Diario Esistenziale di un viaggio di nozze
Non tanto che cocomero e salsiccia assieme faccianno schifo, ma i più svegli dovrebbero avere compreso la metafora, quanto la conoscenza individuale e reciproca. Nel confronto tra civiltà, nel confronto tra passato e futuro, tra uomo e donna, nel confronto di poli opposti, tra ciccia e ossa, si consumerà questo lungo, misterioso viaggio. Appunti, divagazioni, riflessioni, visioni, deviazioni, esagerazioni, tu chiamale se vuoi emozioni. Che io le chiamo con il sostantivo adatto.
02/05 Check-in effettuato. Il Pata e il Rollo (useremo questi due nomi di pura invenzione, per proteggere la nostra privacy) alla ricerca di loro stessi sono finalmente affrancati all’oriente. L’Europa finora, ci ha dato troppo poco. Mattino, si parte. Volo Roma-Francoforte. Ce ne freghiamo che il franco sia forte, ormai c’è l’euro. Siamo in Germania in un battibaleno, e ci dispiace questa violenza sui cetacei in nome della velocità, ma tant’è. Ore 14,15: partenza da Frankfurt con teutonica precisione. Il Pata, incline come al solito alla trascendenza, principia da subito uno stato di dormiveglia che sette ore di viaggio spera possano portarla quantomeno in un Nirvana Rem. Piccolo vuoto d’aria. Il Pata ritorna alla realtà terrestre (o aerea). Rompe in ottemperanza ai più ovvi dettami coniugali. Sedili stretti e aria condizionata forte. Domanda esistenziale: condizionata da chi, da cosa? Approfondire concetto. Intanto io vengo utilizzato dal Pata alla stregua di appoggino e cuscino, il mio lavoro di ricerca esistenziale viene reso più arduo. Aspetto spuntino, sperando che mi aiuti. La visione dell’ala dell’aereo, che si tramuta in ala di pollo fa vacillare le mie convinzioni. Chi siamo, cosa vogliamo, come ci appare il mondo? Hostess, arriva il pranzo? Trasvoliamo su nuvole bianche. Bianco abbacinante violenta i nostri occhi a mezz’asta da gitanti obliati. Il mondo è così piccolo da quassù. Eppure sembra di stare a Ovindoli (approfondire rapporto neve-altezza-nuvole per saggio sul candore dell’ovatta e dell’assorbente come tramite terra-cielo, correlato al concetto di maternità). Sopra Praga si registra altezza 11.000 metri e temperatura 45°. Infatti in giro, non c’è nessuno. All’orizzonte avvistiamo carrello portavivande. Sentiamo di esistere. Fagocito ergo sum. Non basta. Pata e io, siamo alla ricerca dell’alienazione della cotoletta, astrazione dal Big-Mac. Forse rinunciamo al vassoietto. Pata intanto approfondisce il concetto di meandro-onirico. Si muove, scalcia, forse è vicina ad una scoperta. Cambia posizione. Facciamo progressi: forse gia’ a Delhi conosceremo meglio noi stessi. Intanto ci siamo presentati. Abbiamo socializzato. E’ come se ci conoscessimo da sempre. E per sempre (approfondire concetto di matrimonio, ancora poco chiaro). Cibo in arrivo. No miraggio. Solo drink. Le nostre certezze si sgretolano. Consapevolezza in aperto contrasto con i succhi gastrici? Si sorvola confine Ceco-Polacco. Non mi sembra cambiato dall’ultima volta che lo invasi con le mie truppe. Il Pata mi dice “Ma chi ti credi di essere? Vola basso”. A 11.000 metri d’altezza non è facile. Mi ridimensiono. Comincio a pensare a modelli positivi , a Gandhi. E’ arrivato il vassoio vivande. A Gandhi e allo sciopero della fame penserò in India (approfondire comunque studio relazioni politica Gandhi-Weight Watchers). Sorvoliamo su Kiev. Non che non ne voglia parlare, ma è sempre stata una città ostile, dubitativa, interrogativa: ‘Chi èv?’. Sorvoliamo che è meglio. Sebbene l’interrogativo ci riporti a noi. Un riso con pollo mesciato allogato nei nostri stomaci ci riporta ai nostri obiettivi: la pennica digestiva ci regalerà emozioni cognitive? Silenzio si dorme. Dopo Kiev, come fu per le truppe Napoleoniche e poi quelle della Wermacht, comincia la disfatta, lo sbraco: che sia una metafora della nostra ricerca? Il Pata tira e ritira la copertina. Rivoli di bava le solcano il mento. Al di sotto fanno comparsa deserti e brulle terre, lande desolate solcate da gole profonde e crepacci dai lunghi tentacoli. Cefalopodi orografici, con l’aspetto negativo che in umido non sanno di nulla. Si fa tabula rasa prima del bagno religioso. Purga prima del festino. Prendiamo un lungo respiro prima dell’immersione battesimale. Nudi e crudi e pronti per la ricerca di noi stessi. Vergini. Io, comunque, ho portato i profilattici (sottolinea distinzione tra rinascita e nascita). Poi si arriverà a Delhi.
