Diario provenzale – 1ma parte

Tour 'on the road' alla scoperta del meridione francese, dalla Provenza alla Costa Azzurra, passando per Montpellier e Lione.
Scritto da: Bilbix
diario provenzale - 1ma parte
Partenza il: 18/08/2009
Ritorno il: 29/08/2009
Viaggiatori: 3
Spesa: 2000 €
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Campi di lavanda e l’auto che va…”, così potrebbe cominciare questo diario di viaggio, prendendo a prestito le parole di una bella canzone che la straordinaria voce di Fiorella Mannoia portò al successo diversi anni fa.

Ed è solo una breve frase, leggera, quasi evanescente e tuttavia in grado di riassumere sapientemente quel mondo di emozioni chiamato Provenza: una terra ricca di fascino e storia, bagnata di sole e colori intensi, vibrante di vita e generosa di fragranze d’ogni sorta; una terra che insieme a due amici ho percorso in lungo e in largo su una Seat León presa a noleggio all’aeroporto di Marsiglia, il giorno diciotto agosto 2009, principio del lungo itinerario on the road (ben undici giorni!) che ci avrebbe condotto alla sua progressiva scoperta, in un susseguirsi di esplorazioni, sorprese ed avventure emozionanti attraverso luoghi tanto evocativi quanto intrisi di sublime bellezza paesaggistica e naturale.

Iniziamo da Avignone, cuore della regione e centro strategico da cui abbiamo intrapreso i nostri tours a tutto tondo; ci spingeremo fino a Montpellier, capitale della regione Languedoc-Roussillon, verso sud; e sino a Lione, verso nord, per un blitz nella regione alpina dell’alto Rodano, fiume che ha tratteggiato placidamente buona parte del nostro variegato zigzagare, e che noi abbiamo seguito quasi con affetto, fino al suo delta, nel quale abbiamo pure navigato, per poi abbandonarlo nell’ultima parte del giro, per andare un po’ più a est, ad ammirare la zona più in, più chic, più glamour del meridione francese: la Costa Azzurra, ovviamente, con le sue città opulente e gagliarde, le strade tortuose, le brezze marine dal sapore mondano e un po’ retrò, e naturalmente il jet-set, le grandi firme, ed un mondo appena percepibile dall’esterno, per chiunque non gli appartenga da auguste nascite, ma comunque attraente e stupendo da vivere, persino vestiti casual, come meglio si conviene a dei… turisti per caso, completamente fai-da-te!

I PARTE

In un torrido pomeriggio dell’agosto 2009 giungiamo all’aeroporto di Cagliari-Elmas per prendere il volo diretto della Ryanair con destinazione Marsiglia, sotto un implacabile solleone; la temperatura sfiorava i quaranta gradi e, con poca sorpresa, la ritroviamo esattamente uguale all’arrivo in Francia, dopo appena cinquanta minuti di volo ad una tariffa abbastanza economica, nonostante il nuovo e per nulla gradito obbligo del check-in on-line, costatoci ben quindici euro a tratta (ovvero cinque euro a testa).

Ci accoglie il terminal delle compagnie low cost, essenziale ma sufficientemente accogliente; e poco oltre ci aspetta la vettura che avevamo precedentemente prenotato via internet alla compagnia Europcar. Avevamo optato per un’auto di medie dimensioni che soddisfacesse al contempo due fondamentali esigenze: praticità di movimento e comfort, entrambe indispensabili a percorrere un groviglio abnorme di tragitti che in totale avrebbe addirittura superato la ragguardevole lunghezza dei duemilacinquecento chilometri!

Sbrigate le consuete pratiche ci affidano una Seat León; ma qui abbiamo una sorpresa che ci lascia per diversi istanti senza parole e quasi impietriti: avremmo dovuto saldare il conto solo ed esclusivamente con regolare carta di credito, e nessuno di noi ne possedeva una, essendo infatti semplicemente muniti dei più comuni bancomat e carte elettroniche ricaricabili, non accettate per tale tipo di transazioni; particolare sfuggitoci alla rapida lettura del contratto stipulato via web. Ne siamo venuti fuori con l’unica alternativa possibile: sborsare a garanzia una lauta somma in contanti a copertura dei rischi, cosa che per noi significò l’azzeramento immediato della cassa comune a disposizione per il viaggio. Avremmo dovuto fare istantaneo dietrofront se non fosse stato per Luigi che ancora disponeva di un congruo ammontare prelevabile via bancomat e poteva quindi anticipare quanto necessario alla prosecuzione della nostra vacanza.

Non c’è che dire, un bell’inizio che per un attimo ha adombrato i nostri beati sogni di gloria, ma che infine si è risolto al meglio, col solo neo d’averci fatto tardare l’arrivo presso la nostra prima meta, nonché base logistica per gli spostamenti dei sei giorni successivi: Avignone. Da lì partivano, a raggiera, tutte le strade che ci avrebbero svelato le meraviglie di un territorio dai mille risvolti artistici, architettonici, culturali e naturalistici.

Come sistemazione, seguendo una dritta letta su internet, ci siamo affidati ad un genere di hotel mai praticato prima: la Premiere Classe, un catena molto economica e, come avremmo avuto modo di notare, assai diffusa in Francia come tipologia di struttura e servizi offerti. Le camere, alle quali si accede tramite corridoi esterni, (ad esclusione dell’albergo di Nizza, ospitato in un normale edificio di città) sono simili a cabine di navi, e dunque non molto ampie ma confortevoli, pulite e dotate, ognuna, di bagno proprio, anch’esso piccolissimo ma abbastanza funzionale e ben corredato.

A dire il vero, sulle prime, abituato alla frequentazione di hotel, diremmo, più tradizionali, e forse un tantino suggestionato da qualche scena cinematografica digerita negli anni, mi era sembrato un albergo a ore, con annessi e connessi; ma poi ho realizzato la comodità di questa particolare soluzione ricettiva, o servizio che dir si voglia, specie per lavoratori non stanziali quali, ad esempio, agenti di commercio o camionisti, cui possiamo tranquillamente aggiungere i passanti, e tra questi, ovviamente, i turisti. Dunque giudizio positivo, anche sul rapporto qualità/prezzo.

Le ubicazioni di tali alberghi sono tutte periferiche, ma facilmente raggiungibili con la macchina. E’ comunque sempre utile avere una mappa stradale a portata di mano (o un navigatore satellitare per i più tecnologici), ed un buon senso dell’orientamento non guasta di certo; anzi, ritengo sia quasi imprescindibile in questo tipo di vacanza.

Ma torniamo al viaggio e alla prima sera.

All’uscita dall’aeroporto imbocchiamo la statale che dovrebbe condurci ad Avignone, stando ben attenti a non sbagliare direzione e a non farci confondere dai segnali stradali. La cartellonistica francese infatti adotta il colore verde per le strade statali e blu per le autostrade, dunque l’esatto contrario rispetto all’Italia. E difatti, pronunciate le classiche ‘ultime parole famose’, ad una rotatoria, soprappensiero, imbocco la via d’accesso all’autostrada. Inutile sperare di poter tornar indietro con manovre azzardate, ma vista la cocciutaggine di voler percorrere la statale a tutti i costi non ci resta che subire un bel tratto d’autostrada, sino a raggiungere la prima uscita e, dopo giri e giretti vari, approdare nuovamente al punto di partenza e ricominciare daccapo. Raggiunta nuovamente la famigerata rotatoria apriamo bene gli occhi e stavolta ci azzecchiamo. Sarebbe stato un vero peccato perderci lo spettacolo della natura ed i paesaggi che offre l’entroterra marsigliese, che si allunga verso la Provenza. La Francia infatti è nota per i suoi viali di platani giganti che costeggiano maestosi la più parte delle strade principali, e quello per noi è stato il primo assaggio di una lunga scorpacciata.

E finalmente, al crepuscolo, arriviamo ad Avignone con oltre un’ora di ritardo accumulato sulla tabella di marcia. Decidiamo allora di non inoltrarci subito in centro, anche per l’incalzante stanchezza, ma soprattutto per la consapevolezza di ciò che ci avrebbe aspettato nei giorni successivi, ed optiamo invece per una cena in un ristorante promettente situato proprio di fronte all’albergo, una sorta di autogrill che spargeva invitanti profumini all’intorno, un po’ esoso, forse, ma dove abbiamo gustato della buona carne accompagnata da ottimo vino locale, logicamente rosso. Poi, durante la passeggiatina digestiva in quei pressi decisamente fuori mano, ricchi di capannoni e stabilimenti industriali e commerciali, scopriamo un simpatico luogo di svago frequentato dai giovani del posto, con sale biliardo e bowling. Decidiamo di esplorarlo per poi buttarci anche noi su quest’ultimo gioco, in una partita tutta da ridere: per Luigi e Jole sarebbe stato un battesimo e per me appena la seconda volta! Nonostante questo, Jole ha addirittura fatto strike mentre noi altri ci siam dovuti accontentare di qualche split, altrettanto gratificante. Fortuna dei principianti, o talento nascosto? Mah! Fatto sta che ci siamo davvero divertiti, e tuttora quella serata rimane tra gli eventi più esilaranti che ricordiamo.

Avignone è certamente il palazzo dei papi: immenso, prepotente, dominante, con le sue architetture medievali, le sale vaste, i chiostri, le scalinate, i giardini, le terrazze ed i tanti passaggi più o meno segreti che lo attraversano; ma non è solo questo: è un centro storico di notevole suggestione, una roccaforte immersa nel verde in cui si respirano aromi diversi che impregnano l’aria dandole un gusto particolare non sempre gradevole; è il lungo Rodano delle famiglie e di corridori, amatoriali e non, dove a metà percorso incontri il misterioso ponte di St. Bénezet, incompleto, quasi irreale, che narra leggende di genti lontane e mostra con gran dignità gli evidenti segni di una tragica piena che ne ha interrotto le funzioni già a metà Seicento. Un suo pilastro di sostegno ospita all’interno l’omonima cappella dedicata a St. Nicolas. Percorrerlo e ritrovarsi sospesi sul fiume a metà strada tra le due rive, prigionieri di una visuale non comune, è qualcosa di unico, pur nell’afa pomeridiana che non dava tregua.

