Elena e Alice…. Lettere dal Cayo
Ma cuba, il Cayo son là e mi chiamano, ci chiamano..
CAPITOLO SECONDO Sarà..Sarà ma questa volta il ritorno è assai duro..Come ho detto prima il lunghissimo giorno, estesosi per il fuso orario, ci ha poi inesorabilmente condotte verso la notte. Fatto sta che, nonostante fossimo veramente stanche, il sonno è calato con difficoltà, la resistenza che spontaneamente si opponeva a Morfeo era dettata dall’eccitazione di essere in un luogo meraviglioso. Tanto agognato (fin da piccoli ci venivano raccontati i Carabi come mete da sogno e praticamente irraggiungibili), tanto desiderato ed ormai così presente. Sì, perché in poche ore era già entrato nella pelle. Le musiche del villaggio, in sottofondo, ci conducevano a piccoli movimenti per noi inconsueti, danzando a piccolissimi passi ci muovevamo come ipnotizzate. Anche vergognandoci. Noi, rifuggenti ogni tipo di animazione, noi turiste molto libere, noi timide e riluttanti, bailavamo! Poco poco..Però bailavamo! Null’altro se non un sonno profondo ma..Sveglia all’alba! Infatti, e qui ritorna il fuso, alle 4 ero sveglia, sveglissima come un grillo, pronta a vivere tutto. Buio pesto..Vabbè, mi crogiolo nel mega lettone ad 1 piazza e mezza (come a Sharm) e mi giro e rigiro..Sento il vento soffiare forte sotto la fessura della vetrata, ma non ci sarà un uragano vero? In fondo non è così raro ai tropici, però poche ore prima la gente era tranquillissima, mah..E in un dormi-veglia sembrato eterno, giungono le 6.30 circa. Tutto perfettamente buio fuori, si intravede il cielo farsi appena chiaro, ma chiaro per modo di dire. Solo dopo ho imparato che là il cielo di notte è così, nero di nuvoloni da far paura, livido e scuro, minaccioso..Ma poi, con l’uscita del sole, tutto si attenua, le nubi spariscono per lasciare posto ad un cielo terso e limpido. Colazione, riunione di benvenuto e via in spiaggia. Certo che dopo aver sentito Mirko e Rafael parlare di Cayo Largo e Cuba, ci siamo innamorate ancora di più.
Siam volate in spiaggia, quella del villaggio, era tardi per prendere il trenino, ma pronte a far visita nel pomeriggio alla Marina, ad andare a vedere gli allevamenti di tartarughe, le foto dimostrative dell’uragano, la storia di Cayo Largo narrata nel mini-museo, ed il tramonto a Playa Paraiso. Ci guardavamo senza parlare, ancora talmente stupite da cotanta bellezza, che assaporavamo tutto, le parole sarebbero state inutili, solo i nostri occhi parlavano..E siamo state lì, abbandonate languidamente sui lettini, accarezzate dal sole, lambite dal vento, respirando salsedine, giocando con la sabbia, sì perché è impossibile non toccare questa sabbia..È incredibilmente bianca, fresca, impalpabile, liscia e compatta se si bagna, un anti-stress naturale..E via così fino al pranzo.
Poi la mini-gita, tralascio tutto perché diventerei monotona e farei un’atroce ripetizione, ma non posso non accennare al tramonto. Un’atmosfera magica. Perché magici sono i tropici, magici i Caraibi (mentre Alice aspettava il pirata dei Caraibi che venisse a rapirla!), magica è Cuba, magico Cayo Largo. Tutti estasiati, tranne i soliti deficienti (dal latino deficere, cioè mancare, ed in questo caso mancanti di cervello) che pensavano solo a bere mojto, gratis, e ad urlare frasi sconnesse a causa dell’alcol deturpando il meraviglioso silenzio del luogo. Ci siamo spostate, un po’ più in là. Vicino a noi 2 ragazze, anche loro distrutte dalle urla chiassose, che volevano pace. Chiaramente abbiamo legato subito, stringendo poi amicizia per tutto il periodo. Ed ecco..Il tramonto..Il sole, una palla infuocata che si abbassa lentamente, netta all’orizzonte, creando una luce stranamente avvolgente..Ecco, scende a vista d’occhio veloce, pare dirci “tranquille, domani vi riscalderò e vi illuminerò ancora”, ed i nostri sorrisi son di stupore, i nostri occhi incantati e sgranati, nulla li distoglie dall’orizzonte..E poi viene la sera.
Risaliamo sul trenino per tornare a casa. A casa, non al villaggio, perché il Cayo è diventato casa nostra. In 24 ore. Il Cayo è casa. CAPITOLO TERZO Sono qui, una bellissima giornata primaverile, un sole caldo a sufficienza per scaldar un po’ le ossa, la finestra aperta mi segnala l’arrivo della primavera con erbetta fresca e germogli sui rami..Ma la mia mente vaga e va al Cayo..
