Due ragazze in Etiopia di Addis Abeba e Omo Valley
Se normalmente siamo solite arrangiarci in modo autonomo, per questo viaggio al di fuori del tempo abbiamo preferito appoggiarci ad un Tour Operator. La scelta non è stata semplicissima: prima di tutto abbiamo inviato mille mail ad operatori locali che però o non ci hanno risposto, oppure lo hanno fatto chiedendoci cifre esorbitanti (fino a quasi 3000€ per 10 giorni di viaggio)! Alla fine, vagando sul web, capitiamo su un articolo che un giornalista rivolge ad un certo Leonardo Francesco Paoluzzi, concernente la sua attività in Africa sub-sahariana e lo contattiamo. Scopriamo che dirige un’Agenzia, la Kanaga Adventures Tours, con sede a Bamako in Mali, ma organizzante tours anche in tutti i paesi limitrofi (Niger, Togo, Benin, Costa d’Avorio, Ghana, Mauritania, ecc… compresa l’Etiopia!). La sua risposta è rassicurante: ci accompagnerà personalmente e la cifra richiesta non è eccessiva: per 10 giorni di tour chiede 1760€, comprendenti il trasporto con autista, gli alloggi (tra cui qualche notte in tenda nei posti in cui non è possibile alloggiare in strutture “solide”), breakfast e cene compresi e guide locali parlanti inglese, senza tener conto della sua costante presenza a risolvere ogni eventuale intoppo.
Noi partiamo diversi giorni prima dell’inizio del Tour, proprio per poter visitare Addis Abeba, e con lei la scuola che spero mi accoglierà. L’impatto con la capitale è scioccante: caotica e disorganizzata, smog all’estremo livello (tanto da faticare a respirare), stradoni difficilmente percorribili a causa di lavori stradali mal organizzati, e fatti, sembra apposta, invece che per facilitare il traffico per complicarlo ulteriormente…. ma soprattutto la povertà dilagante che si respira ad ogni angolo di strada: bambini, vecchi, storpi, ciechi, lebbrosi, che dormono avvolti in sacchi della spazzatura in mezzo ai marciapiedi, senza neanche un tetto in cartone per ricoprirsi dai violenti scrosci di pioggia (vi ricordo che agosto è stagione delle piogge!), ragazzine che lavano i propri cenci nelle pozzanghere putride ai bordi dei marciapiedi. Altro inconveniente (e non da poco…) è che vedere due donne bianche aggirarsi sole in mezzo al nero dei marciapiedi e dei colori della pelle non passa inosservato: tutti ci additano continuamente. “Farengi, farengi! Birr, Birr, Birr!” (bianchi, bianchi! Soldi, soldi, soldi!), questo è il ritornello estenuante che ci perseguita, ma che non possiamo evitare in alcun modo.
Camminiamo senza meta precisa per le strade della “Piazza”, il quartiere centrale della capitale, alla ricerca di un albergo in rimpiazzo a quello prenotato dall’Italia via internet, il Taitu: fatiscente, sporco, senza rubinetti e di conseguenza senz’acqua, con insetti che infestano la stanza e i letti, letti tra l’altro pure sfondati, sedendoti sui quali ti ritrovi letteralmente col sedere per terra… e il tutto per la “modica” cifra di 25/35$ a notte, uno sproposito per i target locali. Nei pressi troviamo una Pension, la Baro, con un piccolo ristorante e una verandina ricca di viaggiatori zaino in spalla con cui conversare delle proprie esperienze di viaggio, e quindi diciamo addio al Taitu senza alcun rimorso (anzi con sollievo) e prendiamo una camera bella ampia, con due twin bed, una bella vasca da bagno con acqua calda per la cifra di 350 Birr a notte (circa 12€ da dividersi in due!). Una mattina ci rechiamo alla scuola: veniamo accolte calorosamente e ci permettono di visitarla e di parlare con il personale dell’amministrazione. È molto ben tenuta, aule ampie e moderne, un grande cortile esterno dove giocare e il tutto pulito a lucido (sembra impossibile dopo aver visto lo sfacelo e la sporcizia della città…). Questo mi rincuora e mi fa pensare che tutto sommato, con un po’ di adattabilità, si possa vivere in una città terribile come Addis Abeba.
Due giorni prima di iniziare il nostro tour nella Omo Valley sentiamo per telefono (abbiamo comprato una Sim locale) il dirigente dell’agenzia: ci raggiunge in un locale, il Razel Cafè, dove si possono consumare pasti sia locali che “per farengi” e discutiamo su ciò che sta per accaderci: saremo immerse in culture talmente diverse dalla nostra che faremo fatica ad adattarci, ma il dirigente, che ci farà da guida, ci tranquillizza e ci dà appuntamento per il 7 agosto al mattino presto alla Baro Pension per caricare noi e i nostri bagagli ed iniziare la nostra avventura.