Avignone per noi è stata anche una passeggiata forzata lungo il perimetro esterno dei muraglioni di cinta della città vecchia in cerca della macchina che nei nostri ricordi era ubicata verso destra, mentre in realtà si trovava esattamente sul fronte opposto, e veramente a pochissimi passi dalla porta d’accesso all’urbe. Un abbondante, inutile chilometro di marcia che ci ha letteralmente stremato, sotto un sole feroce. E poi un pranzo in un ristorante della piazza principale, a base di insalatone, non proprio ai massimi livelli; ed ancora le giostre colorate e barocche che avremmo poi ritrovato quasi in ogni luogo di quella stupefacente regione da sogno. Infine una camminata notturna, romantica e suggestiva che oltre alle tante costruzioni medievali splendidamente valorizzate dalla luce artificiale, ci ha fatto scoprire quasi per caso, in mezzo al dedalo di viuzze centrali, la straordinaria chiesa gotica di St. Pierre, la cui facciata ed i cui lavoratissimi portali in legno lasciano davvero senza fiato.

Dal giorno appresso non avremmo più ammirato le vedute avignonesi se non in tarda notte e di sfuggita, al rientro dai mille giri programmati in calendario e rispettati alla lettera, seguendo una tabella di marcia sicuramente appassionante e densa di appuntamenti, ma proprio per questa ragione anche abbastanza inflessibile.

Breve digressione di quella prima giornata provenzale, una gita pomeridiana nella vicina città di Orange per vedere almeno dall’esterno l’imponente teatro romano e, più periferico, in mezzo ad un bel parco, un arco di trionfo, purtroppo in piena fase di restauro e dunque completamente ingabbiato.

Orange ha una bella piazzetta centrale ravvivata da una fontana e dall’elegante facciata dell’Hotel de la Ville. Peccato per la tremenda canicola che, dopo la non voluta faticata di cui sopra ci ha letteralmente costretti a chiedere asilo presso un bar per dissetarci e riprenderci dalla spossatezza abbioccante del dopo pranzo. La successiva gita a Tarascon, prevista per lo stesso giorno, viene quindi, giocoforza, rinviata a favore di una necessaria visita ad un supermercato per il rifornimento viveri. Un grande Carrefour, insegna a noi ben nota, fa al caso nostro e, con la supervisione di Jole, ci approvvigioniamo con misura; insomma: un occhio al portafoglio ed uno allo stomaco brontolone.

* * *

La Provenza è sinonimo di lavanda, di girasoli e campi in fiore, di filari di vigne maestose e ridenti colline, di altipiani soleggiati e di un clima dolcissimo ed invitante come la sua gente: ospitale, estroversa e serena. I ritmi di vita son pacati, le atmosfere distese; tutto invita al relax e ad esplorazioni lente e goderecce. Il nostro itinerario però concedeva ben poco al riposo, stracolmo com’era di cose da vedere e chilometri da macinare. Ed allora si prosegue.

Il terzo giorno ci dirigiamo verso est lungo un tragitto che ci guiderà nell’essenza stessa della regione: il suo cuore di… lavanda. Prima però puntiamo un pochino più a nord e, attraversato il limitrofo paesino di Carpentras, oltrepassiamo colline e declivi verdeggianti, tra i quali si posano soavemente piccoli borghi, spesso animati da vivaci e variopinti mercatini; sembra quasi di star dentro ad una tela impressionista: la poesia delle forme, le calde tonalità pastello, la semplice magia di una terra tanto amata da artisti e sognatori d’ogni latitudine.

Ci addentriamo in una strada secondaria che dovrebbe condurci a Sault passando per una vetta assai nota agli sportivi patiti della bicicletta, poiché meta fondamentale ed impegnativa del giro di Francia: il Mont Ventoux, o monte Ventoso, per dirla in italiano; il nome penso non richieda ulteriori didascalie. La sua cima raggiunge i 1910 metri d’altezza e regala dei panorami davvero notevoli sulle valli e i pianori dattorno. Approfittiamo dei negozietti onnipresenti per fare qualche compera e soprattutto godiamo della straordinaria frescura che regna a quelle altezze, corroborata da una tramontana robusta e petulante che costringe molti visitatori all’uso di giacche a vento o felpe.

Poster giganteschi ricordano le gesta ed i nomi dei vincitori di quella tappa dagli anni sessanta ad oggi; è presente anche il campione del mio anno di nascita, il 1972, che ho opportunamente immortalato. E lungo strada troviamo molti appassionati che si cimentano nell’ardua impresa, per emulare i loro idoli o, più semplicemente per fare un po’ d’attività all’aperto, contribuendo a creare quella tipica atmosfera ricreativa della domenica fuori porta.

Tra i pregi del monte Ventoso non si possono dimenticare gli splendidi paesaggi dalle mille sfumature, nei quali la visuale sconfina su orizzonti aperti e frastagliati fatti di gole, montagne, pianure ed insediamenti medio-piccoli: si passa dal verde intenso dei boschi sui pendii, al brullo opaco delle distese pietrose prive di vegetazione e quasi lunari, che circondano la sommità. E poi l’aria tersa e rigenerante, che sembra volerti ridestare da antichi, quotidiani torpori.

Lasciamo la vetta quasi a malincuore, consci di dover presto o tardi ritornare alle ben diverse temperature di vallata. Durante la discesa ci fermiamo per una breve sosta pic-nic in una delle tante aree più o meno attrezzate, con tavoli e panche, poste lungo strada, per poi proseguire speditamente verso la torrida pianura invasa di sole.

Poco prima di raggiungere il paesino di Sault, una delle ‘capitali’ della lavanda il cui territorio è letteralmente pregno di queste magnifiche colture, un cartello pubblicitario fai-da-te lungo il percorso ci segnala la presenza di un produttore: imprescindibile una fermata per chiedere lumi e fare incetta di souvenirs: saponi, canovacci, profumi da mettere in armadi e cassetti organizzati in simpatici sacchetti, detersivi; ed ancora liquori, dolcetti e pure il miele aromatizzato, che ho comprato come pensierino per mio padre, vista la sua predilezione, per un assaggio.

Ogni cosa all’intorno ci parla di lavanda e sa di lavanda; la gente stessa pare esserne intrisa. Eravamo circondati di fiori e fascine di varie grandezze, pronte per la vendita o la trasformazione in mille oggetti diversi. La proprietaria, mentre sbriga il suo da fare, tranquillamente seduta ad un lungo tavolo, ci spiega a grandi linee le principali fasi di lavorazione della pianta, utili ad ottenerne i diversi prodotti finali: aromi, saponette ed essenze in primis. E poiché ci premeva sapere come mai i campi non erano più quelle straordinarie distese di viola che ci aspettavamo di trovare, così in piena estate, ci dice, sorridendo, che eravamo capitati un po’ in ritardo per ammirarne la magica e profumatissima fioritura, ed avere così quel colpo d’occhio da cartolina; la raccolta era avvenuta, come di consueto, appena qualche giorno prima, a cavallo di ferragosto, con tanto di feste folcloristiche e numerosi eventi di contorno. In qualche posto, ha precisato, avviene anche prima, al principio del mese. Per un pelo! Ma buono a sapersi. Vorrà dire che la prossima volta programmeremo il tour di conseguenza.

Sault è il tipico paese provenzale: collinare, antico, agricolo, circondato da una bellissima campagna, che domina dalla sua posizione un poco elevata. Dalla grande terrazza all’ingresso dell’abitato, dove ci siamo concessi un’altra breve pausa ristoratrice presso un bar, si vede perfino, in lontananza, il ‘faro’ del Mont Ventoux da cui provenivamo dopo aver percorso svariati chilometri di curve e pendenze.

Ci concediamo un breve giro intorno al centro urbano, in alcuni altri borghi vicini per ammirare le infinite distese di arbusti già spogliati dei loro coloratissimi virgulti. Poi lasciamo definitivamente la zona di Sault, e puntiamo nuovamente verso sud, direzione Roussillon, la patria dell’ocra.

Roussillon è un tripudio di rosso: rocce, pietre, case, colline intere scolpite nell’ocra, fatte d’ocra. Lasciamo la macchina in un parcheggio esterno e ci inoltriamo per il centro alla ricerca della via dell’ocra, un sentiero pedonale che comincia poco oltre il perimetro dell’odierno cimitero e si snoda tra enormi rocche purpuree immergendosi poi in conche dalle tonalità sorprendenti. Lo raggiungiamo facilmente e ci avventuriamo tra queste colline di sabbie colorate di incredibile bellezza. Sembra d’esser stati catapultati dentro la tavolozza di un artista, in un luogo incantato fatto di finissime polveri: rosse, ma anche giallo cumino, e circondate dal verde dei boschi. Il percorso, assai suggestivo, dura un’oretta. Volendo si può scegliere anche il sentiero breve che evita la parte un tantino più impervia, e quindi si completa in minor tempo; ma una volta là conviene metter da parte la pigrizia e farlo tutto; ne vale la pena.

Torniamo alla macchina per raggiungere il ‘Conservatorio dell’Ocra’, che all’ufficio turistico ci han detto essere ad un chilometro fuori dal paese, ma dal lato opposto rispetto al nostro parcheggio. Arriviamo appena qualche minuto oltre l’orario delle visite e, ahinoi!, lo perdiamo, accontentandoci di vedere il negozio e le strutture esterne.

A tal proposito c’è da fare un’osservazione sugli orari di visita dei monumenti francesi: in piena estate chiudono quasi tutti tra le 17 e le 18; rarissime le eccezioni. Un aspetto che ritengo controproducente sia per loro che per i turisti indaffarati a vedere quanto più possibile nei pochi giorni di tempo a disposizione, che davvero non bastano mai.

Così proseguiamo, rinunciando a cercare ancora la famosa fontana delle Naiadi, che forse avevamo visto all’arrivo senza saperlo, ma che, ci dissero, era niente di eccezionale, specie priva d’acqua com’era in quel periodo. Puntiamo invece in direzione di Gordes per ammirare dal vivo il borgo che è stato la location del film “Un’ottima annata” girato appena qualche anno fa, col bravissimo Russel Crowe protagonista. Il paese è davvero bello: arroccato su una collina, circondato da vigne chilometriche e floride, con un imponente castello che ne domina la piazza centrale ed un’atmosfera fuori dal tempo, davvero fantastica.

