En el Camino
12 giugno 2010 – h 7,15
Quale miglior momento per iniziare a scrivere che una frondosa ombra di quercia dopo una fresca e rilassata discesa… magari nella Rioja in mezzo ai vigneti con una bella limonata frizzante? Beh, di sicuro la situazione in cui sono ora è un po’ differente.
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Premetto: tutto è esperienza, tutto è meglio che “non esistere” o esistere ed essere un minatore cinese, però… Sono incastrato nel vano portabagagli del TGV da Parigi Montparnasse a Bayonne, di fianco ho la mia bicicletta smontata ed impacchettata e i miei due zaini (con caschetto appeso). Loro stanno più comodi. Io ho un piede per terra ed uno in aria ed il mio culo è solo per metà appoggiato all’inferriata porta-pacchi. Alla sinistra ho le latrine. Poco fa avevo un bel posto, ma è stato reclamato dai legittimi proprietari… Lo vedo ancora, è qui, davanti a me, ma non è più mio!
Sono appena partito, sono quasi le 7.30 e piove. Perché sono in questa situazione? Mi è stato detto che è per colpa di un default elettrico ad Antibes, che ha fatto patire in ritardo di un’ora e mezza il TGV Nizza – Paris Gare de Lyon e mi ha fatto perdere per un (o due) soffio (i) il notturno Parigi Gare de Austerlitz – Bayonne. Ora dovrei essere già là, mentre mi mancano ancora 5 ore per arrivare. Che ho fatto stanotte? Dormito! In un Novotel piuttosto confortevole, vicino alla Gare de Montparnasse [raggiunta con metropolitana (linee 5 e 6 con cambio in Piazza d’Italia)] pagato dall’SNCF. Unica spesa 1,60 euro di metrò. Ieri notte ho potuto farmi una bella doccia e stamattina fare un abbozzo di colazione in hotel: una bevanda al gusto di nesquik gentilmente anticipatami dai buoni albergatori (la colazione veniva servita dalle 6.30 ed erano circa le 6.15). La bicicletta e gli zaini pesano parecchio ma… 1) come dicevo, è peggio essere minatori cinesi, 2) non me l’ha ordinato nessuno…e questo alleggerisce il tutto non di poco, 3) alcuni dettagli, come l’attraversamento della Senna (su un ponte) o la vista della Tour Eiffel piuttosto da vicino, fanno pensare che gli sforzi inizino ad essere già ricompensati dalla bellezza e dalla magia del viaggio.
11 giugno 2010, ieri mattina, giorno della partenza
Sveglia alle 6.30. Colazione, barba, ultimi controlli, saluto Elena che esce prima di me per andare a lavorare (mentre io parto per la mia bella vacanzetta solitaria) ed alle 8.00 (circa) mi aspetta sotto casa Mario, che mi accompagnerà fino a Nizza.
Prendiamo il treno a Cornigliano circa alle 9.10, dopo 40 minuti di coda in corso Perrone. Dopo aver accumulato ritardo su ritardo, arriva a Ventimiglia stranamente in orario. Lì ci aspetta l’altro treno per Montecarlo, dove cambiamo ancora per Nizza raggiungendola in orario. Si mangia al Flunch a lato della stazione e aspettiamo i treni. Quello di Mario per Genova, dopo essere stato soppresso avrà, invece, solo qualche minuto di ritardo. Il mio (TGV Duplex da 320 km/h), segnalato nel tabellone senza ritardo, avrà, invece, il ritardo di cui sopra.
Mi sto accorgendo, pensando ai 320 km/h, che anche ora stiamo andando abbastanza di fretta. La campagna francese scivola all’indietro ad una velocità consistente, non come ieri, ma rispetto al locale Genova Principe – Pontedecimo, dal finestrino le cose si spostano in modo più interessante. Beh ieri un po’ diverso lo è stato. Passata Aix-en-Provance il treno ha iniziato ad emettere suoni simili alla nostra lavatrice quando si prepara per la centrifuga. Un sibilo che non capivo bene se venisse dal motore o dalle ruote… o dallo strisciamento del pantografo. Comunque aumentava sempre più di tonalità e quando già sembrava che il suono dovesse essere quello definitivo, dava ancora qualche accelerata ed arrivava ad una nota più alta… comunque siamo arrivati in ritardo!
Tornando alla cronaca, dopo aver cenato con muffin, barretta energetica e coca cola (sul TGV non mi sono azzardato a prendere altro) mi avvicino a Parigi ed iniziano ad arrivare SMS a raffica da Elena e Mario, lei per l’aereo del ritorno e lui per dare indicazioni su come arrivare alla Gare de Austerlitz (non così precise) e orari dei treni di domani, nonché il nome di un albergo economico per passare la notte.
Arrivo alla Gare de Lyon, passo la Senna ed arrivo alla Gare de Austerlitz (sul ponte, nella pioggerella parigina, vedo Notre Dame illuminata. In lontananza, ma non troppa). Alla stazione mi confermano il 3no per l’indomani (quello su cui sto viaggiando) e mi trovano l’alloggio… (2 ragazze che non sanno troppo bene l’inglese. Solamente 2 facchini, maschi, loro amici, mi hanno saputo dare informazioni in un inglese decente!) È circa ½ notte e arrivo all’albergo quasi all’una. Vedo nitida, nella pioggia, attraversando la strada tra stazione ed albergo, la Torre Eiffel, molto vicina. La rivedo anche stamattina, ma nella nebbia. Già che non piove la fotografo. Bene, ora sono in treno, è il 12 giugno 2010 e sono le 8,08. Proseguo per Bayonne e sembra che non piova più.
Riprendo a scrivere il 14 giugno 2010 – h 20,58 circa. Sono a Santo Domenico della Mulattiera o come dicono qui, Santo Domingo de la Calzada. Sono nell’albergue de los peregrinos, 5€ a notte e sto mangiando in modo frugale perché oggi ho un po’ ecceduto con il cibo… Ma andiamo con ordine… Anzi, no, con disordine: ho già bucato 2 volte la ruota dietro. La prima volta scendendo dall’Alto del Erro mi si è tagliato il copertone su una pietra. Dopo un paio di messe a punto sono riuscito a fargli fare quasi 100 km (poi l’ho cambiato). L’altra mi si è bucata oggi, arrivando a Najera. Senza questi disguidi sarei a Burgos, ma, vabbè, pensiamo ai minatori cinesi… e andiamo con ordine!
Eravamo rimasti al treno del 12 giugno. Dopo varie acrobazie per dormire nel portabagagli in basso (alto 40 cm) ho pensato bene di andare a fare colazione per passare un po’ il tempo. Alla fine a Bordeaux scendono quasi tutti e, finalmente, almeno per l’ultimo pezzo del viaggio, sono riuscito a dare una “patta” su un sedile.
Bayonne… Arrivato in orario alle 12 e (05?.. si mi pare). Alle 15,09 ho il pullman per Saint Jean Pied de Port, sostitutivo del treno, fermo fino a fine giugno per lavori sulla linea. Ho provato a chiedere in stazione se nel bus accettavano bici montate, tanto da non perdere tempo, ma nessuno mi ha saputo dire nulla. Così per 3 ore non ho fatto un picchio, tranne mangiare una baguette con formaggio e guardare un vagabondo che pranzava… Poi le bici le accettavano anche intere; che Santiago li fulmini!
Bayonne, dicevamo, passando col pullman sembra una città piuttosto bella, ma soprattutto è bello il tragitto per arrivare a SJPdP. E’ tutto molto verde, una tonalità quasi svizzera. Le casette, i boschi, i paesini e la gente sembrano quasi irreali. Si ha l’idea di percorrere la trama di qualche favola per bambini, non sarebbe stato poi così strano incontrare Hansel e Gretel o anche i fratelli Grimm in persona. Oltretutto la valle la giriamo per bene dato che faremo il doppio dei chilometri per raggiungere tutte le stazioni del treno. Nel frattempo dormo anche un po’!
Al paesetto ci arriviamo alle 17 meno qualcosa, con un po’ di ritardo, tanto per cambiare. Monto la bici nella stazione. La sfascio di tutta la porcheria che le avevo girato attorno e la vado a cacciare nei bidoni davanti alla stazione (la plastica, non la bici!). Cerco di fare un po’ di raccolta differenziata, ma i canoni lì sono un po’ particolari e alla fine, la maggior parte la caccio nel bidone generico. A mettere tutti i pezzi a posto ci passo una mezz’oretta. Finito, inizio subito a vagare a caso per il paese, cercando conchiglie e credenziali, facendo foto e godendomi un po’ l’inizio della mia epopea pellegrina.
Passo la Porta di Spagna e salgo, con parecchi scricchiolii della bici, in su per la via principale che è una salita immane. Vado all’associazione degli amici del pellegrino, quasi in cima, e mi prendo la mia bella credencial per 2€. Inoltre mi danno un sacco di foglietti con indicazioni di vario tipo, come la lista di tutti i cicloriparatori (loro amici), tabelle altimetriche e l’utilissima mappa del primo tratto del percorso, SJPdP – Roncesvaux. Parlo un po’ con loro sull’opportunità di fare o no la prima tappa in serata. Loro sono un po’ perplessi, mi dicono che, sì, dovrei anche farcela, ma gli leggo un bel punto interrogativo al di sopra della testa. Comunque mi dicono, in ogni caso, di passare dalla via carrabile. In bici, con il fango che c’è, quel tratto di Camino è impercorribile.
Sceso fino dalla Porta di Santiago, ed intenzionato ad intraprendere l’impresa vengo fermato dalla simpatica pioggia che ha iniziato a venire giù copiosamente. Un viandante mi consiglia di passare la notte in paese e mi convince definitivamente a partire l’indomani. Ritorno dagli amici del pellegrino dove aspetto un’oretta perché gli amichetti finiscano di mangiare e faccio qualche parola con un po’ di gente. Rimango assieme a 3 chicos sevillani che hanno affittato un pulmino, portato le bici a SJPdP, consegnato il furgone a Pamplona e ritornati col taxi… Molto professionali, sembrano, ma di non grossissime ambizioni: “a lo mejor mañana llegamos a Roncesvalles”… Io dico che ci sarebbero arrivati in un paio d’ore e un vecchietto aggiunge con molta ironia: “ma se ci arrivo io a piedi, anzi, vado anche oltre!”. Loro ci rimangono un po’ male. C’è un gruppo di brasiliani, o forse solo 2, non ho capito bene se un altro paio di persone fossero con loro.. Uno parla spagnolo, un paio di diversamente etero, piuttosto esibizionisti, assieme al vecchietto di prima (vecchietto… poi avrà 55 anni). Quando vanno a far pipì nel prato, l’attempato gli dice qualcosa sull’opportunità di orinare proprio lì e loro rispondono: “Por qué? Tienes miedo de algo? Tranquilo, que no tenemos ganas de na’!” …C’è un solitario che vuole partire in serata. Ormai sta facendosi buio, ma dice di voler piantare la tenda da qualche parte, prima che venga buio. A parte la (non troppo) apparente natura impavida, il personaggio è anche piuttosto scemotto. Fa discorsi sulla timbratura della credenziale e si preoccupa del valore dei timbri che mettono nei bar. Ha paura che alla fine gli possano dire che quelli non vanno bene per ricevere la Compostela (il certificato che attesta il pellegrinaggio per motivi spirituali).
