pranzo dell’autista (noi a pranzo ci limitiamo a banane ed ananas), abbiamo ripreso il tragitto verso Bahar Dar ed il Lago Tana.
Attraversiamo zone rurali, con ampi coltivati e capanne con pareti in legno, fango e chissà che altro, mentre il tetto è in paglia o in lamiera ondulata (quest’ultimo materiale copra la stragrande maggioranza delle costruzioni che abbiamo visto finora, anche ad Addis Abeba).
Per strada ci sono parecchie mucche ed ancor più somari, ma ciò che più impressiona è la quantità di gente che cammina sui lati, molte volte scalza sull’asfalto rovente o sui sassi appuntiti, e va.
Non possedendo abbastanza denaro da spendere per i mezzi pubblici, la gran parte della gente nelle campagne si sposta a piedi, per andare a scuola, a prendere l’acqua, ad amministrare i propri animali, a far visita, e così via.
L’Etiopia ci appare oggi come un Paese in perenne movimento, ed incontriamo solitari viandanti anche in mezzo al nulla, lontano da qualunque centro abitato.
Ma seguendo la strada, con il proprio immancabile bastone (anche i bambini) o con l’ombrello, con i propri indumenti che per noi sono muti, ma che per i locali dichiarano a gran voce la propria appartenenza ad una tribù, ad un villaggio, ad una famiglia, ad uno status sociale, essi camminano con pazienza verso la loro meta, quale che sia.
Arriviamo a Bahar Dar verso le 6 del pomeriggio: siamo partiti alle 7 di mattina, una bella facchinata soprattutto per l’autista, che – dopo aver preso alloggio all’Hotel Ghion previo patteggiamento per una doppia spaziosa con bagno per 100 birr al giorno – mandiamo a riposarsi, dandogli appuntamento per domani alle 6 del pomeriggio.
Per cenare scegliamo l’Enkutatash 1, frequentato dai locali (oltre che dai turisti), che si rivela buono ed economico.
Bahar Dar, 28 dicembre Giusto il tempo di fare colazione, ed il manager dell’albergo ci ha offerto per 50 birr l’uno una gita in barca a vedere dei monasteri sul lago.
Pensavamo che il giro avrebbe incluso anche il famoso monastero di Narga Selassie, che passa per essere “impedibile”, ma invece ci siamo trovati su di una piccola barca con motore fuoribordo da 15 cavalli, in compagnia di otto americani che, come noi, si sono scaglionati già alla prima tappa.
Il monastero di Entes-Eyesu non è nemmeno nominato sulla Lonely Planet tra quelli meritevoli di visita, e tutto è apparso fin dall’inizio un mezzo dei locali per tentare di guadagnare qualcosa con i turisti.
Solo due ragazze hanno voluto visitarlo, e non è che siano tornate molto soddisfatte.
Abbiamo poi proseguito per il Kebran Gabriel, dove però le donne non sono ammesse, sicché in quattro siamo andati a fare la visita di questo posto, non eccezionale di per sé, ove un monaco ci ha mostrato (all’aperto!) un libro in pergamena che lui asseriva risalire al XV° secolo.
Un vero libro di quell’epoca, “conservato” in quel modo, a quest’ora sarebbe semidistrutto, altro che illustrazioni policrome e splendenti! Tornati alla barca e alle ragazze, che ci avevano lì atteso, siamo passati ad uno dei monasteri siti nella penisola di Zege, il Beta Maryam.
Qui i dipinti sembrano recenti, e lo stile architettonico rimane lo stesso (chiesetta a pianta circolare); abbiamo deciso di saltare l’ultima tappa in programma, Debre Maryam, essendo notevolmente calato l’interesse generale.
Tornando, abbiamo visto il punto dal quale si origina il Nilo Azzurro, prima della sua famosa cascata di Tis Isat.
Nel tardo pomeriggio ci siamo fatti portare da Elias con la jeep al mercato cittadino: abbiamo prima visto un’orrida fiera di prodotti moderni che andavano dal trattore, al televisore, alle ciabatte di plastica, con una band di pop locale che si esibiva sul palco di fronte ad una piccola folla dall’elevato tasso alcolico.
Quando, poi, siamo arrivati al mercato “vero”, era troppo tardi, e la maggioranza delle numerose bancarelle era chiusa.
Cena di nuovo all’Enkutatash, dove abbiamo esagerato con il cibo, lasciandone un bel po’ avanzato: bisogna ricordare che ogni singola voce del menu corrisponde – almeno per i locali – ad un pasto completo.
Bahar Dar, 29 dicembre Non siamo riusciti a trovare un gruppo per dividere la spesa per la barca grande che ci possa portare al monastero di Narga Selassie, e non ci è sembrato il caso di prendere quella piccola che proponeva il Ghion Hotel, dato che il viaggio è lungo (pare 3 o 4 ore per arrivare, ed altrettante al ritorno), e all’ora di pranzo sul lago si alza un vento fastidioso che crea pure qualche onda.
E allora siamo andati con Elias al mercato, vero fulcro di vita delle città africane in genere: un ragazzo che parlava un buon inglese (sicuramente migliore di quello del povero Elias) ci si è incollato a mò di guida e, alla fine, è stato pure utile per capire tante cose; al termine del giro, si è decisamente guadagnato i 10 birr che abbiamo deciso di dargli.
Siamo poi partiti per Tis isat, a vedere le cascate del Nilo Azzurro.
Trenta km di sterrato, 15 birr ognuno di biglietto e, scartate le guide locali, ci siamo fatti una bella passeggiata lungo il sentiero che, traversato il bel ponte portoghese in pietra, porta fino ad un’altura dalla quale si può ammirare ciò che è rimasto della cascata che prima della costruzione della diga e della centrale elettrica aveva un fronte di 400 metri, e che adesso è ridotta a ben poca cosa, seppure sempre ammirevole.
In fin dei conti, pensando agli sforzi e le lunghe e rischiose ricerche fatte nei secoli dai geografi per scoprire da dove originasse il Nilo, un po’ di emozione mi prende lo stesso, anche se lo spettacolo non è più quello di una volta.