03/05 India. Finalmente India. Terra di santi, poeti, navigatori, ma soprattutto indiani. Non quelli con le penne, ma quelli con le pene e con l’articolo ‘il’… gli uomini insomma. Il caldo è forte, l’aria sa di terra bruciata. Si boccheggia. Dimenticavo, è anche terra d’asmatici. Veniamo condotti in albergo dal nostro fido Irfan, il guidatore che ci condurrà durante tutto il nostro itinerare, che non chiamerò schiavo e che per la convenzione di Ginevra avrò la delicatezza di non torturare. Pata con la telecamere inizia un discorso di estrospezione solo in apparente contrasto al viaggio introspettivo che ci eravamo proposti. E’, se vogliamo, un gioco di specchi, un dove diverso, uno sguardo a 360° puntato sul centro, un relazionarsi all’ambiente che è altro solo in funzione di confronto con l’autodeterminazione (riguarda “Relativismo per Miopi” dell’autore Ceco, Diottrick), un guardare oltre se stessi, che è poi identificazione con l’io: il tutto in digitale peraltro. Si dorme fino alle 8, poi sveglia. Scomoda colazione in camera su tavolino basso. Farà tanto signorile, ma lo smollicamento è generoso sulla mouquet che ringrazia polverosa. Ad ogni modo, alle 9 si va alla conoscenza di Delhi. La giornata ci mostra un cielo che sa di polvere. Aggiungendoci calore ed umidità quanto basta, l’effetto è quello di non vedere a 100 metri di distanza, come a ridosso delle ridenti risaie del Vercellese. L’India ci vuol forse palesare le nostre vedute caduche. Allegoria dei nostri orizzonti miopi e limitati. Visita ad un tempio hindù, con tanto di punto rosso in fronte. Poi mausoleo Gandhi. Cambio soldi, compro acqua etc etc. La città non ha semafori ne secchi dell’immondizia ed è caotica quanto basta. Vacche a zonzo per le strade indisturbate: se le vedesse Mac Donald. Effetto Tonno: il fido Irfan ci conduce in un negozio tonnara, ossia quei perversi negozi a misura di turista per cucinarlo a puntino giocando sul fattore ignoranza. Troppo smaccato: i prezzi quasi europei ci fanno tirare avanti cinici. La tonnara può servirci a questa ricerca interiore? Essere uomini e non tonni, con la consapevolezza di ciò può rappresentare già un buon inizio, ma la domanda è: siamo proprio sicuri di ciò? Essere tonni potrebbe essere una tappa fondamentale nel gioco delle reincarnazioni, come la dottrina hindù ci insegna. Avere la coda o essere in coda è così discriminante nella dicotomia essere-avere? Fatto sta che nel pomeriggio veniamo condotti ad una seconda tappa della via crucis tonnara, questo però dopo l’esperienza della ‘Diva Del Punjab’. La Diva Del Punjab: introdottici nel Qutab, un antico minareto, veniamo avvicinati più volte da ragazzi desiderosi di fotografarsi con noi. Dopo alcuni altezzosi dinieghi, una ragazza indiana ci spiega che tutti sono rapiti dal Pata. Seguono, sull’onda del successo commerciale, foto, poster, books. Io faccio da magnaccia e vendo per pochi scatti la Diva del Punjab ai ragazzi. Il Pata vive la celebrità con pudore d’educanda. Io la convinco in un business di rilancio d’immagine del kamasutra ed un’operazione commerciale di restyling filosofico della dottrina amatoriale, con lei come ragazza immagine o come coniglietta del mese di Maggio. Male che vada, un manipolo di sbarbati punjabesi, avranno materiale erotico per le prossime pratiche solitarie. Il Pata non sa ancora chi è, ma nei sogni dei ragazzi sta coagulandosi in una consistenza quantomeno nella regione posteriore della chiappa che fortemente sognata acquisisce quasi consistenza reale. Domanda/risposta: siamo quelli che gli altri immaginano? Esistiamo solo in relazione agli altri come ombre in presenza di luce? Perché allora nessuno mi immagina ricco? (Rileggi Essere o Avere di Eric Fromm, soprattutto il capitolo sull’avere e in particolar modo il paragrafo sulle proprietà immobiliari). Nel tardo pomeriggio, un’estasi catartica ci appisola. Sogno che il Dio Ganesh con la testa d’elefante, mi chiede un passaggio sulla lambretta e che glielo rifiuti perché non ho per lui il casco adatto. Mi sveglio sudato. Qualcosa non va. Il significato sta forse tutto nel rifiuto della spiritualità e del rifiuto del viaggio, dell’avventura ieratica. Abbandonarsi dunque? E se il passaggio me lo avesse chiesto Gesù Cristo per salire al Calvario? Sono sicuro che avrei rifiutato comunque: in salita la lambretta fa già fatica con un solo passeggero. Escludo dunque si tratti della paura dell’abbandono della propria cultura, delle proprie radici, ragione fondamentale per la ricerca dell’essenza.
In tutto ciò poi il codice della strada parla chiaro e non mi aiuta. Seguirà pasto frugale per abituarci al distacco dai piaceri della gola. Non ci facciamo mancare niente perché le vere rivoluzioni sono graduali. A letto.