Non riesco a capire che sindrome sia, so solo che se dovessi andar dal medico a riferire questo “male” mi manderebbe da uno psichiatra o psicologo. C’è poco da fare..È il mal di Cuba. Ad essere sincera non pensavo di ammalarmi così tanto. Non parliamo di Alice. È passata una settimana dal nostro rientro, la solita routine quotidiana è tornata ad avere la priorità, ma è mai possibile che, durante una qualsiasi azione, la mia mente ritorni là con una prepotenza inaudita. Temo che mio marito, le mie amiche, i miei parenti mi odino. Cuba ed il Cayo riempiono i miei discorsi, sempre. “pensa che quando eravamo là…Ma sai che là..Ma non ti ho detto che là…”. Ieri, ad esempio, durante il nostro weekend solitamente fuori zona, la mia mente era là. LA’, ormai è l’unico posto a cui penso. In auto ho rivissuto l’Avana. Una tappa indimenticabile per vari motivi. Tralasciando un momento tutto ciò che è inerente a quei paesaggi paradisiaci del Cayo, dirò che è magica. Magica perché, appena scese dal piccolo aereo che con grinta si è alzato in volo per portarci nella capitale, siamo state rapite. Accidenti..Sembra tutto così realmente fiabesco.. Innanzitutto la guida, un cubano il cui nome era un programma, con una precisione da orologio svizzero della quale si vantava ed a ragione..Infatti questa sua rigida programmata tempistica, proposta con fare sorridente e bonario, gli ha consentito di tenere a bada il gruppo di turisti. Tenere a bada è la parola che più si addice. I turisti sono prepotenti, menefreghisti, maleducati, impertinenti, pretenziosi..C’eravamo pure noi nel gruppo ma credo, per quanti difetti Alice ed io possiamo avere, di non rientrare in questa categoria. Ho già detto, in altra occasione, che quando sono turista entro sempre in punta di piedi. Ho estremo rispetto per il paese che mi ospita, anche se non ne condivido usi e costumi, ma mi sembra logico comportarmi così. L’Habana..Tutta colori, tutti profumi, tutta musica, tutta un po’ caotica, tutta sorridente di sorrisi tristi, atmosfera surreale, luce e suoni, vento e parole! Saliti in pullman per il consueto tour siamo andati subito in piazza della rivoluzione. Lo svizzero Fabio ci ha permesso 3 minuti per le foto. Mamma che pelle d’oca..Il Chè..Fidel lì a parlare, che emozione, intensa, fortissima, parole uscite dai libri di storia e non si sono affollate nella mia mente mentre Alice, con le lacrime agli occhi (accidenti a me..Ma perché l’ho fatta così sensibile?) è volata letteralmente in posa davanti al suo Chè per le fotografie. Ah..Sento le parole di Celia de la Cerna..Fuser e la Poderosa..Ma quant’è grande sta piazza? Mentre la mia testa turbinava nei ricordi in quel momento sconnessi, le mie mani pigiavano sulle macchine fotografiche, i miei occhi guardavano nella direzione del pullman e le mie orecchie cercavano la voce di Fabio e via. Perdere il pullman significava farsi portare da un taxi (beh..Mi avrebbe spaventato un po’ l’adoperarne uno) al ristorante “Il patio” per circa 35 cuc. Così disse il buon Fabio. Salutammo la piazza, con la scusa del riverbero del sole, né Alice né io facemmo riferimento alle lacrime. Belle stupide. E poi via, tour panoramico per alcune vie principali, per ammirare velocemente monumenti e posti irraggiungibili a piedi per via del poco tempo e poi finalmente nel centro, a piedi. Scese nuovamente, ecco la realtà havanense diventare tangibile. Innanzitutto si doveva evitare di venire travolti da auto in corsa, bellissime, luccicanti e colorate come modellini di altri tempi, che i proprietari ostentano fieri. Ed a ragione! Grandi, come grande è questo popolo. Colorate come sono colorati i sorrisi di questa gente. E luccicanti come lo sono gli occhi di queste persone. Camminando per le vie, quasi di corsa per la velocità con la quale Fabio volteggiava leggiadro, e tenendogli dietro onde evitare di perdersi, si notavano case bellissime (coloniali) e case disastrate (di persone comuni). Disastrate sì, chiamarle case è una parola grossa. Non ho capito se siamo noi ad avere la cultura della casa intesa come un luogo di perfezione in cui acari e batteri hanno i giorni contati, dove la sterilità di una sala operatoria deve fare una dura lotta per avere il sopravvento o dove tende, pizzi, merletti, quadri e quant’altro (dalle suppellettili ai mobili pregiati) devono riflettere il lusso o la moda di ogni proprietario o se son loro a vivere meglio e più liberi, meno schiavi della pulizia. Beh..Forse un po’ di più non sarebbe male..Però certamente loro posseggono maggiori anticorpi di noi..Diciamo