Mangiato un ananas con tale panorama innanzi, ci siamo incamminati verso la jeep e abbiamo ripreso la strada verso Bahar Dar e l’Hotel Ghion, nel cui ombroso giardino in riva al lago ci si può rilassare alla bisogna (sempre che ci si copra abbondantemente, per via del vento pomeridiano).
Nel tardo pomeriggio abbiamo fatto una passeggiata per le vie cittadine e abbiamo dato un’occhiata ai pellicani davanti al Mango Park, bar con giardino sul lago, dopodiché ci siamo diretti – anche oggi – al solito ristorante.
Gondar, 30 dicembre Partenza alle 10, strada ottimamente asfaltata, e panorama che ha alternato colline e montagne in lontananza, con campi coltivati e gente che camminava da un luogo all’altro.
A Gondar siamo arrivati dopo circa tre ore, e abbiamo girato un po’ per trovare alloggio, finché un ragazzetto ci ha portati al Simien Park Hotel: niente di eccezionale, ma bagni puliti con acqua calda a volontà per 100 birr a notte.
Dopo una passeggiata per il centro cittadino ci siamo fatti portare alla chiesa di Debre Berhan Selassie, famosa per le pitture che l’adornano; circondata da un muro in “stile Gondar”, è carina, ma nulla di più.
Siamo poi passati al complesso di Kweskwam, rovina di un palazzo fortificato dal quale si gode un discreto panorama di Gondar.
Il panorama migliore, però, si gode dalla terrazza del Goha Hotel, caro e pretenzioso, ove abbiamo trovato gente dal portafoglio pieno, italiani compresi.
A proposito di italiani, le vestigia della presenza italiana sono qui più che evidenti, con palazzi in puro stile littorio come quelli gemelli del comune e del tribunale, la posta, e perfino il cinema.
Per la cena ci siamo fatti consigliare da Elias, che ci ha lasciati innanzi un ristorantino locale vicino al Circle Hotel, sulla stessa mano della strada, dove il menu è scritto solo in amarico, e il personale non spiccica una parola di inglese.
Ciò nonostante, abbiamo mangiato decentemente: injera e wat vegetariano per 11 birr in due (in pratica, 50 centesimi di euro per uno).
Gondar, 31 dicembre Stamattina visita al recinto dei castelli imperiali.
Il sabato e la domenica non si fanno visite guidate, per cui ce lo siamo visto in santa pace, dividendolo con pochi turisti (immancabili gli italiani caciaroni, a dispetto dell’età avanzata) accompagnati dalle proprie guide personali.
Il posto è suggestivo e ha meritato le numerose foto, ma per la gran parte è in rovina e/o chiuso.
Siamo poi andati a comperare cibarie in scatola e frutta per i giorni da trascorrere sui monti Simien, dove non vi è alcunché da acquistare.
Il “Supermarket Ras Dashen”, un piccolo negozio di fronte al Circle Hotel, era ben fornito ma ci ha praticato dei prezzi quasi più alti di quelli europei: da evitare o da contrattare, se si ha voglia.
Dopo una breve visita al mercato cittadino siamo tornati in albergo per consumare il nostro frugale pasto a base di ananas e banane, e poi ci siamo recati in jeep a vedere i bagni di Fasiladas (o ciò che ne rimane): il posto è sotto restauro, e ci lavorano con scarsissima lena un centinaio di uomini e donne, quando in Italia una squadra di dieci persone in un mese avrebbe sistemato già tutto.
Per ingannare il tempo, abbiamo pure fatto un salto al villaggio falasha di Wolleka (sulla strada per Axum, all’incrocio con quella per il Sudan), che si è rivelato essere un gruppetto di capanne ai lati della strada, uguali in tutto e per tutto a quelle già viste fin qui, con l’unica particolarità di essere abitate da etiopi ebraici (comunque dalla pelle scura come gli altri).
A quel punto abbiamo deciso di aver preso polvere a sufficienza, e siamo tornati in albergo: certo, a Gondar non c’è poi molto da vedere! In albergo, il mio dramma personale: ho portato con me il nuovo iPOD da 30 GB, ove scaricare le foto della macchina digitale ed avere così la possibilità di scatti pressoché illimitati, ma appena ho iniziato il trasferimento delle foto dalla macchina all’iPOD, questo ha avuto l’ottima idea di andarsene completamente in tilt.
Pazienza per i 1.300 e passa brani musicali che finora avevano allietato qualche momento di relax, ma il fatto di dover cancellare parecchi degli scatti già effettuati per rimanere nel limite datomi dalle schede che ho mi ha fatto incazzare non poco: si vede che in questo Paese la tecnologia non ne vuole sapere di funzionare… Cenone di capodanno (si fa per dire) all’Habesha Kifto, frequentato dalla gente “bene” del luogo, ed infatti abbastanza caro (una sessantina di birr in due).
Chenek, 1 gennaio 2006 Siamo partiti alle 7, dopo una notte insonne per la rabbia causata dalla rottura dell’iPOD, alla volta del parco nazionale dei monti Simien.
Giunti a Debark, il paese prima del parco ove sono gli uffici amministrativi, grosse discussioni con Elias, il quale diceva che siccome nel programma scritto dalla Sami Tours c’era scritto che avremmo dovuto pernottare al campo di Sankaber (più vicino a Debark e per lui più comodo), non potevamo andare fino a Chenek, che avevamo reputato migliore come posto per panorami ed animali avvistabili.
Gli ho opposto che il contratto parlava di “auto, autista e carburante per 17 giorni”, senza far menzione delle distanze da percorrere, sicché non rompesse i coglioni.
Dopo una telefonata al suo boss ad Addis Abeba, ha finalmente chinato il capo: servirà a qualcosa esercitare una certa professione, no? D’altro canto, si sa che quando si prende una macchina con autista si deve mettere subito in chiaro chi comanda, sennò si diventa dei pacchi portati qua e là.
