(Dis)Avventure marocchine

(Dis)Avventure marocchine Lo scenario davanti a noi si apre maestoso e azzurro. L’Africa è li. Zaino in spalla e scarpe ai piedi, scendiamo dal traghetto veloce che in poco più di mezz’ora ci ha trasportato dalla medina arabo-andalusa di Tarifa a Tangeri, prima tappa obbligatoria di questa terra ricca di fascino paesaggistico e storico: il...
Scritto da: chinaski83
Partenza il: 08/04/2008
Ritorno il: 27/04/2008
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 500 €
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(Dis)Avventure marocchine Lo scenario davanti a noi si apre maestoso e azzurro. L’Africa è li. Zaino in spalla e scarpe ai piedi, scendiamo dal traghetto veloce che in poco più di mezz’ora ci ha trasportato dalla medina arabo-andalusa di Tarifa a Tangeri, prima tappa obbligatoria di questa terra ricca di fascino paesaggistico e storico: il Marocco. Una mescolanza disordinata , un traffico sregolato e una intraprendenza della gente che rasentava il fastidio. Ecco il primo impatto. Saliamo su un taxi destinazione stazione. Treni confortevoli come i tipici vagoni di seconda classe delle ferrovie italiane con annessi i soliti ritardi, ci accompagnano in quella che doveva essere la prima città di un itinerario che nasceva da solo, insieme al sole, ogni mattina. La città imperiale per eccellenza, Rabat, la capitale amministrativa. Dieci lunghe ore scandite dalle numerose fermate lungo un percorso dove al verde collinare si alternano ruderi e piccoli borghi affollati e frenetici. Puntualmente in ogni stazione, ventagli di ragazzini salgono sul treno, cercando, spesso invano, di vendere ai rispettosi viaggiatori ogni sorta di prodotto agricolo e artigianale. Un’ atmosfera da grande mercato al chiuso che avremmo successivamente ritrovato anche sugli autobus locali. La gente inizialmente indifferente ed esitante, dopo centinaia di km e ore passate a fissarci con una curiosità che traspariva dal loro sguardo aperto e sorridente, vede che siamo in difficoltà con una cartina del Paese in mano. Subito si avvicina un ragazzo, studente universitario e perfettamente bilingue (arabo e francese), jeans stretti e polo Lacoste, desideroso di aiutarci per tirarci fuori da una situazione che poi scoprimmo difficile e, per un certo verso, imbarazzante. La capitale l’abbiamo appena superata. Il treno è ripartito e il fragore della risata amica ma sarcastica dello studente attenua momentaneamente il nervoso che ci assale. Ora l’unica possibilità è proseguire verso Casablanca. Dopo un altro paio di ore finalmente arriva. Appena scesi, camminando verso l’entrata della stazione sud, un terzetto di taxisti ci fa strada proponendoci con un ardore e una loquacità invadente simile a quella di Totò nello scompartimento con l’onorevole, le mille e più destinazioni dove avremo potuto dormire quella notte già caduta. “A la gare du bus pour Essuoira, s’il vous plète’”. Chissà perché ma Casablanca non la prendiamo in considerazione. Lungo il tragitto che dalla stazione dei treni ci porta a quella dei bus, lentamente, con il susseguirsi dei quartieri, capiamo l’inquietudine e lo scarso entusiasmo dell’autista appena seppe la nostra volontà. Palazzi fatiscenti e un grande buio spettrale e angosciante fanno da cornice al nostro passaggio. Veniamo lasciati a trecento metri dal posto richiesto e appena scesi, pavidi e spaesati, veniamo letteralmente circondati e scortati da una decina di ragazzi che passo dopo passo ci ‘proteggono’ dalle altre centinaia di potenziali guastatori che affollano il piazzale adiacente alla stazione. Appena entrati all’interno dell’edificio, senza sapere come, ci ritroviamo chiusi dentro uno stanzino che altro non era, nelle ore di luce, la classica postazione degli impiegati allo sportello. Con sfacciata prepotenza, vogliono a tutti i costi venderci il biglietto necessario per salire sul Bus in partenza da li a una mezzora. E così fu. A zonzo sull’oceano…