allora che una via di mezzo sarebbe perfetta. Camminando si vedevano i negozi, botteghe di altri tempi, vendere ortaggi, frutta, zucchero e fagioli secchi, su vecchie bilance, in borse di tela che le donne portavano, con grazia, al braccio. Si udivano risate di bambini, e poi le scuole! Sbirciando dalle inferriate eccoli tutti in divisa, belli e schiamazzanti durante l’intervallo presumo, od ingestibili per la loro vivacità! Una drogheria ostenta la sua scritta, si può entrare dice Fabio, centinaia di vasetti in vetro sugli scaffali ed un prepotente odore di spezie riempiono l’aria buia, è molto scuro all’interno nonostante i grandi lampadari. Poi di corsa nei dedali delle vie dove le donne chiedono saponi e caramelle per i loro figli. Ne porgo un paio (gli altri turisti ridono maleducatamente prendendomi in giro), escono come folletti bimbi ed altre mogli-madri tutte con la mano tesa. Alice si spaventa ed affretta il passo raggiungendo Fabio. Io, intimorita, ne consegno altre 7 ma di più non ne ho. Intimorita perché vorrei averne un bilico da scaricarne. Tutte profumatissime e tutte per loro. Mi affretto, giuro di non averne più (il che è anche vero) e galoppo verso il gruppo che ride. Non ridono di me, ridono di questa gente che vuole sapone. Non commento. Il mio sguardo è cattivo, (Alice me lo vede e lo dice, io me lo sento e ne sono consapevole), guardo questa parte del gruppo con pena, son talmente “piccoli” che non possono capire. Pena perché forse hanno soldi sufficienti a viaggiare ed a comprarsi saponi, denaro da ostentare portando borse ed occhiali griffati, o vestiti o scarpe ma certo è che non potranno mai acquistare né intelligenza né sensibilità.
Arrivati finalmente al “Patio” corriamo in bagno. E finalmente ci sediamo per riposarci un po’. Il tavolo scelto dai nostri “amici” conosciuti al villaggio è adiacente alla pianista. Accidenti..I timpani non la omaggiano, ma così si evitano chiacchiere inutili, il volume del piano è troppo alto e così si pranza velocissimamente, tra rumba e samba, in religioso silenzio persi nei propri pensieri tra turbinanti camerieri che zelanti, portano un buon pasto. Caffè e via di nuovo. Cattedrale, la bodeguita del medio mitica, altro dedalo di vie dove cani, gatti, donne sempre a mani tese, bambini convivono gomito a gomito, dove i contatori della luce fanno a gara a chi va in corto circuito per primo, dove gli odori acri diventano a tratti fastidiosi, dove gli hotel lussuosi mostrano la loro potenza, dove ci si ferma a bere il mojto (io no, non posso), dove si fa la foto sotto il quadro di Hemingway, dove si respira profumo od odore che dir si voglia di sigari e tabacco, dove i colori sono colori, dove il mercatino è uno spettacolo, dove si acquistano souvenir ed il tempo non basta, dove si vorrebbe stare a lungo, dove un uomo ti chiede di regalargli una penna! E si risale in pullman, stanche ma malinconiche perché sappiamo che l’aereo per il ritorno al Cayo ci aspetta..
Fabio saluta, è stato molto bravo nel gestire questo gruppo, lascia un piccolo ricordo, un grazie caloroso ed il suo biglietto..Affitta parte della sua casa a chi volesse tornare all’Avana. Ci conduce in aeroporto, gli chiedo dove avremmo potuto i trovare i pesos con su il Chè (nel mercatino risponde, non li abbiamo visti) e dice che guarda se può procurarceli. Sparisce velocissimo con i miei 20 pesos..E non torna, c’è l’imbarco..Beh penso io insieme ad un’altra signora, anche se non ci porta il resto se li è straguadagnati, ma eccolo, di corsa e con i pesos del Chè, il resto meticolosamente messo in un opuscolo turistico, ce li consegna con un enorme sorriso come per dirci: “Dubitavate? Son stato bravo vero?” Lo bacerei! Tristemente si cammina sulla pista, ci giriamo a guardare..Ciao Habana..A presto..Sei unica..Grazie per tutte quelle straordinarie ed indimenticabili sensazioni che ci hai fatto vivere ed assaporare..Non vuole essere un addio ma un arrivederci..
Ricordare è bello, fa bene e tiene in allenamento la mente..Ma fa anche molto male. Mi sono chiesta molte volte perché ma non ho mai trovato risposte adeguate. Eppure non è una sensazione solo mia. A tutt’oggi, quando tiro fuori vecchie fotografie di Alice piccola, ecco che una grinfia mi stringe il cuore, graffiandolo. Che bei tempi. Se tiro fuori le mie fotografie, mi rimandano ad una Elena lontanissima, quasi irriconoscibile..Quella dei periodi di un’adolescenza difficile come tutti, spensierata ma dolorosa nei giovani e perduti amori che facevano battere e tremare il cuore..Ma questa è un’altra storia.