Sta di fatto che dopo tre ore di sterrato eravamo a Chenek, con gli obbligatori guida e scout armato di kalashnikov (il tutto, un pernotto nella mia tenda compreso, per 360 birr in due).
Abbiamo fatto un brevissimo trekking – siamo a più di 3.600 metri, e la mia compagna di viaggio soffre parecchio l’altitudine – durante il quale siamo però riusciti a vedere parecchi babbuini e stambecchi.
Siamo stati costretti a cenare prima delle 18, ora del tramonto, perché poi il freddo ed il buio sono calati implacabili, costringendoci a rintanarci nella tenda, immersi nei sacchi a pelo con tanto di maglione addosso.
Axum, 2 gennaio Brrrr! Durante la notte – un cielo di stelle meraviglioso – si è perfino creato del ghiaccio sulla tenda, dalla quale mi sono precipitato fuori alle 6 per imporre a quel beota di Elias di spegnere il motore della jeep, che grazie al vento ci stava intossicando con i fumi del probabilmente mai revisionato diesel.
Scendendo verso valle, sulla via per Debark, abbiamo incrociato un altro numeroso gruppo di babbuini, mentre passando davanti al campo di Sankaber ci siamo resi conto che in questo posto non vale assolutamente la pena di piantare la tenda.
Lasciati a Debark guida e scout, siamo partiti alla volta di Axum.
La strada è quella fatta dagli italiani 70 anni fa, e non vi è stata più fatta alcuna manutenzione, per cui si è trasformata in uno sterrato polveroso e sassoso, ma che regala dei panorami di stupefacente bellezza tra gole e rupi, picchi e strapiombi lungo i quali si srotolano i tornanti.
È lunga, tanto che arriviamo stanchi ad Axum dopo 12 ore dalla partenza da Chenek: oggi Elias si è decisamente meritato la paga.
Alloggiamo all’Africa Hotel, 50 birr la doppia (piccolina ma decente, doccia calda e letto comodo), e ceniamo all’Habesha Restaurant, dove però le portate sono freddine e non di nostro gusto.
Axum, 3 gennaio Con tutta calma, considerato il viaggio stancante di ieri, alle 10 siamo andati al parco delle stele: notevole quella più grande, crollata al suolo in diversi frammenti, mentre la gran parte delle altre non sono scolpite.
Si poteva visitare solo una delle due tombe sotterranee ma, comunque, pare che nascosto sotto terra vi sia ancora più dell’80% della roba.
Appena fuori l’ingresso del parco delle stele c’è anche la “nostra”, che fino a pochi mesi fa faceva bella mostra di sé – stupenda, se confrontata a quelle presenti qui – fuori dell’ex ministero delle colonie a Roma.
È sotto una tettoia, ancora imballata così come l’abbiamo mandata, divisa in tre tronconi: chissà quando (e se) riusciranno ad erigerla per farla tornare al suo splendore! Tutto sommato, avremmo fatto meglio a tenercela: sono convinto che sia stata restituita solo ed unicamente perché era stato Mussolini a volerla a Roma, e che se dovessimo pretendere la restituzione di tutto quello che è stato rubato in Italia nel corso degli anni svuoteremmo buona parte dei musei mondiali.
Altre stele si trovano in un terreno sulla destra del parco, ma lascia interdetti il fatto che siano così abbandonate, che la più bella di esse è stesa a terra ed utilizzata come latrina.
Le tombe dei re Kaleh e Gebre Meskel si trovano in cima ad una collina lì vicino, sono sotterranee, ma non sono poi così interessanti, anche perché i blocchi ben squadrati di cui sono fatte non sono scolpiti o dipinti, e quindi il tutto appare molto spoglio.
Lasciato libero Elias per un’ora di pausa pranzo, siamo andati a berci qualcosa sulla terrazza dello Yeha Hotel, gestito dallo stesso management del Goha di Gondar.
La leonessa di Gobedra è una vera sòla, e consiste praticamente in un dozzinale graffito sulla roccia: fare la camminata in mezzo alle pietre dell’ex cava non vale la pena, a meno che – come noi – non si abbia del tempo da perdere.
In ogni caso, siamo riusciti a trovarla solo con l’aiuto di due bimbetti, perché non c’è un sentiero segnato.
Il palazzo della regina di Saba a Dungur, di fronte ad un’altra zona con diverse stele insignificanti, è invece ciò che rimane di un grosso edificio, del quale sono rimasti i soli bassi muri delimitanti i singoli ambienti: c’è pure una piattaforma metallica per poterlo osservare dall’alto.
Ultima tappa, il museo archeologico, le cui opere esposte fanno trasparire una raffinatezza tutt’altro che eccezionale.
Il resto del pomeriggio è trascorso con le visite ai negozietti axumiti di artigianato, senza peraltro acquistare alcunché.
Una buona cena, stavolta, al Cafè Abissinia: finalmente cibo caldo, oltre che buono e a buon mercato: 29 birr in due! Wukro, 4 gennaio Partenza prima dell’alba, destinazione tempio di Yeha: 50 birr a testa sono decisamente tanti per questo “coso” e per il “museo”, ove ci fanno vedere i soliti libri “antichi”, nelle cui illustrazioni, ad un certo punto, compare un uomo che regge in mano… un fucile! Dopo un bel po’ di sterrato siamo arrivati ad Adigrat, dove finalmente inizia l’asfalto, e dove abbiamo fatto una piccola sosta-pranzo (ma non per me: una coca basta e avanza).
Siamo nella regione del Tigrai, che si distingue per l’aridità: tutti i fiumi sono in secca, e l’acqua viene distribuita con le autobotti.
Era in programma un pernotto ad Adigrat o Makallè, ma siccome le chiese rupestri del Tigrai sono proprio nel mezzo tra le due città, per risparmiare tempo e chilometri ci siamo fermati a Wukro dove, dopo una lunga ricerca per un posto decente dove dormire, tra molte topaie adibite per lo più ad alcove di incontri occasionali, abbiamo scovato la Lwam Pension, una parte della quale ancora in costruzione, e della quale sembriamo essere i primi clienti: 50 birr a notte, una doccia calda, ed una stanza pulita (se non altro perché non vi ha ancora dormito nessuno).