Alla fine i Pilgrim’s Friends, la smettono di mangiare e tornano a lavorare. Noto che tra di loro c’è quello che mi ha consigliato di rimanere in paese… Bel volpone! Nell’ufficio mi danno alloggio e conchiglia a pettine, per la quale do anche un po’ di mancia, mentre gli altri le sottraevano tranquillamente. Mi indicano un albergue privato perché quello degli “amici” era pieno. Così vado alla più cara “Maison Esponda” (10,30€, ma riesco a non dare i 30 cent). In camera ho 2 tedeschi, uno parla un po’ di italiano ed è al II anno consecutivo che si scoppia il cammino. Mi dice anche che quello sarà l’unico albergue pulito e comodo, perché in Spagna sono più schifosi. Io penso che forse è per il fatto che qui inizia il cammino e negli altri ci si arriva con fango e fatica. Però quelli che vedo in seguito saranno posti pulitissimi e anche meglio organizzati di questo. Poi ci sono un padre ed un figlio inglesi, faccio qualche discorso con il padre.
Mi lavo, esco, giro un po’ per cercare un ristorantello economico e alla fine mangio una pizza Vesuvio da Silvio, il caro e vecchio Silvio (o meglio Silviò, essendo francese) che tra l’altro la fa molto bene. Torno all’albergue abbastanza presto e dormo.
13/06/2010. Sveglia poco dopo le 6, ma parto quasi alle 7.
Non faccio colazione pensando di farla in qualche bar in Spagna, che dista pochi km e potrei risparmiare qualcosa. Ma nella strada che porta all’Alto del Ibañeta, per 25 km è tutto chiuso, essendo domenica. Devo aspettare di arrivare a Roncisvalle per mangiare un paio di dolcetti e bere un po’ di latte e caffè. Nel frattempo bevo molta acqua e faccio scorpacciate di zucchero… 2 bustine.
Il passaggio della frontiera è alquanto bislacco. Infatti non entro in Spagna ma nel Regno di Navarra. L’orgoglio navarro sembra maggiore di quello nazionale Spagnolo ed i cartelli di frontiera mi danno solo l’indicazione regionale.
Pedalo in salita, senza sbattermi troppo, non vado né veloce, né lento. Faccio la carretera ed attorno ai tre quarti del percorso devio per un sentiero alternativo indicato con le frecce gialle del Camino de Santiago. In poco tempo sono in cima al passo. Non piove, anche se viene qualche goccia ogni tanto, ma in cima c’è abbastanza freddo e molta nebbia, siamo quasi a 1100 mt slm. Qui trovo una cappelletta montana con tetto spioventissimo e, a lato, un monticello pieno di croci che dà l’idea di un cimitero protestante in miniatura. Da qui inizia una lunghissima discesa che mi porterà fino a Pamplona.
Roncisvalle, un paio di km dopo il Puerto de Ibañeta, è un paese che non esiste, malgrado la ricca mitologia rolandesca. C’è solo il monastero, la Casa del Pellegrino ed un bar. Faccio qualche discorso con un gruppetto di spagnoli che si lamentano per l’acqua che hanno preso. Poco prima, nel bar, gli stessi avevano pagato un conto di più di 200 euro. Chissà poi per cosa?! Erano in 4 o forse 6, ma è un po’ inesplicabile dati i prezzi dei pernottamenti e delle colazioni lungo il Cammino. Saranno rimasti più giorni per la pioggia. Comunque poco importa, vado verso l’ ufficio informazioni del pellegrino, poco prima chiedo l’ora a due monache. Arrivo dalla porta, ma aprono alle 10; dovrei aspettare 20 minuti, ma mi servono solo un paio di conchiglie… Le prenderò più in là.
Scendendo, il tempo migliora ed il cammino si rivela fin dall’inizio piuttosto simpatico, passa per prati, boschetti e pascoli. Un paradiso. Spesso si incontrano dei cancelli di legno, da aprire e chiudersi dietro una volta passati per non far scappare le bestie. A volte te li ritrovi davanti a tradimento, dopo una curva o mezzi nascosti dalla vegetazione e per non finirci dentro si devono fare un po’ di peripezie… fisiche, per non parlare di quelle vocali.
Scendo dall’alto del Erro, dopo esserci salito per un sentierello pietroso. Come dicevo prima nella discesa mi si squarcia il copertone della ruota dietro, ma il bell’ambiente formato da posti incantevoli ed, in questo tratto, da molti pellegrini fiduciosi, non mi fanno innervosire più di tanto. Prima ho dimenticato di dire che sulla piazzola dell’alto dell’Erro mi è apparso Gesù, sotto le sembianze di un attempato ciclista che in un primo momento parlava al cellulare, una volta lasciate le microonde tecnologiche e ripresi i panni del messia mi ha detto che era meglio scendere per la “carretera”, perché in quel tratto il Camino è piuttosto brutto, non gli ho dato ascolto e, poco prima di Zubiri, una pietra appuntita mi si conficca nella ruota! Vedendo il copertone ho pensato il peggio ma l’atmosfera del viaggio, come dicevo prima, non mi faceva preoccupare più di tanto. I pellegrini a piedi che avevo sorpassato poco prima stavano, pian piano, ri-sorpassandomi tutti. Una donna sui 40 anni in bicicletta si ferma per vedere se ho bisogno di aiuto… “direi di no, ma grazie!” Riparo tutto alla meglio e parto, la ruota pare reggere.
Bene… Devo lavarmi i denti ed andare a dormire; finirò il resoconto in seguito (h 21,40)
Come dicevo 2 giorni fa (oggi è il 16/06/10 e sono le 9 di sera) dopo Gesù ho continuato per il camino tagliando copertoni e vedendo qualche paesetto. Mi fermo a Larrasoaña e smonto di nuovo la ruota della bici al lato del bel ponte d’accesso al paese. Taglio un pezzetto della cinghia di tela che tiene lo zaino legato al portapacchi e lo metto tra camera d’aria e copertone per non farla uscire dallo squarcio. Funziona e mi permette di proseguire piuttosto tranquillo. Mi fermo anche nel paese. Entro in chiesa, dove c’è messa. Esco e faccio qualche foto attorno. C’è qualche autoctono nella piazza e una bambina di 4 o 5 anni sembra guardarmi con ammirazione (chissà cosa può pensare un bambino di quell’età vedendosi tutti i giorni frotte di personaggi di tutto il mondo, che passano per il suo paese con zaini conchiglie e Bordones…?).
Quindici km prima di Pamplona ho preferito prendere la carretera per non abusare della solidità dei miei rammendi sul copertone. A Pamplona avrei sperato di ripararla ma in quanto Domenica, non se ne fa nulla, in compenso riesco a visitare abbastanza bene la città. Bella, devo dire che quello che avevo sentito dire su di lei è abbastanza fedele (cioè l’essere una delle città più “vivibili” d’Europa… poi non so se chi ci vive viva bene, ma l’impressione è che sia una tranquilla e funzionale cittadina). In periferia, arrivando, ho cercato per un po’ il Decathlon locale, ma di domenica lì sono chiusi anche loro. Più avanti, chiedendo indicazioni per raggiungere il centro, un vecchietto ha pensato che fossi catalano: “tienes la manera de hablar de ellos”, mi ha detto.
Arrivo dritto a la Plaza de Toros e mi introduco in città per un viale che, dopo aver girato sulla destra, mi conduce fino a la Plaza del Castillo, col suo cafè Iruña, il bar preferito da Emingway. (Furbetto lui. Ogni posto dove andava diceva che era il suo preferito!) Vago un po’ per i vicoli, arrivo alla Cattedrale che è in ristrutturazione e compro un po’ di cibo in un negozio cinese, ma compro prodotti spagnoli, jamon serrano, queso manchego, pane e l’internazionale XCola. Il lauto pasto l’ho consumato nella Plaza del Castillo (dove avevo lasciato la bici) in una panchina, dopo essermi intersecato con un gruppo di pseudo barboncelli della “tribù del perro” che chiedevano spiccioli.
Il tempo è un po’ incerto e fresco, ma tutto sommato piacevole. In seguito prendo la bici, stipo nel portapacchi lo zaino avvolto in borse di plastica e giro ancora un po’ per la città. Calle Mayor, chiesa di S. Lorenzo, la zona dell’encierro e la porta di Francia. Poi inizio a seguire le frecce gialle, passo accanto alle fortificazioni della Ciudadela ed attorno alle 17 esco dalla città, quasi dalla parte opposta rispetto alla porta. La periferia è molto bella da quella parte, ci sono molti parchi e l’uscita dalla città mi catapulta in una natura molto piacevole, con dolci e verdi collinette, tappezzate di campi di orzo e grano (riconoscibili in quest’epoca per il colore paglierino del grano e verde dell’orzo).
Da qui proseguo verso l’ignoto, non essendoci assolutamente paesi, case o strade all’orizzonte. Solo, in lontananza, le enormi pale eoliche dell’alto del Perdon, verso le quali mi porta il vecchio e ventoso “Camino”.
Arrivato in cima trovo le sagome del monumento ai pellegrini, un paio di uomini che maneggiano un aliante radiocomandato ed un tipo che dorme in macchina (in cima il cammino si incrocia con una stradella di campagna). L’atmosfera in cui pedalo, sia salendo che scendendo, è molto intima e solitaria. Incontro una pellegrina a piedi salendo ed una scendendo, o forse un paio. Il sole ha deciso di spuntare con un po’ più di consistenza e l’aria si intiepidisce un po’.