Come prima giornata ci porta in giro per la capitale: visitiamo il Museo Nazionale, quello dove c’è Lucy (o meglio, la sua copia!), l’Australopiteco nostra antenata; la chiesa di Entoto Maryam, sulla collina dominante Addis; la cattedrale della Santissima Trinità, dove sono custodite le spoglie dell’Imperatore Hailè Selassiè; e anche il Museo Etnografico, nel quale abbiamo un’anteprima delle varie etnie che incontreremo. Alla sera, ci portano in un hotel, il Regency, che a confronto di dove abbiamo alloggiato finora, è una reggia: letti con materassi degni di questo nome, doccia ampia e calda, asciugamani forniti, WiFi gratis e potente… insomma, perfetto! la nostra guida cena con noi in un locale tipico distante pochi metri a piedi dall’hotel. Ci portano N’jera con vari tipi di salse (è una sfoglia spugnosa e acidognola, piatto nazionale etiope, su cui vengono serviti vari tipi di salse e carni diverse e che si mangia strappandone dei lembi da utilizzare come “pinze” per prendere le salse stesse, rigorosamente con le mani), Doro Wat (spezzatino di carne molto speziato) e Shiro (uno stufato di lenticchie, ricchissimo di sugo e spezie).
L’indomani si parte per la vera avventura: a guidarci c’è anche Eskinder, il nostro autista etiope, un personaggio davvero simpatico e molto premuroso. Il nostro Toyota percorre chilometri e chilometri di strade in parte asfaltate, in parte no, su cui circolano non solo automezzi e carretti, ma anche zebù, capre, pecore, cavalli e muli in quantità industriale, e che non sembrano neanche essere disturbati dalla nostra automobile. Il tempo non ci è amico (piove e fa pure freddo), ma ci fermiamo ugualmente a Tiya per visitare un sito archeologico costituito da molte steli tombali ricoperte di simboli guerrieri (spade, prevalentemente…) e di cui ancora non si conosce l’esatta origine. Proseguiamo per Adadi Maryam, una chiesa interrata scolpita nella roccia, a cui per accedere bisogna scendere letteralmente sotto il suolo e che ha la caratteristica forma a croce, tipica delle chiese di Lalibela.
L’auto riprende il suo viaggio ed attraversiamo territori sconfinati, interrotti solo qua e là da sparuti villaggi e dalle mandrie che infestano l’asfalto, governate da piccoli pastori che ci urlano contro il solito “Farengi, farengi!”. A sera si arriva ad Arba Minch, cittadina crocevia per diverse destinazioni, e sormontata dal Paradise Lodge: meraviglioso! Il nome dice già tutto: uno scenario mozzafiato, si domina la valle e in lontananza si vedono i due laghi di Abaya e Chamo divisi da una sottile striscia di terra chiamata “il ponte di Dio”. Il nostro bungalow è quanto di meglio ci possiamo aspettare: ampio, pulito, letti con zanzariere, bagni con acqua calda (non è sempre così evidente in Africa, chi ha viaggiato in quei posti può capirmi!…) ed una veranda con panorama meraviglioso. La cena è servita a buffet, ma la guida, dopo aver parlato con il personale, ci permette di mangiare “alla carte”, scegliendo quindi quanto più ci aggrada.
Il mattino dopo, saliamo su una barca che ci porta sul Lago Chamo per vedere da vicino i numerosi pellicani che vi annidano, circondati da coccodrilli ed ippopotami. Ci avviciniamo anche alla canoa di un pescatore che ci mostra con orgoglio il suo carico di Tilapie, pesci lacustri molto buoni, e che una volta sbarcati ci fa anche una dimostrazione con grande maestria di come vadano sfilettati, roba da fare invidia ai migliori pescivendoli e cuochi al mondo.
Nel pomeriggio, ci rechiamo sulle alture circostanti per vedere la nostra prima popolazione tribale, i Dorze, che vivono in costruzioni uniche al mondo, molto alte e fatte con foglie di ensete, il falso banano endemico dell’Etiopia. Questa pianta è la fonte della loro sopravvivenza, ci fanno davvero di tutto: dai tetti delle case, al cibo ottenuto non dai frutti (non ne fanno…) ma dalla parte interna del tronco, alle fibre che trasformano in cordami resistentissimi e molto altro ancora. Ci fanno assaggiare il loro miele, raccolto direttamente dai favi, e bere un distillato fortissimo, ma molto buono. I bambini ci circondano e passeggiano per il villaggio assieme a noi e alla luce di un sole che finalmente fa capolino tutto sembra davvero meraviglioso.