Si trova, peraltro, proprio dietro l’ufficio del turismo del Tigrai (all’altezza della stazione dei pullman e del distributore Total, dall’altro lato della strada), dove abbiamo programmato una visita a tre delle chiese rupestri della zona per domani.
Wukro è una piccola cittadina, tutta sviluppata lungo la strada che da Adigrat porta a Makallè; parecchi bar, qualche pasticceria, degli hotel-bordelli, pochi edifici in stile italo-coloniale.
Per la cena Elias ci ha consigliato un ristorante dall’altro lato della strada dove, scarsissimamente illuminati, abbiamo consumato del cibo scadente ad un prezzo esoso: 46 birr! Saranno pure 4 euro e mezzo in due, ma considerati i prezzi standard che abbiamo pagato finora è un vero ladrocinio ai danni del turista straniero, e la cosa mi fa decisamente girare le palle.
Wukro, 5 gennaio Partenza alle 7,30 con Elias, la guida Yohannes (ex giornalista che ha lavorato anche con un’agenzia francese, per cui parla quanto meno tigrino, amarico, inglese e francese, e-mail: abegazz@yahoo.Com; telefono 00251.0344.430340; cellulare 00251.0914.701308), e un ragazzo “praticante guida”.
Fatta colazione in una pasticceria locale, siamo partiti alla volta delle tre chiese che dobbiamo vedere.
Nei giorni scorsi avevamo deciso di saltare il monastero di Debre Damo, classificato come “imperdibile” ma il cui accesso è precluso alle donne, per poter vedere insieme qualche chiesa particolare nel Tigrai.
Dopo parecchi chilometri di sterrato, con qualche passaggio complicato dalle asperità del terreno, siamo arrivati in una pianura dove fanno bella mostra di sé dei manufatti in pietra che comprendevano abitazioni e stalle per gli animali, circondati da basse mura che conferiscono loro l’aspetto di piccole fortezze, il tutto circondato da speroni montuosi molto simili a quelli visti nei western americani.
Ci fermiamo ai piedi di uno di questi isolati massicci, e capiamo che non sarà una passeggiata: la chiesa di Abuna Yemata Guh si trova dietro lo sperone, molto ma molto in alto.
Arrivati (in compagnia di ragazzi e ragazze locali, per i quali eravamo una sorta di attrazione dato che quassù vengono tra i 3 e i 7 turisti al mese) dopo una ripida salita alla base della roccia, abbiamo dovuto proseguire togliendoci le scarpe da trekking, poiché i piedi nudi – come ci ha spiegato la guida ed abbiamo effettivamente constatato – hanno una migliore presa in questo tipo di situazioni, ovvero di vero e proprio free climbing.
Ci siamo infatti dovuti inerpicare su di una parete verticale, utilizzando delle fessure praticate nella roccia nel corso del tempo, giungendo alfine al livello della chiesa, che è scavata nel lato opposto e che si raggiunge con uno stretto passaggio tra la parete rocciosa e uno strapiombo di qualche centinaio di metri.
Da una bassa porticina si entra dentro la parete, e ci si trova in un ambiente scavato all’interno della roccia a mò di vera e propria chiesa, con tanto di colonne e due cupole.
Gli affreschi – soliti temi dell’arte religiosa copta – sono ben conservati, e bisogna ammettere che tra ascensione, panorama e chiesa ripagano decisamente la gita.
A proposito di pagare, la guida ci costa 150 birr, e l’ingresso nelle chiese 20 birr a persona, più 10 di mancia al prete.
Siamo ridiscesi per la medesima via, che in fin dei conti ho trovato più divertente che faticosa (la mia accompagnatrice, considerati i 2.780 metri, un po’ meno).
Da lì siamo passati alla chiesa di Debre Tsion Abraham, l’accesso alla quale è dato da un percorso in ripida salita, in pratica un’infinita e sconnessa scalinata: un’ora dopo la partenza siamo arrivati in cima alla montagna, anche stavolta accompagnati da bimbetti locali.
La chiesa è scavata davanti ad una sorta di terrazza panoramica naturale, la cui visuale forse mi ha rapito più della chiesa in sé.
Vedere per credere.
Debre Tsion Abraham è parecchio rovinata per via delle infiltrazioni di acqua (ma si sta costruendo un nuovo tetto), e le pitture sono oramai un lontano ricordo.
Da notare che i monaci stavolta hanno preteso il pagamento in anticipo: io già li considero degli improduttivi parassiti della società, figuriamoci quanto possa essere cresciuta la mia stima nei loro confronti quando mi sono visto chiedere i soldi prima e – nonostante la mancia in aggiunta – pure dopo! Faticosa discesa, anche per il peso della precedente scalata ad Abuna Yemata Guh, e ritorno verso la città, con tappa alla chiesa di Abraha Atshea, che è facilmente accessibile in quanto lungo la strada: ci si ferma proprio sotto con la jeep.
Di questa chiesa ho notato più lo stile architettonico che le – poche – pitture affrescate.
Doccia obbligatoria al ritorno, e buona cena per 35 birr al ristorante del Wlaelo Hotel, sotto un particolare grosso tukul di fibre vegetali intrecciate.
Lalibela, 6 gennaio Oggi è stata più che dura.
Siamo partiti tardi, verso le 8,30, a causa di un guasto al filtro del gasolio, che è stato sostituito.
Fatta colazione alla solita pasticceria (che non è proprio “Mondi” a Ponte Milvio, ma tant’è) vicino alla traversa che porta all’Hotel Wlaelo, siamo andati verso Makallè, città trafficata, unico polo industriale etiopico, dove abbiamo cambiato qualche altro euro perché a Lalibela non ci sono banche.
L’asfalto è scomparso dopo un po’, lasciando luogo al consueto polverone dovuto a lavori di ristrutturazione della vecchia strada italiana.