Passo per Obanos, mi fermo giusto il tempo per fare qualche foto alla chiesa di S. G. Battista e all’arco monumentale. Riparto ed arrivo a Puente de la Reina in pochi minuti. Entro nella cattedrale con la Croce Lignea, passo davanti alla chiesa di Santiago, dove pare esserci una festa divertente, ma chiedo agli autoctoni il perché di cotal giubileo e mi dicono che è un funerale. Arrivo al ponte faccio un po’ di foto e torno alla chiesa di Santiago, dove ormai è finita la divertente festa del trapasso. All’interno c’è una statua del santo in questione e gente che prega. Vado ancora verso il ponte e mi ributto nel cammino, per poi giungere, finalmente, dopo varie peripezie, a Cirauqui (che nell’antica lingua della zona vuol dire “nido di vipere”), dove dormirò in un hostal nella piazza della chiesa ancora per 10€, il doppio di quello che pagherò in seguito, ma è un bel posto.
In camera ho un paio di crucche che sembrano contente di vedere un giovincello di 37 anni nella loro camera, un 50enne un po’ grassoccio e la sua presunta moglie… e direi nessun altro. Letti a castello, io in basso e sopra nessuno. Faccio doccia, lavo e stendo un paio di cose, mangio gli avanzi del pranzo e mi butto a dormire, ma non dormo moltissimo, il 50enne russa come un trogolo intasato e ho caldo.
Il giorno dopo sveglia attorno alle 6,30. Faccio colazione nel baretto dell’hostal per 3€ con latte-e-caffè e torta della casa. C’è un po’ di gente, anche 2 messicani che però non hanno accento (o quasi). Il ragazzo del bar dice di aver fatto il cammino in bici l’anno prima e di trovarsi bene a fare l’hospitalero in quel luogo sperduto e, a quanto pare, popolato da vipere.
Parto, dimentico la borraccia nera sul muretto davanti all’hostal e vado in direzione di Estella (Lizarra in basco-navarrese). Uscendo dal paese si passa per una “calzada” romana e si attraversa un ponte, sempre di epoca romana, un po’ distrutto e con gli scaloni rotti. Lì c’è una cino-giapponese ed in inglese le do alcune nozioni di alta cultura classica, anche la sua reazione è stata di stile classico-orientale: ha iniziato a far foto a raffica al ponte. In questo punto il Camino è un po’ dispersivo e per eccesso di zelo, salto un’indicazione e passo per uno sterrato che mi porta in mezzo ai vigneti e mi fa allungare un po’ il percorso. Fortunatamente mi lancio in un discesone ed inizio a rivedere le frecce gialle mi che indicano il percorso giusto. Proseguo e vedo piuttosto di fretta i paesetti che seguono perché il mio compito è quello di arrivare a Estella e sostituire il copertone. Ma quando arrivo è un po’ presto ed aspetto che aprano i negozi girando a casaccio. Alla fine il ciclico che è segnato nel foglio degli Amici del Pellegrino di SJPdP è chiuso da molto tempo. Un altro, poco più avanti, è chiuso anche lui, ma, fortunatamente, uscendo dal paese ne trovo uno aperto, compro copertone, camera d’aria e una bottiglietta d’olio. Faccio il cambio (mettendo il copertone che era davanti, dietro e quello che ho comprato, da passeggio, davanti) e riparto. Sono le 10 e qualche minuto.
Nel frattempo ho avuto modo di vedere Estella, che si rivela un paesotto piuttosto interessante, ricco di storia e delle sue tracce lasciate nei secoli… Ponti, chiese, quartieri antichi, strade lastricate, collegiate… E chi più ne ha, più ne metta!
Riparto in direzione Logroño, dove sarei voluto arrivare il primo giorno, se non mi si fosse tagliato il copertone. Ma anche ora ho i miei problemi a raggiungerla. Infatti, per recuperare il tempo perduto con la ruota, decido di fare un bel pezzo per carretera (o strada provinciale), e a parte il monastero di Iratxe poco distante da Estella, con annessa la simpatica fontana da cui fuoriesce vino (da cui purtroppo non bevo per motivi interiori…!) e un’occhiatina a Los Arcos, dove la carretera si incontrava di nuovo col cammino, decido (confortato dalla cartellonistica) di prendere una strada che scende un po’ verso sud (anche se l’un po’ è solo nella mia testa), saltando la parte del Camino che passa per Viana. Così facendo allungo la strada di una 15na di chilometri, o almeno ho quell’impressione… Tuttavia passo per delle belle zone con ampi vigneti (benché la vinosa Rioja inizi poco prima di entrare a Logroño) ed immense tenute. Comunque il mio pensiero verte sul fatto che questo mio viaggio lo faccio nella completa libertà, non ho scadenze, né mete quotidiane. Mi muove solo la voglia di vedere cose nuove in autonomia, contando sulle mie esigue forze da povero essere umano e sulla mia volontà di andare avanti. Forse per me sono più le variazioni sul tema ad avere significato che il cammino canonizzato, anche perché ognuno ha il proprio camino, come dicono qui i miei compagni di viaggio sconosciuti, coi quali sento di condividere soprattutto l’idealità della ricerca. Anche se ci divide un po’ il “cosa” ricercare… O forse no.
Entro a Logroño passando per un bel ponte dove c’è un ufficio informazioni per i pellegrini e dove prendo mappe della città e della Rioja. Logroño la vedo un po’ di fretta. Vado alla Cattedrale nella Piazza del Mercato, La Iglesia de S. Maria de Palacio (dall’esterno) e qualcosa d’altro, così, di sfuggita. Poi esco dal centro storico e mi ritrovo in una piazza con fontana e palazzi moderni tutto attorno, vedo un ristorante della catena Crunch e mi ci infilo. Metto la bici dentro e mangio per 8,95 euro (insalata mista di primo, svizzera enorme + uovo al tegamino + verdura alla griglia + patate fritte di secondo, torta al formaggio + panna + sciroppo di lampone come dolce + PepsiCola).
Finito di mangiare riparto e da buon pellegrino seguo le frecce che mi fanno uscire dalla città. Il tracciato mi fa passare per un parco verdissimo dove, tra gli altri, incontro un pellegrino italiano che assomiglia un po’ a De Gregori da giovane. Faccio 4 chiacchiere con lui e riparto. In poco lascio il parco per entrare in un altro dall’aria più campestre; si passa per uno stradone sterrato con filari di cipressi ai lati che si snoda tra prati e campi coltivati, per arrivare fino ad un laghetto con pescatori e ponticelli di legno che attraversano gli immissari.
Passo per alcuni paesi: Navarrete, vedo i resti dell’hospital di S. Juan de Acre, Najera, Azofra e mi fermo a dormire a S. Domingo de la Calzada, donde cantó la gallina después de asada (…storia lunga e triste!) Najera è piuttosto bella, se ne può intuire l’antico ruolo di capitale della Rioja. Ha un fiume con un parchetto verde sugli argini, un bel ponticello ma soprattutto è piuttosto pulita e ben articolata. Prima di uscire dalla città vedo la collegiata di S. Maria la Real.
E’ già abbastanza tardi ma confido nelle mie forze. Mi avventuro per un cammino un po’ pietroso e dalle tonalità argillose, che parte salendo molto e che poi esce in un vallone verde intenso quasi disabitato.
Si passa Azofra e dopo un po’ di salita arrivo in un proto-paese che sembra nato attorno ad un campo da golf. Chiedo a due anzianotti se dista tanto Santo Domingo de la Calzada e mi dicono che non è lontanissimo ed è tutta discesa. Mi metto la giacca a vento perché inizia a fare un po’ freschino. Dopo qualche km si arriva alla conclusione della mia pedalata odierna. La giornata è sempre stata un po’ nuvolosetta, ma senza piogge e con bei contrasti cromatici.
Entro a Santo Domingo percorrendo la via centrale. Vorrei visitare la cattedrale per vedere niente-poco-di-meno-chè il Pollaio Gotico, con 2 galline vive all’interno, ma l’entrata in chiesa costa 3€ e da buon genovese mi rifiuto.
Giro un po’ per il paese. In un supermercato compro del batido di cioccolato, una mela, qualche biscotto e della gazzosa (proprio come oggi, quando scrivo, a parte la mela).
Dormo nel monastero dell’Annunciazione x 5€. Mi doccio e lavo un po’ di indumenti. Nel salone con il camino fortunatamente acceso (sono giorni di freddo porco!) stendo un po’ di cose e mi siedo in una delle lunghe tavolate semivuote. Mangio i biscotti con 2 dei 3 cartoncini di batido e nel frattempo scrivo anche un po’ di questo diario di bordo. Poi verso le 10 vado a letto, ma dormo un po’ così… La gente russa parecchio, però mi riposo abbastanza per affrontare la lunga giornata che mi attende.
Mi sveglio, finisco l’ultimo pacchetto di batido e mangio la mela. Parto e piove come tutto, ma vado imperterrito verso la meta. Sagome di pellegrini in umido sfilano silenziose lungo il cammino in mezzo alle case di Santo Domingo. Non incrocio nessuno in bicicletta, anche se nell’ostello dove ho dormito c’era qualche bici nello scantinato dove ho lasciato la mia. Penso che mi prenderò davvero tanta acqua, la bicicletta non perdona!
Poco prima di Redecilla del Camino lascio la Rioja per la Castilla y Leon. Entrando in paese mi fermo all’ufficio informazioni del pellegrino, timbro la credenziale e prendo la mappa della regione. Il pantano nel sentiero peggiora sempre più.
Mi fermo in un baretto a Espinoza del Camino per bere qualcosa ed andare al bagno. Ivi incontro un cagliaritano che cerca di interagire con me parlando spagnolo, mi dice: “mucho fango, mucho fango!” io rispondo che sono italiano anche io e che, sì, il fango è molto. Dice che non si vuol sporcare troppo e passerà per la strada asfaltata, ma lui è a piedi. Tutto sommato mi convince e passo anche io per la carretera.
Attraverso i monti dell’Oca per una strada piuttosto trafficata, ma grande e dotata di corsia d’emergenza di generose dimensioni. Pedalo sotto una pioggia battente che dà la sensazione di schiacciarti per terra e con un freddo porco addosso, soprattutto in discesa. Salendo incontro un vecchiardo di non so dove, con bici a rimorchio. Faccio quattro chiacchiere con lui ma non parla molto bene l’inglese, tantomeno lo spagnolo o l’italiano. Così lo lascio indietro nella pioggia e con l’idea di essere stato sorpassato in malo-modo da uno sconosciuto. Questo sarà il pensiero che mi girerà nella testa per un po’.