Visitiamo anche il mercato della cittadina di Chencha: coloratissimo, rumoroso, ma festante; vi si vendono sia merci di ogni tipo che bestiame, prevalentemente muli e cavalli. Qui, circondate dalla folla, riecheggia il grido: “Farengi, farengi!”, ma noi ormai facciamo finta di nulla e continuiamo a fotografare e a filmare cercando invano di non dare troppo nell’occhio.
Il giorno dopo arriviamo ad un villaggio Erbore… e subito dobbiamo affrontare il problema più ricorrente del nostro viaggio: gli abitanti vogliono essere pagati per ogni fotografia a loro scattata. Chiaramente tutto diventa subito più complicato ed opprimente… La mia amica propone alla nostra guida un compromesso: invece di pagare foto per foto, diamo un forfait al capo-villaggio e così siamo più o meno libere di scorrazzare tra le capanne, sotto un sole ed un’afa opprimenti. Risaliamo sul Toyota distrutte da quell’incontro, così diverso da quello coi Dorze, più amichevoli ed accoglienti. Leonardo ci spiega come purtroppo l’arrivo del turismo non sia stato un bene per questi popoli, poiché molti ragazzi preferiscono farsi fotografare che trovare un’occupazione o studiare, in quanto questo comporta loro un maggior guadagno a scapito della loro cultura.
Lungo la strada che ci porta dagli Hamer, incontriamo due ragazze appartenenti a questa etnia e ci fermiamo per conversare con loro. Notiamo subito la differenza nei loro ornamenti: portano entrambe un pesante collare, ma quello della più giovane, che è una “prima moglie”, ha in più un grosso spuntone metallico. Questo spuntone è molto ambito dalle donne, perché essere “prima moglie” è considerato un privilegio. Entrambe hanno la classica acconciatura a caschetto, con i capelli raccolti in filamenti impastati con argilla e burro, e questo impasto, oltre a renderli rossi e lucenti, li protegge dal sole e dagli insetti. Portano il tipico gonnellino in cuoio ornato da borchie metalliche ed anelli di ferro.
Arriviamo verso sera ad un villaggio per assistere all’Evangadi, una tipica danza Hamer di corteggiamento. Anche qui dobbiamo rassegnarci (ahimè…) a pagare il famigerato forfait per permetterci di immortalarli.
All’indomani raggiungiamo Omorate ed attraversiamo con una canoa in legno il fiume Omo per recarci dai Desanech. Ennesimo forfait e giriamo tra le capanne, ammirando le strane acconciature delle ragazze, che sono solite abbellire il corpo ed i capelli con qualunque oggetto trovino: tappi di bottiglie (sia in sughero che di metallo), perline colorate, oggetti in ferro o in alluminio, e chi più ne ha, più ne metta! Utilizzano inoltre la scarificazione per abbellire la pelle, praticando con lamette dei taglietti che riempiono di cenere per incistarli e renderli in rilievo.
Riattraversiamo il fiume e ci rechiamo al mercato di Turmi, frequentato prevalentemente dagli Hamer, dove vengono venduti latte, burro, zucche scolpite, pelli varie ed ornamenti per il corpo.
Alla sera avremmo dovuto assistere ad un evento che tanto aspettavamo, il Salto dei Tori, cerimonia che suggella il passaggio all’età adulta dei giovani Hamer e Banna, ma che purtroppo era già stata celebrata qualche giorno prima del nostro arrivo. Per consolarci, la nostra guida ci propone un extra: la visita ad un villaggio Karo, non prevista nel nostro itinerario. Qui veniamo di nuovo subito circondate e si ripete la solfa del chiedere i soldi. Paghiamo il forfait e finalmente siamo libere di aggirarci nel villaggio per vedere le donne atte a compiere le loro faccende quotidiane (accudire ai più piccoli, preparare la farina con il miglio e col sorgo, ecc…), ammirare lo splendido panorama sull’ansa del fiume Omo e fotografare i bambini che per rendersi più carismatici e proteggersi dagli insetti pitturano il proprio corpo con creta bianca, rendendosi simili a piccoli fantasmi o a scheletri erranti. Evitiamo però di riprendere gli uomini, che a quanto pare tengono molto alla loro privacy, e che se ne stanno appollaiati sui loro tipici “pillow” di legno, usati sia come cuscini per dormire che per sedersi in qualsiasi momento loro aggrada.