04/05 Sveglia alle sei come i monaci tibetani, solo che loro poi non hanno niente da fare. Breakfast ajurvedico. Partenza alle sette con le galline. Nel senso temporale del termine, non certo nel senso del pollame che non può venire con noi, perché poco interessato alle gite in India. Lunga e dritta correva la strada, irta di vacche, capre, carretti e ciclisti della domenica (anche se loro la usano tutti i giorni), varie ed eventuali come elefanti e cammelli che tirano la carretta. La Diva del Punjab firma autografi dal finestrino ed uno anche al finestrino che, avendola sempre vicino, non ha saputo resistere! Siamo rapiti dal paesaggio il quale chiede un riscatto di poche rupie per permettere alla Diva di dormire. Credo che il Pata nonostante il successo sia in vantaggio su di me, per quanto riguarda la ricerca di se: innanzitutto nella Diva del Punjab ha trovato una valida alternativa esistenziale, poi l’India, terra madre, progenitrice di divinità, pare averla accolta tra le sue braccia. In macchina alterna stati estatici di sonno all’estrospezione cine-TV, con alternarsi incredibili: riesce anche a riprendere il proprio sonno, con logorroico commento annesso. Attraverso un Mantra che ripete e che inizia con “ …State vedendo un bellissimo etc.Etc.”, riesce ad entrare in contatto con l’essenza del mondo e le sue dimensioni tutte. Persino qualche battuta buttata lì al fido Irfan con ineccepibile accento yankee la fa donna dominatrice, quindi madre, quindi donna, quindi danno, quindi un po’ rompiballe. Dimenticavo: quindi dea.
Io, con la mia razionalità da maschio, non so distaccarmi dalla problematica: ma qui che nessuno gioca a calcio, il lunedì a lavoro… di che parlano? (rileggi Comunicazione e Società di Aldo Biscardi).
Una mucca morta sul ciglio della strada mi riporta a temi più complessi, come morte e vita oltre la morte. Se c’è qualcosa dopo la morte, vale la pena spendere i soldi per il funerale? Periferia di Delhi, ossia la borgata indiana: la differenza sta innanzitutto che non hanno il raccordo anulare e che per andare al mare, la loro Ostia è molto più lontana. Tutto in india è estremo. Anche la caccia ai tonni.
Infatti, dopo qualche ora di viaggio, dopo paesini caotici e sozzi, lambrette e mucche, mercatini e clacsonate ed il dipanarsi del deserto, veniamo condotti in un Midway o autogrill per fessi invasori o TONNARA n° 3 del nostro viaggio. A prezzi italiani si spizzica, si beve birra sgasata del Rajastan, si piscia. Il Pata s’invola al vespasiano. Mi ha raccontato di essere indisposta, ma temo che sia una copertura per risparmiarsi e concedersi fresca al primo maragià che capiti sotto grinfia. Arrivo a Mandawa, villaggio di poche migliaia di anime in cui scopriamo esistono solo due mestieri: la guida e l’artista, spesso racchiuse nell’unica attività di tonnatore. Dopo un ascesi di un’ora nella favolosa camera d’albergo, uno splendido castello di un ex-maragià, torpidi e con le difese sotto livello di guardia, veniamo affidati, come bambini neanche troppo svegli, ad una guida panzuta del luogo. Tonnara n° 4. In giro scopriamo i cortiletti delle decadenti case, i bambini un po’ curiosi e un po’ questuanti, entrando inesorabilmente nello stordimento ipnotico del turista al quale il mago sta sfilando il portafoglio dalla tasca. Poi decideremo di chiamarla beneficenza. Ma solo poi. Intanto infatti la tonnara n°4 ci ha condotti nella camera della morte, un negozietto in cui si vende tutto ciò che al momento può non interessarci, però a prezzi molto alti. Come tonni gagliardi, con un ultimo colpo di coda, riusciamo a ad uscire con la sola ferita di una mancia alla guida. Ma abbiamo imparato qualcosa: intanto esistiamo in quanto spendiamo e poi se dopo la morte esiste qualcosa che assomigli all’inferno, di sicuro è popolato di venditori di quadretti del Dio Shiva (rileggere “Dio e Marketing” del Cardinal Marcinkus). Ma la vita non è mai avara di sorprese e così la cena sul roof dell’albergo chiude in bellezza il taglio ittico della giornata: tonnara n°5, il pesce azzurro piace sempre, peccato solo che nella cena profumatamente pagata, non ce ne sia traccia. Fine giornata. Il sonno comincia con un sogno in cui una sirena (metà donna e metà tonna) mi vuol vendere un quadro col Dio Crisna. Mi tolgo lo sfizio, e per 10.000 €, lo compro.