A metà della salita sorpasso 2 donne che avevo già incontrato in precedenza e che, come prima spingevano la bici, anche se nei due casi la salita non era poi così dura. Arrivo al punto più alto del valico, il Puerto de la Pedraja, a 1130 metri slm, ed inizio a scendere nel freddo più completo. Per riscaldarmi un po’ pedalo con rapporti corti e mi muovo molto, canto anche. In fondo, ad una 20na di km di distanza da Burgos, cerco disperatamente un luogo caldo e asciutto dove mangiare e scaldarmi, ma prendo il bivio per S. Juan de Ortega e nel primo paesetto che incontro non c’è nulla. Ibernato e col pensiero di ammalarmi e di non poter continuare il cammino mi viene l’idea di suonare a qualche campanello. Però poi desisto e con dispiacere lascio anche perdere l’idea di andare dal simpatico Sepolcro del Santo (Juan de Ortega), torno indietro e continuo verso Burgos. (Comunque ho una certa fortuna nella decisione: l’indomani leggo in un giornale che il giorno prima, il 15, si è inondato il sepolcro di San Juan de Ortega: sarei andato per nulla o peggio, per venire travolto dall’alluvione).
Trovo un baretto al lato sinistro della strada. L’interno puzza in modo schifoso di sigaro e di giocatori di carte (!). Mi faccio fare un latte-e-caffè ed un panino. Vado in bagno e al ritorno mi aspettano circa 60 cm di pane con 60 cm di jamon serrano ed altrettanti di formaggio. Malgrado l’ambiente schifosetto, che irrora anche la mia colazione di malodore, me lo mangio tutto e con gusto. Finito, ritorno al bagno per asciugarmi un po’ meglio. Esco e piove molto meno.
Mentre prendo la bicicletta mi passa davanti il vecchietto col rimorchio. Mi accodo a lui fino a Burgos e simpaticamente, entrando in città, mi accorgo che i rumori che sentivo già da un po’ dalla ruota dietro erano causati dalla rottura del perno centrale della ruota. (Ah, piccolo inciso, il giorno prima, il 14, attorno a Navarrete, mi si è di nuovo bucata la ruota dietro).
Ritornando alla III rottura di balle… Entro a Burgos speranzoso, ma i negozi aprono alle 16,30/17, così aspetto girando la città. Anche gli uffici turistici fanno la siesta ma in quello della piazza della cattedrale riesco a pinzare l’impiegata mentre sta uscendo. Me la gioco cercando di farle pena (ci riesco) e mi faccio dare una cartina della città. Non molto, ma qualcosa.
Sfogliando la mappa trovo la via dove c’è un negozio di biciclette: Calle del Carmen, abbastanza vicina. L’attesa comunque sarà lunga. Poco prima, nell’ufficio turistico più decentrato incontro una iraniano-olandese alla quale do alcune indicazioni. La ribecco nella piazza della cattedrale e mi offre un latte-e-caffè… Il 72esimo della giornata, credo! È iraniana, ma vive in Olanda e ha un fratello a Madrid. Arrivano dei vecchi olandesi che stanno girando la Spagna in tenda e si fermano a parlare con noi e poco dopo anche un inglese in bici, già incontrato in precedenza. Si fanno vari discorsi, ma l’inglese si rivela subito piuttosto narcisistello, facendo scemare il mio interesse per la conversazione. Decido di non sovraccaricare il mio sistema con traduzioni inutili e rispondo a casaccio.
Riesce ancora a venire qualche bello scroscio d’acqua, ma siamo sotto un gazebo e non infastidisce più di tanto. Arrivata l’ora, vado al negozio delle bici: x 33€ mi cambiano la ruota, anche se me ne vogliono rifilare una più costosa opto per quella economica. Mi dicono che devo aspettare un’ora, mi propongo per fare io il lavoro in modo da ridurre i tempi, ma non vogliono perché hanno paura che arrivino i controlli e che gli diano multe per avere lavoratori in nero. Idioz!
Passo l’ora girando per la città. Salgo al castello (che è poco più che un rudere) e noto, che al salire le scalinate del parco le mie gambe sono piuttosto toniche e rispondono molto bene. Zelante, abbozzo anche qualche corsetta. Scendo e vedo l’interno della cattedrale, perlomeno la zona (molto limitata) non a pagamento, poi torno verso il negozio.
Per andare nel bagno di un bar, faccio una colazioncina pomeridiana a base di tortilla e caffellatte (73esimo!) Lì vedo che gran parte dei “pinchos” sono a base di uova piuttosto piccole. Mi dice la barista che sono di codorniz (quaglia). Non vedo però tapas con il famoso Queso de Burgos (un ricotta un po’ più solida della nostra). Vado al negozio, prendo la bici e parto (qualche rumorino lo fa ancora!)
Scrivo il giorno 17/06/10, ore 10 di sera…
Bene, prima di parlare del dopo-Burgos parlo un po’ dell’ora (inteso come “adesso”). Sono ad Astorga, c’è Mio fratello in un albergo qui in città ed io sono in camera con 2 pellegrine, una di Modena ed una Giapponese. La prima ha iniziato il cammino a León, la seconda un po’ prima: a Nizza. Dice che è da metà aprile che scarpina. È un po’ esile ma non sembra troppo provata dall’impresa. Racconta di aver incontrato un paio di tedeschi (forse di Bergen, dice… quindi norvegesi) che hanno iniziato a Roma!
Invece… Burgos, 15 giugno. Esco dalla città passando per un viale con parchetto alberato al lato. Vado avanti e indietro un paio di volte xché non c’è traccia delle frecce gialle. Ma alla fine ritrovo il buon vecchio Camino che mi fa scivolare fuori dalla città e mi introduce nei campi, i soliti, di grano ed orzo, ma con una bella luce che illumina a chiazze di chiaroscuro le lievi colline che ondulano verso est la meseta centrale e mi fa fare tante belle foto/wallpaper da tappezzare il computer per centinaia di anni.
La serata va facendosi più tiepida e serena e si pedala piuttosto bene. Mi fermo ad una fonte in mezzo al nulla, con una pompa da pozzo piuttosto vecchia, ma con l’aria di erogare acqua potabile (leggo in seguito che si chiama Fonte di Praotorre). Mi avvicino scendendo per un sentiero. La fonte ha uno spazio per il riposo dei pellegrini; c’è un muretto a gradoni che la circonda e una panchina in muratura alla base del muretto. Infine una tettoia che ripara gli avventori dalle intemperie. Nella panchina, vicino alla pompa, ci sono accatastate alcune suppellettili pellegrine, un bordon (il bastone dei pellegrini), alcune scarpe, cappe per la pioggia ed un pezzo di nylon trasparente, assieme ad altri oggetti, apparentemente una mescola di ricordini assimilabili a spazzatura. Provo a pompare con la maniglia, ma non produce alcun effetto. Ci do più forte, ma continua a non uscire nulla. A quel punto da sotto al nylon spunta, prima, una mano, poi il resto del corpo di un uomo al quale si aggiunge la voce: “No, no, no… No se hace asì!”, non si fa così! L’individuo, dopo avermi leggermente spaventato con la sua manifestazione, mi dice che è lì da parecchio tempo e che quando ci si era stabilito non c’erano bottiglie per adescare l’acqua del pozzo (eh, che tempi quelli!) Sulla sinistra, infatti, ci sono 5 o 6 bottiglie di varie misure con dentro acqua un po’ torbida. Ne apro una e verso il suo contenuto di acqua e mosche morte dentro la pompa, aziono la maniglia e dopo un po’ esce l’acqua… Ovviamente ne faccio uscire parecchia prima di bere.
Ringrazio e saluto il personaggio e riprendo il cammino. Penso all’individuo e mi immagino storie di clochard che vivono la loro vita da un paese all’altro percorrendo avanti e indietro, all’infinito, il Camino de Santiago. Immerso in questi fervidi pensieri, arrivo ad un bivio che mi dà l’opzione di continuare o di dirigermi verso un albergue alla sinistra del Camino. I pensieri vagabondi del momento mi fanno scegliere di lasciare il cammino ed andare al fantomatico “albergue de la izquierda”. Arrivo, così, al simpatico e sperduto Albergue de San Bol, ad un centinaio di metri dal Camino in una stradina che si intrufola nel territorio del comune di Iglesias (ma non siamo nel Sulcis).
Il posto è stupendo, in mezzo al verde, con un trogolo, una tavolata e molti alberi nel prato/giardino che degrada in una leggera discesa davanti alla terrazza dell’ostello. La costruzione è piuttosto strana, si ispira ad una baita di montagna ma ha una cupola in cemento che le dà un po’ l’aria di un trullo pugliese. Dall’interno, si nota una finestrella proprio al centro della cupola, al di sopra del tavolo da pranzo. L’hospitalero pare una brava persona. Insiste per darmi della paella, alla fine accetto e divoro anche gli ultimi pezzi rimasti di queso manchego, un formaggio simile al pecorino sardo, che accompagno con un pezzo di pane (pagherò 5€ per dormire e ne aggiungerò un paio di “mancetta” per cena e colazione).
Mi faccio la doccia, lavo e stendo un paio di cose nella corda in fondo al prato e vado a dormire. Di notte tolgono completamente la corrente, quindi non si possono caricare cellulari o fotocamere. L’hospitalero se ne va, dicendo che l’ultimo ad uscire deve portare le chiavi all’unico negozio di Hontanas, il paese successivo, lungo il cammino. Una volta a letto c’è una certa tranquillità, che dura poco, un ragazzo e una ragazza (svedese e moldava) iniziano parlarsi (in inglese) ridendo come dei disperati, nessuno gli dice nulla… Io mi addormento lo stesso.
16 giugno 2010… Ossia ieri (rispetto a quando scrivo)
Piove, tanto per cambiare! Se ne vanno tutti. Nell’albergue de San Bol rimaniamo io e la coppietta svedeso-moldava.
Facciamo colazione. C’è una chitarrina, la suonicchio timidamente per qualche secondo e la ripongo. I due si offrono di chiudere e portare la chiave, forse in cerca di un po’ di intimità, merce preziosa lungo il Camino de Santiago e, tutto sommato, io sarei arrivato al paese troppo presto, in bicicletta, avrei rischiato di dover aspettare l’apertura del negozietto.
Parto sotto la pioggia mettendomi un paio di sacchetti ai piedi ma me li tolgo subito perché si impigliano alla catena. Vado avanti e passo Hontanas. Proseguo nella pioggia, il cammino esce per qualche km nella strada asfaltata dove in breve incontro i ruderi del convento di S. Anton, a suo tempo famoso per curare il fuoco di Sant’Antonio, appunto.
A questo punto, rivoluziono un po’ quello che ho scritto negli appunti di viaggio… o meglio riscrivo le stesse cose, ma in ordine cronologico (ndr 29.06.2010).