Riconosco da lontano il bar, fulcro di alcune celebri scene del film, e a mia volta lo ‘riprendo’ da più angolature. Dopo una breve passeggiata distensiva, sul crepuscolo, raggiungiamo nuovamente la vettura per completare la lunga giornata cultural-naturalistica rimediando alla lacuna del giorno prima: ovvero decidiamo di visitare in serata anche Tarascon, che altrimenti avremmo irrimediabilmente perso, considerata la saturazione della nostra agenda nei giorni a seguire; e giammai saltare una meta in programma! Noi si vuol sempre far tutto; e bene, possibilmente.

Il viaggio ci sembra interminabile ma in realtà son solo circa quaranta chilometri. Stiamo praticamente girando attorno ad Avignone, principio e fine delle nostre giornate provenzali.

E giunti a Tarascon la fortuna ci arride, premiando la nostra tenacia. Infatti nel cuore antico della città, accanto al maestoso castello, è in pieno svolgimento la festa medievale, ricca di tanti momenti entusiasmanti: dalla gran parata di persone vestite in costume d’epoca; all’esibizione di un gruppo, guarda caso italiano!, di appassionati, che dà dimostrazioni di simulati duelli e battaglie, davvero impressionante e molto evocativo; e a sera inoltrata i fuochi d’artificio che dall’alto dei pennoni piovono coloratissimi verso i prati all’intorno creando un’atmosfera straordinariamente magica e suggestiva, sospesa nel tempo, che noi tre ci godiamo sdraiati nel verde di un’aiuola accogliente ed alquanto ‘frequentata’.

Per condire il tutto, completiamo con un menù d’eccezione: per me anatra all’arancia, per i miei amici pollo e panini farciti distribuiti sotto una lunga tenda colma di panche da pic-nic montate per l’occasione. Tutt’attorno è un pullulare di vita e di allegria, tra la popolazione festante, le bancarelle variopinte ed un maniero dall’imponenza davvero abnorme del quale purtroppo, causa tarda ora e celebrazioni, riusciamo a perdere l’ultima visita guidata. Pazienza: altro buon motivo di rifarci una capatina fra qualche anno.

Inutile descrivere la nostra gioia, inconsapevoli di capitare nel posto giusto al momento giusto. A volte è vero che non tutti i mali vengono per nuocere. Fossimo andati il giorno innanzi, come da programma, le avremmo perse.

Il rientro ad Avignone, distante circa trenta chilometri è stato rapido e indolore. All’arrivo in hotel ci salutiamo. Doccia veloce e via a letto. Il giorno dopo non concederà sconti e la sveglia suonerà intorno alle sei e trenta.

* * *

E’ la quarta alba del tour. La colazione mi aspetta al solito distributore di bevande calde del Premiere Classe, in una saletta ancora deserta dove solo di rado trovo qualche altro estimatore dei galli che si accinge a farmi compagnia, oppure a consumare il pasto mattutino a pagamento disponibile in self-service per coloro che avessero preferito quella formula, con qualche euro in più di differenza. A me basta una sorta di cappuccino, quanto meno bevibile e utile allo scopo.

La prima meta del dì è la bella città di Nimes, ma non sarà la sola, ovviamente. Raggiunto da Luigi e Jole, si parte, stavolta verso ovest. La strada costeggia vigne di una vastità impressionante e campi di girasole quasi a perdita d’occhio, anch’essi già piuttosto appassiti, ma non tutti; il tanto di farci una flebile idea del ‘chiasso di colore’ pieno che furono, ci è rimasta.

Nimes ci è piaciuta tantissimo; ci ha accolto semi assonnata, con le vie commerciali ancora spoglie e sbadiglianti, ma con un’eleganza meravigliosa. Belle strade, belle piazze, una bella cattedrale, stupendi giardini centrali e bei monumenti tra cui spicca la celebre arena romana, copia quasi esatta, forse un tantino più piccola, dell’arena di Verona, città italiana con cui è gemellata per ovvie ragioni. Visitato il teatro dei cesari e reso omaggio alle sue brillanti vestigia antiche e moderne (è ora allestito per ospitare concerti all’aperto, proprio come il nostro), camminiamo per un tratto del viale centrale che parte dall’arena arrivando ad una larga piazza dove incontriamo la Maison Carrée, una sorta di tempietto, sempre romano, ben conservato dove abbiamo assistito ad una proiezione storica in 3D concernente il passato un po’ leggendario della città; da lì, percorrendo ancora un tratto di viale, ed attraversando poi un’altra piazzetta occupata in buona parte da una lunga fontana contornata da particolari sculture raffiguranti sagome umane, tra le quali ci siamo immortalati, si giunge ai giardini pubblici, direi quasi un parco, all’interno del quale, salita una grande scalinata di travertino si giunge alle Torri Magne, o meglio, ad una imponente torre al cui interno è stata ricavata una scala moderna, a chiocciola, che permette di ammirare da vicino la struttura della costruzione antica e consente di accedere alla terrazza ubicata sulla sommità, dalla quale si gode di una visuale a trecentosessanta gradi su tutta Nimes ed i suoi rigogliosi dintorni: stupenda. Un pannello evidenzia i punti di maggiore interesse.

Anche qui il caldo si è fatto sentire, specie durante la ‘traversata’ tutta in verticale, degli splendidi giardini che conducono alla torre: maestosi, ben strutturati, accoglienti, ampi e, a tratti, ombrosi. Da notare che per visitare questi monumenti è possibile fare un biglietto cumulativo, denominato Nimes Romaine che li comprende tutti, usufruendo così di uno sconto rispetto all’eventuale acquisto delle singole entrate. Si possono trovare i dettagli sul sito della città, molto ben costruito; noi abbiamo pagato dieci euro.

Lasciata Nimes torniamo qualche chilometro indietro per visitare il famoso Pont Du Gard, un acquedotto romano incredibilmente intatto e di eccezionale imponenza (qui i romani sono proprio dappertutto!). Lo giriamo in lungo e in largo, da un versante e dall’altro, scattando numerose foto; ne percorriamo due livelli su tre; volendo si può attraversare anche l’ultimo, il più elevato, quello in cui di fatto scorreva l’acqua, che è coperto come fosse una galleria, ma ha un ulteriore costo di dieci euro che secondo noi non vale la pena spendere, anche perché, dobbiamo confessare che un aspetto negativo della Francia in generale, ma di quel sito in particolare, è stato il costo delle bottigliette d’acqua. Noi eravamo soliti abbeverarci e rifocillarci alle fontane, assai numerose e ben dislocate nelle città, ma qui del tutto assenti; cosa che costringe a rivolgersi all’unico chiosco presente in loco che evidentemente ne monopolizza l’offerta. La signora ci dice che le bottiglie grandi da due litri vengono due euro, nulla da obiettare; ma sfortunatamente le ha appena esaurite e dunque non ci rimangono che le piccole, da mezzo litro, al costo straordinario di quattro euro! No comment. Inutile cercare logiche assenti, tolta quella di far cassa a tutti i costi; tanto da arrivare persino a far scorrere solo acqua calda dai rubinetti delle toilettes pubbliche sì da evitare che i turisti più furbi possano riempirsi le borracce creandosi delle riserve idriche a loro scapito. Noi giocoforza abbiamo dovuto acquistarne qualcuna perché la calura era eccezionale e stavamo morendo di sete. Ma abbiamo cercato di resistere un po’, e su piglio di Jole, ne abbiamo prese due invece di tre. Quattro euro a bottiglietta ci sembrava decisamente un furto legalizzato.

Il consiglio a chiunque voglia passare una mezza giornata sul posto è dunque quello di organizzarsi con delle buone scorte di bevande, magari già da casa. E’ assurdo approfittare così del turista, e stupido caderci se si è informati prima. La vallata ed il sito indubbiamente meritano, e sono luoghi ideali e ben attrezzati per pic-nic all’aperto, trekking e perfino bagni nel fiume; molti impavidi (o incoscienti?) ragazzi si sfidavano infatti a tuffarsi dalle rocce più alte destando la curiosità e l’ammirazione dei più.

Nel tardo pomeriggio, dopo qualche minuto di riposo lungo le rive di quel rio, si riparte per Montpellier, ultima tappa del giorno.

Imboccata l’autostrada procediamo verso sud-ovest, verso la Spagna, a poco più di un centinaio di chilometri dal confine. Montpellier ci affascina da subito, ci conquista con le sue belle strade ampie dalle architetture spagnoleggianti, e soprattutto con l’enorme, immensa, inattesa ed allegrissima Place de la Comédie, un vasto rettangolo interamente pedonale, delimitato da splendidi palazzi d’epoca, tra cui risalta il teatro dell’opera nel suo lato occidentale, e adornato da lampioni moderni, neri e snelli, soffusi di luce azzurrognola.

La magnifica piazza è abbellita da alcune fontane; in particolare, dinanzi al teatro, sta la più famosa, quella delle tre grazie, tre leggiadre dame scolpite nel marmo al di sotto delle quali l’acqua scorre vivace. Sul limitare levantino principia invece l’imponente Esplanade Charles de Gaulle, grandiosa prosecuzione della piazza stessa, ed ugualmente isola pedonale nella quale tante, pittoresche bancarelle erano state allestite per animare il festival estivo, ed in cui si riversava una fiumana di persone. L’intero complesso di viali e piazze dattorno forma l’importante zona verde denominata Jardin du Champ de Mars.

A un lato dell’Esplanade, verso la piazza, notiamo un’altra bella fontana la cui vasca è interamente coperta da uno spesso strato di spuma bianca, così fitta e densa da sembrare quasi una trapunta; che vi avessero versato incautamente qualche litro di bagnoschiuma? Mah! L’effetto era davvero inverosimile.

Place de la Comédie: cuore pulsante della capitale della Linguadoca, ritrovo prediletto di élite e masse, immenso cortile per i numerosi alberghi pluristellati che vi si affacciano orgogliosi.