Curioso come si tentino restauri (curati con l’ausilio di ingegneri cinesi) solo sulle parti “facili”, ovvero quelle dritte ed in piano, mentre i tratti realizzati 70 anni fa dai nostri connazionali, non si sa come, nelle zone più impervie sono destinati a restare come sono.
In pratica, se non ci fossero andati gli italiani nel 1936, gli etiopi andrebbero ancora in giro camminando per i vecchi sentieri.
Da Maychew in poi buon asfalto fino a Wolodia, poi ancora sterrato, man mano sempre peggiore.
Già eravamo partiti tardi, poi le condizioni stradali non ottimali, infine un incidente che ha coinvolto due autoarticolati che si sono incastrati sulla stretta strada montana dopo Wolodia, che dà sul burrone a strapiombo: disincastrati i mezzi dopo mezz’ora di attesa, ci siamo trovati sulla strada – sterrata, ovviamente – che porta verso Gondar nel momento del tramonto, il che significa avere il sole basso sull’orizzonte e dritto in faccia, che non consente vi vedere alcunché, meno che mai i camion che vengono dalla parte opposta.
Fatto sta che ci siamo trovati a percorrere una pessima pista al buio, cercando quasi alla cieca la svolta a destra per Lalibela; trovata la svolta, il cartello dice “54 km”, ma in realtà pare che siano molti di più.
Elias era molto stanco, noi pure, e la strada (strada?) non finiva mai: mi tornava in mente il racconto di Giorgio Bettinelli, che nel corso di uno dei suoi giri del mondo su di una Vespa 200 arrivò a Lalibela alle 22,30 facendo la nostra stessa strada, non proprio comoda anche per una jeep.
Dopo aver sbagliato girando a sinistra ed essere arrivati ad uno spettrale aeroporto, unico punto illuminato della zona, siamo tornati indietro e, alle 22, siamo alfine giunti a Lalibela, proprio nella notte del natale copto, dove fortunosamente abbiamo trovato l’unica stanza libera dell’Hotel Asheten, che ha ovviamente approfittato della situazione per spillarci 200 birr per un piccolo loculo con bagno fetido in comune.
Elias dormirà in macchina nel cortile, dato che anche lui a meno di 50 birr non riesca a trovare alloggio.
Lalibela, 7 gennaio Oggi sveglia con calma, doccia (poca acqua, ma calda), colazione, e visita della città.
Non siamo andati a vedere le celebrazioni mattutine (alle 5!) per il natale copto, che hanno richiamato qui migliaia di pellegrini da tutto il Paese, ma abbiamo così evitato un’enorme ressa e molte pulci, a detta di chi c’è stato.
Non che le pulci siano mancate, finora, sia negli alberghi che per strada: d’altronde, quando non ci sono zanzare in giro e si hanno gli stessi segni dei morsi, il motivo è solo uno.
Siamo prima andati a vedere il mercato del sabato, polveroso come tutta la cittadina, e dove veniva venduta la solita roba: prodotti agricoli (tef, aglio, peperoncino, pomodori, patate), stoffe locali e di puro acrilico straniero, taniche e tinozze di plastica cinesi, cestini di vimini.
Poi, considerato che a mezzogiorno finiscono le messe nelle chiese e quindi c’è meno ressa, siamo andati vedere Bet Georgis, la più famosa, quella a forma di croce.
L’idea dei costruttori è stata effettivamente ottima, ed il risultato notevolmente spettacolare: hanno dapprima scavato un fossato perimetrale a forma di croce molto profondo, e poi hanno lavorato la parte interna.
Peccato che oggi l’interno sia funestato da bruttissime luci al neon, che eliminano l’effetto della luce naturale proveniente dalle finestre, e da stoffe appese di pessima fattura.
Le altre chiese, tutte scavate nella roccia per non farle vedere da lontano durante le invasioni dei dervisci sudanesi, non sono poi così suggestive, nonostante la loro particolarità, e sono tutte accomunate dalle luci al neon, dallo sporco (i tappeti sono molto, ma molto pulciosi), dai molti pellegrini che baciano devotamente soglie e pareti.
Tutte le chiese, con l’esclusione di Bet Georgis, hanno impalcature esterne che rovinano l’effetto scenografico, e sono coperte da orrendi tetti in lamiera.
Ma quello che rende maggiormente perplessi è lo sporco puzzolente che regna ovunque: d’accordo che ci sono migliaia di pellegrini e che da qualche parte dovranno pur fare i loro bisogni, ma qui ci sono escrementi umani dovunque, e sono molti a pisciare in mezzo alla strada come se nulla fosse.
Se si aggiunge il polverone alzato dal vento e la quantità di mendicanti, la situazione è peggiore di qualunque posto abbia visitato, India inclusa.
Al ritorno in albergo, la doccia è stata obbligatoria, insieme al lancio nel cestino dei rifiuti dei calzini indossati per la visita alle chiese.
Ci siamo fatti cambiare la stanza con una più grande che si era nel frattempo liberata, sempre senza bagno ma almeno a 150 birr.
La nostra vecchia stanza è stata data ad un ragazzo veneto che avevamo incontrato ad Addis Abeba, per 80 birr.
Cena al Chez Louise, segnalatoci da una coppia di italiani incontrati ad Axum.
Dopo tutti questi giorni di injera e wat, mi sono concesso una pizza al pomodoro e formaggio: ovviamente in Italia il pizzettaro che avesse proposto al pubblico quel che ho mangiato stasera sarebbe stato crocefisso, ma almeno ho cambiato sapore.
Mille, 8 gennaio Partiti da Lalibela alle 7, abbiamo potuto osservare il panorama che offriva la strada fatta al buio all’andata.
Nello scendere verso Woldia uno dei vetusti copertoni della jeep ha ceduto, con un grosso foro sul battistrada ormai inconsistente.
Manco a dirlo, il cric in dotazione non era adatto, e siamo riusciti a sostituire la ruota solo con l’intervento di un’altra jeep di passaggio.
