Diario semiserio attraverso 3000 anni di gusto
Primo giorno Dall’apice dell’albero maestro della caravella, il marinaio Domenico avvistò terra. Decidemmo di scendere con tutta la ciurma, ben cinque componenti. Approdammo nella capitale della Magna Grecia… Era il porto di Siracusa.
Tuniche eteree, bianche e larghe, senza maniche, avvolgevano i loro corpi. Ai piedi dei sandali. Il luogo era ricco di templi e teatri. Il primo impulso fu quello della fame. Il Pirata azzeccagarbugli, Paolo, fino di naso ma non di pancia, sentì i fumenti di un luogo di ristoro. Entrammo. Superata la tenda, si apriva a noi un simposio di commensali festanti e donne ammalianti. La piratessa Vittoria, compagna di viaggio, si confuse con loro ed iniziò a sorseggiare il bruno vino del vitigno Biblino (antenato del moscato siracusano) che sgorgava da brocche panciute. Coinvolti dalle libagioni, ci lasciammo imboccare con chicchi d’uva fresca. Un gruppo di uomini portò al centro dei tavoli pietanze a base di farro e pasta, zuppe di legumi invitanti che ben si sposavano con il vino e l’idromele. Restammo colpiti da piatti mai visti: il palàmitu, composto da foglie di fico arricchite con origano e cenere, e riempite con piccolissime acciughe (nunnata) precedentemente fritte in olio bollente, mescolate ad ortiche di mare e condite da erbe aromatiche. Poi focacce fragranti di timo ibleo, schiacciate di pane farcite da aglio, prezzemolo verde ed oli. La vista era appagata e cominciammo l’abbuffata. Non passò molto tempo che il pirata più scalmanato, Giuseppe, ubriaco e disinibito, si dedicò ad affascinare le fanciulle, attingendo per loro cibo dai piatti degli altri commensali. Le risa del compagno di viaggio vennero interrotte da guardie armate. Per frastuono e danni fummo arrestati. Tutti, tranne Giuseppe, che aveva trovato rifugio in cucina.
Cinque giorni dopo… Fummo trasferiti nel carcere dell’isola di Favignana. Durante il tragitto nel carro prigione, templi e ricchi casolari facevano da sfondo al nostro triste destino.
Entrati nel territorio trapanese, costeggiando il mare, vedemmo le isole Egadi ed, imponente, il monte Erice, straordinario luogo di culto. Riuscimmo a liberarci con il piano studiato durante la notte. Domenico avrebbe riempito di chiacchiere il cocchiere. Paolo avrebbe messo in crisi la coscienza delle guardie con le teorie sui diritti dei deboli. Vittoria avrebbe poi distratto l’ultima guardia ed io l’avrei colpita con una caciotta profumatissima appesa ad uno dei cesti superiori del carro. Con le ali ai piedi ci dirigemmo verso la cittadina di Marsala. Una popolazione di mori ammantati da grandi djellaba e turbanti sulla testa, parlava con gorgheggi e dittonghi. Tra monumenti e moschee, notammo un andirivieni di sacchi di canna da zucchero e farina. Dove finiva il carico misterioso? Dolci di mille tipi, torroni di sesamo, mandorle e miele da loro chiamati Qubbayt (secondo noi cubbaita). Poi i Nacatulli, frutta secca e confetture e le Copate, torrone con albume d’uovo, zucchero, miele ed amido. Ci avvicinammo al pasticcere con aria ingolosita. Ci chiese di aiutarlo. Ci avrebbe ricompensato con assaggi sostanziosi. Accettato di buon grado l’accordo, ad ognuno di noi fu dato un incarico. A fine giornata i nostri palati furono deliziati da tutti quei dolciumi. Il pasticcere ci chiese un ultimo sforzo: partire alla volta di Trapani. La più grande pasticceria della zona chiedeva aiuto per realizzare un dolce veramente unico da destinare alla festa di compleanno dell’emiro della città.
Dopo averci consegnato la ricetta ci organizzammo per partire, ma con nostra sorpresa Paolo ci comunicò di voler restare a Marsala per apprendere il mestiere che per lui era il più bello del mondo: cucinare alla maniera araba.
Tra cassata e cannolo Eccoci in tre, nella pasticceria di Trapani, a ridosso del porto. In lontananza moschee sul mare e la Piazza del Mercato del Pesce. Con l’artigiano dolciere completammo la creazione. Morbida ricotta lavorata finemente, acqua di fiori d’arancio, cannella, pasta di mandorle, avvolti dalla candida glassa arricchita dai colori della frutta candita … La Cassata. In segno di gratitudine ci offrì tre cavalli ed un elegante invito per un castello al centro della Sicilia, nella città di Caltanissetta. Incuriositi dallo strano omaggio decidemmo di visitare il castello. Durante un lungo viaggio nel centro della Sicilia scoprimmo le granite create con il ghiaccio delle neviere delle Madonie. Tra colline ed aride valli spezzate da un grande fiume salato, tra uliveti, grano e fichi d’india, si ergeva, maestoso, il nostro monumento, Il castello di Pietrarossa.
Un harem dove bellissime donne, con abili mani, avevano scoperto la ricetta di un dolce a forma di banana colmo di ricotta, mandorle e zucchero, il cannolo. Vittoria e il Monsù Mi trovai solo con Vittoria. Di Domenico nessuna traccia.
Senza una meta, la città di Enna fu il posto dove riprendere le energie. Qui i francesi, grazie al fascino dell’ultima mia compagna di viaggio, ci offrirono un lauto pasto a base di zuppe di cereali, timballi di pasta, parmigiane e caponate.
Vittoria andò in sposa al Monsù. Io rimasi da solo e proseguii il mio viaggio verso il porto più vicino. Agrigento, controllato dagli spagnoli. Mi imbarcai su un veliero che salpava verso l’Oriente. Le stive erano cariche di grano, vino, olio, mandorle, pistacchi e noci. Accarezzato dalla dolce brezza marina, non mi restò altro che scrivere la mia storia. Avevo perso quattro compagni di viaggio e scoperto il cibo degli dei, ero stato inebriato dal vino e dalle donne di Sicilia, avevo molto da raccontare… Carlo Gavazzi, Paolo Giaimo, Domenico Giannone, Giuseppe Montedoro, Maria Vittoria Rizzo I corsisti del master “Ambasciatore del Gusto”, progetto “Le Vie dei Sapori” per la sede di Caltanissetta