Esperienze di vita a Giacarta

Un mese tra Giava e Bali in treno, autobus, scooter, opelet, becak e ojek
Scritto da: casimiromule
esperienze di vita a giacarta
Partenza il: 25/07/2011
Ritorno il: 25/08/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €
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“Assalam aleikum” mi dicono.

“Wa aleika assalam!” rispondo.

Si avvicinano, mi alzo, porgo loro le braccia tese che afferrano calorosamente e si inchinano avvicinando le labbra alle mie mani come facciamo noi cattolici al cospetto di un vescovo, nell’atto di rispetto, come a volergli baciare le mani.

Non sono di certo diventato dall’oggi al domani un pio musulmano oggetto di rispetto e devozione, ma sono in compagnia di Sharif al Habsyi e la gente che lo saluta calorosamente, saluta anche me con lo stesso rispetto, poiché sono seduto con lui e sono suo ospite nel pieno svolgimento di una festa musulmana.

Si festeggia il centocinquantenario dalla morte di Habib Abdurrahman bin Abdullah al Habsyi, e Sharif è un suo pronipote.

Di tanto in tanto ci alziamo quando il coro di voci canta “Mohammadun Rasul Illah” innalzando al cielo le lodi di Maometto profeta di Allah.

Sharif mi si rivolge in buon inglese al di sopra degli standard indonesiani. 58 anni, bassino, con dei tratti somatici che rivelano qualche antenato della penisola arabica, per cui gli occhi sono meno a mandorla di quelli di un indonesiano standard, Sharif mi parla della sua esperienza di un anno in Germania.

“L’azienda per la quale lavoro mi ha offerto un corso di specializzazione in Germania per imparare a sviluppare dei software da applicare alle macchine che utilizziamo in azienda e così sono rimasto lì per un anno ed ho perfezionato il mio inglese!” mi dice.

“Ma come mai non hai imparato il tedesco?” gli chiedo.

“Perché la lingua utilizzata nel corso era l’inglese” mi risponde con assoluto candore, come se fosse assolutamente naturale vivere in un posto per un anno e non assimilarne la lingua.

Ci alziamo durante un altro canto religioso e allarghiamo le braccia con i palmi ben aperti come facciamo noi cattolici quando recitiamo il Padre Nostro. Nonostante facciamo parte di due religioni diverse, colgo una gestualità a volte similare e degli atteggiamenti che ho riscontrato nella chiesa evangelica, dove la preghiera viene inframmezzata da canti intonati con estremo coinvolgimento emotivo.

“Noi musulmani indonesiani siamo molto tolleranti, non siamo certo dei fondamentalisti! Non facciamo la guerra a nessuno e non combattiamo nessuno, però se ci attaccano reagiamo!”

“Sai invece cosa ci ha insegnato Gesù Cristo che voi considerate uno dei vostri profeti?” gli dico.

“Cosa?” mi chiede con curiosità.

“Se qualcuno ti colpisce, porgi l’altra guancia” gli rispondo.

“Certo, qui siamo tolleranti, ma questo concetto non fa parte della nostra cultura, mi sembra troppo da deboli, e la religione è troppo importante per poter essere messa a repentaglio da un tale modo di concepire le cose!…” mi dice con tono deciso “…se ci si arrende al nemico senza resistergli, si agisce contro la propria religione che giorno dopo giorno perderà terreno! Bisogna difenderla dagli attacchi degli infedeli e portare la propria professione di fede agli altri per fare proseliti e cantare le lodi di Allah!”

Le osservazioni di Sharif mi fanno comprendere perché l’Islam partendo dalla dimenticata penisola arabica si è diffuso a macchia d’olio in tutto il nord africa a occidente, mentre a oriente attraverso l’espansione persiana è arrivato fino in India, per poi espandersi ulteriormente in Malaysia e in Indonesia grazie anche ai contatti commerciali dei mercanti arabi con gli abitanti delle isole delle spezie.

Il Buddismo, l’Induismo e l’animismo che dominavano l’arcipelago indonesiano hanno perso gradualmente mordente tra la gente a favore dell’Islam, più attivo nel fare proseliti rispetto alle altre religioni. Solo i balinesi e una piccola comunità che vive a Giava vicino al vulcano Merapi professano ancora l’induismo.