Passo per Castrojeriz, paese dalla silhouette inconfondibile per via del monte a cono alle sue spalle che sfoggia le rovine del vecchio castello. Entrando in paese, prima di arrivare al nucleo di case, si incontra la collegiata di S. Maria del Manzano. Si passa per la via centrale un po’ in costa, dove le case si inerpicano in duplice filar abbracciando il cammino che qui si fa lastricato. All’uscita, dopo uno svincolo d’asfalto, si ritorna al sentiero, che si può percorrere per un ponte alto ½ metro, un po’ senza senso o per un comodo sterrato che gli passa a lato. Opto per il secondo. Al ricongiungersi dei due tracciati inizia una bella salitina da fare col rapporto più corto e a passo d’uomo. La salita è ripidissima e melmosa, ma la ruota dietro non scivola per via del peso dello zaino nel portapacchi. Continua a piovere e seguo le orme che ha lasciato un ciclista prima di me.
In cima, sotto ad una tettoia, c’è un gruppo di spagnoli appiedati, mi dicono che per i ciclisti, nell’albergue consigliavano un altro cammino e che, se la salita è stata ripida, la discesa sarà altrettanto. Io rispondo che nella mia guida non era segnata neanche la salita e che intanto il più è fatto, in discesa non pedalo (risposta un po’ lapalissiana). Riparto ed inizia il discesone. In fondo, arrivato nel piano, il cammino è impraticabile per il fango. Per un pezzo i pellegrini marcano il cammino in mezzo ai campi d’orzo, anche io li seguo e ne sorpasso qualcuno. Aiuto madre e figlia a scendere da un fossato che mi ringraziano quasi a dismisura e finalmente la strada inizia ad essere un po’ più praticabile. Arrivo, così, al Puente Fitero, un ponte antico sul fiume Pisuerga, che passa, tra l’altro, anche da Valladolid.
A questo punto negli appunti di viaggio mi fermo perché le mie 2 compagne [ricordo al simpatico lettore (che sarò io fra qualche anno) che ero ad Astorga con una giapponese ed un’italiana in camera] vorrebbero dormire, perciò spegniamo la luce. Riprendo a scrivere il giorno dopo, il 18 giugno alle 13 circa a Ponferrada. E riprendo parlando dell’italiano che ho incontrato scendendo verso il Ponte Fitero.
L’italico stava cercando l’Albergue San Nicolas, fondato da una congregazione di monaci italiani di Perugia. Si dice che come benvenuto lavino i piedi ai pellegrini, tradizione diffusa in passato in tutto il Cammino di Santiago, ma rimasta ormai solo in quel piccolo ritrovo di figli del Risorgimento. L’italo-pellegrino mi informa che però, non essendo lui molto religioso, voleva prima vedere che aria tirava. Lo precedo in bicicletta e vedo che l’albergue che stava cercando è, in effetti, la costruzione che vedevamo in lontananza, cosa che già sapevo perché nella mia guida c’è una bella foto del luogo.
Faccio dei cenni all’italo-agnostico. Nel frattempo vedo che l’albergue è chiuso, il ché è normale essendo circa le 11,30 di mattina. Chissà, poi, che voleva farci un pellegrino in un albergue di mattina, forse voleva solo poter dire di essersi fatto fare un pediluvio da dei monaci!
Lascio il connazionale alla sua sorte e riparto, ma per poche decine di metri. Mi fermo dal Puente Fitero. Guardo il tabellone con la storia del ponte, faccio foto e scruto l’altezza impressionante delle acque del Pisuerga che scorre sotto al ponte. Le piogge dei giorni passati lo hanno ingrossato molto. Di lì a poco altre due persone mi si avvicinano, questi in macchina, e mi chiedono se l’albergue degli italiani è aperto. Mi chedo se, allora, ci sia in programma qualche festino divertente. “No, està cerrado, son las 12!”, dico io.
Proseguo. Passo il ponte e dalle parti di Boadilla del Camino mi fermo in un bar per fare un po’ di “almuerzo”… Uscendo incontro il buon vecchio Frank, un ciclico olandese di Amsterdam che viene dal passo di Somport, uno dei due mitici punti di partenza sui Pirenei.
Nel frattempo, da alcune righe, chi scrive lo sta facendo il 19/06/10, circa alle 12,07, anzi, esattamente le 12 e 07 ed è all’alto del Poio a 1335 mt, uno dei punti più alti del cammino con… suo Fratello.
Ma andiamo con disciplina e senso del tempo. Eravamo a Frank, l’olandese (Tra l’altro a Ponferrada, mentre avevo iniziato a scrivere di lui, una vecchietta ha attaccato bottone e non ho più potuto andare avanti. Ma come dicevo…disciplina, ne parleremo a tempo debito).
Con Frank ci si incrocia, una prima volta, uscendo dal baretto di Boadilla, più tardi nelle vie che si allontanano dal paese vedo che ha una cartina sul manubrio e decido di seguirlo, considerato che il cammino è impraticabile per il pantano e lui mi dice che sta facendo tutto per carretera. Così si fa qualche km assieme in direzione Sahagun e qualche chiacchierata. Piove ancora parecchio. La pioggia ci segue fino a Carrion de los Condes, dove mangiamo per 10€ (io 12,50 perché invece del vino prendo coca cola). Io una paella di primo, il secondo è una trota con patate e torta con crema catalana come dolce. Riprendendo il cammino piove sempre meno e col susseguirsi dei paesi, spunta anche il sole. Con l’olandese ci si saluta dalle parti di Ledigos perché si ferma per vedere Spagna – Svizzera (persa dalla Spagna) in qualche bar.
Assieme a lui ho visto la Madonna. Eh sì… Il Camino riserva anche queste prodezze. Era una simpatica donna vestita in modo antico e con somaro al seguito. La salutiamo: “Buen camino!” Lei ci risponde con un sorriso e non favella. Frank dice che assomiglia all’immagine canonica di Maria ed io gli rispondo che…: “Magari… Abbiamo avuto una visione!” In effetti ci giriamo poco dopo e sembra non esserci più. Ma forse il “poco” era un po’ relativo.
Lasciamo questo punto a future disquisizioni ed arriviamo a Sahagun…. Nel frattempo (e ritorno a quando scrivo, il 19) riprendo il cammino con Mario in giù per l’alto del Poio, lasciamo il diario di bordo a dopo.
Eccomi qui a Portomarin, sono le 22,10. Si parlava di Sahagun.
Arrivo ad un’ora decente e non so ancora se fermarmi o proseguire, ma compro in un supermercato uno yogurt alla frutta, un batido di cioccolato e dei biscotti; saranno la mia cena e (parte) (del)la colazione dell’indomani. Con questa compera mi …comprometto a restare, visto il peso dei viveri! Gironzolo un po’ per il simpatico paese e nel frattempo finisce la partita della Spagna, che perde 0-1. Lo apprendo da un intristito bambino che giochicchia col suo pallone nell’altisonante Plaza Mayor.
Nel paese vedo un paio di chiese, i ruderi del monastero (credo) ed alla fine mi dirigo all’albergue dei benedettini. Aspetto l’arrivo del custode all’entrata: sulla porta c’è un foglio con scritto che l’hospitalero si è momentaneamente assentato. Dopo qualche minuto mi si avvicina una ragazza dall’aspetto teutonico che però mi parla piuttosto bene in spagnolo. Mi dice di salutare da parte sua un ragazzo che dorme nell’albergue e di dirgli che lei prosegue ancora un po’. Quando entrerò, riconosco il ragazzo della descrizione e riferisco del saluto (e del resto). Lui si ricorda della ragazza ma ha uno sguardo un po’ stupito.
L’hospitalero è un ciclista di quasi sessant’anni che mi parla di un tedesco che suona benissimo l’organo e che in quel momento era stato pinzato dalle suore per suonare alla messa. Mi fa vedere la chiesa annessa all’albergue o forse è meglio considerare che l’albergue sia annesso alla chiesa. Comunque, saltando i convenevoli dell’arrivo, nella mia camera, guarda caso, ci si incontra di nuovo col buon vecchio amico olandese.
Mi doccio, mi ciuccio parte del batido e mangio dei biscotti nel chiostro, dove ho anche lasciato la bici.
Mi godo un po’ l’ambiente e la brezza della sera, poi mi butto a letto, ma non si riesce a dormire, almeno per un po’. Sono nella branda in alto di un letto a castello e sotto ho uno spagnolo di Vittoria che mi parla, mi parla… e mi parla (peraltro d’economia, li mortacci sua!).
17 giugno 2010 – Sahagun
L’indomani parto non prestissimo, verso le 8,30, ma mi sveglio alle 6,30. Prima mi sbarbo, faccio colazione sempre nel simpatico chiostro dell’albergue. Mangio gli avanzi della cena, assieme a dolciumi e cose varie offerte dai buoni benedettini, ma me la prendo molto comoda. Prendo la bici ed esco nel fresco in tenuta invernale mentre gli uccelli cinguettano per il nuovo giorno. Faccio pochi metri e mi fermo davanti alla chiesa per oliare un po’ la bicicletta, i cinguettii non erano gli uccellini della mattina.
Lasciata Sahagun al suo destino, faccio qualche chilometro nella meseta, incontro anche il buon vecchio hospitalero con la sua bicicletta in carbonio della Colnago, lo saluto, facciamo 2 chiacchiere e mi cade… ah, la bottiglietta di yogurt (non ricordavo bene). Mi fermo per fissarla e riparto dopo qualche minuto. L’hospitalero su 2 ruote è già scappato via. Prima di raggiungere León vedo alcuni paesetti, tra i quali El Burgo Ranero e Mansillas de las Mulas con le sue mura, le case con portici a palafitta ed i vari ponticelli sul fiume Esla.
León è bella! Ci arrivo da una superstrada in estrema pendenza che percorro nella corsia d’emergenza a velocità piuttosto sostenuta. Con Mario, mio fratello, che nel frattempo ha fatto più o meno il mio stesso tragitto, ma in treno, ci vediamo dalla cattedrale. Lui è dalle 5 di mattina che gira. A quell’ora, dice, c’erano 4 gradi, e non mi stupisce troppo, quando ho iniziato a pedalare, a Sahagun, era inverno. All’ora dell’appuntamento, però la temperatura si fa un po’ più primaverile. Facciamo qualche foto, lascio la bici nella piazza, con lo zaino attaccato (intanto sembra spazzatura). Entriamo in chiesa e giriamo un po’ per la città cercando un posto per mangiare. Troviamo un ristorante vicino alla Casa de Botines (di Gaudì). Io mangio paella di primo e di secondo patate fritte di contorno ad un solomillo buonissimo e tenero, credo sia la carne più buona che abbia mai mangiato.