Place de la Comédie: uno spazio vastissimo, pieno di gente, pieno di vita, portato al parossismo della movida dal suo festival estivo generoso di attrazioni: dai mercatini straripanti d’ogni ben di Dio artigianale e gastronomico, agli innumerevoli artisti di strada, giocolieri, mangiatori di fuoco e compagnie d’ogni genere che quivi si danno appuntamento per contendersi il variegato pubblico di turisti e curiosi d’ogni provenienza, proponendogli ognuno le proprie migliori e più audaci performance. Un pot-pourri straordinario, una commistione di lingue e culture eccezionale, degna di una Nuova York in miniatura. Imperdibile. Noi ne siamo rimasti letteralmente conquistati, oserei dire rapiti, tanto da non volerne più venir via.

Dopo aver consumato una cena in un tavolino all’aperto presso la via centrale che dall’arco di trionfo conduce alla piazza grande, ci siamo persi tra le bancarelle fino ad approdare all’estremo limite dell’Esplanade invasa di chioschetti multicolore, e sederci quasi a fatica, vista la calca che c’era, su una larga scalinata pullulante di gente, per goderci una buona parte dello spettacolo musicale che veniva presentato con estrema giovialità e tanto divertimento.

La mezzanotte avanzava però a grandi passi, inesorabile, e noi avevamo davanti più di un’ora di autostrada, cento chilometri buoni, per rientrare ad Avignone. Ci rimettiamo dunque in marcia per raggiungere di nuovo la nostra Seat. Lungo il tragitto però, su proposta di Jole, non ci lasciamo scappare una sosta in uno dei tanti ritrovi gastronomici per assaggiare qualche tipico dolcetto.

E’ stato magico percorrere a ritroso i luoghi appena visitati: anzitutto la piazza brulicante di spettacoli, di voci, suoni e colori, di persone raccolte intorno ad un artista o cantastorie, o più semplicemente radunate in amicizia per trascorrere allegramente la serata. E poi la bella Rue de la Loge, adorna di vasi colmi di fiori sospesi tra un edificio e l’altro a mo’ di luminarie; inconfutabili prove di grande creatività.

Risalendo la Rue Foch, ora un po’ meno affollata, rivediamo il tavolino all’aperto dal quale avevamo osservato sfilare uno scorcio di mondo in un imprecisato tempo anteriore, e lo sguardo cade ancora sui suoi numerosi lampioni laterali rivestiti di manifesti colorati che invitano i passanti a partecipare al festival, ricco di eventi. Superiamo nuovamente l’arco di trionfo, dedicato alle gloriose imprese del Re Sole, Luigi XIV, benefattore della città, la cui statua equestre si trova proprio dirimpetto al monumento celebrativo, ed usciamo dalla zona centrale. Alla nostra sinistra una grande croce col suo Cristo sofferente, fotografato all’andata (come tutto quel tragitto, del resto), troneggia dinanzi alla sua chiesa che dall’alto di quel dosso domina il quartiere sottostante, e l’intera valle che ai suoi piedi si distende placida.

Attraversiamo nuovamente la Promenade du Peyrou, un immenso bastione disegnato da tal Charles D’Aviler nel 1688 e che ospita dei grandiosi giardini che si affacciano sulla città nel suo punto più alto offrendo una panoramica davvero formidabile. La passeggiata è anche percorsa dall’antico acquedotto romano di Saint Clément, visibilmente ristrutturato in molte sue parti ma che conserva una sua suggestione, specie la notte, grazie ad un’illuminazione artificiale dalla tonalità blu che dona particolare risalto ai suoi due livelli di arcate, costruiti sulla falsariga del Pont du Gard, ed all’ombra dei quali, in giorni prestabiliti, si tiene il mercatino delle pulci, di sicuro interesse per curiosi e appassionati del genere.

La nostra vettura ci attende poco oltre, discesa la scala che conduce sotto l’imponente costruzione dei nostri avi, nell’area a pagamento in cui l’avevamo parcheggiata appena qualche ora prima.

Arrivederci Montpellier! Città che abbiamo lasciato a malincuore, ma con la promessa di ritornarci presto per dedicarle qualche giorno in più.

* * *

La giornata successiva si apre verso sud, come amava cantare qualche tempo fa la brava Viola Valentino; più precisamente verso Arles e le sue delizie paesaggistiche, archeologiche e naturalistiche: un autentico patrimonio accumulato in millenni di storia, e devo dire assai ben conservato e curato. Questa città infatti assurse a capitale della Gallia romana, comprendente buona parte dell’odierna Francia e della Spagna, sotto Costantino, che ne fece per anni la sua dimora prediletta.

E di quei lontani fasti Arles possiede ancora numerose testimonianze architettoniche di gran pregio, che mostra con orgoglio ai visitatori che vengono ad ammirarle da ogni dove. Noi arriviamo in mattinata, abbastanza presto e, come di consueto, cerchiamo un parcheggio che sia limitrofo alle porte d’ingresso alla città. Trovato piuttosto facilmente quel che fa al caso nostro, partiamo dunque per una nuova esplorazione, non prima però di aver immortalato subito la bella fontana posta al centro dell’ampia aiuola che segna il crocevia dirimpetto.

Superato il varco delle vetuste mura guardiane che contengono l’antico nucleo urbano, subito una madonnina col bambinello ci sorride da sopra una piccola vasca contenente una fontanella; è un bel dipinto posto all’ingresso del vecchio quartiere. Lo fotografiamo e ci spingiamo su per la via principale che corre diritta e un po’ ripida verso la nostra prima meta: l’arena romana.

Lungo la strada veniamo attratti da una locandina che annuncia gite varie in Camargue, tappa già in programma per il pomeriggio. Così ci fermiamo a chiedere informazioni. L’agenzia, o cooperativa che fosse, effettua escursioni in fuori strada al costo di trentacinque euro a testa; durata circa sette ore, con partenza alle dieci del mattino, e dunque a brevissimo termine. Tengono a precisarci che quel giro è l’unico che mostra la parte del parco di proprietà privata, la più vasta in realtà, non visitabile con altri operatori, i quali viceversa possono accedere solo alle aree pubbliche, lontane, a detta loro, dai luoghi faunistici più suggestivi ed importanti, tra cui gli habitat dei fenicotteri.

Nonostante questo, decidiamo di seguire la nostra prestabilita tabella di marcia a motivo del solito tempo tiranno. Andar con loro avrebbe significato infatti rinunciare a visitare la città e i suoi tanti monumenti storici; inoltre il prezzo non sembrava particolarmente conveniente.

Giungiamo così all’anfiteatro; è il secondo che vediamo dopo quello di Nimes, e rispetto a quest’ultimo rimane un pochino più piccolo, ma ugualmente bello e maestoso nel complesso, soprattutto nella parte in cui i lavori di restauro e ripulitura delle facciate, ancora in corso, hanno eliminato quella brutta patina nerognola dovuta principalmente allo smog, riportando in auge l’autentico colore della pietra utilizzata qualche millennio prima per la sua grandiosa costruzione, utile allo scopo di divertire senatori e popolo in modi non sempre ortodossi, diremmo oggi. Il grande palco montato all’interno testimonia anche qui l’uso ludico cui attualmente è deputata la struttura, a parziale riscatto, forse, delle troppe ecatombi a cui avrà assistito nei tanti secoli trascorsi.

Visitiamo l’arena, soffermandoci meno sui singoli gradoni e cunicoli, avendone già fatta sufficiente esperienza in quel di Nimes, e proseguiamo il tour della città vecchia passando per il teatro, il circo e le terme di Costantino. Pareva quasi d’essere a Roma, una Roma in miniatura, ovviamente, ma pur sempre familiare.

Per questi monumenti facciamo il biglietto unico, o cumulativo, che permette di visitarne ben cinque ad un prezzo chiaramente scontato e consente inoltre di evitare le code ad ogni singola biglietteria.

A pranzo ci fermiamo in una sorta di bar paninoteca sulla via che dalla piazza della repubblica conduce al grande Boulevard des Lices, forse attratti dall’offerta di qualche semplice e sfiziosa leccornia. In realtà il luogo si rivela piuttosto angusto e la scelta non azzeccata. Quando poi chiediamo del bagno e ci dicono che non c’è, rimaniamo interdetti: ma come?, un locale pubblico! Tuttavia la proprietaria si mostra disponibile con la nostra amica permettendole di entrare nell’unico servizio esistente, riservato al personale, una sorta di sgabuzzino disordinato ed al momento ingombro di qualche utensile per le pulizie.

Consumiamo un pranzo fugace che non ci soddisfa e non placa del tutto il nostro appetito; Jole in particolare si sente ancora famelica. Ma il problema per fortuna trova rapida soluzione. Mentre ci avviamo verso il lungo Rodano passando per una strada commerciale, notiamo qualcosa di familiare farcisi incontro: è il tipico cartello pubblicitario dei gelati Algida che splende a pochi metri dall’ingresso di una gelateria, suadente ed invitante. Divoriamo, con trasporto di gola e palato, uno strepitoso, italianissimo Magnum che ci risolleva stomaco e morale. Ed ecco il nostro trio nuovamente rappacificato col mondo esterno, ma soprattutto con quello interiore.

In Place de la République visitiamo la cattedrale di Saint Trophime, dedicata al primo vescovo cittadino; la chiesa, in stile romanico-provenzale, anche conosciuta per aver celebrato l’incoronazione di Federico Barbarossa, vanta un maestoso portale che è un tripudio di splendide decorazioni, nonché un meraviglioso chiostro che da solo vale la visita.

Sulla Place de la République si affacciano anche altri palazzi importanti tra cui il municipio.

Poco oltre, sul Boulevard des Lices et Clémenceau, attraversiamo il coloratissimo e pittoresco ‘mercatino’; in realtà uno dei più grandi, famosi e caratteristici di tutta la Provenza, che si tiene ad Arles ogni sabato mattina; circostanza che mi aveva fatto fissare ad hoc per questo giorno la visita della città.

Tra le bancarelle si trova di tutto. Vengo particolarmente attratto da delle camicie mezza stagione a maniche lunghe, beige a righine nere, e decido così di acquistarne una come ricordo del luogo e della giornata.

Lasciamo Arles dopo aver visitato come ultima tappa urbana la famosa necropoli degli Alyscamps, citata persino nella Commedia dantesca, che è situata appena fuori dal centro abitato e già lungo la via al mare.

Un bel viale ospita i numerosi sarcofagi in pietra disposti ai bordi quasi a mo’ di maestosa decorazione. In fondo si trovano gli scavi e la chiesa dall’aria dismessa, con un bel campanile ancora imponente, che ne completa il profilo diroccato. Poche cappelle ne compongono la struttura. Il luogo è silenzioso, pervaso da un’atmosfera particolare e vagamente surreale.