Dunque, “Alice dei sorrisi”. Lei non lesina sorrisi. È nata sorridendo. Ha sempre donato sorrisi. Così le è stato insegnato, ma fa parte del suo dna. Ancora ora regala sorrisi, forse un po’ meno di un tempo, d’altronde la vita con lei non è stata troppo generosa. Anzi, affatto. Pure io sorrido parecchio, ma sono diventata diffidente nel tempo, scelgo, valuto, pondero, decido..”come si cambia per non morire” canta una vecchia canzone. Ma se penso a Cuba sorrido, eccome!!! E vedo il sorriso gentile del “capitano” (di cui non ricordo il nome in questo momento, mi sfugge proprio) del “panfilo” sul quale abbiamo fatto l’escursione per vedere i posti più belli ed irraggiungibili a piedi, dell’isola. Il “panfilo”, una piccola barca che porta circa una ventina di persone, viene chiamata anche “lo maximo”. Escursione “lo maximo”. “Alcuni” immaginano una nave da crociera stile emirati arabi. Delusissimi (erano circa una decina), iniziano a lamentarsi appena saliti a bordo. Il “capitano” e l’assistente (meno sorridente) di nome Placido, non fanno una piega. Immagino capissero perfettamente l’italiano, ma molto saggiamente ed astutamente non fecero commenti. Dunque, questo “capitano” dall’età indefinibile, senz’altro non giovane per i nostri canoni, aveva un sorriso che era un programma. A libera interpretazione. Lo usava sempre riuscendo a renderlo intero a pieno viso, parziale a metà, ad un quarto, a tre quarti, e naturalmente nullo. Bastava interpretare. E, secondo me, era eloquentissimo. Bastava osservarlo, ruga più ruga meno, parlava chiaro. La lingua di chi riesce a leggere tra le righe, di chi ha la facoltà di vedere anche senza occhi. Dopo averci fatto accomodare sul “panfilo” di nome Orion inizia a spiegarci, nel suo spagnolo scandito lentamente appunto per rendercelo comprensibile, come si sarebbe svolta l’escursione. “Alcuni” subito fan cagnara uccidendo quel meraviglioso silenzio. Il mio sguardo li ghiaccia. Lui, il “capitano”, mi vede e mi sorride. Complice. Ed io, fiera, gli ricambio il sorriso. E via..Il panfilo va, mentre il “capitano” con sapiente maestria, guida con una sigaretta in bocca, tra le onde che non risparmiano. Infatti il mare è piuttosto grosso. Lui, il “capitano del panfilo”, rispetto alle altre barche tipo la sua ed agli altri catamarani che facevano il nostro stesso giro escursionistico, è partito prima. Chi prima arriva meglio alloggia. Così abbiamo visto tutto per primi evitando la calca. Siamo anche tornati 10 minuti prima, ma abbiamo guadagnato in tutto, bravo “capitano”!!! Prima tappa l’isola delle iguane. Inutile dire che mentre il panfilo guadagnava miglio dopo miglio paesaggi mozzafiato, si restava a bocca aperta dallo stupore. I colori erano incredibili. Sfumature che neanche Nostro Signore si sarebbe potuto inventare, anche qualche piccola nuvoletta rendeva il contrasto di luci più intenso. Giunti all’isola si scende, pietre e rocce presumo calcaree lacerano le ciabatte, “alcuni” nell’impeto di scendere per arrivare primi, simulando un arrembaggio, come se fossero scopritori a mò di Colombo o temessero che l’isoletta improvvisamente scomparisse od ancora che fosse una gara a premi, si tagliano i piedi. Il “capitano” guarda, non commenta, e sorride. Secondo me ha riso. Questi strani animali ci guardano, ormai abituati alle quotidiane invasioni di massa di persone che commentano urlando che sono bestie bruttissime (ma perché la gente urla e non parla?), che fanno schifo, che incutono timore e loro, le iguane, sopportano pazientemente, girano la testa, e a parer mio ci mandano a quel paese. E fanno bene, povere creature, loro che tollerano milioni di foto (si metteranno in posa?), stupidi commenti, rovinosi accidenti se gli umani si fanno male cadendo sulle loro rocce, con i volti ebeti che le guardano disgustati..E mi domando se questi umani posseggono specchi..Mah..