Finito di mangiare giriamo un po’ per una città pulita ed ordinata, quasi iperborea, con i suoi tanti monumenti e le sue case risplendenti in un’atmosfera molto tersa e fresca. Decidiamo di vederci ad Astorga. Lui va col treno.
Ad Astorga arrivo in tempi record, senza soffermarmi troppo sui paesi che sfrecciano all’indietro. Entrato nella cittadina decido di andare alla stazione, ma Mario è già arrivato e aspetta dalla cattedrale. Arrivo anche io. Faccio qualche giro, ma non lo vedo. Dopo un po’ spunta, era seduto poco distante. Giriamo un po’ in cerca di un alloggiamento per non pellegrini ma per il momento non si trova. Nel frattempo, ci dirigiamo verso l’albergue municipale e, come scrivevo prima, mi ritrovo una giapponese e un’italiana in camera. Il posto è piuttosto spazioso con camerette piccole e confortevoli. Ha un bel terrazzamento sul retro, incastonato nelle mura della città, con vista sulla verde periferia di Astorga. L’hospitalero con cui ho a che fare pare essere un polacco, un po’ suis generis, forse non così amato dagli altri che lavorano nell’albergue o almeno ho quell’idea. Alla fine per mio fratello troviamo uno strano albergo gestito da monache che gli costa una trentina di €.
Per avere gli abitanti che ha (poco più di 10.000) Astorga ha dei bei monumenti. Una cattedrale gotico-barocca, il palazzo episcopale di Gaudì, resti romani, una bella cinta muraria ed un centro storico piuttosto ampio e ben tenuto.
Prima di mangiare giriamo un po’. Nella piazza del municipio hanno allestito un concerto. Malgrado abbiano una fisionomia da banda di rione, suonano piuttosto bene.
Ecco, in questo momento hanno spento la luce (ricordo che sono nell’albergue di Portomarin e sono circa le 10,30 pm) vado avanti a scrivere con la torcia a dinamo, ma per poco… Dico solo che per cenare abbiamo girato parecchio ed abbiamo mangiato di nuovo carni varie, poi qualche timido giretto e a dormire, la notte non è fatta per i pellegrini! (Mario avrebbe potuto benissimo girare!) (Questo era il 17/06/10, domani cercherò di scrivere del giorno 18).
Scrivo il 20/06/10 alle ore 17,30, attorno a Rabia. Stiamo guardando Italia – New Zeland, per ora 1-1, in un baretto ad una 20na di km da Santiago. Andiamo, però a 2 giorni fa. 18 giugno 2010.
Parto da Astorga più o meno alle 7,30. La tratta prevede il superamento di una catena di monti piuttosto alti, passando per la Cruz de Ferro (in galiziano), il punto più alto del camino, 1500 mt e uno dei punti cardine del pellegrinaggio verso Santiago. Per poi scendere nella verdeggiante regione del Bierzo. A qualche chilometro da Astorga faccio una sosta presso la chiesetta Ecce Homo, dove bevo da una fontanella, timbro la credencial e prendo qualche immaginetta. Proseguo per il cammino e mi incrocio con vari paesetti, che immortalo con l’immagine dei loro campanili invasi dalle cicogne. Nel frattempo il cammino lungo la meseta, si fa sempre più vicino alle catene montuose che per intimorire il viandante, sfoggiano ancora qualche po’ di neve sulle cime. In men che non si dica, mi ritrovo a salire. L’ambiente si diversifica, c’è già un sapore differente rispetto alla cara e vecchia Castiglia. Si iniziano a vedere le case a base circolare e coi tetti di paglia tipiche della zona e i fianchi dei monti si rivestono di un manto fitto di alberi ed arbusti. In salita faccio qualche pezzo di cammino ma è poco praticabile dalle biciclette, soprattutto se gravate dal peso dei bagagli. Così mi butto sulla strada carrabile.
Poco prima di arrivare a Foncebadon raggiungo e aiuto uno spagnolo un po’ spampanato, che tra l’altro incontrerò anche in seguito. Aveva un freno che toccava nella ruota, gli ho prestato una chiave esagonale e mi ha ringraziato parecchio. Poco più avanti, passato il paese (dove mi fermo per fare qualche foto) c’è un’italiana di una ventina d’anni e piuttosto bella che spinge la bici e mi chiede: “ma come fai?” (ad andare in su di qui così spedito) io penso: “ma come fai a sapere che sono italiano?”. Dice che la bici gliel’hanno data nell’albergue perché aveva delle ciocche ai piedi. Già che alla fine la bici la sta spingendo, quella che doveva essere una gentilezza le ha solo che peggiorato la situazione! I suoi genitori stanno continuando a piedi per il Camino. La saluto e riprendo con la speditezza di prima. Poi incontrerò lei e i genitori sulla sommità del monte. Intanto i boschi lasciano il posto ai pascoli ed alle mandrie di bovini pascenti.
Arrivo alla Cruz de Ferro. Metto ai piedi della croce una pietrina portata da San Cipriano, nascondendola un po’ al di sotto delle altre. Un triestino fotografa la croce, sbuffa e, rivolgendosi a me, dice: “Spazzatura… Questa è spazzatura. Leon, Burgos, quella sì che è arte, ma questa è spazzatura!” Si riferisce al fatto che i pellegrini accumulano pietre ed attaccano effetti personali alla croce e ne risulta un accumulo un po’ disordinato, ma, credo, non così scellerato. Ho una discussione con lui sul tema, ma è un povero microcefalo e lascio perdere… Nel frattempo la partita (ricordo: Ita – N. Zelanda) sta finendo. Riprendiamo il cammino, che inizia a essere tardi, sono quasi le 6 pm. Continuo in seguito.
Bene, scrivo dal futuro. È già il 22/06/10 e sono a Madrid. Sono, ovviamente, già arrivato a Santiago e… bene, con una frase già sfruttata in precedenza dico: “andiamo con ordine”. Eravamo al 18/06/10 sulla Cruz de Ferro. Scendo e mi sollazzo alla vista della lunga discesa che mi aspetta verso Ponferrada, dove ci incontreremo di nuovo col buon vecchio fratello. Scendendo, la temperatura si fa apprezzabile, ma tengo ancora il K-way. Mi fermo un po’ a El Acebo, nella piazzetta. Ci sono un po’ di inglesotti che parlano ad alta voce un po’ alticci, all’apparenza. Bevo e faccio rifornimento d’acqua nella fontana della piazza che dà su un grosso trogolo e, rifocillato, riparto. Mi rifermo un paio di volte. La prima a metà discesa: capovolgo la bici e cospargo olio nelle parti mobili per diminuire un po’ gli scricchiolii. Poi, più tardi, quasi nel fondovalle, a Molinaseca. Come già quelli che lo precedevano, il paese inizia ad avere un carattere piuttosto galiziano. Le case hanno i tetti d’ardesia e nelle facciate prevale il bianco, ma siamo ancora in Castiglia. C’è, inoltre, un bel ponte pseudo-medievale ed una chiesa dalle forme abbastanza simili a quelle viste per tutto il Camino, ma con una sua identità, se non altro perché è molto massiccia ed è edificata in una posizione dominante sul paese.
Pian piano mi si staglia davanti e caratterizza sempre più la regione del Bierzo con la sua atmosfera bucolica e tranquilla. A qualche km da Ponferrada mi fermo per assaporare bene l’atmosfera autoctona e, per avere almeno un piede nella mia italianità, rubo un po’ di frutta dagli alberi. Questa tipologia di furto, però, non può essere considerata reato, essendo il perché ultimo, l’essenza e l’arché del ciclista o, meglio, del cicloturista. Comunque, per non divagare nella filosofia spicciola, rubo ciliege, un po’ acerbe d’aspetto, ma dolcissime e gustose. Sono in mezzo ad un vigneto, mi ri-sorpassano alcuni pellegrini che avevo superato in precedenza e mi chiedono se le ciliege sono buone. “Mmm… not so bad!” Riparto e ne approfitto per prendere una via traversa ed andare a cambiarmi la tenuta invernale. Il tempo, a questo punto, è piuttosto bello e fa caldo. Scendo verso Ponferrada avvicinandomi alla città per la via dei pellegrini che una volta nel piano diventa larga e retta. Seguo parallelo al fiume per poi girare sulla destra e passare sopra al ponte medievale che mi fa entrare direttamente nel centro storico… O comunque non nella parte più moderna.
Ponferrada è una bella cittadina. Un castello che fu la sede spagnola dell’Ordine dei Templari, domina l’abitato da una collinetta che anticamente doveva essere in posizione piuttosto decentrata rispetto alla città. Oggi il castello, assieme ad un parco, è l’anello di congiunzione tra il centro storico e quello moderno e rendono il passaggio tra le due realtà piuttosto naturale. Ma questo è soggettivo, la mia guida parla di netto contrasto… Che in effetti c’è, ma lo definirei “naturale” più che “netto”.
Come dicevo qualche giorno fa, mi metto a scrivere all’ombra, su una panchina di pietra nei portici della Plaza del Ayuntamento (Plaza Mayor?). Prima telefono a mia madre e poi a Jesus (suocero).
Quando inizio ad appassionarmi alla scrittura del diario di bordo mi interrompe un’arzilla vecchietta che mi “importuna” facendo discorsi su religione, lingue, nazionalità e tante altre cose in modo un po’ svampito ma tutto sommato sembra una brava persona e mi addentro nei suoi meandri discorsivi. E’ una galiziana di A Coruña, ma non ha accenti. Dice di aver lavorato in Inghilterra e di essere contenta quando può parlare in inglese con qualche turista (non è il mio caso). Riesco a togliermi dalla morsa elocutoria della donna e vado verso la stazione per vedere a che ora arriva il fratelloide. Invece, alla fine, aveva preso l’autobus, però per qualche strano caso mi appare nel piazzale della stazione. Arriva con una bicicletta comprata al Carrefour per 90€ ed un berretto da ferroviere francese, dice lui, col quale farebbe un gran bel figurone al Gay Pride di San Francisco, con tutto il rispetto per la categoria tirata in ballo. Da qui, quindi, inizia il suo Camino, a 202,5 km da Santiago e comincia il mio rallentamento. Prende la credencial all’Hospital del Peregrino, facciamo qualche foto e partiamo.
Le piane ondulate del Bierzo lentamente lasciano il posto ad un ambiente più montano. Arrivando a Villafranca del Bierzo ho la stessa sensazione dell’arrivo a Saint Jean Pied de Port; un avamposto montano nella valle, testimone di future salite e sforzi sui pedali. Infatti da qui si inizia a salire per arrivare fino all’alto del Poio, a 1335 metri.