Ritorniamo alla vettura e raggiungiamo il Mediterraneo attraverso una strada che si snoda tra campi, stagni e canneti di incredibile suggestione, che caratterizzano un ambiente naturale unico per la varietà dei suoi paesaggi e della sua fauna: siamo in Camargue, zona umida d’eccezionale importanza, incastonata nel delta del Rodano.

Il villaggio delle Saintes Maries de la Mer, costruito alla foce del Rodano, là dove il grande corso d’acqua di origini svizzere, attraversata parte della Camargue, si divide in due rami (a formare il grande ed il piccolo Rodano) per poi abbracciare il Mare Nostrum e fondersi con esso in una straordinaria commistione di dolce e salmastro, è luogo quasi sacro. Il suo nome, ovvero le Sante Marie del Mare, evoca infatti l’approdo audace e fortunoso su queste rive delle pie donne, madri dell’odierna cristianità, citate nei Vangeli quali seguaci di Gesù, presenti alla sua crocifissione e prime testimoni della sua risurrezione.

Leggenda vuole infatti che le tre Marie, le Saintes Maries de la Mer appunto (ovvero Maria Jacobé – o Jacobi, cioè di Giacomo, dal nome del suo figlio – Maria Salomé, madre di Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, e la più nota Maria Maddalena), assieme alla loro servitrice Sarah (in seguito divenuta patrona dei gitani e da essi quivi celebrata annualmente con una festa che li raduna da ogni angolo del vecchio continente), in fuga dalla Palestina perché perseguitate a causa della loro coraggiosa e costante testimonianza, arrivarono su queste coste su di una barca senza timone, sospinte dalla Provvidenza, e qui diedero avvio alle prime comunità cristiane d’Europa.

A simboleggiare tutto ciò sta una bella chiesa edificata nel XII secolo, e successivamente fortificata ed utilizzata a baluardo contro gli assalti dei saraceni. Ben visibili sono infatti il torrione su cui poggia, i merletti, ed i camminamenti che ne percorrono l’intero perimetro del tetto, dalla cui sommità si può stendere lo sguardo su buona parte del parco naturalistico.

Saintes Maries de la Mer è oggi un allegro villaggio, bianco in prevalenza, munito di un importante porto turistico, e vanta la spiaggia più estesa d’Europa coi suoi ventisei chilometri!; una lunga distesa di sabbia bianca finissima, accarezzata da un mare discreto ed incorniciata da uno stupendo lungomare, rialzato e pavimentato, su cui passeggiare all’infinito, e sul quale si affacciano tante belle villette, locali ed alberghi.

Il centro urbano, tipicamente vacanziero, è ricco di viuzze stracolme di negozietti traboccanti artigianato, abbigliamento, bigiotteria e quant’altro, ideali per ogni tipo di shopping e di tasca; e poi ristoranti e pubs ad ogni piè sospinto. Una piazzola fiorita, in realtà una piccola rotatoria stradale a ridosso del lungomare, che ospita dei fenicotteri in bronzo, simbolo del luogo, fa da sfondo alla nostra prima foto del posto, dopo aver parcheggiato la macchina poco distante, in una via laterale più interna.

Lungo la nostra passeggiata ci fermiamo per una breve pausa di ristoro presso la Brasserie “Le Belvedere” affacciata proprio sul porto e prendiamo una bibita fresca. Chiediamo informazioni al gestore circa le gite in battello per la Camargue e lui ci consiglia una compagnia, evidentemente convenzionata, dove andando a suo nome e mostrando lo scontrino del locale potremo avere un piccolo sconto a testa, ovvero un euro in meno; sempre meglio che nulla. Ringraziandolo dell’accoglienza e del consiglio proseguiamo verso il posto indicatoci e troviamo tutto come descritto. Lungo strada altre cooperative ci fermano indirizzandoci su altre banchine ma ormai la nostra decisione è presa. E così, in men che non si dica, si salpa alla volta del delta del Rodano per scoprire la Camargue dal suo elemento determinante: l’acqua. Il mare è un tantino mosso, ed appena usciti dal porticciolo l’imbarcazione comincia a ballare il valzer, che tuttavia dura qualche minuto, giusto il tempo di imboccare il corso del fiume a ritroso verso l’entroterra, e divertirci perfino un po’ con le sue onde lunghe.

Giunti sulla via fluviale tutto scorre placido e soave. Vediamo numerose specie di animali, soprattutto uccelli; il timoniere o chi per lui, spiega in francese i vari tipi di flora e fauna che caratterizzano l’area del parco, suddiviso in diverse zone e colture; incontriamo altre imbarcazioni, in particolare una assai tipica, denominata Tiki, bianca e rossa, con due piccole colonne a mo’ di ciminiere ed una sorta di rullo piazzato a poppa, che le permette di scivolare sull’acqua, ricordando vagamente i battelli del Mississippi resi famosi da tanti film hollywoodiani.

Ciò che colpisce sono però i paesaggi della Camargue: immensi, aperti, curati. Ci imbattiamo anche in una mandria di buoi e di cavalli che, guidata da un cowboy sul suo destriero, ad una certa ora va a mangiare e ad abbeverarsi in prossimità del fiume. Probabilmente il momento è studiato ad hoc col passaggio dei turisti, tuttavia ciò non fa perdere alla scena quell’evocativo e naturale fascino agreste che ben si sposa con lo spirito di quella gita, e che viene rigorosamente ripreso da tutti noi nei modi più disparati.

Il rientro al villaggio è sereno e nuovamente scosso dalle impetuose onde del Mediterraneo che ci svegliano quasi da un’altra dimensione. Scendiamo convinti di poter accedere alla chiesa per una fugace visita ma, ahinoi!, è troppo tardi, l’hanno appena chiusa. Peccato! Non ci resta che perderci nel piacevole bailamme del borgo marino. Durante il nostro peregrinare tra le vivacissime stradette, ci imbattiamo persino in un padellone di paella fumante ai frutti di mare, e che frutti! (ebbene sì, la cucinano anche qui, a pochi passi dalla Spagna), ben esposta al pubblico su di un apposito tavolo, e pronta a deliziare i palati dei clienti del ristorante che l’avevano eletta regina della serata. Non dico di non averci fatto un pensierino ma avevamo un’altra meta ad attenderci, e… chi si ferma è perduto; dunque passiamo oltre, non senza soddisfarci almeno l’olfatto con l’invitante, meraviglioso profumo che si spargeva tutt’intorno, richiamando l’attenzione di molti, o procurando una bonaria gelosia in quanti, come noi, decidevano diversamente.

Aigues Mortes è la nostra tappa finale a conclusione di un’altra giornata stravissuta in ogni singolo secondo; Acque Morte, ovvero antiche paludi formate dal delta di uno dei più importanti fiumi del vecchio continente. Due le strade per raggiungerla. Ci imbattiamo nella prima ma scopriamo presto che è quella, per certi versi più suggestiva, che prevede il passaggio in battello all’altra riva, dunque facciamo dietrofront e scegliamo la seconda, più lunga ma lineare: un bel nastro d’asfalto grigio scuro che si snoda tra i campi dell’immenso parco.

Poco più di una decina di chilometri e ci ritroviamo in pieno medioevo. Mura alte e torrioni difensivi ingialliti dai secoli e dalle luci artificiali, che ne esaltano la maestosità, cingono una pittoresca cittadina per proteggerla dagli attacchi dei nemici, traffico compreso. La Tour de Constance, visitabile, e da cui sicuramente si godrà di un panorama magnifico ma che troviamo già chiusa a quell’ora della sera. Parcheggiamo in una delle enormi aree messe a disposizione all’uopo oltre i muraglioni, sul lato esterno, e passo passo ci addentriamo nell’antico villaggio. Lo stupore è grande. Non ci si aspettava un posto del genere, per di più animato da una festa contadina che usava cospargerne di fieno le contrade. Paglia a quintali su cui camminare e balle sistemate lungo i percorsi e nelle piazzette a mo’ di panchine su cui sedersi; non manchiamo di farci una foto ricordo dal sapore bucolico e vagamente retrò. E poi vie medievali, movimento, gente a fiume, allegria, negozi aperti e… meraviglia delle meraviglie, dei fantastici empori del dolce, con scaffalature variopinte d’ogni tonalità che pareva seguissero rigidi dettami cromatici nel divenire dei contenitori e delle epoche in essi riprodotte con dovizia di particolari e formidabile estro artistico. Cioccolati, caramelle, biscotti d’ogni forgia e dimensione, d’ogni genere e farcitura, da consumare subito o da portare via, da incartare qual finissimo e gentil gesto d’affetto verso un proprio caro, o più semplicemente da concedere a sé stessi in un folle, azzardato gesto d’impertinente autostima: un tripudio iridescente di sapori locali, un arcobaleno di creatività e precisione, una festa per gli occhi. Mai viste scansie tanto ordinate e belle. Non c’è che dire, in questo la Francia ci batte. Stessa cura l’abbiamo notata in vari tipi di esercizi commerciali: dalle farmacie alle profumerie per finire con le pasticcerie più chic, tutto viene esposto con metodo, per scale cromatiche, o per altezza, oltre che per linea di prodotti e griffe.

Ma la fame incombe ed allora, comprato qua e là qualche souvenir, scegliamo il locale più tipico che ci capita a tiro, e così ci troviamo seduti al cospetto di una botte-tavolino, su sedili alquanto alti, sufficientemente comodi, lungo strada, all’aria aperta, e, memori ancora di recenti seduzioni olfattive, ordiniamo tutti e tre una paella ai frutti di mare, che risulterà sì buona, ma certo assai meno di quella che alle Sante Marie del Mare ci aveva letteralmente ammaliato.

Il dopocena è all’insegna di un ultimo giretto, diciamo digestivo. Vagando qua e là scopriamo d’esser capitati proprio nel giorno della festa del patrono, ovvero Saint Louis, ed ecco spiegato tanto movimento, che continua anche a sera inoltrata con l’esibizione di un simpatico gruppo folcloristico presso la piazza centrale, alla quale assistiamo per qualche minuto prima di riprendere a malincuore il cammino verso il letto. Nonostante sia tanta la volontà di restare a respirare ancora quella genuina essenza medievale di cui il borgo è impregnato, giocoforza cediamo alla stanchezza, e fortunatamente Avignone non è lontana.