05/05 Ci svegliamo e, come Pinocchio e Lucignolo nel paese dei balocchi, dapprima con vergogna, poi con ilarità, nascondiamo le orecchie da asini, che nel nostro caso sono splendide branchie da tonni e pinne caudali d’alta fattura. Ma tutto è relativo e così ci guardiamo come se nulla fosse accaduto. Chiediamo al fido Irfan di accompagnarci ad un paese limitrofo, Nowelghat. Si imbuca diabolica, anche la guida del giorno prima, già con l’acquolina in bocca. Inizia tonnara n°6. Il paese in cui andiamo è il solito crogiuolo di caos, mucche, maiali per la strada. Mercato città. La città esiste attorno al mercato, fatto di carretti di poche cose, immancabili barbieri, acquaioli, venditori di niente. Le mucche che mangiano le immondizie, cani che ancora poco più rognosi parrebbero consumati scopettoni pulciosi. La guida ci porta in varie Haveli, case appartenute a ricchi mercanti, decorate e decadenti, nei loro meravigliosi cortili ora abitate da famiglie umili. Entreremo nelle loro case, mentre le donne cucinano e preparano chapati. Allora penso a me che a casa lavo i piatti con un’orda di giapponesi nel salotto. Non gli offro nulla solo perché i giapponesi vanno sempre di fretta. Foto di rito. Very caracteristic. Ad ogni casa o piccolo museo, si elargiscono mance. C’è chi fa la faccia offesa per mance che non hanno nessun corrispettivo con il costo della loro vita. Noi ci scusiamo e rimediamo con altri spiccioli. Ma nel destino dei tonni c’è anche questo: continuiamo a convincerci dell’opera di beneficenza. D’altronde in questi villaggi immersi in una specie di deserto, un tempo crocevia fondamentali delle carovane delle via della seta e dei commerci, ci si chiede cosa possano fare d’altro se non aggirare turisti. Questi paesi hanno una bellezza decadente, sdrucita e un po’ logora e si stenta a credere che ci possa essere stata vera ricchezza. Ci appare comunque come una società immobile, fissata nel tempo, o ad un tempo addietro, lontano dalla tecnologia. Un altro tempo scorre qui. Io ed il Pata, come tonni decaduti dell’occidente, vi ritroviamo qualcosa: un impoverimento delle tasche che ci avvicina sempre più a loro. E poi le donne indiane. Oggetti misteriosi e fugaci. Mentre frotte di uomini bighellonano o bivaccano dappertutto, le donne le vedi sempre elegantissime e dignitose, mai maliziose, curate nell’abbigliamento e con vezzi ricercati nelle unghie sempre smaltate, bracciali collane e orecchini, con passo veloce e sempre impegnate in qualcosa. Sembrano le uniche creature pratiche in un mondo fatalista e assonnato. Anche loro, come gli uomini, sono incuriosite dalla Diva del Punjab. Io conto come il cinque in una scala da sei a dieci. Questo però mi permette di concentrarmi su me stesso e di non cadere in uno sterile narcisismo. In più ho l’opportunità di potermi mettere le dita nel naso senza che nessuno se ne accorga. Le caccole appunto. Il Rajastan è un po’ il bengodi dello scaccolatore provetto. L’aria polverosa e secca e le stradine confuse, le esalazioni di cibo cotto in strada, lo smog, danno alla mucosa un costante appiglio professionale. La varietà delle creature nasali, ahimè, si riduce alle note presenze classificate come Pianelle, Tegoline, Dolomitiche ed Ematiche per il primo mattino, tutte tipologie che allo scaccolofilo dicono poco o nulla, ma se la varietà langue, la quantità è generosa, tanto da compiacere anche il più esperto escavatore. Tornato a base col Pata, cadiamo in meditazione cercando di far vibrare le nostre energie all’unisono: siamo vicini al nirvana se riusciremo a russare in perfetto sincrono. Nel pomeriggio Ciccio Panza, la guida famelica che ci ha scortato anche laddove non volessimo, come un gatto annoiato del topolino catturato, ha pietà di noi: ci lascia finalmente soli! Dopo dodici, forse tredici passi, veniamo abbordati, ma mi verrebbe da dire rimorchiati, se non per la paura di accuse di pedofilia, appunto da due minori. Uno è un quattordicenne sveglio e acqua e sapone col bel sorriso degli indiani e l’altro uno scugnizzo che di acqua e sapone ne deve avere vista ben poca: incipit tonnara n°8. Passeggiamo con i ragazzi, apparentemente disinteressati, chiedono di noi e si raccontano, chiarendo che non sono guide. Ci raccontano la loro città e ci fanno entrare nella loro scuola, ora chiusa per ferie. Ci accoglie il maestro, che ci invita subito gentilmente a visitare la scuola. Quindi rutta. Ora mi sento a casa. La scuola ha due piani aperti in cui al piano inferiore, seduti a terra, fanno lezione quelli più piccoli e al piano superiore quelli più adulti. Sulla terrazza si spertica per tranciare un rametto di un albero che poi si caccia in bocca, mastica e strofina sui denti.
Con sguardo folle ci dice che è per lavarsi i denti. Tremiamo al pensiero che ce lo porga per una prova. Quindi soddisfatto, dopo una grattata di gola, scatarra. E’ mio amico. Quindi chiede dei soldi, non per lui ma per la scuola, s’intende. La cultura crea sempre problemi. Beata ignoranza. Comunque metteremo una parola buona con la Moratti. Intanto, l’ormai nostro amico acqua e sapone e lo scugnizzo, con mestiere ci hanno abbindolati e ci scuciono la promessa di mostrarci i loro negozi. E’ fatta, stavolta non ce la caveremo che con una stampa del Dio Ganesh, che qui è un po’ come la foto di Totti a Roma. Fine tonnara n°8. Cosa abbiamo imparato? Una cosa molto importante. Ormai siamo come bambini curiosi che un po’ fanno finta di non capire e un po’ sono merluzzi di loro, che si affidano ad adulti bambini, a farsi spiegare il mondo. Questa regressione prepuberale ci fa ben sperare in una rinascita, una catarsi esistenziale. Ad oggi però, siamo un po’ come delle figure mitologiche, metà tonni e metà mocciosi, intontite ed imbranate che si cibano esclusivamente di souvenir. Il germe dell’autodeterminazione però, si annida in noi e con un moto d’orgoglio, la sera riusciamo ad brillare di luce nostra. A cena scegliamo un romantico giardino in cui mangiamo soli con un servitore che sorveglia e osserva. L’istinto coloniale cresce in me ed intono l’inno nazionale britannico ad alta voce scandendo bene il ‘God save the Queen’, investendo la Diva del Punjab baronetta a vita. Meno colonialisticamente pago il conto che sa meno di pesce azzurro. Bacio l’Union Jack.