Donne fiere e risolute allungano le braccia coperte dagli sgargianti hijab nei banconi colmi di frutta e ortaggi, chiedendo rispettosamente consigli sulla bontà dei prodotti. Arance, fagiolini, patate e cavolfiori, spadroneggiano sotto i tendoni usurati lungo tutta la strada. Profumi gradevoli di spezie si alternano a miasmi difficili da sopportare. Un grande monumentale arco sancisce la fine della città vecchia e, come d’incanto, l’oceano possente ma silenzioso diventa la sola veduta per i nostri occhi. Un lungo marciapiede diroccato e scomposto permette di passeggiare tenendo il mare per la mano, mentre stormi infiniti di gabbiani attendono il ritorno dei pescatori. Giunti a riva, accucciati su uno scoglio lungo e longilineo, con le spalle rivolte verso il mare, sventrano con lunghi coltelli pesci ancora ansimanti. Le interiora lanciate al vento fanno la felicità di questi uccelli bianchi e splendenti, veri guardiani di questo paesaggio così maledettamente affascinante e vigoroso. Come i volti dei pescatori, viso pieno e vissuto, quasi marmoreo, con quello sguardo scavato e profondo che può unicamente appartenere a chi ha costantemente gli occhi proiettati verso l’orizzonte infinito o nel profondo blu. Blu come il cielo terso e le caratteristiche barchette in legno posteggiate in un delizioso piccolo molo costruito sulla pietra, simbolo della vocazione marina della città. Ovunque passeggi, carretti pieni delle più stravaganti varietà di pesce, insieme all’accattivante profumo del fritto e della griglia, obbligano il turista a fermarsi per una sosta di culinario piacere. La possente cinta che delimita il perimetro di Essouira sovrasta le scogliere dove onde arrivate da chissà dove si infrangono in un impeto ritmato e fragoroso. Il sole che lentamente cala regala ai sensi momenti di pronunciato visibilio. Ora si riesce a comprendere come mai grandi artisti, tra cui Jimi Hendrix, trovarono qui il loro rifugio contemplativo. Musica che da un po’ di tempo è entrata a pieno titolo nelle attrazioni principali del posto, grazie all’Essouira gnaua festival, dove ogni anno, nel mese di giugno, la città si trasforma in un grande palcoscenico con artisti che da ogni parte del mondo vengono a donare la loro arte alle migliaia di persone che regolarmente partecipano, facendo diventare questo festival uno dei più celebri di tutta l’Africa. La notte trasforma il continuo, proprio, regolare vociare del giorno, in cupi e isolati schiamazzi. Il sole è vita, la notte è fatta per dormire. Sembra che questo concetto scandisca il quieto vivere quotidiano degli abitanti del posto. Rimane la grande distesa di sabbia illuminata dai prominenti lampioni e le decine bandiere del marocco con l’immancabile effige del re di turno affissa a grandi cartelli che ricordano quelli dei politici in campagna elettorale, ad accompagnarci verso il sonno. Marrakech express… Partenza verso Marrakech. Un autobus Volvo bianco a strisce rosse e verdi uscito direttamente dagli anni ’70, con gli ammortizzatori notevolmente rigidi e l’inspiegabile continuo odore di metano che si distingueva ad ogni altezza del corridoio, accompagna noi e ed altri marocchini, lungo desolate lande, ora verdeggianti, ora brulle, ora collinari, in un susseguirsi di molteplici paesaggi. Ogni tanto spunta una fabbrica fumante. Cattedrale nel deserto. Un disordine di facce e di voci, e le immancabili ‘guide’, accolgono il mezzo nel piazzale adiacente le mura della città. Ogni passo è un altrettanto invito ad unirsi al personaggio di turno in cerca di qualche turista da spolpare. Un omone di pelle più scura rispetto alla media dei marocchini ispira la nostra fiducia. Alto e con un fisico poderoso, una lunga tunica blu che arrivava fino alle caviglie, un viso da bambino con dei dentoni da coniglio sempre in mostra dato il suo perenne sorriso, lo rende tenero e conciliante . In testa indossa un copricapo nero stile rabbino. Viuzze strette e rumorose cedono il posto ad altre dove a