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E finalmente è domenica, giornata da vivere in parte all’insegna del mare. Fatta la solita frugale colazione, partiamo verso le sette per Cassis, una località situata a pochi chilometri da Marsiglia. Alle dieci e trenta ‘ci aspetta’ il battello che ci condurrà a scoprire le immense falesie bianche che caratterizzano quel tratto di costa e che prendono il nome di Calanques.

Il viaggio è rapido e scorrevole sull’autostrada A7, e poco oltre le dieci raggiungiamo il centro di questo splendido paesino marino, molto elegante e turistico, adagiato tra dolci, verdeggianti colline. Il porto, le ville, la bella spiaggia ne fanno un centro vacanziero sicuramente d’élite.

Conquistato un parcheggio a pagamento su una delle stradine alte, non troppo distanti dal lungomare, facciamo il biglietto calcolando il numero delle ore necessarie, dopodiché ci avviamo verso il molo. Qui troviamo il chiosco Jaune dove comprare i biglietti (peraltro acquistabili anche sulla barca) e, dopo una breve passeggiata e qualche foto di rito, si parte alla volta di Morgiou, lungo un tratto di mare che permette di ammirare al meglio le imponenti scogliere ricoperte di pinete, e di gente stesa ad abbronzarsi. Anfratti, calette e piccoli pertugi si susseguono abbagliati da un sole davvero gagliardo. Ci godiamo al meglio la navigazione e ci par quasi di essere nuovamente nella nostra Sardegna, che di zone splendide come queste ne vanta parecchie.

Rientrati a Cassis circa novanta minuti più tardi, giriamo per le sue stradine affollate, ricche di fiori e colori, ci soffermiamo sulla piazzetta dove troviamo un artista locale che espone le sue pitture, immortaliamo la fontanella e continuiamo a perlustrare ogni angolo pittoresco di quello che fu sicuramente un villaggio di pescatori ora trasformato in rinomata località di villeggiatura. Faccio a Jole una foto vicino alla porticina blu di una casa, che pare quella dei puffi, ed infine consumiamo il nostro consueto pranzo al sacco a base di panini e frutta, seduti su delle scalette, all’ombra di uno dei suoi centralissimi vicoli. Cassis ci piace tantissimo e la lasciamo quasi con dispiacere.

Nel primo pomeriggio riprendiamo la marcia riaddentrandoci nel cuore della Provenza, in una delle sue storiche capitali: Aix-en-Provence. La raggiungiamo percorrendo una strada immersa nel verde, generosa di scenari formidabili. La città di per sé ci affascina poco, sarà che è domenica ed è tutto chiuso, sarà l’eccessiva canicola del meriggio o sarà che proprio ci ha colpito poco, per quanto sia meritevole di una visita. Di sicuro indelebile è il ricordo di una doccia che ci siam fatti approfittando della prima fontanella del centro, dimentichi d’ogni dignitoso comportamento, dinanzi ai pochi abitanti che circolavano a quell’ora e ad altri turisti che invece aspettavano il loro turno per imitarci, sorridendoci con complicità.

Ad Aix è bello camminare nella città vecchia, visitare la cattedrale, ammirare la torre dell’orologio e il palazzo arcivescovile; e soprattutto passeggiare nel Cours Mirabeau, che tra le altre cose ospita la celeberrima fontana de la Rotonde, eretta nel 1860 e sulla quale sono poste tre statue che rappresentano: la Giustizia (rivolta verso il corso Mirabeau), l’Agricoltura (verso Marsiglia) e le Belle Arti (verso Avignone). Altre due importanti fontane adornano il corso, però le troviamo in restauro, quindi non particolarmente attraenti; mentre interessante è il famoso Café ‘Le deux Garçons’ frequentato da Cézanne, dinanzi al quale mi faccio scattare una foto. La città ospita anche il suo atelier, che noi non abbiamo visto, dimentichi di quanto riportato nel nostro itinerario, e forse troppo storditi da un petulante solleone.

Lasciamo Aix-en-Provence alla volta di un’altra famosa città provenzale: Salon de Provence. Non troppo distante, ci arriviamo in meno di un’ora e ci fermiamo a cena; non prima però di cedere ad una deviazione lungo strada che ci porta nel cuore di un vigneto la cui cantina, solitamente visitabile, troviamo già chiusa a causa dell’orario; peccato! Ci fermiamo comunque per fare un breve giro, assaggiare qualche acino d’uva e scattare delle foto tra i lunghi filari verdi e ricchi. Anche dal di fuori si possono ammirare alcuni strumenti atti alla lavorazione del prezioso prodotto. La tenuta è vasta e molto bella, comprende diversi piccoli edifici in stile rustico, assai caratteristici e perfettamente in simbiosi con l’ambiente circostante. Jole rimane particolarmente affascinata dalla villa signorile che domina, austera, quelle dolci terre che si perdono nell’orizzonte dorato.

Al contrario di Aix, Salon ci piace molto. E’ un borgo raccolto, intimo e pittoresco, col suo castello dell’Empéri (così chiamato poiché il signore feudale della Provenza era allora l’imperatore germanico), la torre dell’orologio (che sorge dove un tempo stava l’antico ingresso della Ville, ed oggi segna il passaggio dalla città vecchia a quella moderna), i palazzi medievali e la peculiare fontana di muschio a forma di fungo gigante che è anche il portafortuna della città. Bello pure l’edificio ottocentesco del Circolo d’Arti e Mestieri, che vediamo di notte, illuminato, mentre riprendiamo la via verso il parcheggio.

Salon è nota anche perché fu dimora del celebre astrologo francese Nostradamus (nato peraltro in quei pressi, a Saint Remy de Provence) durante l’ultimo ventennio della sua vita terrena. Arriviamo troppo tardi per poter visitare la sua casa-museo, così ci accontentiamo di ammirarla dall’esterno dove, su una parete, troneggia la sua figura attraverso un’effigie gigante che indica l’edificio.

Ceniamo nei pressi di Rue de l’Horloge accomodati ad un tavolo all’aperto di un ristorante rinomato e chic. Scegliamo pietanze a base di carne, sposandole con un buonissimo vino rosso locale. La piazzetta par quasi un salotto, pochi passanti, voci velate; e il castello con le sue luci dorate e il rumore delle cascatelle che dalla rocca discendono intersecando una lunga e tortuosa scalinata, creano un’atmosfera magica e quasi irreale. Siamo fuori dal tempo, in un luogo davvero straordinario.

Un’altra giornata pienissima giunge così al termine e noi, satolli, ci rilassiamo concedendoci un’ultima breve passeggiata digestiva lungo le stradine di Salon, cittadina che ci è piaciuta tantissimo e che ci rimarrà nel cuore.

Ripresa la macchina, raggiungiamo Avignone in appena tre quarti d’ora, guadagnando il meritato riposo.

* * *

La mattina verso le sette, consumata la veloce colazione ipocalorica (o iper?), carichiamo la macchina, pronti ad affrontare gli oltre duecento chilometri che ci separano da una città che desideravo visitare da parecchio (fattore che mi ha spinto ad includerla quasi forzatamente in un itinerario non proprio focalizzato sulla sua zona d’appartenenza, ovvero l’alto Rodano e le Alpi); una città storica dal nome evocativo, e sicuramente annoverabile tra le più raffinate ed eleganti di Francia: Lione.

Ahimè, però, la giornata sembra cominciare storta: non appena sollevo la mia valigia per caricarla nel bagagliaio della vettura sento un improvviso dolore alla schiena. Mi auguro non sia di quelli fastidiosi e durevoli che possono di fatto ostacolarmi nei movimenti; e fortunatamente il Signore mi assiste e le fitte passano nel giro di poco tempo senza lasciare strascichi.

Dunque salutiamo definitivamente Avignone, e con essa l’intera Provenza, che ci ha ospitati, cullati e travolti con le sue tante ricchezze, strappandoci la promessa di un ritorno imminente che possa colmare i parecchi vuoti lasciati in questo primo assaggio.

Superate le poche strade che ci separano dall’uscita urbana, imbocchiamo facilmente l’autostrada A7, la stessa che ci aveva condotto a Cassis, ma stavolta in direzione opposta, verso nord.

Il viaggio è piacevole, dura appena un paio d’ore, e già intorno alle dieci siamo in vista della meta. L’albergo si trova nella zona fieristica e sportiva, in una periferia densa di piccoli quartieri e paesini satellite. Dopo qualche giretto tra stradoni e rotatorie che si aprono su slarghi ed isolati commerciali o industriali, approdiamo alle nostre stanze per l’unica notte da spendere a questa latitudine. Come di consueto presentiamo il foglio di prenotazione, paghiamo, ci vengono consegnate le chiavi elettroniche e così, celermente, ci sistemiamo, per poi partire alla scoperta della città. L’hotel, benché disposto diversamente, è pressoché identico a quello di Avignone, salvo considerare che l’aspetto, ma anche l’ordine e la manutenzione delle stanze erano leggermente migliori nel suo gemello provenzale.

Riprendiamo dunque la vettura e ci dirigiamo verso il centro con enorme curiosità. Lione ci abbraccia con dolcezza, svelando immediatamente tutto il suo placido splendore. Un bellissimo viale di platani ci conduce verso il lungo Rodano; tanti gli edifici moderni che lo attorniano: belle strutture, sobrie e gradevoli che mai cedono ad esagerazioni architettoniche. Pochi anche i grattacieli, che invece lasciano spazio alle sontuose residenze dei quartieri chic; qui regnano il buon gusto e l’armonia, e forse proprio questi piccoli dettagli, ancora appena percepiti, ci fanno d’istinto innamorare di una città ancora tutta da conoscere, esplorare, scoprire; una città che si presenta serena, accogliente, elegante, ordinata e fiera di sé stessa.

Giungiamo ad uno slargo in cui troneggia un palazzo che poi scopriamo essere il teatro. A pochi metri c’è l’ingresso di un parcheggio sotterraneo a pagamento dove decidiamo di ricoverare l’auto per l’intera giornata, regalando qualche euro al comune in cambio della consapevolezza di saperla in luogo sicuro. Quindi riemergiamo alla luce di una giornata radiosa, pronti a conquistare con gli occhi e col cuore la città che ci ha già ammaliato.