06/05 Partenza per Bikaner. Saluti ai nostri amici. Alle cinque del mattino, il muezzin della moschea della città, canta e prega all’altoparlante svegliando la città tutta, dando ragione allo spirito che animò le crociate. Sulla via il fido Irfan ci ferma a Fatephur, un paesino logoro, per visitare altre Haveli. Il paese vince fino ad ora il ‘Secchione d’oro’, l’ambito premio del villaggio più lurido. Oltre alla scontata rete fognaria a cielo aperto, in ottemperanza alla glasnost delle acque di scarico che vige in India, una estesa pavimentazione a stratificazione sterco-plasticaria, dà quel ricercato senso di trasandatezza, ‘slob’ direbbero gli inglesi, che fa tanto figo oggi (ricordarsi di segnalare il paesello a Dolce e Gabbana). Proseguiamo e alla fine giungiamo alla meta Bikaner, al nostro hotel. Siamo nuovamente gli unici ospiti dell’albergo. Di stile post-britannico, l’albergo ha qualcosa di inquietante, la stanza è grande come la nostra casa di Roma e ci si potrebbe giocare comodamente a squash, ma abbiamo dimenticato a casa le mazze. Il letto è a quattro piazze, ottimo per le orge, ma peccato che ancora, abbia dimenticato a casa le mazze. Poi si va all’Old Fort. Giriamo accompagnati per il forte da una Governement Guide, così almeno si è presentata orgogliosamente a noi un baffone (non comunista), presentandoci un tesserino con foto che poteva anche essere l’abbonamento annuale del tram. Il tipo è bizzarro, ha il baffo demodé, disordinato e rado. Sembra, parlandoci, un tantinello nostalgico dei tempi andati dei maragià e mi intenerisce pensando ai nostri monarchici col passaporto svizzero. Conosciamo poi il figlio, che parla l’italiano meglio di Biscardi, se questo può essere un termine di paragone linguistico. Quindi veniamo deportati al centro assistenza e ricambi cammelli, un allevamento di cammelli con fini scientifici e commerciali e anche di recupero. Una San Patrignano per dromedari insomma. Per noi che li avevamo visti solo sui pacchetti di sigarette, è stato molto istruttivo, in special modo la visione del piccolo di un giorno, già peloso come la buccia di un kiwi e già capace di camminare. Ne farà di strada il piccolo. E poi la scoperta sulla posizione della copula cammellare: comodamente la femmina si accovaccia con la pancia a terra e lui si china protettivo su essa. Protettivo? Diciamo interessato. La nozione comunque potrebbe tornarmi utile allorquando conquistassi una gobba.
Poi, capaci di uno scampolo di lucida volontà, ci facciamo buttare nella mischia di un mercato intasato di bici, motorette, vacche e viandanti meno ingombranti, ma sicuramente altrettanto cornuti delle mucche, i quali riconoscono la Diva del Punjab e un suo più accanito ammiratore le palpa ardito la linea di mezzadria del panaro: un bipartisan indiano della mano morta insomma. Con le nostre forze (ci stiamo facendo grandicelli oramai) giriamo l’asfissiante mercato più ricco di monossido di carbonio che altro, fino ad arrivare ad un ciabattino ambulante che aggiusta la zattera della Diva e poi da un venditore di anelli di qualità inferiore alle linguette delle lattine di Coca-Cola, ma superiore comunque alle fascette idrauliche dei nostri ferramenta. Nella lunga ricerca e contrattazione, la Diva del Punjab crea un capannello di fan che quel venditore non racimolava dall’ultimo attacco epilettico. L’attenzione su di me si riduce ad un bambino lercio che compassionevole si presenta a me con un ‘Hallo’ carico di commiserazione per il mio ruolo di lacchè, e carico di microbi nella sua mano lurida e tesa verso la mia, a saggiare la molle e dileguante consistenza. Credo sia cominciata una sorte di mia smateriallizzazione. Questo è positivo, mi dico. Forse sto in una fase di reincarnazione. Chissà, in una mucca. O è solo una fase di transizione verso la mia vera essenza? Speriamo che la mia essenza non sia quella alla violetta marzolina delle acque di colonia che vendono alla Upim. Quindi la giornata termina da veri britannici coloniali, sul prato antistante la residenza di un maragià. La Diva del Punjab fa i capricci. Da bravo lacchè la domo con la scelta di ottime lenticchie cucinate a puntino. Anche le Dive hanno i loro punti deboli, basta saperle trattare. Ma anche le viscere hanno i loro punti deboli: le lenticchie appunto. Così anche loro bisogna saperle domare. Notte ventosa, nonostante l’alta pressione.