Pranzato a Woldia, abbiamo preso la strada per Mille, sulla quale scorre tutto il traffico di mezzi pesanti che va da Gibuti verso Makallè.
“Una strada nuova, molto buona”, aveva affermato Elias, e ci ritroviamo sull’ennesimo sterrato, seppur tutto dritto in mezzo alla parte meridionale del deserto della Dancalia.
Gli Afar che lo popolano girano vestiti con una sorta di pareo gli uomini, e con vestiti coloratissimi le donne; gli uni sono armati di fucile mitragliatore e – a volte – di sciabolone, le altre di un’impenetrabile ed altera bellezza.
Lungo la strada, scimmie, cammelli, e tanta, tanta polvere alzata dai camion di passaggio: ormai la mano destra presenta quasi dei calli nei punti in cui struscia – da chilometri e chilometri – sulla tappezzeria della portiera quando devo chiudere di fretta il finestrino.
Sta di fatto che verso le 17,30 siamo arrivati a Mille, con una marmitta persa per la via ed un faro cadente: anche la nostra Land Cruiser comincia ad averne abbastanza.
La Lonely Planet indica un unico albergo, il Park Hotel: “è pulito e ha un discreto ristorante”.
Non conosco i gusti dell’autore di questa guida, ma il posto offre delle minuscole stanzette dai vetri rotti e dalle zanzariere lacerate, ognuna con uno stanzino microscopico e maleodorante nel quale convivono – una sopra l’altro – una doccia ed un buco nel pavimento che funge da cesso alla turca, il tutto per 40 birr.
Per 20 birr, invece, ci consentono di piantare la tenda nel cortile-aia ove vediamo polli, capre ed un somaro, e di utilizzare lo splendido servizio igienico sopra descritto.
Il ristorante è covo di camionisti di passaggio e di puttane, che tracannano birra ascoltando pop locale a volume strappa speaker, ma il cibo non è male.
Harar, 9 gennaio All’alba ripieghiamo la tenda e, senza neanche lavarci i denti, fuggiamo verso Harar.
Finalmente la strada è di puro, bellissimo asfalto! Passiamo attraverso il parco nazionale Yangudi-Rassa, e dalla jeep vediamo marabù, scimmie, struzzi, uccelli di varie dimensioni e specie, tutto in un territorio arido e desolato, dove degli Afar spuntano ogni tanto dal nulla per recarsi in un altro nulla, magari distante chilometri.
Entriamo pure a Gedamyto, un villaggio di contrabbandieri somali, dato che Elias cerca un lettore CD portatile, e ci portano in un paio di baracche dove c’è accatastato di tutto: lettori DVD, televisori, ricevitori satellitari, autoradio, phon, pile, e chi più ne ha ne metta! Curioso come, in un Paese dove non si butta niente e si ricicla tutto, e dove infatti non si trovano molti rifiuti per strada, qui si possano all’improvviso vedere svolazzare centinaia di sacchetti di plastica colorati: ma io, forte dell’esperienza in Yemen lo scorso anno, conosco già il motivo.
Nella zona si mastica il qat (che qui si chiama chat), che viene venduto – per l’appunto – nei suddetti sacchetti, che poi vengono abbandonati per strada.
Lungo la strada posso infatti vedere le numerose coltivazioni, che qui sono in filari più bassi di quelli yemeniti, ma più numerosi.
Il percorso oggi è molto lungo, circa 600 km, e dalla pianura di Mille si inerpica tra le montagne, fino a raggiungere un passo a 3.122 metri e poi ridiscendere.
Harar si trova a 1.860 metri, è giorno di mercato, e c’è quindi per strada parecchio casino.
Per giunta, l’Hotel Belayneh (che abbiamo scelto anche se abbastanza caro, 138 birr a notte, dopo lo “shock” di Mille) si trova proprio davanti al c.D. “mercato cristiano”, appena fuori le mura della città vecchia, e la jeep avanza facendosi a fatica spazio tra folla, bancarelle, ed animali vari.
Nell’albergo non vi è traccia di telefono e TV nelle stanze come invece riportato dalla Lonely Planet, l’acqua è poca e razionata dalle 6 alle 8 e dalle 18 alle 22, ma almeno la stanza appare decentemente pulita e spaziosa.
Abbiamo fatto un rapido giro per il mercato e poi siamo rientrati per la cena – abbastanza buona – nell’albergo, al prezzo di 44 birr.
Harar, 10 gennaio Oggi è un giorno festivo per i musulmani (una festa particolare, dato che non è nemmeno venerdì), e tutti i negozi della città sono chiusi.
La gente, vestita più o meno a festa, se ne va in giro sulla strada principale, ma l’effetto dato dalle botteghe chiuse non è piacevole.
Harar è decisamente “sgarrupata”: le case sono ridotte molto male, e le stradine hanno un alto tasso di sporcizia; certo, il fatto dei negozi chiusi non aiuta nella valutazione, ma non credo che la loro apertura comporti strade meno sudice.
Alcune abitazioni mostrano i segni di un fasto remoto, e tra esse spiccano la casa di Ras Tafari, ove il Negus Haile Salassie passò la sua luna di miele, e quella – presunta – di Rimbaud, restaurata e molto bella.
Quest’ultima è una sorta di museo, pieno di fotografie dell’Harar dei “bei tempi” (che appariva di gran lunga migliore rispetto ai nostri giorni), e di citazioni del poeta francese che dimorò in città per un certo periodo.
Prima di cena siamo andati a vedere una delle attrazioni della città, ovvero il pasto delle iene: le simpatiche bestiole sono oramai abituate a ricevere cibo ad una certa ora, e si presentano puntuali.
Un tizio con della carne in un cesto le chiama, e le nutre mettendo la cane su di un bastoncino: anche io mi sono cimentato, e hanno mangiato come dei cagnolini.
Sarà una cosa turistica, ma l’ho trovata divertente.