Dormiamo in tenda a Turmi, in un campeggio ben attrezzato, il Buska, dove le nostre tende poggiano su una piattaforma in cemento rialzata e coperta a protezione delle piogge.
Altro giorno e altro mercato, quello di Dimeka, dove le popolazioni Hamer e Banna si scambiano le loro merci (esiste ancora la pratica del baratto). Odori, colori, rumori: tutto è molto avvolgente, si viene sommersi dai suoni e dalla costante sirena d’allarme “Farengi, farengi!” che sembra attivarsi ogni qual volta ci uniamo alla folla. Le donne Hamer e Banna si mescolano in modo quasi indistinto, differenziandosi solo nel fatto che le Banna portano un’arricciatura sul gonnellino e che non colorano i loro capelli con l’ocra rossa. In un altro mercato, ad Aldouba, frequentato dai Banna, ci viene offerta una strana bevanda fermentata composta da sorgo e latte, dal sapore acido, ma che gli abitanti bevono abbondantemente seduti in comunione attorno ad un grande albero. Dagli schiamazzi dei presenti, sembra funzionare bene come euforizzante. Anche fin troppo… visto che uno dei presenti, completamente ubriaco, comincia ad inveire contro di noi farengi, chiaramente in un linguaggio per noi incomprensibile, ma viene subito bloccato dalla nostra guida, da Eskinder e dal ragazzo etiope che Leonardo ha contattato sul posto per farci da guida locale, permettendoci di allontanarci senza nessun problema.
Nel pomeriggio ci fermiamo in un villaggio sulle alture abitato dagli Ari, altra etnia che vive in casette fatte di rami, bambù e terra, ma rifinite e pitturate così bene da sembrare in muratura. Mettono alla mia amica una gonnellina tipica delle donne Ari e ci portano a visitare le loro abitazioni. In una di queste, una donna sta preparando l’Njera e mi chiede di provare, ma decisamente la mia maestria nello spargere la mistura di Tef in modo circolare sul tegame di terracotta è di gran lunga inferiore alla sua e faccio una brutta figura, tanto da provocare l’ilarità di tutti i presenti. Ci fanno assaggiare anche un distillato molto alcolico, ma dal gusto molto buono, che preparano utilizzando un vero e proprio alambicco gigante di terracotta.
In serata arriviamo a Jinka e qui abbiamo una sorpresa: il campeggio dove avremmo dovuto pernottare è privo di elettricità e soprattutto di acqua… ma la nostra guida non si fa scoraggiare e pur di offrirci il meglio ci fa risalire in auto e andiamo a cercare una pensione in città. L’impresa si rivela più ardua del previsto, visto che i pochi alberghi della cittadina sono al completo, ma Eskinder, il nostro autista, ne conosce uno aperto da poco, dove troviamo camere ben tenute ed aventi tutto il necessario. Dopo tutto, siamo ben contente di aver avuto l’intoppo al campeggio, così possiamo usufruire di un vero e proprio letto!
Il giorno successivo è quello più atteso, ma al tempo stesso il più temuto dalla sottoscritta: visitiamo i Mursi, un’etnia famosa per l’uso da parte delle donne di enormi piattelli labiali e per le scarificazioni sul corpo, ma famigerata anche per non essere troppo ben predisposta nei confronti dei “farengi” e soprattutto mette timore il fatto che praticamente tutti i maschi adulti vadano in giro armati di Kalashnikov. La guida, un po’ per alleviare il mio timore, ma soprattutto per indurci a smettere con la pratica di fotografare le tribù e impedire così che siano “dipendenti” dal denaro dei turisti, ci invita a praticare “lo sciopero delle foto”… Dopo averne parlato molto, decidiamo di scendere ad un compromesso: solo la mia amica (molto più brava di me in quanto a fotografia) prenderà poche, ma mirate fotografie, mentre io armata di nulla tenterò di aggirarmi nel villaggio attirando l’attenzione; sono molto più rari i turisti senza fotocamera… e questo per i Mursi è decisamente insolito e spiazzante! L’incontro comunque si rivela meno traumatico di quanto immaginassimo, poiché Leonardo, dopo aver interpellato la guida locale, ci porta in un villaggio non troppo avvezzo al turismo di massa e quindi la nostra presenza crea curiosità, ma non ostilità. I bambini ci circondano festosi e le donne con i loro piattelli labiali ce li mostrano con orgoglio e vanità, assieme alle loro particolari scarificazioni.
Altro fuori-programma che Leonardo ci propone è quello di una visita al popolo dei Bodi, molto simili ai Mursi nella fisionomia, ma più accoglienti ed ospitali.