07/05 Si parte per Jaisalmer dopo una notte di battaglia con le blatte. Ne ho abbattute due nel bagno, più simili per la verità a tartarughe e degne di una fiera campionaria, che ho freddato con una ciabatta calibro 43. Dopo un agguato, ho inoltre affogato nel lavabo un grillo reo di molestie alla Diva. Colazione con formica nella zuccheriera. Temo avesse il diabete. Partenza. Lunga e assolata strada desertica. Avvistiamo nell’ordine: a Bikaner, scrofa con al seguito dodici porcellini (multiplo dei tre porcellini, ma in India tutto è più grande) scuri e setolosi come le gambe della Diva a dodici giorni dalla ceretta, white eagles ossia aquile bianche tesserate Lazio Calcio, solite vacche e capre, cagnetti immersi a trequarti in puteolenti pozze a cercar refrigerio e splendide piccole antilopi. La Diva del Punjab commenta al fido Irfan che di solito in Italia le antilopi sono più grandi. E certo. Penso allora al coccodrillo del Ticino, al gibbone del bergamasco ed al laborioso elefante del Salento. Effetto globalizzazione. Sulla via veniamo scaricati ad un Midway, ma ormai siamo di altra pasta; procediamo tra i souvenir simulando indifferenza, la Diva scrocca una goccia rosa di velluto da appiccicare sulla fronte, avendo svelato la nostra segreta missione post-matrimoniale chiamata in codice ‘Honeymoon’ e io vacillo solamente quando l’inserviente mi offre il Kamasutra illustrato. Mi fingo indifferente e mastico qualche parola in Svedese per tenere alta la virilità italica. Pisciamo anche a costo zero. Prima vera vittoria. Il campionato però è ancora lungo. Alle porte di Jasailmer compriamo una busta di meloni e manghi e ci presentiamo alla reception dell’elegantissimo hotel come emigranti a Nuova York: mancava la gabbia con la gallina e non ci avrebbero fatto entrare. Lusso quasi sfrenato, almeno per noi abituati alle pensioncine convenzionate con le poste italiane, con tanto di piscina nel deserto. Il coloniale che è in noi vacilla appena però. La pala della ventola sovrastante il lettone concilia le nostre preghiere a Crisna, Shiva e San Gennaro, frutto dello stato di schizofrenia tra radici e ricerca personale, in un languido sonno a metà strada tra la morte apparente e il pisolino. Svegliatici tonti, partiamo alla conquista della città. Veniamo emigrati a Bada Bagh, un po’ fuori Jasailmer, un agglomerato di tempietti molto suggestivi sulla riva di un fiume che non c’è, il tutto alla luce del tramonto che rende tutto possibile. Noi ci fidiamo come crediamo che Berlusconi in gioventù sia stato operaio e contadino. Qui la Diva incontra una frangia moderata di suoi ammiratori del Punjab. Seguono foto e autografi di rito nei quali misericordiosamente vengo coinvolto anch’io(gli indiani sono popolo generoso e magnanimo). La Diva si lancia in confidenze con loro. Dice di aver appena rifiutato un copione che la voleva in un ruolo da cattiva. I fan si commuovono e le stendono un tappeto di fiori di pesco. Sull’onda del consenso nazional-popolare, la Diva farà i capricci sul luogo da dove vuole vedere il sunset, il tramonto riflesso sulla città vecchia di Jaisalmer. Pretende che il sole tramonti a Nord. Il fido Irfan e io facciamo il possibile per accontentarla. La città viene ruotata di 90° per poche rupie. La Diva è paga. Mi accorgo di quanto sia indietro, io, rispetto alla Diva, riguardo la ricerca su me stesso. Lei si è ritrovata una vita, che coincide con l’incoronazione nella dimensione idolatra, nella veste dell’idolo in persona. Niente male, è come interpretare Gesù al presepe vivente. Come tutte le donne è andata dritta al nocciolo. Io cincischio in goffi tentativi di sintesi religiosa in cui venero un Dio con la testa d’elefante, le mani di geco, le tette dell’Arcuri e le stimmate di Padre Pio. Sono confuso. Sguinzagliati in libera uscita, come militari infoiati, dopo pochi metri ci buttiamo in un bordello che vende borselli, borse, scarpette etc. La Diva si rifà il guardaroba. E’ una tonnara conscia e consapevole. Ormai siamo all’orgoglio tonnaro:‘Proud to be Tonn’. Poi sgambettiamo giulivi nella cittadella che ci pare quasi tecnologica solo perché a dispetto di Mandawa ha le strade vagamente asfaltate. Veniamo adescati da simpatici procacciatori di inutilità ai quali promettiamo una visita. Compro dunque esisto. La comunicazione che nasce dal commercio. D’altronde si sa, la comunicazione nasce da un bisogno. Anch’io quando devo andare al bagno divento loquace ed esprimo il mio bisogno con un ‘Scusi dov’è la toilette?’. E poi dicono che non parlo mai. Quindi famelici, ci proiettiamo sulla terrazza di un ristorante grazioso accerchiati da un gruppo di quattro tonni francesi, avvistati al largo delle coste il mattino in un Midway di passaggio, da un inglese fulminato che credendosi Tremal Nait, vestito da indiano si bomba di pakistano nero. Poi, mangiati, passeggiamo per i vicoli. Saluto un geco giallo che cena con una blatta. La Diva, superiore, non gli stringe nemmeno la zampa. Di ritorno in camera, ascesi mistica fino al mattino. Sogno che, come nelle partite di ritorno di champions league, dopo due settimane mi debba risposare. Sono in ritardo e ho paura di non qualificarmi. Paura del passaggio del turno come paura delle responsabilità a venire. La Diva un po’ come il Real Madrid.