Cena ancora in albergo ma stavolta, anziché il robusto (ancorché ottimo) piatto nazionale etiopico di ieri sera, mi sono limitato a fettina con patate e carote.
Stasera la tipa ha fatto fuori una blatta di 10 centimetri che andava a zonzo per la stanza: meno male che il Balayneh è uno dei due migliori alberghi di Harar! Addis Abeba, 11 gennaio Si chiude il giro: oggi siamo ripartiti per la capitale, dove domani ci dedicheremo allo shopping (anche perché nei giorni passati non è che abbiamo trovato roba interessante da acquistare).
Abbiamo ripercorso la stessa strada fino all’incrocio per Mille, dopodiché siamo transitati attraverso il parco nazionale di Awash; in un tratto il terreno è lavico, tutto nero tra ex vulcani oramai ridotti a collinette.
Ci siamo anche fermati a bere qualcosa a Debre Zeyit, in un albergo con terrazza che dà sul Lago Bishoftu, la cui vista è definita dalla Lonely Planet “suggestiva”: evidentemente l’autore non deve avere le idee molto chiare su cosa significhi “suggestivo”… Fatto sta che verso le 17 siamo arrivati al Baro Hotel di Addis Abeba, dove stavolta ci hanno dato una buona stanza, grande e con acqua calda a volontà.
Per la cena ci concediamo un buon ristorante italiano, il Don Vito, dove paghiamo due ottime pizze, un’acqua e una birra 94 birr, ma con tanto di tovaglia, tovaglioli e pavimento pulito.
E già, perché finora, con l’eccezione del Belayneh ad Harar, dove forniscono un microscopico quanto inutile pezzetto di carta velina, nessun ristorante ha dato un tovagliolo, dato che si usa lavarsi le mani prima e dopo, rimanendo oltremodo unti nel mentre (in Etiopia si mangia con le mani, niente posate a tavola!).
Addis Abeba, 12 gennaio Oggi giornata dedicata a shopping e relax.
Avendo ancora a disposizione Elias, visto che siamo tornati ad Addis Abeba con un giorno d’anticipo rispetto al programmai iniziale, ci siamo fatti accompagnare in giro per la città per i consueti acquisti: non che ci sia molto da comprare, invero, e perfino le cartoline sono orrende a tal punto che stavolta non so se ne manderò.
Mangiato a pranzo il solito ananas, ce ne siamo andati – crepi l’avarizia – a trascorrere qualche ora alla piscina termale dell’Hotel Hilton (ingresso 75 birr a testa).
Devo ammettere che non mi trovo molto a mio agio in queste “riserve per privilegiati”, soprattutto dopo aver girato per parecchio tempo tra la gente del “mondo reale”; intorno alla piscina ho visto bianchi e neri, hostess magre e matrone grasse, bambini caciaroni (imbattibili gli italiani, naturalmente) e fighetti con l’iPOD.
L’acqua è quasi rovente, e mi sono fatto svariate vasche per svegliare i (pochi!) muscoli intorpiditi da ore ed ore di jeep.
In giro per l’albergo anche diversi appartenenti alle più svariate organizzazioni “umanitarie”, tanto ma tanto lontani dalla gente cui dovrebbero portare ausilio (d’altronde, basta pensare che almeno l’80% delle somme a disposizione delle grosse organizzazioni delle Nazioni Unite serve solo a finanziare il proprio personale, che certo non si accontenta di alloggiare alla “Pensione Rosina” e di mangiare dove mangiano tutti…).
Fatti i conti dei birr rimasti, decidiamo di cenare ancora al Don Vito: è finita, domani si riparte.
*** *** *** Che dire dell’Etiopia? Io non ho visitato la parte meridionale, quella che forse attrae di più i patiti della natura (grandi laghi con coccodrilli ed ippopotami) e dell’etnologia (tribù), proprio perché non sono mai stato interessato a tali argomenti, mentre ho preferito la parte settentrionale, più ricca di elementi storici ed architettonici.
A dire il vero, pensavo di trovare di più e meglio.
È vero che non sono riuscito a vedere il monastero di Narga Selassie sul lago Tana e quello di Debre Damo nel Tigrai ma, visto il resto, non credo che tali due siti possano rappresentare qualcosa di straordinario.
Mi è piaciuta molto la chiesa di Abuna Yemata Guh, anche e soprattutto per l’ascesa sulla rupe che occorre fare per vederla, mentre mi hanno deluso non poco Axum (d’altronde, ciò che potrebbe interessare è ancora nascosto sotto terra) e Gondar, e anche Harar si è rivelata poco attraente, per non parlare di Addis Abeba.
Lalibela è un altro discorso: ho fatto di tutto per andarci il giorno del natale copto, ma lo stesso hanno fatto migliaia di copti, il che ha significato vederla al massimo dell’affollamento, della sporcizia e della puzza e, in ogni caso, le chiese sono tenute veramente male.
E allora? E allora, stranamente, sono stati proprio i panorami che più mi sono piaciuti, e mi hanno distratto durante i lunghi trasferimenti sulle strade polverose e gratificato durante il breve trekking nel parco dei monti Simien: le montagne dalle strane forme, le gole, i colori cangianti con cambiare della luce.
La tanto incensata (nei vari racconti di viaggio) gente etiope è sì gentile e non ti guarda con ostilità come può avvenire in altri Paesi africani, ma spesso colpisce il fatto che sia più frequente la richiesta di denaro qui che non in India.
I bambini, soprattutto, che studiano tutti inglese, imparano ancor prima della presentazione “my name is..”, la richiesta “give me…”, seguita da “pen”, birr”, o… da niente: “dammi” e basta.
Ci è stato detto di non dare loro nulla, perché altrimenti avrebbero uno shock culturale che li porterebbe ad abbandonare la scuola e stare tutto il giorno a mendicare appresso ai turisti, ma già lo sapevo da me: d’altronde, la mia politica è sempre stata quella che “se dai a uno, devi dare a tutti, e se dai a tutti alla fine sei tu a dover chiedere”, per cui mi sono limitato a regalare qualche maglietta in un paesino montano, e scegliendo rigorosamente, tra i bambini, quelli che NON chiedevano (e spesso erano quelli senza scarpe e con i vestiti più laceri).