A Villafranca vediamo, arrivando, il castello e la chiesa romanica, dove un uomo di una settantina d’anni ci pinza ed inizia a parlare della storia della chiesa e della Collegiata di S. Maria. Incontriamo di nuovo anche Frank (l’avevamo già visto a Ponferrada ed avevo visto la sua bici parcheggiata di fianco alla mia a Leon).
Nella piazza prendiamo un latte-e-caffè e ripartiamo. Io mi fermo a fare qualche foto alla Collegiata e ad un ponte antico uscendo dal paese, dico a Mario di andare avanti, ma sbaglia strada. Chiedo a due donne se per caso avessero visto uno in bici. Mi dicono che di lì non è passato nessuno. Lo chiamo al telefono, sta arrivando. Lo aspetto e ripartiamo. Arriviamo a Vega de Valcarce. Dei paesani ci danno le indicazioni per l’hostal. Mio fratello è stremato.
Il paese non ha troppo: l’albergue, qualche casa e qualche bar non troppo ben disposto a sfamare i pellegrini e dagli osti non troppo simpatici. Nel locale dove mangiamo, il barista/ristoratore sarebbe da menare per l’inospitalità. Vediamo molta gente mangiare ai loro tavoli e chiedo: “Possiamo sederci qui per mangiare?”, indicando un tavolino che avevo al lato. Il barista dice che a quell’ora non si può mangiare. Ma come…? E tutti quelli che mangiano? La cucina è chiusa! Ma beh, non serve una cucina per un panino, no…? È un bar! I panini sì! A malincuore ci fa i panini, mio fratello guarda una qualche partita in tv ed io mi scoppio anche 2 cochecole. Dormo con i tappi nelle orecchie, Mario si butta in letto vestito perché non ha sacchi a pelo. Gli do comunque una copertina blu, corta e leggerissima, un reperto del viaggio di nozze in Messico.
19 giugno 2010
La mattina ci svegliamo abbastanza presto, assieme alla maggior parte degli altri pellegrini. Ci vestiamo, pochi minuti di preparazione mattutina e partiamo. Si riesce a fare colazione solo dopo 5 o 6 km perché in paese è tutto chiuso. Dato il freddo e la salita, si fa una seconda colazione qualche km dopo, poco prima del confine con la Galizia, che raggiungiamo percorrendo un sentiero molto suggestivo. Sul confine facciamo qualche foto e ce ne facciamo fare un paio da un’attempata tedescoide che cammina sola. Ripartiamo e in un tempo relativamente breve arriviamo in cima, al primo della serie di monticelli che dobbiamo superare in questo tratto. Sono tra i più alti di tutto il Camino. Fortunatamente tra l’uno e l’altro non si deve scendere molto, però mancano ancora parecchi chilometri alla discesona che ci porterà circa a 400 metri sul livello del mare e ad una temperatura più umana.
Ora siamo al foscoso paesetto di O Cebreiro a 1296 metri slm. Il paese è tra i più pittoreschi del cammino, non fosse per altro, per l’atmosfera di “vita antica” che ci pervade per tutta la permanenza. Si fa una passeggiata, qualche foto e nel frattempo Mario prende la conchiglia di Santiago o Vieira, come dicono in Galizia.
Facciamo un saltino nella chiesa e poi proseguiamo per l’alto de San Roque. Poco prima di arrivare all’Alto incontro di nuovo il ciclista che avevo aiutato in su per la Cruz de Ferro, questa volta ha alcuni raggi della ruota rotti, spaccati proprio scendendo per la Cruz de Ferro. Gli do numeri di telefono ed indicazioni sui ciclo-riparatori di Sarria. Telefona. Forse prenderà un taxi perché, essendo sabato, il negozio resta chiuso nel pomeriggio, chiude alle 14 e sono quasi le 11 e Sarria è piuttosto lontana. Arriviamo finalmente all’Alto del Poio. Ci fermiamo nel bar. Consiglio a Mario di prende il ribeiro, un vino bianco galiziano. Io Cocacola e patatine, queste ultime per tutti e due. Date le fatiche da cui dobbiamo riprenderci riesco anche a scrivere un bel pezzo di questo diario di bordo.
Ripartiamo, finalmente, in discesa. Vediamo qualche bel paesino ed arriviamo a Tricastela, ormai a fondovalle, confortati da una temperatura decente. Lì seguiamo il Camino alla destra della strada asfaltata, la guida pare indicare che da lì si debba passare per il monastero di Samos. Molto probabilmente si sbaglia perché non lo vediamo e in molti ci dicono che si doveva andare dall’altra parte. Mangiamo nella “Casa di Franco”, un’osteria in un non ben precisato luogo del cammino. Dentro, come avventore, c’è un simpatico vecchietto che mastica in modo schifoso un sigaro, fortunatamente spento. Di tanto in tanto l’anziano masticatore si alza di qualche cm dalla panca come se dovesse rilasciare qualche residuo gassoso e si risiede. Lo fa ad intervalli piuttosto regolari e crea un ambiente pieno di incognite… fortunatamente non di puzza!
Si nota il cambio di lingua. Le persone che entrano, a parte un paio di italiani che avevamo già incontrato nell’ultimo pezzo di cammino, parlano in ispano-portoghese, altresì detto gallego, galiziano, in italiano. Telefono a Gesù (il suocero) e poco dopo ripartiamo.
Passiamo da Sarria, cittadina dal carattere ormai completamente galiziano a 111,5 km da Santiago. Ci dissetiamo in un bar e facciamo qualche foto panoramica dall’alto. Da lì proseguiamo imperterriti nelle verdissime campagne dall’atmosfera già oceanica. Passiamo per ponti, guadi, incrociamo ferrovie ed attraversiamo vigneti, per arrivare fino a Portomarin, a poco meno di 100km dalla meta della nostra gita (ricordando il grand’uff, ing, cav, dott Sisini). Mario ci arriva affaticato e con forti dolori al sedere, per via del sellino stretto, dello zaino piuttosto pesante sulle spalle e, maggiormente, per non essere allenato.
Poco prima di arrivare alla città ci imbattiamo nel primo “Horreo”, un particolare granaio costruito su delle palizzate, tipico del nord della Spagna. Il primo lo fotografo per dovere di cronaca, ma è un rudere. Da lì in avanti se ne vedono di molto migliori ed alcuni veramente artistici.
Portomarin è una graziosa cittadina sulle sponde di un lago artificiale alimentato dal rio Miño. In verità la Portomarin originale si trovava dove ora c’è il lago e negli anni 60, durante la costruzione della diga, il paese fu ricostruito interamente a monte, trasportando le pietre della cattedrale e di altri 2 o 3 pezzi della sua storia, per ricostruirli tali e quali in mezzo alle case del nuovo paese.
Troviamo da dormire nell’Hostal municipale per i soliti 5€. Prendiamo posto nelle brande, ci si fa la doccia e siamo pronti per uscire nella movida del paese. Mangiamo in una trattorietta davanti alla cattedrale con i soliti 10€. Nel frattempo facciamo un giretto, qualche foto ed entriamo a vedere la chiesa. (Un tipo uscendo mi guarda male i sandali… Che vuole?) La movida autoctona lascia un po’ a desiderare (ma la nostra è anche peggio) e andiamo a dormire.
20 giugno 2010, arrivo a Santiago
Finalmente una mattina piuttosto calda. Mancano una 94ina di km alla meta e si parte di buon’ora, un po’ dopo le 7. Facciamo colazione in un bar davanti all’albergue e partiamo. Prendiamo la strada che conduce al lago ed iniziamo il Camino per due ponti diversi. Io quello dei pellegrini in partenza, un ponte un po’ approssimativo, e Mario quello dei pellegrini in arrivo, quello carrabile che abbiamo percorso ieri. Il Camino scorre per un infinito prato con intramezzi boscosi di eucalipti conifere di vario tipo, querce e castagni. Un continuo saliscendi per colline che, anche se dolci, non piacciono molto al buon fratello (stremato già in partenza). Ogni tanto gli do qualche spintarella (ero combattuto se scriverlo o no, ma per dovere di cronaca non posso omettere). Sorpassiamo un simpatico cimitero con loculi persino sul muro di cinta che dà sulla strada e non posso fare a meno di fotografarlo.
Facciamo una seconda colazione in un centro alberghiero fatto da bungalow che ha un po’ la fisionomia di quelle strutture edificate per vederne la resistenza alle esplosioni nucleari, ma qui non ci sono manichini e non abbiamo notato boati e spostamenti d’aria né, tantomeno, personaggi che tirano coriandoli (…). Il complesso è poco prima di Palas de Rei, prendo latte e caffè con palmera di cioccolato, potrei quasi non pranzare più perché mangio anche mezza di quella di mio fratello. Vado al bagno (!) e ricominciamo a pedalare. Passiamo per Melide, cittadina nel centro geografico della Galizia, con un simpatico mercato e molta vita. Proseguiamo sempre con i soliti saliscendi in una campagna perfetta. In un punto passiamo dentro alla copertina di Atom Earth Mother, le mucche pezzate che incontriamo devono aver studiato l’album dei Pink Floyd nei minimi dettagli per riprodurre così fedelmente la sua essenza.
Incontriamo un ciclista di Madrid che avevo visto la prima volta un po’ dopo Sahagun. Si ricordava di me, anzi mi saluta lui per primo e mi dice: “Ah, es tu hermano él, ¿no?” … O qualcosa del genere. Come nei migliori gironi dell’inferno dantesco, dopo averlo sorpassato di gran lena nell’incontro precedente, per contrappasso ci sorpassa senza troppa fatica e non lo vediamo più. Ci fermiamo a mangiare, direi ad Arzua… Sì, Arzua. Un’insalata molto corposa. La temperatura, nel frattempo ha raggiunto i livelli massimi dall’inizio del Camino. Comunque il caldo non infastidisce ancora. Ci saranno 26/27 gradi e non troppa umidità. Il cielo è sereno. I chilometri, tuttavia, tendono a non diminuire molto velocemente. Gli ultimi 30 chilometri di pedalate sono davvero lunghi. Ci fermiamo 2 volte per vedere i due tempi di Italia – N. Zelanda (0-0). Io soprattutto approfitto per dissetarmi e scrivere il diario di viaggio (questo solo nel II tempo) e Mario, tifando Italia, fa qualche chiacchiera con un ometto biondo, quasi bianco, di Baile Atha Cliath.