08/05 Pronti con solo mezz’ora di ritardo, Irfan, ci grazia con pari sdegnato ritardo. I soliti italiani ritardatari che si fanno riconoscere anche in India, dove il tempo è assai relativo. Volgiamo alla città vecchia di Jaisalmer. Sbarcati dalla macchina, soliti insistenti tentativi di abbordaggio alle prede in questione che poi saremmo noi. Visita alla torre con splendida quanto sudata veduta della città. In giro per la cittadella che ricorda Giglio castello al forno. Riusciamo a non comprare nulla. E poi giù col fido Irfan a rimirare un laghetto più simile per la verità ad un pozzone d’acqua, prospiciente un tempietto fatto costruire da una battona locale. Doppiamente benefattrice. Riesce comunque difficile immaginare una prostituta in questi luoghi, dove i costumi sono ancora molto casti (per non parlare dei bikini) e dove gli uomini non hanno lo sguardo famelico e rapace dei paesi mediterranei, tutto al più curioso. Intanto siglo il mio primo successo personale. Vengo avvicinato da un ragazzo che mi informa della mia somiglianza con un famoso attore indiano in auge. Ho paura delle gelosie professionali della Diva e riesco a tenere per me il complimento. Quindi tonnara n°10. Ennesima deportazione da amico d’Irfan. Trattasi di argento stavolta. Vengono svuotati metri cubi di forzieri. Dopo una prima scrematura, si capano 8 anelli papabili. Poi due. Con sforzo olimpico riusciamo a non comprare nulla. Ormai siamo quasi capaci a contrattare come finanzieri cinici. Wall Street ci attende. Torniamo a zonzo per Jaisalmer tronfi. Un altro indiano mi fa notare la somiglianza col divo di Bolliwood. Sento che le cose stanno cambiando. Ci buttiamo in un negozietto di piccola bigiotteria. Mentre la Diva sceglie e contratta, io affogo le mie frustrazioni sgargarozzandomi due bottigliette di Pepsi-Cola, alimentando pericolosamente la mia già gagliarda attitudine aerofaga. Il venditore ci legge gratis le mani. Ci informa che avremo due, forse tre figli. Non specifica con chi. A me dice inoltre che sono una persona buona, che è un po’ come dire che sia un povero coglione. La Diva sottolinea il tutto chiedendomi i soldi per pagare i due anelli scelti, due anelli d’argento come il mio bilama. Usciamo per le strade sotto un sole canino. Le bolle di Pepsi contenute nel mio stomaco arrivano ad una pressione di 2.2 atm. Ancora poco e l’India sarebbe funestata da una nuova Bhopal di ben più serie conseguenze. Tornati in albergo tentiamo di fare il punto della situazione sulla nostra ricerca esistenziale. La Diva non ne vuole sapere di rinunciare al successo per ricercare un’ipotetica verità rivelatrice che gli dica, magari, di essere solo una patata reincarnata che in questa vita abbia come karma il compito di cicciare germogli. Litighiamo. La offendo dicendole che si è venduta l’anima al diavolo cioè al sistema. Le cito Marx, Siddartha, Gesù e Bertinotti, ovviamente non in ordine d’apparizione. Prima dell’ipnosi pisolinica penso però che potrebbe avere ragione. Forse non esiste un’essenza, una natura prima: siamo fluttuanti, ondivaghi energetici. Siamo solo quello che l’onda della vita ci porta ad essere, una microscopica sfaccettatura del caleidoscopio dell’universo. Ora io sono lo specchietto appannato. Ma cambierà. Sì lo so che cambierà. Si parte per il safari in cammello. Io porto con me fucili e tagliole. La Diva veste in sahariana e caschetto con fascia di leopardo. Poi avvisteremo solo 3 tortore, due pavoni e una capra morta. Ma è l’abito che fa il monaco e l’esploratore, e l’esploratore è anche più elegante. Dopo contrattazioni in cui riusciamo a non farci alzare il prezzo del tour, partiamo a dorso di dromedario. La nave del deserto. Nel nostro caso sono due bagnarole. Nel Rajastan sono 3 anni che non piove e i cammelli, che mangiano poco e male, sono un tantinello scarburati. Speriamo che non affondino. La Diva, poco a suo agio sulla bestia, colma l’olimpico silenzio con gridolini da velina. Si sta sputtanando l’immagine, meno male che con due zuccherini ai cammelli e un po’ di fieno ai cammellieri (o viceversa, non ricordo) mettiamo la faccenda a tacere. A dorso delle bestie giungiamo in un villaggio nel deserto, come si vedono nei documentari dell’Unicef . Veniamo attorniati da bimbi malnutriti ma allegri. Ci chiedono qualcosa. I loro stupendi occhi mi inteneriscono, e a una di essi regalo una matita. Dice qualcosa nella sua lingua che potrebbe anche essere:”Mettitela in quel posto…” se non fosse che i bimbi se la litigano. Forse si litigano il privilegio di impalarmi personalmente. Precauzionalmente risalgo sul cammello. Mentre io parlo di tortore e siccità col mio cammelliere, la Diva col suo gorgheggia giuliva, si fa cantare le ultime hit del deserto del Tahr , ancheggia a tempo sulla sella, forse facendo pensieri scabrosi su di lui, e angustiandolo con un corso di spelling del suo nome. Chissà se questo penserà che tutto sommato è meglio la siccità che il rincoglionimento da società evoluta. Giunti sulle dune, guardiamo estasiati il tramonto. Ci sembra quasi una grande Capocotta senza il mare. Il mondo sa essere piccolo a volte. Nonostante non ci sia nessun bagnino a cacciarci, siccome sta facendo buio torniamo a base. Di nuovo a Jaisalmer si pappa al posto di ieri, e