Risaliti a bordo, sangue qua e là di chi si è lacerato i piedi, ci dirigiamo verso il punto atto allo snorkeling.Io decido di non entrare, l’acqua è un po’ fredda, mi gusto il paesaggio, mi godo un po’ di silenzio, mi assaporo l’anticamera terrestre del paradiso. Alice mi guarda e mi chiama..Mamma..Misericordia divina soffre la barca!! In effetti ondeggia in modo vertiginoso, attraccata in attesa dei prodi in mare ad osservare la barriera corallina, dondola come un’altalena impazzita. Che fare? La porto sotto sperando in un lieve miglioramento, magari lì si percepisce un po’ meno il movimento..Nulla..Non passa..Lei non si allarma per fortuna, ha solamente lo stomaco ribaltato ma non fa una piega, dice che tutt’al più getterà in mare la colazione. Il tempo trascorre lento fino al recupero dei prodi, lei è più bianca della sabbia bianchissima del Cayo. Il “capitano” la guarda e sorride. Riprende il timone e lentamente ci conduce al Quinto Canale. Si apre di nuovo uno dei tanti paradisi. Attracca, butta l’ancora, e giù..Si scende dove l’acqua arriva al petto, poi si cammina e si gira intorno col mare che lambisce le caviglie, dove tutto ti dà l’impressione dell’infinito, dove il cielo, l’orizzonte ed il mare si confondono, dove noi stessi siamo un tutt’uno con la natura, dove la fusione è totale, dove ci si perde nell’incanto della natura..INCREDIBILE!! Alice sta ancora male, teme che scendere ed immergersi in acqua le possa causare una congestione (ha molta paura delle congestioni e qui recito un mea culpa poiché questo timore gliel’ho inculcato io), cerco di convincerla che la colazione è già in transito intestinale (mica vero, infatti non ci crede), le dico con rabbia che mi sacrificherò e resterò con lei sulla barca, mi incavolo di brutto e cerco di trascinarla giù ma niente da fare..Piange..Uff porca paletta…Che faccio? Ma ecco il “capitano”!!!! Col solito scandire lento delle parole la convince a scendere, dice che se resterà sulla barca ballerà ancora, meglio mettere i piedi per terra, le passerà senz’altro..È così convincente e saggio, pacatamente saggio, che dopo 3 minuti è in acqua e corre felice verso riva. Lo guardo e sorrido. Come a dirgli “grazie”. Ma lui, dietro ai suoi occhiali scuri, ha già capito e mi rimanda il sorriso. Il paradiso ho detto. Piccole montagne di sabbia corallina finissima sporgono, a seconda delle maree, dall’acqua, ci invitano a camminare sopra, a sdraiarci, a rotolarci come bambini lasciandoci avvolgere dalla sua morbidezza per permettere poi alle onde di lavarci..E così, veloci, passano i minuti. “Alcuni” vanno più in là scorrazzando come galline impazzite (uno si è conficcato la punta di una conchiglia nella pianta del piede, atroce vendetta di una innocente conchiglietta disturbata e calpestata nel suo quieto vivere). Il “capitano” chiama, il pranzo è pronto. Si risale, e qui mi ci vorrebbe un argano per via del mio stupido ginocchio disastrato, ma 2 baldi giovani mi aiutano premurosamente, sono salva! L’aragosta ci aspetta in bella vista, il “capitano”, notati gli sguardi famelici di “alcuni”, avvisa tutti di essere moderati, cioè di prenderne 3 pezzettini a testa, (indica il 3 con le dita), ed il riso con il sugo, poi se se ne vorrà ancora, se ne riprenderà. La calata degli Unni. “Alcuni” sgomitano per accaparrarsi i pezzi. Cadono in terra le posate. Provo vergogna, guardo il “capitano” e Placido probabilmente abituati a vedere simili barbarie maniere, ma loro mi sorridono. Poi tocca il nostro turno, Alice ed io ci serviamo. Che bontà! Bravo Placido, complimenti al cuoco!! Ottimo!! E, naturalmente, ce n’è in abbondanza per tutti, anche per il bis e per il ter..Buonissimo anche il riso bianco col sughetto, il pane col sughetto..Squisito davvero!!!
CAPITOLO QUINTO Il sughetto dicevo..Buono da far invidia agli chef più in voga, nessuna nouvelle cousine ma prelibatezze nostrane. Finisce il pranzo con gustose e dolci arance. Mentre si digerisce al sole, seduti intorno al desco improvvisato, sbircio all’interno della barca e vedo il capitano e Placido che hanno già sistemato la cucina. Ma che bravi! Placido ha lavato i piatti, sciacquati e messi in bell’ordine su un asciugamano a scolare mentre il capitano li asciuga e li ripone ordinatamente, idem per le posate. I bicchieri di carta vengono gettati in un sacco mentre i poveri resti dell’aragosta messi in un sacco in disparte: raccolta differenziata. Nel poco silenzio che ne segue (le pance son piene), alcuni si buttano a capofitto per rubare un posto al sole..Ma che ci stiano..E dalla cucina arriva un profumino di cibo molto appetitoso: pezzettini di carne di maiale fritti. Guardo discretamente e noto che ora son loro 2 a mangiare, si son cucinati il piatto dicono tipico cubano, la carne di maiale fritta, 2 bocconcini a testa. Mangiano moderato, il capitano è snello, quasi un po’ rinsecchito, Placido un omone dove però il grasso è da cercare..Più muscoli che altro. Noi italiani siamo ingordi. E si gustano il loro pranzo tranquilli. Ora c’è un po’ di silenzio finalmente, la birra ha fatto il suo effetto, qualcuno ne ha bevuta da alcolismo al terzo stadio e russa al sole. Bene, saliamo nella parte alta del panfilo e mi sdraio sulle panche fornite di materassino, tassativamente all’ombra. La barca balla un po’, guardo Alice che si siede e pare resistere e mi assopisco per un quarto d’ora cullata dalle onde ed accarezzata dalla brezza. Che meraviglia..!! poi sento il motore che si avvia, il capitano a voce bassa dice che ci porta all’isola delle conchiglie, ultima tappa della nostra escursione. Via tra le onde. Arrivati dopo un lungo e lento giro fatto ad arte sempre per lasciare dormire i disturbatori della quiete, arriviamo..Altro scenario da nirvana. Tutto si svolge come in precedenza, si scende e si cammina intorno. Pronti!!! Altro tuffo, altro timore di congestione (appena mangiato, non son passate le canoniche 3 ore) ma entro spavalda e me ne frego tanto so che Alice mi seguirà ed infatti, tra madonne e rosari, eccola in acqua. Rido di gusto senza farmi vedere perché, dietro lei sulla poppa della barca, ultima a calarsi, c’è il capitano!!! Stesse emozioni..Forti..I Caraibi sono i Caraibi, c’è poco da fare, e la sabbia del Cayo dicono che sia la più bella al mondo, io non lo so ma giuro che è inimmaginabile. Ne ho portata a casa un po’ in una bottiglietta di plastica, ho chiesto, l’han detto loro di prenderla, mi sono alzata in questo istante e l’ho fatta scorrere tra le dita..È curativa..Antistress..Non profuma più di salsedine ma mi parla e mi accarezza le dita. Vedo una conchiglia enorme e bianca, ma no eccone un’altra..Un’altra ancora..Caspita quante! Ne sollevo una, la osservo, è bellissima, perfetta, alzo timidamente dall’acqua una stella marina..È tutto un incanto..E altro non posso fare che sdraiarmi nell’acqua calda (in quelle cale è calda perché in questo periodo l’oceano è piuttosto freddo) e rotolarmi sulla sabbia come una bambina felice. Assaporo tutto, proprio tutto, rifletto sulle mie sensazioni, le faccio mie, le trasporto nella mia interiorità..E so, che quando sarò prossima a lasciare questa vita terrena, uno degli ultimi pensieri sarà a questo istante in questo posto. Una nota triste che non mi aspettavo mi saltasse in mente in un simile momento. Ma forse perché la differenza tra il paradiso celeste e quello terrestre è qui. C’è una sottilissima linea che unisce i 2. Quasi non si percepisce la differenza. E, in quell’istante, e solo in quello, neanche la morte mi fa più paura. Solo in quello però, l’ho sfiorata ed il terrore mi ha accalappiata in una morsa mentre lì non si avvertiva nessuna sensazione sgradevole, anzi, era come qualcuno tendesse una mano per portarmi verso la pace eterna. E chi si muove più? Il tempo trascorre, mi alzo, cammino intorno come ha detto il capitano, e prego. La solita preghiera di ringraziamento. Non chiedo nulla a Dio, solo lo ringrazio. E mi commuovo. Stupida Elena. Torno verso la barca e mi godo un bel bagno. Nuoto in varie direzioni, giro intorno alla barca, torno sulla sabbia, mi rotolo, mi sdraio, la faccio scorrere tra le dita, nuoto ancora, e viene ora di tornare, la pacchia è finita. Risalgo faticosamente sulla barca aiutata dai soliti baldi giovani (beh..Avranno poi solo qualche anno meno di me), e si torna verso casa. Il capitano sorride e guarda attento l’orizzonte. Il sottofondo di musica che ci accompagna dalla mattina è così delicatamente sommesso che pare una ninna nanna, sussurra parole a noi incomprensibili ma paiono quelle pronunciate dalle sirene. Son tentatrici. Perché lì è l’eden, manca solo il frutto proibito. O forse c’è e non l’ho visto.
Attracchiamo alla Marina, una coppia di pellicani oziano sulla banchina, ci danno il bentornato. Saluti e ringraziamenti, alcuni se ne scendono senza tanti convenevoli, (partono dal presupposto che loro han pagato perciò devono solo pretendere), noi tendiamo la mano che il capitano ci afferra e ci stringe con entrambe, grato di averci fatto trascorrere una bella giornata e fiero di averci condotto in posti irraggiungibili a piedi. Sorride, uno di quei sorrisi che ti avvolgono il cuore, che ti trasmettono tali emozioni che si ricorderanno per tutta la vita, che ti legano per un attimo e diventano tue per sempre. Il capitano, uno dei tanti uomini di mare che con la saggezza datagli dall’esperienza, vive serenamente le sue giornate, immagino sbarcando il lunario per la sua famiglia e per sé. Torniamo a casa, (la casa ormai è il villaggio). In bus qualcuno (dei soliti) si accorge che forse ha preso troppo sole. E rido tra me e me, non sorrido, rido di gusto perché li vedo color rosso-porpora rosso-carminio, anche con una bella varietà di sfumature.