A sera torniamo a Jinka e facciamo un giro per le stradine del centro. Anche qui la presenza di due bianche non passa inosservata, ma nessuno ci infastidisce e camminiamo tranquille, sempre scortate dalla nostra guida che ci dà ragguagli riguardo agli usi e ai costumi delle popolazioni che abbiamo finora visitato.
La mattina successiva ci spostiamo a Key Afer dove si tiene il mercato settimanale. Qui Hamer, Tsemay (altra etnia) e Ari si mescolano in un tripudio di colori e di merci.
Nel pomeriggio visitiamo l’ennesima tribù, i Konso. Ci fa da guida locale un anziano signore, molto cordiale e soprattutto molto orgoglioso di poterci (in un perfetto inglese) spiegare tutte le usanze del suo popolo. Le case sono magnifiche, il villaggio è un vero dedalo di stradine create proprio per impedire, in antichità, che popoli nemici potessero orientarsi agevolmente. Se Dinote Kysia (questo è il suo nome) non ci avesse accompagnato, ci saremmo senz’altro perse, impossibile capire in che direzione si stia andando e i vicoletti si fanno sempre più stretti man mano che ci si addentra nel cuore del villaggio. Ai lati del sentiero però piccole porticine aperte tra gli alti steccati di recinzione fanno intravedere vasti cortili interni, dove anche più componenti della stessa famiglia e gli animali alloggiano insieme: bellissimi, molto ben curati; bambini festosi si affacciano dalle porticine per salutarci e il nostro vagabondare tra i vicoli è un vero piacere. Lasciamo Dinote con rammarico, ma con sorpresa lo ritroviamo il mattino seguente: ci è venuto a salutare personalmente per il nostro rientro in capitale e ci lascia la sua mail, facendoci promettere di scrivergli al più presto.
Nel pomeriggio sostiamo lungo la via del ritorno e ci addentriamo in una stradina laterale, dove sostiamo. Qui veniamo invitati in un’abitazione dell’etnia Alaba, dove ci offrono una tazza del loro caffè: l’unico problema a cui non eravamo pronte (avevo letto qualcosa in merito, ma avevo dimenticato questo particolare) è che lo insaporiscono col sale perché lo zucchero è decisamente un bene troppo costoso che solo pochi possono permettersi. Cercando di evitare di fare facce troppo espressive, lo beviamo per non offendere l’ospitalità e conversiamo (se così si può dire…) scambiando qualche frase tradotta dal buon autista Eskinder. Per ringraziarli, lasciamo loro qualche saponetta, bene per loro prezioso.
Ultima meta del nostro tour (sulla strada del ritorno) è il Lago Langano dove alloggiamo al Sabana Resort, un posto meraviglioso a bordo lago, con magnifici bungalow e un ristorante fornitissimo e molto ben curato… E’ davvero un peccato non poterci restare qualche giorno in più per rilassarsi dopo il nostro lungo peregrinare.
Il tour ormai è alla fine e ritorniamo nella capitale. Qui visitiamo insieme a Leonardo il “Merkato” (così è chiamata questa zona commerciale di Addis Abeba), che è (pare…) il più vasto di tutta l’Africa. L’essere tornate però nello smog e nel caos cittadino già ci fa rimpiangere i giorni appena passati nelle campagne e nei villaggi.
Per finire in bellezza, la guida ci porta in un locale di Addis Abeba dove, mentre si mangiano e si bevono piatti e bevande tradizionali, assistiamo ad uno spettacolo di danze folkloristiche: gli etiopi hanno un modo tutto loro di danzare, muovendo maggiormente le parti alte del corpo (spalle e collo) che non le gambe, come spesso avviene. Finita la cena dobbiamo salutarci, ma non senza riprometterci di risentirci per un’altra futura avventura in terra d’Africa.
Mi sento in dovere di spendere qualche riga in merito alla professionalità della nostra guida. Chi mi conosce, sa che non sono avvezza ad elogi gratuiti, tanto meno a promuovere Tour Operator (normalmente mi muovo in modo autonomo), ma in questo caso sarebbe stato davvero difficile per due ragazze (per di più “bianche”…) girare tranquille in luoghi così poco frequentati dal turismo di massa e in alcuni casi considerati anche ostici. Tutto è filato liscio come l’olio: nessun intoppo e se ce ne sono stati (come ad esempio nel campeggio di Jinka) risolti brillantemente e in pochissimo tempo. Reputo pertanto la Kanaga Adventures Tours affidabilissima e raccomandatissima a chi deve affrontare località spesso al di fuori dei “giri” tradizionali africani (Africa dell’ovest e sub-sahariana, prevalentemente, considerate a torto pericolose o poco ospitali).
Arrivederci, Africa… io tornerò!