Partiamo e “lente, lente” arriviamo al ceppo dei “dieci km da Santiago”. Passiamo l’aeroporto ed il percorso inizia a prendere un aspetto, in qualche modo, suburbano. Iniziamo a salire per uno sterratone che ci introdurrà nell’ambiente del monte del Gozo, ultimo strappo prima della discesa per Santiago. Ci sorpassano le guardie pellegrine in moto salutandoci e poco dopo altre due con un fuoristrada. Mario è un po’ alla frutta… Gli fa male il sedere per il sellino, è stanco e parla un po’ a strappi. Ripete più volte che “dovranno pur finire, prima o poi le salite”, indica in alto ed aggiunge: “Non c’è più monte!”… Ma le salite continuano ed ogni tanto lo spingo. Piccolo appunto: non vorrei far credere di voler fare il pazzesco, effettivamente io sono piuttosto allenato, ma ho anche un rapporto corto nella bicicletta che mi permette di spingere facendo poca fatica e sopratutto ho un sellino con forma di culo rovesciato che non mi ha fatto mai avere alcun dolorino per tutto il viaggio! Ci fermiamo a chiedere qualche indicazione ad un vecchietto dal forte accento galiziano, ma è un po’ impreciso e ci fa perdere tempo con discorsi un totalmente inutili.
All’alto del Gozo ci arriviamo attorno alle 8. Facciamo qualche foto e guardiamo Santiago dall’alto. Non si vedono le guglie della cattedrale come narra, invece, la mitologia del pellegrino di S. Giacomo, ma l’arrivo è vicino. Però oltre alla gioia del raggiungimento della meta c’è anche la tristezza della fine del viaggio; penso e ripenso che darei chissà cosa per essere catapultato nel porta-pacchi del TGV Parigi – Bayonne, assieme alla mia bici impacchettata ed agli zaini col casco appeso.
Parliamo un po’ con un circa 45enne con cui avevamo già fatto qualche discorso nelle ultime salite. E’ di Madrid e viene dal Camino del Norte. Ha fatto il primo pezzo a piedi ma dopo un po’ ha comprato una bici (anche abbastanza bella) ed ha proseguito con quella. Mentre guardiamo la nostra meta dall’alto, Elena chiama un po’ risentita perché non siamo ancora giù! Mi dice che mi sono perso un bell’ambiente alle 6 di sera, nelle vie di Santiago. In una 20na di minuti arriviamo alla Puerta del Camino. Entrando all’Obradoiro faccio un video con la macchina fotografica. Vedo la Cattedrale, il mio (nostro) Camino è finito. Intanto scorgo le sagome di moglie e suocero che si sbracciano in lontananza con facce sorridenti.
Il resto della storia la racconterò con calma in seguito. Ora mi aspetta una bella passeggiata al Monte del Pilar, a Madrid.
Riprendo a scrivere. È il 25/06/10, sono con Elena e Marta nella Piscinetta di Pozuelo. Eravamo arrivati a raccontare dell’arrivo a Santiago, la sera del 20/06/10.
Facciamo qualche giretto per la piazza e qualche foto commemorativa. Poi Elena ci svela dove alloggeremo. Un appartamento/albergo, con tre camere, ma senza cucina, vicino all’Obradoiro. Il pellegrino minore, Mario, si lava mentre io Elena e Jesus facciamo qualche passo per la città. A me viene freddo, essendo ormai sera e non essendomi ancora cambiato. Torniamo e mi lavo. Mangiamo davanti a “casa” e anche se cerchiamo di pagare io e Mario, paga tutto Jesus, giustamente felice di avere due familiari pellegrini al tavolo, ma un po’ triste per non avere il resto della sua famiglia con sé e di non poter stare per più tempo in quel di Galizia. Dopo mangiato facciamo ancora un giretto, però Elena non mi ha potato proprio tutto quello di cui avrei avuto bisogno, mi viene un freddo porco e torniamo indietro. Finisce così l’ultimo giorno di pellegrinaggio, ma non è ancora l’ultimo da pellegrino, devo ancora farmi dare la Compostela.
Il 21/06/2010 ci svegliamo relativamente presto per i canoni dei vacanzieri, ma tardi per le ore cui ero (eravamo) abituato(i). Non riesco bene a quantificarlo ma attorno alle 8/8,30. Andiamo a cercare il luogo dove farci suggellare con la Compostela. Lasciamo gli zaini in un guardaroba cittadino ed iniziamo la coda (io e Mario) in su per gli scaloni dell’Ufficio Episcopale. Dopo un quartino d’ora siamo dentro, io mi prendo la mia bella Compostela, Mario solamente il diploma perché dice di aver fatto il pellegrinaggio solo per accompagnarmi e di non aver avuto nessun motivo spirituale. Io sì, ma senza specificare di che spirito si parlasse.
Usciamo, compriamo qualche souvenir e ci dirigiamo alla cattedrale per “l’abbraccio al Santo”. Entriamo dalla Porta Santa e facciamo un percorso che ci porta al busto aureo del buon Matamoros, che domina il “retablo” (le pale) dell’altare maggiore. Gli do due pacche sulle spalle e proseguiamo il percorso che ci conduce al di sotto del busto dove sono conservate le presunte spoglie del Santo Pellegrino in un’arca aurea. Tutto attorno è oro. 2000 anni fa non si era detto che la povertà era una ricchezza… O sbaglio?
Usciamo ed è l’ora di andare a prendere le cose all’albergo e metterle in macchina (sono le 12) io rientro in chiesa per vedere la messa in mio onore (e nell’onore delle altre centinaia di pellegrini presenti). Gli altri vanno all’albergo, non riescono ad entrare perché la chiesa è overbooked. Sulle scalinate dell’entrata laterale c’è una fiumana di gente enorme che aspetta di poter entrare. Sarà a causa dell’anno del giubileo di Santiago, ma sembra davvero una giornata speciale, malgrado sia un lunedì qualsiasi.
Alla fine della messa c’è lo spettacolo del Botafumerio, ovvero un incensiere enorme che da secoli viene agitato sopra le teste dei pellegrini. In passato serviva per sovrastare l’odore che gli stessi pellegrini lasciavano nella cattedrale durante la notte, dopo milioni di passi con le stesse scarpe. Anni fa, infatti, si poteva passare l’ultima notte di pellegrinaggio nella Cattedrale. Ora non è più possibile, ma la tradizione del Botafumeiro è rimasta per animare la parte finale della messa ed ormai è uno dei simboli della cattedrale.
Faccio foto e video, anche se alcuni fraticelli cercano di impedirmelo. Aspetto i miei vari parenti all’uscita, nella piazza dell’Obradoiro. Dopo un po’ appaiono Mario ed Elena. Mario entra in chiesa. Noi aspettiamo perché abbiamo ripreso gli zaini e non è permesso entrare con bagagli. Quando esce cerchiamo di entrare noi. Non ci fanno passare dalla porta principale, cosa che mi fa odiare, lì per lì, l’intera classe clericale spagnola, in particolare e, in generale, tutta. Entriamo dalla porta secondaria e facciamo un giretto all’intero. Una volta usciti raggiungiamo gli altri due ed andiamo a smontare le biciclette per caricarle in macchina. Mangiamo ad un paio di palazzi di distanza dall’albergo ed altrettanti dal ristorante di ieri. Si mangia… normale. Né bene, né male.
Ultimo saluto a Santiago e partiamo per Madrid, direi attorno alle 4 del pomeriggio.
La prima parte del viaggio dormo. Quando mi sveglio siamo quasi in Castiglia, il paesaggio lo preannuncia facendosi sempre più secco. Il carattere dei paesi inizia a perdere quella spennellata nordica ed oceanica che avevo incontrato avvicinandomi alla Galizia dal nord. Sembra che a sud sia la Castiglia ad addentrarsi nelle valli della Galizia o forse è solo una questione di punti di vista.
L’idea del Cammino, dell’insonne libertà della pedalata (mah!) va un po’ scemando e prende già posto nella nebulosa aurea dei ricordi. Il mio pensiero va ancora una volta a Saint Jean Pied de Port. All’inizio di tutto. Mi rifaccio la domanda che per giorni ha vagato tra i miei pensieri senza mai essere risolta fino in fondo: perché, sono venuto qui?
Mentre le praterie rinsecchite segnano l’inesorabile allontanamento dal luogo che ha animato i miei ultimi mesi di vita, la risposta volteggia nell’aria a cerchi sempre più stretti e vicini, ed è accompagnata dalla forte sensazione di aver fatto questo viaggio per averne ascoltato il richiamo, magari non così trascendente da motivare una Compostela all’onor religioso, ma neanche totalmente profano e che nel suo echeggiare va ad intrecciarsi in un paradosso ricorsivo rispetto alla domanda iniziale, “perché ho fatto il cammino?” la risposta è “perché sono stato chiamato qui per farmi delle domande, tra le quali questa”. Certo… e le risposte sono arrivate? Qualcuna sì, ma le domande non credo abbiano sempre bisogno di una risposta immediata. Credo che quello che ho vissuto in questi giorni coverà come braci nella mia vita futura per ravvivarsi nel momento giusto, quando qualche venticello passerà a disturbare il loro letargo. O così è come mi piace vederla. Machado scriveva: “Caminante, no hay camino. Se hace camino al andar”, ossia, parafrasando: non c’è un motivo per quello che fai, il motivo lo trovi facendolo.
Proseguiamo ancora un po’, fino a quando il richiamo è quello dello stomaco. Ci fermiamo in un “autogrill” x vedere la partita della Spagna contro l’Honduras e “picar algo”: chorizo, morcilla, queso en aceite, altro tipo di chorizo e di nuovo morcilla. E’ il primo giorno d’estate ed io bevo la mia prima birra dopo quasi un anno, momento storico! Intervallo della partita, ci rimettiamo in macchina. Il II tempo lo guardiamo in un altro baretto. Prendo un caffe-e-latte con una “magdalena”
Attorno alle 23 arriviamo a Pozuelo (Madrid) e finisce definitivamente l’epopea del pellegrino. Anche se quella dei 10 giorni a venire (le ultime righe le sto rimaneggiando il 03/07/10 da Pontedecimo) sarà una simpatica permanenza tra Madrid e Navapark (Avila) con giretti in bici, nuotate, mangiate, bevute, terme, passeggiate e partite a chinchon (tutte perse!).
Per dovere di cronaca, Mario è partito il 22 con un aereo per Pisa. L’abbiamo accompagnato all’aeroporto Elena, Jesus ed io. Lui ci saluta con movenze un po’ rigide.
Buen camino a todos!