Arrivati in villaggio, entriamo in camera, posiamo il necessario ed andiamo a mangiare una pizza. Hanno avuto un’ottima idea coloro che hanno disposto questo servizio. Così chi fa tardi in spiaggia e salta il pranzo, dalle 16 alle 18 può sbranare pizze a volontà. Leggerissime e buonissime, tali da permettere successivamente la cena. Compaiono le ragazze conosciute e l’altra coppia. Ci chiedono com’è questa gita, l’hanno prenotata anche loro, e raccontiamo. Poco dopo arrivano vociferando alcuni che eano con noi sulla barca. Urlano parole sconnesse, sembrano piuttosto arrabbiati. Boh? Guardo Alice con un’espressione enigmatica..Ma cos’hanno? Dopo un paio di minuti scoppio a ridere convulsamente, quasi mi vien da sbruffare fuori la coca-cola mentre gli altri han lo stesso sbruffo col mojto..Ecco cosa c’è!!! Il giardiniere, uomo serissimo ed un poco inquietante, è andato col suo machete a far man bassa di aloe!!!! Tutti scottati, ustionati!!!! Il giardiniere scuote la testa, li osserva senza parlare, riscuote la testa e riparte a tagliare altre foglie di aloe..Ma si può essere più deficienti? (sempre nel senso di deficiere, cioè mancare, non vuole essere un insulto). La conclusione è che la sera non sono venuti a cena, e che per 2 giorni son rimasti sotto l’ombrellone, a bordo piscina, con brandelli di pelle che si staccava..Chissà cosa avrebbero detto le iguane vedendoli così! Ed il sorriso del capitano..Eloquente più di mille parole..Ciao capitano, ciao Placido..!
CAPITOLO SESTO Bene..Cioè male..Perchè ora è giunto il momento più doloroso, quello del commiato.
I pochi giorni successivi sono trascorsi nel relax più totale nelle spiagge più belle, un po’ a Playa Paraiso ed un po’ a Playa Sirena. Non son mancate le risate in compagnia di amicizie fatte in loco (siamo state molto fortunate ad imbatterci in queste 2 coppie straordinariamente simili a noi caratterialmente), e quando si parla di “affinità elettive” il discorso si fa serio. Non è facile trovarsi bene con persone che si conoscono in una sorta di “toccata e fuga” vacanziera, oltretutto considerando sempre il fatto che odiamo il turismo di massa maleducato, prepotente e caotico.
Pertanto, giunti con il trenino alla Playa, ogni coppia si cercava il suo ombrellone per non invadere l’altrui privacy, ricongiungendoci per fare il bagno, per qualche chiacchiera, per una passeggiata e così via. I momenti per riflettere erano sufficienti a farmi meditare in quell’oasi di pace interiore che si era impossessata di me. Nulla mi angosciava. Tutto era così banalmente semplice. Anche il fatidico rientro riusciva ad avere un gusto particolare, naturalmente non dolce ma neppure totalmente amaro. Ci sarebbe stato il ricordo. Il ricordo così vivo che avrebbe supplito nei momenti critici. Respirando a pieni polmoni quell’aria così fresca, salmastra, pulita mi guardavo intorno. Sdraiata pigramente sul lettino conquistato, non riuscivo a leggere né sonnecchiare. Volevo guardare. E Dio solo sa quanto san dare gli occhi a chi sa osservare. Scrutavo l’orizzonte, il blu dell’oceano che si confonde con quello del cielo, in certi momenti diventa un tutt’uno e si mescola regalando pennellate che hanno del surreale, per poi variare ancora e dare contrasti di luce da mozzare il fiato. Questi sono i Caraibi. Cuba è i Caraibi. L’Avana è caraibica. Cayo Largo fa parte di tutto il comprensorio. Osservo la sabbia, il “borotalco” come viene chiamata, (per me è cipria) che si solleva piano piano spinta dal vento implacabile che soffia, e forma piccole dune. Ricopre dolcemente tutto quanto è appoggiato in terra, le ciabatte, le borse da spiaggia, le conchiglie, i rami delle palme..Un gioco di forme prende vita, appaiono disegni da interpretare che, con gli occhi della fantasia, possono sembrare forme di animali, paesaggi, oggetti..Invoglia al gioco, infatti inizio a farla scorrere tra le dita questa sabbia, sembra viva, mi trasmette serenità.
La musica che mi tiene compagnia è il rumore delle onde, fragore o rombo a seconda delle correnti marine, piccolo e sommesso sciacquio quando si quietano. Pare un canto, sono quasi certa che compariranno sirene da un momento all’altro, o piccole ninfe del mare che giacciono sui fondali da secoli sempre pronte ad incantare ed ammaliare chi le riesce a vedere. Che nomi avrebbero potuto avere queste spiagge se non quelli assegnati? Rifletto..È un altro mondo..Cioè mi dico, non è un altro mondo perché sono sempre sulla terra, è un altro posto così lontano e differente dalla nostra bellissima Italia. C’è chi dice che tutto il mondo è Paese, ma dipende dai punti di vista. Un momento. Parliamone. Il pro ed il contro sono ovunque. È che qui mi pare di essere in un’altra dimensione. Già in altri viaggi avevo avuto l’impressione di sentirmi proiettata in luoghi a me sconosciuti che pensavo di conoscere avendo letto ed immaginato ciò che potevano significare, ciò che mi avrebbero potuto trasmettere, ma questa volta le mie aspettative sono state superate. Ricordo di una persona conosciuta in Egitto, eravamo tutte e 2 molto deluse, accaldate rischiando un malore, un po’ incattivite dalla temperature, così conversavamo immerse nelle calde acque del Mar Rosso (peraltro fantastico), sognando l’Alaska e perdendomi nei suoi racconti (era una donna che aveva viaggiato molto e che sapeva raccontare senza stancare)..Ma ciò che mi colpì fu una sua frase: “però i Caraibi sono i Caribi”. E parlava di Cuba.