regnare vi è solo il silenzio. E se nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino, qui probabilmente anche gli autoctoni devono usare la bussola per trovare la via del ritorno. Un albergo consigliato (ci lavorerà un amico suo?) dalla nostra guida provvisoria accoglie rapidamente i nostri bagagli. Ma per noi ancora non è giunto il momento di poter godere della nostra indipendenza. Quasi costretti a seguirlo nuovamente (sempre con il sorriso stampato sul volto però…) arriviamo in una stradina che ricorda i classici scantinati dei condomini, con piccole porte in legno disposte serialmente e identiche tra di loro, chiuse con un grande lucchetto attorniato intorno ad un asse. Oltre una di questa porte vi è lo ‘shop’ del gigante buono. Uno stanzino grande due metri per due, pieno di oggetti artigianali realizzati da lui (chissà…) , braccialetti in ferro, collane di pietra, pipette in ‘argento’ e tante altre cose. La ricompensa per averci fatto trovare l’albergo è un acquisto nel suo ‘negozio’. Con i giorni apprendemmo che l’eccezionalità consisteva nel tornare a casa senza essersi imbattuti in alcun tipo di invito. Talmente eccezionale che non ci capitò mai. Un dedalo di suk, colori sgargianti e profumi speziati caratterizzano le vie di questa ineffabile metropoli. E se tutte le strade portano a Roma, qui tutti i sentieri cittadini portano a piazza Jama el’Fna. La piazza. Luogo sconfinato e confuso, ricettacolo di artisti improvvisati, incantatori di serpenti, maghe che predicono il futuro ai turisti in cerca di rassicurazioni, danzatori e musicisti indemoniati, chalet pieni di ogni sorta di cibo, dalla sempre presente tagina, ai lumaconi giganti cotti al vapore e serviti in una grande tazza, colma di un brodo bollente condito con l’immancabile cumino. Il leggero strato di nebbia che alla sera si propaga nello spazio della piazza, altro non sono i fumi che fuoriescono dai grandi pentoloni. Bambini sfigurati girano per i tavoli in cerca di cibo o monete, mentre camerieri spazientiti cercano invano di preservare il cliente da simili disturbi. La guerra tra poveri. Un marocchino emigrato in Italia in cerca di fortuna nota la parlata italiana proveniente dal nostro tavolo. Con discrezione si avvicina e, alla fine, prende posto di fianco a me. La conversazione è utile e piacevole, forse la prima delle tante veramente disinteressata…Apprendiamo con stupore di come lo stipendio medio di un lavoratore pubblico si aggira intorno ai tre dollari al giorno. Un turista, quella cifra, la da come mancia all’avventore di turno. Perché non provare? Segue invito a casa sua. Un grande portone nasconde uno spiazzo quadrato nel quale si affacciano decine di porte. Dietro una di questa si cela un ‘appartamento’. Una stanza lunga e stretta, due materassi disfatti poggiati a terra, un piccolo divano e una televisione. Una confusione sproporzionata per il piccolo spazio rende il tutto ancora più degradante. Pile di Dvd sono l’unico ornamento dell’abitazione. Ne posiziona uno dentro al lettore e sullo schermo si visualizza un balletto con donne semivestite che recitano e cantano uno di quei classici musical indiani che hanno fatto la fortuna di Bollywood. Contenti ed eccitati i due padroni di casa iniziano a rollare spinelli a profusione, con la rudezza del fumo lenita dall’immancabile thè caldo alla menta. Chiacchere e fragorose risate risuonano nell’androne adiacente e i vicini incuriositi avvicinandosi ci salutano con mite umiltà. La serata prosegue divertita e alla fina ci salutiamo scambiandoci i rispettivi indirizzi, promettendo reciprocamente di incontrarci un domani in Italia. Oltre la città…