In generale, l’impressione è stata di un popolo con un tasso di evoluzione molto scarso, probabilmente dovuto alla scarsa istruzione che c’è stata per anni e che ancora perdura, seppure mitigata dalla numerose scuole aperte nei villaggi: non c’è tecnologia (pressoché inesistenti i computers) e non c’è chi la sappia far funzionare.
Le strade sono state fatte dagli italiani 70 anni fa, e così sono rimaste (le poche rimesse a nuovo sono merito di ingegneri cinesi o giapponesi), i termini tecnici sono in gran parte ancora italiani, perché la tecnologia è stata conosciuta solo a partire dal 1936, e particolare impressione ha destato il mancato uso della ruota: tutti portano la roba sulla testa o sulla schiena, e solo in un paesino sulla strada per Harar abbiamo visto dei bimbetti (l’evoluzione della specie!) che avevano costruito dei rudimentali carretti per trasportare le taniche d’acqua.
Con poche eccezioni, gli uomini sanno tutto dei campionati di calcio europei, ma poi ti chiedono se in Italia abbiamo leoni e iene, e se le nostre strade sono asfaltate: in realtà, calcio a parte, non hanno la minima cognizione di cosa ci sia al di là della frontiera e, spesso, nemmeno cosa ci sia al di là della fine del loro paesino.
Spesso ho avuto l’impressione di trovare qui quello che frega tutta l’Africa non mediterranea: la carenza di istruzione, in primo luogo, e poi il fancazzismo che porta a cercare di campare con il minimo sforzo.
L’assistenzialismo messo in atto da parte del “mondo civilizzato”, in un simile contesto, è totalmente inutile, perché (come nel nostro meridione con l’istituzione della famigerata Cassa del Mezzogiorno) abitua la gente a farsi risolvere i problemi da qualcun altro.
E pensare che sotto Menghistu l’Etiopia aveva addirittura l’esercito più potente e fornito a sud del Sahara, ma anche in questo caso perché qualcuno forniva fondi, tecnici e materiali: una volta che se ne sono andati i russi, tutto è rimasto ad arrugginire.
*** *** *** LE “DRITTE”…
Guida consigliata – La Lonely Planet ha mantenuto i suoi standards (ovvero è indispensabile), ma spesso perde colpi, soprattutto per quanto attiene la qualità degli alloggi: certo che se a scriverla è uno abituato a dormire nei porcili i parametri cambiano… Cambio – Abbiamo cambiato 300 euro per uno, per un viaggio di 19 giorni (ma la jeep l’abbiamo pagata in euro); 1 euro=10 birr.
Prenotazioni – Ho prenotato solo il Baro Hotel di Addis Abeba per telefono (l’e-mail non funzionava: siccome tutti i numeri di telefono sull’edizione 2004 della Lonely Planet sono cambiati, per conoscere i nuovi occorre andare sul sito www.Telecom.Net.Et, dove c’è una pagina apposita per convertire i vecchi numeri in quelli aggiornati)..
Strade – Nei cinque anni di dominazione italiana sono stati costruiti 3.600 km di strade, per lo più in posti assolutamente impervi: dopo 70 anni, le strade sono rimaste quelle, esclusione fatta per quelle che collegano Addis Abeba con Gibuti, che sono dritte ed asfaltate (ma in quella zona è facile fare strade).
Trasporti – C’era chi girava con i mezzi pubblici, ma con i relativi disagi dovuti agli orari ed ai frequenti guasti.
Gli alloggi Addis Abeba – Il Baro Hotel ha delle stanze buone (che danno sul cortile, 90 birr) e delle pessime (che danno su di un corridoio e sono spesso utilizzate “ad ore”, con tanto di preservativi già sul comodino, 80 birr); ovviamente, nessuno ci ha rifatto la stanza.
Bahar Dar – Il Ghion Hotel è abbastanza buono (100 birr dopo trattativa), anche se l’acqua calda che veniva dalla doccia era veramente un filo; bel giardino in riva al lago Tana.
Gondar – L’Hotel Simien Park (100 birr, trattare anche qui), nella parte settentrionale della città, è nuovo, e la doccia è stata tra le migliori: stanze un po’ piccole.
Simien Mountains National Park – Meglio campeggiare a Chenek che a Sankaber; c’è un casotto di cemento con un buco per terra come bagno (scordatevi la luce elettrica), e una pompa fornisce l’acqua (ghiacciata!) dalla sorgente; coprirsi bene, il posto è a 3.600 metri e di notte si gela.
Axum – L’Africa Hotel (50 birr) non è male, il gestore è molto simpatico, acqua calda un po’ limitata, ma il rapporto prezzo/qualità è eccellente.
Wukro – La Lwam Pension (50 birr) è l’unica opzione accettabile, per lo meno perché è nuovissima: si trova proprio dietro l’ufficio del turismo del Tigrai (all’altezza della stazione dei pullman e del distributore Total, dall’altro lato della strada).
Lalibela – L’Asheten Hotel (prezzo da concordare) ha diverse stanze con UN SOLO bagno in comune, il che significa acqua calda se avanza e disponibilità molto limitata; non ho visto le stanze con bagno, il ristorante non è un granchè, ma credo che il livello generale di Lalibela sia molto basso.
Mille – Solo perché dovevamo dormire da qualche parte nella tappa di trasferimento… il Park Hotel, unico citato dalla Lonely Planet, offre a 40 birr stanze piccole e sudice con “bagni” infrequentabili; per 20 birr abbiamo preferito mettere la tenda nel cortile.
Harar – Dopo Mille, spendere qualche birr in più ci è sembrato opportuno; il Belayneh Hotel (138 birr) in fin dei conti non è male, e il ristorante è buono.
BUON VIAGGIO!!! (Il diario di viaggio con le foto su www.Alessandroscarano.Com)!