Siamo circondati da edifici storici molto belli; fatti due passi entriamo nel cuore medioevale dell’urbe, la Place Terreaux, in cui ‘dimora’, tra l’altro, la maestosa fontana del Bartholdi, il celebre scultore che nel 1889 realizzò la famosa statua della libertà divenuta simbolo d’America, e di cui la stessa Parigi possiede copia identica. L’opera, originariamente dedicata alla città di Bordeaux, dopo essere stata presentata all’esposizione universale parigina è stata invece smontata e ricomposta nel luogo che attualmente la ospita, in quanto acquistata dal più benestante comune di Lione, che ne ha fatto un suo importante punto di riferimento storico e urbano. La donna che governa il carro ed i quattro cavalli scalpitanti che lo trainano, in origine simboleggiavano la Garonna ed i suoi confluenti che correvano verso l’oceano. La sua nuova e diversa ubicazione ha convertito il significato dell’opera stessa, oggi rappresentativa, più in generale, dei grandi fiumi di Francia. La sua imponenza, e bellezza, ha fatto da sfondo alle nostre prime foto.

Dinanzi alla fontana conosciamo una giovane coppia proveniente da Brescia e guarda caso diretta proprio a Bordeaux. Avevano appena terminato la visita della città, così ne approfittiamo per avere qualche dritta. Ci consigliano soprattutto un luogo imperdibile, per saggiare anche in breve lo spirito lionese: la collina del Fourvière col suo belvedere e l’omonima cattedrale, facilmente raggiungibile con una funicolare. Ci indicano inoltre l’ufficio turistico di Place Bellecour, già segnata nel nostro itinerario, come estremamente utile per avere tutte le informazioni necessarie ad un’esplorazione anche veloce della città.

Li salutiamo ringraziandoli, e ci incamminiamo lungo una strada centrale che proprio a quella grande piazza conduce. Siamo nel cuore medievale della città, qua e là ritoccato e restaurato, ma nel rispetto dell’estetica e dell’armonia architettonica. Passiamo di fronte al museo delle belle arti dalla magnifica facciata, come altrettanto magnifica è quella del municipio che si affaccia sempre sulla meravigliosa Place Terreaux.

La via che percorriamo è piena di negozi, di gente e di vita. Place Bellecour è enorme ed assolata. Troviamo il Lyon Tourist Office dove una hostess estremamente gentile ci spiega in inglese come sfruttare al meglio il poco tempo a disposizione. Ovviamente escludiamo i musei per ovvie ragioni.

La Lione antica, o Vieux Lyon, si compone di ben tre villaggi originari, oggi divenuti quartieri: S. Georges, S. Paul, e S. Jean, che si affacciano sulla Saona, (il Rodano bagna invece la parte più moderna dell’urbe), l’uno contiguo all’altro a formare un magnifico distretto rinascimentale (dovuto principalmente agli emigranti italiani, commercianti in primis), proprio ai piedi della collina che domina la città. Li percorriamo tutti con calma, perdendoci nel dedalo di viuzze intrise di storia, colori, profumi e sfumature uniche, con le loro botteghe artigiane, i negozietti di antiquariato, i locali tipici, le pasticcerie, gli antichi cortili, i portici, le lanterne e tanto altro ancora, senza ovviamente tralasciare la visita obbligata alla cattedrale di St. Jean, che abbraccia i due stili romanico e gotico, essendoci voluti ben tre secoli per completarla. E girellando notiamo un’altra caratteristica di questa splendida città, ovvero i tanti murales che ne adornano simpaticamente intere pareti e facciate, dando quel tocco artistico e divertente a pareti altrimenti disadorne o semplicemente anonime.

Per la pausa pranzo ci fermiamo presso un locale coi tavolini all’aperto, poco oltre l’imbocco del ponte Bonaparte, a due passi dalla stazione della funicolare. Ci riposiamo, riparati dall’ombra di alcune piante e degli edifici vicini, e ci gustiamo delle sorta di piadine, assieme ad una bibita. Ma prima della salita al colle, ci aspetta la gita sulla Saona che avevamo in ‘scaletta’. Andiamo dunque al Quai des Célestines sul quale troviamo, come da programma, il chioschetto (o botteghino che dir si voglia) dove prenotiamo il tour delle cinque, che per un’oretta ci cullerà sulle dolci rive del placido fiume.

E durante la traversata mi capita uno di quei piccoli inconvenienti che poi, paradossalmente, costituiscono gli aspetti più sfiziosi dei successivi racconti di rito; i momenti che meglio si rammentano della montagna di ricordi che uno si porta dietro, e dentro, da ogni viaggio che fa.

Ci accomodiamo sulle panche in legno; io riesco a conquistarmi una postazione di prim’ordine dalla quale poter scattare numerose foto delle splendide architetture urbane. Innanzi a noi sfilano palazzi e paesaggi di un incanto straordinario, incorniciati da numerosi ponti, a volte esili, a volte maestosi che, uno dopo l’altro, legano le due rive della città, intrecciandole indissolubilmente.

Ad un certo punto Luigi mi chiede di fargli una foto a poppa con l’ Ile Barbe come sfondo. Non appena mi muovo, un signore di mezza età prende il mio posto e fissa una videocamera per le sue personali riprese. Al mio rientro non accenna a volersi spostare. Mi ci sono voluti pochi istanti per tornare, un po’ forzatamente, allo statu quo portando il furbetto a capitolare dinanzi alla sua signora, dapprima compiaciuta della di lui prodezza e successivamente indignata dalla mia! Al solito si grida all’italica arroganza, salvo poi tradirsi e svelare identiche origini! Buona parte del battello è divertito dalla sceneggiata di un ometto che, durante la ritirata, s’è perso miriadi di meravigliose immagini che non potrà più rivedere o proporre a parenti ed amici; oramai gli avevo rovinato, almeno in parte, l’oretta di relax casalinga, il replay divanesco del viaggio.

Terminato il suggestivo percorso fluviale, optiamo per una breve pausa in un bar viciniori prima di intraprendere la seconda parte della nostra esplorazione.

Con la funicolare, in pochi istanti raggiungiamo i siti archeologici della città, posti sulla collina di Fourvière, dai quali poi proseguiamo a piedi verso la vicina basilica di Notre Dame de Fourvière, altro capolavoro architettonico di stile romanico-bizantino del tardo ottocento. Poco oltre si trova l’antenna televisiva di Lione, che serve tutta la regione ed omaggia, con la sua forma, la sorella maggiore, ovvero la Tour Eiffel parigina, della quale è più elevata come posizione ma ovviamente assai ridotta nelle dimensioni.

Anche Lione, come moltissime altre città in Europa e nel mondo, fu fondata dai romani col nome di Lugdunum (dal dio Lug, protettore dei Galli), nel lontano 43 A.C. E in questa collina, dichiarata patrimonio mondiale dall’UNESCO nel 1998, rimangono le vestigia dell’impero che fu, ovvero ben due teatri: il Teatro Antico, il più antico di Francia e tra i più grandi in generale, e l’Odeon, più raccolto e nato per l’élite di allora. Li visitiamo entrambi con particolare premura prima di dirigerci verso l’apice del colle, alla basilica. Sfortunatamente si è fatto tardi e possiamo ammirarla solo dall’esterno, già vestita di calde luci artificiali che ne risaltano la soave bellezza. Dopodiché immortaliamo la mini tour Eiffel, anch’essa illuminata, e ci tratteniamo un’altra buona mezzora per goderci il tramonto da quelle terrazze, e le diverse sfumature che Lione assume via via che il cielo sbiadisce accendendosi di stelle e la città ai nostri piedi lo imita, mostrandosi al mondo, luccicante e suadente più che mai.

Su una via del centro, nei pressi della Place Terreaux, troviamo un ristorantino caratteristico che fa al caso nostro e qui, da un tavolino a bordo strada, ci godiamo la vita lionese che ci scorre accanto, mentre gustiamo dei buoni antipasti di carne, una succulenta bistecca, una bella insalata con qualche salsettina particolare e del buon vino rosso (dopotutto siamo in Francia), senza eccedere nella spesa.

La passeggiatina finale verso il parcheggio ci riserva ancora una bella sorpresa: la straordinaria facciata gotica della chiesa di Saint-Nizier, altro capolavoro che adorna la città, sfuggitoci durante il giorno e che ora, di notte, ci abbaglia in tutta la sua eleganza e maestosità; è d’obbligo un’altra foto ricordo.

Lione non si stancava proprio mai di stupirci, ed anche noi stentavamo a darle il nostro arrivederci, nonostante l’ora tarda e la lucida consapevolezza della lunga maratona che ci aspettava di lì a qualche ora. Finché il buon senso ebbe il sopravvento.

Il rientro è stato un tantino bislacco a causa di una segnaletica non sempre precisa e della nostra attenzione ormai calante. Imbocchiamo infatti la strada per la zona industriale e, per concludere in bellezza, usciamo sull’autostrada in direzione Marsiglia, trovandoci costretti a fare dietrofront al primo paese utile! Altro divertente dettaglio di una gita fai-da-te che per mille motivi non dimenticheremo mai.

* * *

La mattina seguente ci arride, fulgida di sole e di promesse. Consumati i consueti riti dell’alba riabbraccio il volante alla volta delle nostre prossime tappe; la prima del dì è Grenoble, direzione sud-est per Chambéry sull’autostrada 43 e, dopo una cinquantina di chilometri, deviazione sulla A 48 che ci condurrà a destinazione.

Lungo queste belle strade ci inoltriamo nel cuore della regione alpina, lasciando a valle il nostro amato Rodano. Sono le grandi arterie che conducono anche in Svizzera, verso Ginevra, e in Italia a Torino e Milano passando per il traforo del Frejus. Ci sentiamo tanto lontani dalla nostra cara patria, e pochi cartelli stradali invece ci indicano una distanza di appena poche centinaia di chilometri.

I panorami che si susseguono sono mozzafiato; siamo improvvisamente in mezzo alle Alpi, nel cuore di una sub regione fantastica e verdissima. Manca solo Heidi che fischietta in mezzo alle sue caprette!