Sharif mi chiede se voglio bere qualcosa ed io accetto del caffè. Chiama la moglie e le dice di portarci da bere. Quando si avvicina non posso fare a meno di pensare che sia un’egiziana, rotondetta, con le sopracciglia disegnate e con il naso lievemente arcuato dei mediorientali. Mi rivolgo a lei in arabo, pensando con certezza di parlare con un’egiziana, ma lei non capisce e allora mi viene in mente il vecchio proverbio: l’abito non fa il monaco.

Mi scuso della defaillance, ma Sharif mi dice che avevo visto bene e che lei effettivamente proviene da antenati yemeniti che sono migrati in Indonesia da sette generazioni e pur conservando ancora i tratti somatici originari hanno perso l’uso della lingua araba.

A proposito di defaillances penso ad un aneddoto raccontatomi a Londra da due ragazze torinesi che avendo incontrato un bel ragazzo di colore si erano dette ad alta voce “me lo scoperei quello lì!” credendo che lui non capisse, e si erano sentite rispondere di rimando con forte accento toscano “da sola o insieme alla tua amica?”.

Sharif mi dice che la cosa importante per gli uomini è quella di stare insieme e sentirsi fratelli anche se appartenenti a religioni diverse. Non posso fare a meno di condividere appieno e gli dico che la mia curiosità, sentendo dei canti religiosi di chiara origine islamica dal mio hotel, mi ha portato dritto alla loro festa, per poter partecipare a questa esperienza di comunione e integrazione.

“Il mio bisnonno era un pio musulmano, amato dai suoi correligionari per la sua saggezza e per i suoi insegnamenti basati sulla conoscenza approfondita del Corano ed è tuttora venerato perché la sua vita esemplare ha costituito una guida illuminata per la comunità musulmana di Jakarta. Nato a Palembang, nell’isola di Sumatra, già all’età di cinque anni salmodiava il Corano e a dieci anni fu mandato nell’Hadramaut, regione dello Yemen, per approfondire la religione islamica. Ritornato in Indonesia ha diffuso la dottrina islamica e la lingua araba … sai, conosceva anche l’inglese, l’olandese e il persiano! Tra gli eruditi era uno di quelli che chiacchierava poco, ma era sempre pronto a dare un consiglio e una parola di conforto specialmente ai poveri. È morto nel 1984 alla venerabile età di 94 anni. Il primo luglio dell’anno scorso, mentre degli operai stavano lavorando per spostare la sua tomba in un altro sito, è iniziata a zampillare dell’acqua e facendola analizzare abbiamo verificato che si tratta di acqua micro biologicamente pura, cosa alquanto strana in una metropoli inquinata e sporca come Jakarta!”

“Davvero!…” gli rispondo meravigliato, “… allora per voi questo è un evento miracoloso!”

“No! è sicuramente un fatto importante, ma non vogliamo glorificare l’acqua perché sarebbe contro i valori islamici. Anche Slamet Effendi Yusuf del Consiglio degli Ulema ha affermato che è sbagliato sostenere che l’acqua ha poteri curativi, ma nonostante ciò, la gente continua ad affluire alla tomba per bere l’acqua e sperare nel miracolo. Migliaia di persone sono già venute in pellegrinaggio addirittura da Kalimantan! Molte sono povere e non hanno i mezzi per permettersi le cure mediche, così si appigliano a questa forma di religiosità superstiziosa, sperando di risolvere i propri problemi”.

“Sai …” rispondo “… per noi cattolici i miracoli sono molto importanti e non tolgono nulla alla grandezza di Dio, anzi servono a ricordarci che i santi sono degli uomini con poteri eccezionali che provengono direttamente da Dio”.

A questo punto Sharif mi dice: “Allahu Akbar wa Mohammadun Rasul Illah …” cioè Dio è grande e Mohammed è il suo profeta “… e gli altri uomini sono solo dei comuni mortali! I Sufi credono molto nei miracoli, ma per noi loro non fanno parte dell’islam ortodosso, sono solo degli eretici! Associare qualcuno alla grandezza di Allah e adorarlo significa commettere shirq che è considerato un peccato tale da trasformare un credente in un miscredente! Prostrarsi dinanzi una tomba come fanno i Sufi è idolatria, il credente deve rivolgersi direttamente ad Allah!”