Ed aveva ragione. Ma quanta ne aveva di ragione. E non avrei immaginato che avesse così tanta ragione. Naturalmente ogni giudizio è soggettivo. Ma per me sono state parole sante.
Siamo giunti alla fine ormai. Valigie fatte, raccogliere le poche cose, si fa in fretta. Si mettono via i vestiti, i pochi souvenir ed i tantissimi ricordi. La mente rielabora tutto, rimuove ciò che non serve del passato e fa posto a queste nuove acquisizioni. Ci guardiamo intorno, la nostra stanza sembra appartenerci. Siamo molto smarrite. Va lasciata libera entro le 10. Al solito, giustamente. Manca mezz’ora, c’è il desiderio di scendere in spiaggia per l’ultimo bagno di sole prima di pranzo, il volo è alle 16.15. Ma non vogliamo uscire. La camera è diventata la nostra casa. Abbiam vissuto 8 giorni come se fossero stati 8 mesi. Con un’intensità tremendamente complice di sensazioni nuove e sconosciute. Anche i colori della stanza ricordano il mare dei Caraibi. E tutto diventa doloroso, così guardo Alice e con un “uff” porto fuori la valigia ed esco. Ho agito d’impulso, d’impeto, con uno scatto quasi felino. Altrimenti non ce l’avei fatta. Metto la valigia nella hall e mi fionzo sul lettino in spiaggia. Una moltitudine di pensieri si affollano, sgomitano, turbinano e neanche se apro gli occhi smettono. Alice mi raggiunge. Non una parola. Ci guardiamo e basta. Per fortuna arrivano le altre coppie, così decidiamo di sederci al bar ed aspettare insieme il pranzo. I visi di noi tutti sono molto amareggiati ma nessuno osa parlarne. Loro si danno ai “mojto” (io sono astemia), vado a pina colada senza rum, a miscugli di cocktail facendo brindisi a non finire a tutti noi, alla nostra compagnia, alla vacanza, a Cuba..E noto che l’alcol fa il suo effetto. Beati loro mi dico. Mentre io deglutisco, amaramente, il dolce succo della pina colada senza rum. Che non mitiga la mia sofferenza della partenza. Arriva l’ora di pranzo anticipata ad hoc, facciamo unire i tavoli per l’ultimo pranzo insieme ma nessuno mangia granchè. Si pilucca.
Si beve il caffè. Rigorosamente amaro. Io l’ho sempre bevuto amaro, mi piace amaro, me lo gusto amaro. Ma questo è proprio amaro. Si esce davanti al villaggio accompagnati dai ragazzi dello staff in attesa degli autobus che ci porteranno all’aeroporto. Pochi parlano, alcuni ridono nevrotici. I soliti urlano e fanno gavettoni stupidi. Nessuno ha più tempo di cambiarsi d’abito. Patetici. Arrivano i pulmann, non ci stiamo tutti, inutile dire che serenamente, a differenza di altri, aspettiamo.
Arrivati in aeroporto siamo proprio gli ultimi a fare il check-in, son rimasti 6 posti sull’aereo in fila indiana, ma che c’importa pensiamo noi..
Aspettiamo poco nella piccola sala d’attesa che fatica a contenerci, guardiamo l’aereo che ci riporterà a casa. Bravo, fai il bravo sento dire da un amico, ha terrore di volare. Io no. Perciò mi sento avvantaggiata e vado a distrarlo. L’imbarco. Non sono seduta vicino al finestrino naturalmente, nella fila centrale con Alice davanti, per questo non riesco a sbirciare fuori ma tanto ho tutto nella mente. Pronti..L’aereo si muove, rullio..Decollo..Ciao Cayo..Un nodo mi stringe la gola, non è che non voglio tornare a casa, quella vera, perché è finita la vacanza ma perché lascio un posto così, che non si può dimenticare, perché mi ha donato emozioni mai provate, perché mi ha regalato attimi di vita, vita vera, perché ha saputo farmi riflettere..Siamo sull’isla grande, stiamo volando su cuba..Ciao Avana..Mitica, grandissima, meravigliosa Avana, con i tuoi quartieri ricchi e splendidamente poveri, con la tua dignità così signorile, con i tuoi colori così vivaci, con le tue musiche così languidamente coinvolgenti (perché a Cuba non si cammina, si baila), con la tua gente ed i suoi sorrisi..Ciao Cuba..Questo vuole essere un arrivederci e non un addio..
Perché a Cuba non possono esistere addii.
With love. Sincerely.
Elena