Il deserto è meta obbligata quando sei qui. E Ouarzazate è la porta principale prima delle infinite distese di sabbie. Una volta arrivati li, subito veniamo investiti da una sensazione piacevolmente diversa. Il pedissequo accattonaggio che sempre ci aveva accolti in ogni destinazione, lascia il posto ad una tranquillità e indifferenza della gente quasi irreale. Il gestore del primo albergo trovato scesi dal bus, senza alcuna apparente malizia, chiama al telefono un amico per darci lumi sulle possibilità esistenti per fare una toccata e fuga nel deserto. Al termine della conversazione gli porgiamo una mancia e lui, stizzito e offeso, si alza e lascia il tavolo. Stupiti e addolorati spieghiamo al titolare dell’hotel che dopo due settimane di viaggio ci sembrava ovvio comportarci in questo modo. Noi siamo berberi, non arabi. Con questa frase lapidaria si allontana con un sorriso che cercava complicità. Il giorno dopo noleggiammo una macchina, una vecchia fiat palio, e ci avventuriamo lungo la valle del Dra’a. Piccoli isolati villaggi di argilla si avvicendano a paesaggi da favola, palmeti si estendono per decine di kilometri sulle lussureggianti sponde di un fiume protetto da una catena di poderose montagne dipinte di un grigio sfumato a volte verso il nero, a volte verso il bianco. Ogni tanto un mercato sulla strada interrompe la suadente monotonia della strada. Contadini con il loro asino barattano i loro prodotti con altri, bambini sorridenti tornano a scuola coprendosi il capo con un cappello con visiera. Regalare a loro una insignificante merendina genera un estasi di gioia paragonabile a quella di una mamma quando partorisce la sua creatura. Dopo sei ore di tragitto attraversando anche villaggi color sabbia colorati come la luce del sole del momento, incantevoli kasbeh e monti beige piantati sulle distese di terra ocra, arriviamo alla prima duna. Sembrava messa li a posta per i turisti frettolosi e senza tempo. Anche li, immancabili, bambini e ragazzi in attesa. Anche nel deserto. Fes(si)…

Mille e una notte. Quanta fortuna riuscire a trovare un classico riad arabo ad un prezzo irrisorio nella medina di Fes, una delle cinque città imperiali. La stagione è avara di turisti e, pur di riempire le stanze, lasciano decidere a te il prezzo. Pavimenti di ceramica disegnati a mosaico. Stanze da letto rettangolari giganti composte da lunghi e stretti divani, tappeti, lampadari di ottone, tavolini bassi in legno e tutto l’occorrente per immedesimarti in Ali Babà. Mancavano solo le concubine… Il figlio del padrone, grande carogna, è campione nazionale di Kick Boxing. Veste Dolce e gabbana, frequenta la città nuova, piena di locali cari e alla moda che sembra di stare più a Milano che in Africa. Mastica continuamente hashish gommoso, il suo ‘doping’. La mattina seguente ci presenta un amico. Non l’avesse mai fatto. La visita guidata nella medina si rivela un tour pubblicitario snervante e deprimente passato tra interessanti ispezioni in concerie e fabbriche di tappeti, a negozi di spezie, medicine naturali e prodotti artigianali di amici e affiliati. Molto loquace nel dimostrare la bontà dei prodotti ma omertoso ogni qual volta viene accennato l’argomento politica. Il Re è buono, metà arabo e metà berbero. Stop. Dopo sei ore torniamo alla nostra fiabesca dimora e al momento di saldare il conto con la ‘finta guida’ quasi ci viene un colpo. Dopo una trattativa tesa e molto spiacevole arriviamo a pattare trenta euro più un cappellino, comprensivo del ‘regalino’ dovuto ai poliziotti per avergli permesso di accompagnarci per le viuzze di Fes. Rientrando in stanza un’altra sgradevole sorpresa riempie la nostra rabbia. Spariti gli ultimi cinquanta euro rimasti e un lettore mp3. Esorcizziamo l’incazzatura suonando e fumando quello che rimaneva dell’hashish comprato da Aziz, l’ennesimo factotum incontrato il giorno prima. Ogni commerciante incontrato chiedeva con ostinazione una nostra t-shirt. Se poi era firmata la richiesta diventava ancora più assillante e decisa. Il mito del marchio e l’importanza dello status symbol qui raggiungono livelli che rasentano il patetico, ma dannatamente importanti e funzionali a definire strutture relazionali e gerarchie sociali. Back in UE…



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