“Noi cattolici, invece, ci rivolgiamo spesso ai santi che con la loro vita esemplare rappresentano il cammino verso Dio, senza per questo sminuire la sua importanza” gli rispondo.

Sharif allora mi racconta un fatto di cronaca avvenuto nel piccolo villaggio di Kedungsari a Giava est, nel gennaio 2009: “Ponari, un ragazzino di 11 anni stava giocando, quando fu colpito da un fulmine che lo lasciò incosciente per qualche minuto. Quando i genitori lo soccorsero, gli trovarono in mano un piccolo ciottolo e lo gettarono via, ma l’indomani, inspiegabilmente ritrovarono il ciottolo sul tavolo di casa. Ponari usò il ciottolo per curare un vicino affetto da febbre molto alta, immergendolo nell’acqua che fece bere in seguito al suo vicino. Le sue presunte doti di guaritore si diffusero così in fretta che migliaia di persone affluirono al suo villaggio in cerca di guarigione. La calca che si creò davanti alla sua casa, causò addirittura la morte per schiacciamento di quattro persone. La polizia fu costretta a proibire le attività di Ponari e a denunciare i suoi genitori per sfruttamento minorile. Intanto Ponari diventò sempre più popolare nella comunità anche perché i genitori donarono 200 milioni di rupie indonesiane per la costruzione della locale moschea. Paradossalmente neanche i guaritori sono immuni da malattie e Ponari venne ricoverato in ospedale perché aveva contratto il tifo e … il ciottolo non gli è servito a nulla! Come vedi la superstizione prevale sul buon senso e quando Ponari è ritornato ormai guarito a casa propria, la processione di gente è ricominciata!”

Cominciamo a sgranocchiare dei kelengkeng, dei piccoli lychee gustosi e succosi, palline rotonde a polpa bianca e un gusto che ricorda le nespole, ma meno meno asprigni e continuiamo a chiacchierare, mentre la moglie di Sharif ad una certa distanza condivide i frutti con il nipote, un giovanetto di bell’aspetto, con un’aria di complicità che nella rigida cultura islamica non traspare nel rapporto marito-moglie che sembra improntato dal dominio da parte dell’uomo e all’asservimento da parte della donna.

Con questi pensieri saluto calorosamente i miei interlocutori e li ringrazio per l’accoglienza. Vado via, cercando Hassim per restituirgli il sarong, pareo che si avvolge attorno alla vita a mo’ di gonna e che arriva quasi fino ai piedi, ma non riesco ad individuarlo. Continuo a camminare ma eccolo che mi raggiunge. Gli porgo il sarong e il copricapo musulmano che mi aveva prontamente dato quando mi aveva visto arrivare in bermuda e camicia, poiché per rispetto dell’assemblea bisogna indossarli. Si riprende il sarong ma mi regala il copricapo e mi dice “Sharif appartiene ad una famiglia molto importante che discende direttamente dal Profeta Maometto, ecco perché lo teniamo in così alto conto. Sei stato fortunato ad incontrarlo e a conoscerlo!”

“Terima kasih” gli dico ringraziandolo per il regalo e mi concedo con l’arrivederci indonesiano “sampai jumpa lagi”, aggiungendo “inshallah”, se Dio lo vorrà, così caro ai musulmani del nord africa.

Tornato a casa, volendomi documentare sulla figura del bisnonno di Sharif: Habib Abdurrahman bin Abdullah al Habsyi leggo un fatto di cronaca avvenuto qualche mese fa. Il 14 marzo 2011 i due custodi della sua tomba si trovano coinvolti in una rissa con tre operai della PT Cempaka Wenang Jaya, società immobiliare incaricata di costruire un complesso di appartamenti nel sito dove si trova la tomba. I cinque, dopo l’intervento di 200 poliziotti vengono internati in ospedale a seguito delle ferite riportate da machete e altre armi da taglio. La tomba verrà rimossa e sistemata in altra sede o rimarrà dove è già da decenni? L’agenzia immobiliare proprietaria del terreno rinuncerà al suo progetto di costruire appartamenti nell’area o compenserà adeguatamente la comunità islamica per ottenere la traslazione delle spoglie del pio musulmano in altro luogo? Al momento sembra che le due parti non abbiano raggiunto nessun accordo.

Casimiro Mulè

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