Appena un’ora e mezza di placida ‘navigazione’ e siamo arrivati.

Grenoble è una città accogliente situata in mezzo ad una bellissima valle, stretta tra alte, imponenti montagne. E’ sede universitaria ed ospita quindi numerose strutture di ricerca e studentesche; sicuramente ha dei ritmi di vita pacati, e si respira un’aria cristallina, piacevolmente frizzante e culturale.

Nostra prima tappa è la teleferica che porta alla Bastiglia, una fortezza imponente situata sopra il monte che domina la città, nata a metà ottocento per scopi militari di difesa sul confine italo-francese ed oggidì convertita a luogo di ristoro ricco di spazi espositivi, ricreativi e verdi da godere in compagnia per felici scampagnate a due passi dal centro. Sfortunatamente però, quando arriviamo alla biglietteria, all’apertura, intorno alle dieci del mattino, qualcosa non va e il mezzo non funziona. Decidiamo allora di invertire il programma, girare prima per la città e in ultimo, conquistare il forte.

Le vie e le piazze che attraversiamo sono silenziose e semideserte. La città sembra assopita, e ci appare ordinata e pulita, adorna di bei palazzi. Ammiriamo dall’esterno la chiesa di S. Andrea, ancora chiusa, e durante il tragitto, tra le varie botteghe artigiane ed i negozi, colpisce la nostra attenzione una torrefazione vecchio stile che espone orgogliosa le tante varietà di caffè che produce e miscela, chicchi e grani scuri d’ogni genere e provenienza, che il cliente può scegliere ed assaggiare. Ed è proprio ciò che facciamo noi tre, attratti dal ben noto aroma che si spande nell’aria, ma che in Francia in effetti non ha mai pienamente incontrato i nostri italianissimi gusti. All’interno del negozio sono esposte anche alcune antiche macchine usate per produrre la robusta e corroborante bevanda. Ordiniamo quindi tre caffè, curiosi di testarne la bontà, in quell’ora mattutina che invita ad assaporarlo in una sorta di seconda, piacevole colazione. Ed è con vero piacere che, sorso dopo sorso, promuoviamo la qualità del prodotto, e possiamo così riprendere il nostro tour visibilmente appagati da tale bella sorpresa.

Grenoble si gira in breve tempo; il centro storico è piccolo e racchiuso in pochi isolati: ricca di piazze, giardini, fontane, edifici in stile medievale e rinascimentale, le cui facciate abbelliscono intere strade, più o meno larghe, buona parte delle quali percorse da tram, la città si presenta sobria ed elegante.

Ed eccoci di ritorno alla cabinovia, finalmente funzionante. Facciamo i biglietti e saliamo su una sfera gigante che contiene diverse persone. In pochi minuti si giunge all’apice della montagna, e man mano che si sale si spalanca davanti a noi un’imponenza di cime alpine al di sotto delle quali la città si adagia placidamente, cinta dal fiume Isère, affluente del Rodano, che la bagna. Il panorama è spettacolare già dalla ‘boccia’ sospesa nell’aria; ma lo è ancor di più dai diversi belvedere muniti di panchine che si affacciano sulla valle, da cui bearsi di cotanta maestosità e bellezza. Anche noi ci sediamo qui diversi istanti, quasi in contemplazione, respirando a pieni polmoni un’aria finalmente pura e fresca.

Facciamo un pieno di fotografie ed emozioni prima di percorrere i vari camminamenti della vecchia fortezza, oltrepassare la porta d’accesso carrabile e raggiungere i parchi ed i prati che si stendono dietro di essa. Sulla strada facciamo anche una piccola deviazione catturati da dei segnali che indicano delle grotte usate in tempi di belligeranza come rifugi. Ci godiamo la Bastiglia per un’ora o forse più ed infine torniamo alla vettura, parcheggiata poco oltre l’ingresso della teleferica, per proseguire l’itinerario alla volta di Gap.

Per raggiungere questa cittadina attraversiamo monti e valli di un fascino strepitoso e quasi inenarrabile, fatto di verde, cime a volte tempestose circondate da nubi minacciose, e poi ancora laghi trasparenti e cristallini di un blu intenso, circondati da boschi, ed ancora torrenti impetuosi e villaggi da favola. Consiglio a tutti di percorrere la statale D1085, e più in generale le strade secondarie, quando possibile e si ha tempo, piuttosto che le autostrade, in quanto si viene ripagati da paesaggi incantevoli ed indimenticabili che fanno davvero la differenza in una vacanza on the road come questa.

Giungiamo sl paesino di Corps e poco prima ci inerpichiamo per la salita che conduce al santuario della Madonna de La Salette. La visita a questo luogo di preghiera l’avevo aggiunta al programma quasi per caso quando mi ero reso conto che le strade che dovevamo percorrere ci passavano accanto. E’ un santuario mariano di cui avevo sentito parlare da una mia cugina che molti anni prima, in un lungo viaggio verso Lourdes, ci aveva trascorso una notte, rimanendone alquanto impressionata.

Il santuario si trova letteralmente in mezzo ad altissimi picchi, a ben 1780 metri d’altezza, quasi sospeso tra cielo e terra. Mia cugina l’aveva vissuto da piccina, e durante un temporale che di certo non poteva averle lasciato un bel ricordo a quell’età; e difatti nelle sue descrizioni appare sempre un luogo da incubo, cupo ed inquietante. Ma a noi va molto meglio; la giornata è radiosa e il santuario grandissimo ed accogliente, e pieno di italiani in pellegrinaggio!

Giriamo i luoghi che furono sede di eventi soprannaturali nel lontano 1846: l’apparizione della Vergine a due ragazzi poveri, Massimino di undici anni e Melania di quattordici, che pascolavano le mucche dei loro padroni. La Santa Madre perorava la causa della conversione del popolo francese la cui condotta dei tempi aveva terribilmente contrariato il suo amato Figlio. L’evento ebbe i suoi benefici effetti riportando i francesi alla fede e alla pratica religiosa.

In seguito allo straordinario episodio, sul luogo dell’apparizione è sorta una grande chiesa di stile neo-romanico ed ampi locali per i custodi e per l’accoglienza dei pellegrini, nonostante il posto abbastanza disagevole da raggiungere e soprattutto da vivere. Un luogo comunque affascinante e di sicuro impatto emotivo, fatto per la contemplazione, il raccoglimento e la preghiera, ideale per meditare e ritrovar sé stessi, lontani dal chiasso di una civiltà spesso alienante.

Ci impressiona la grandiosità della struttura: tanti gli spazi comuni, le sale per convegni, un ampio refettorio ed un albergo di quattro piani; ambienti assai ordinati, puliti, moderni e funzionali allo scopo dell’accoglienza, affidati agli omonimi missionari. Consumiamo il nostro bel pranzo al sacco in uno dei tanti tavoli all’esterno, a quell’ora ingombri di vivande e di gente, tra cui un folto gruppo di italiani le cui ciance ci fanno da sottofondo. Poi ci rechiamo sul luogo dell’apparizione, poco distante, e beviamo un sorso dell’acqua benedetta che sgorga da quella fonte; infine, percorrendo un breve sentiero battuto, saliamo alla grande croce in cima alla collinetta che domina il complesso.

La croce de La Salette è molto particolare. Fu vista dai veggenti al collo della Signora, ed era il punto esatto da cui promanava la sua luce. Sui bracci orizzontali porta due simboli della passione di Cristo: un martello e un paio di tenaglie; il primo serve a mettere i chiodi, le seconde a toglierli. Ciò era parte del messaggio della Vergine che, con le sue preghiere, ma soprattutto con la collaborazione dei suoi figli, voleva aiutare quel popolo a riscattarsi dall’ira di suo Figlio, attenuando il dolore che i peccati degli uomini continuavano a procurargli.

Il punto in cui è stata piantata la riproduzione di questa croce, in formato gigante, è davvero suggestivo; da qui si può godere di una vista mozzafiato sulle cime alpine, in parte brulle a causa della neve che durante parecchi mesi all’anno sicuramente non le abbandona. Riusciamo a farci fotografare tutti insieme da un altro turista pellegrino come noi, immortalando lo splendido sfondo, e nel frattempo notiamo come strani insetti riempiono il posto avviluppandoci le gambe. Sembrano grandi formiche alate; mai viste prima e non certo gradevoli.

Dopo questa pausa rigenerante, riprendiamo l’auto e ridiscendiamo a valle alla volta di Gap, ridente cittadina della Hautes-Alpes immersa nella natura, a ben 750 metri d’altitudine.

Oltre un’ora di strada un po’ tortuosa ci conduce a destinazione, e la stanchezza comincia ad irrompere in noi; arriviamo stremati. Giriamo Gap e le sue vie pittoresche, ricche di negozi, soffermandoci diversi minuti dentro la sua bella cattedrale del XIX secolo, per ammirarla ma anche per riposarci. All’uscita sostiamo in un bar del centro per rifocillarci e riprendere fiato; ci aspetta una lunga traversata verso Nizza. Ovviamente optiamo per l’autostrada, sicuramente più lunga ma senz’altro più scorrevole e veloce; sarebbe stato bello passare per le statali che avevo già segnate, ma non consigliabile al momento; non avremmo goduto nulla in quanto i sensi erano colmi ed il corpo esausto.

E’ a Gap che Jole disse una frase rimasta celebre negli annali dei nostri viaggi, ovvero: “Ho gli occhi saturi, non ci sta più niente!”. Ed in effetti molto, moltissimo avevamo visto e fatto sino ad allora, e specialmente in quell’unica, estenuante giornata che al suo tramontare ci avrebbe condotto in un mondo completamente diverso, dentro un’altra parte di Francia e di viaggio: dalla Provenza, dalla valle del Rodano e dalle Alpi, alle pigre atmosfere d’élite della Costa Azzurra e di Montecarlo.

Lasciamo dunque Gap e le sue valli, e pian piano ci immettiamo su strade sempre più larghe e dritte che conducono verso il mare, verso il nostro amato Mediterraneo, nuovamente nel cuore della Provenza per un ultimo, fuggevole saluto alla periferia di Aix-en-Provence, e poi spediti verso Nice, dove arriviamo in tarda serata, e dove avrà inizio la seconda parte del nostro robusto itinerario.

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