poi a zonzo per il paese: maleodoranti di cammello ci facciamo adescare da un indiano fighetto (“E’ proprio bello” cita testualmente la Diva) che, dopo un dedalo di viuzze, ci introduce nella sua casa dove cogli amici vive e vende roba. Non compriamo nulla ma ci facciamo foto e ci scambiamo indirizzi e-mail. Ormai ci facciamo adescare solo per socializzare. Voglio replicare la tecnica a Roma per farmi dei nuovi amici, riempiendomi casa di chincaglierie varie. Con la stessa velocità della Sars, intanto, sono aumentati i casi di accostamento di me al famoso attore indiano Ali Arkan. La Diva finge contentezza, ma sento che sano livore sta consumandola. Comincio a rubarle la scena e lei lo sa. Prima di addormentarci lei mi ha detto che mi amava tanto. Però ho trovato un topo morto sotto il cuscino e il sacco al lenzuolo. “Buonanotte amore” le ho detto, “Anch’io”, dimostrandoglielo con un dito in un occhio. 09/05 Partenza per Johdpur. Facciamo a ritroso la strada che ci condusse a Jaisalmer. Caldo da girone infernale, col fido Irfan come Virgilio, io come Dante e la Diva come Beatrice, ma un po’ meno angelicata. Dopo ore di strada desertica infiliamo un paese per vedere un tempio hindù. E’ circa l’una e le piastrelle del tempio raggiungono temperature da frittura mista. Dovendomi togliere le scarpe per potervi accedere, prendo a modello Giucas Casella e mi avvio noncurante. Dopo tre metri ululo simulando una smodata preghiera al Dio Shiva. Poi guadagno le piastrelle all’ombra e ringrazio. Vengo nuovamente fermato per la mia somiglianza con l’attore indiano. La Diva forza un sorriso di circostanza, ma un rigo di bava verdastra le cola all’angolo della bocca. Foto di rito con ammiratori. Ora col dubbio: miei o della Diva? Via per Johdpur. Poco prima di Johdpur ci fermiamo a Mangala, una sorta di Villa Borghese indiana. La temperatura è da retrobottega di fornaio. Il parco è pieno di gente stordita dal calore. Anche le scimmie sembrano sotto effetto dell’oppio. Una di queste mi chiede una sigaretta e duecento lire per telefonare. C’è un signore con la bilancia che per 5 rupie ti fa pesare. A me la Diva per molto meno mi fa pesare l’esistenza. Arrivo a Johdpur in un albergo immerso nella vegetazione. Fuori la stanza, con la collana di fiori, ci attende con un ‘Aloha’ ancheggiante, un gecone robusto. La Diva lo schifa come è solita fare anche con le comparse e i figuranti durante le lavorazioni dei suoi film. “Cacciatemelo” urla al direttore della produzione. Licenziato il geco, la Diva è isterica, minaccia di tornare a casa. Io disinfesto la camera deglutendo ogni essere animato che incontri. Franchi dal fido Irfan, disponiamo del nostro tempo concedendoci un paio d’ore di ascesi dormitoria. Il dubbio ora è a quale Dio rivolgersi, se eseguire un mantra o un rosario, se cospargersi di cenere o percuoterci il petto. Io allora percuoto il petto della Diva e lei mi molla uno sganassone ricordandomi che il principio fondamentale della nostra ricerca è il distacco dalle pulsioni carnali e dei piaceri in genere, anche del ‘Piacere, come sta?’ Insomma in bianco, e stasera a cena, riso in bianco. Intanto lei levita sul materasso. Io penso all’India mistica e misticanza, religiosa col mal di panza. Quindi sogno Crisna che mi offre un piatto di lasagne e che io rifiuti perché sono condite col curry. Nel tardo pomeriggio ci avviamo in cerca di sane tonnare. Ci infiliamo spontanei in un paio di negozi di mobili. La Diva vuole portarsi via una cassapanca di legno massello dal peso di 2 tonnellate. Pensa che come bagaglio a mano, al check-in, non facciano storie. La convinco a non comprarlo mentendole di averlo visto uguale da Ikea. Ceniamo sotto le stelle mangiando una sorta di rollè di pane stoppaccioso che mi fa rischiare il soffocamento. La Diva si accorge del mio stato solo dopo un certo lasso di tempo, dicendomi:”E’ inutile che imiti il Dio Shiva, facendo la faccia blu. Non fa ridere” Riemergo dopo 3 minuti e 34 secondi, sfiorando il record di Maiorca. Le dico “Stavo soffocando”. Lei mi risponde “Ah sì? E chi te lo ha chiesto?”. Il quesito, apparentemente provocatorio, mi fa pensare. Fin quando siamo padroni delle nostre azioni, la morte non la scegliamo noi, quindi forse siamo solo schiavi di un destino, di un copione già scritto in cui bisogna solo recitare le battute come richiesto. Tento un esercizio di volontà. Ordino un gelato, che voglio gustoso e abbondante. Arriva una coppettina confezionata al gusto di candito di carota. Forse i miei dubbi hanno avuto una risposta, avvalorato dalla Diva che mi imbocca col cucchiaino dicendo “Mangiane ancora un po’, senti quant’é buono. Aum. Aum”. Il destino, è solo una questione di destino. La Buonanotte e una pacca sulla spalla da parte del geco del porticato sono la mia unica consolazione odierna. La Diva si addormenta recitando le battute del suo prossimo film indiano ‘La Diva e il Geco’ ispirato alla storia della ‘Bella e la Bestia’.
10/05 Non avendo fissato la sveglia telefonica alla reception, ci svegliamo tardi, non che quando suoni, si sia mai in orario, ma fa piacere che qualcuno la mattina ti chiami premuroso. Con mezz’ora di ritardo ci presentiamo dal fido Irfan che, sputando per terra, nasconde il suo disprezzo per noi con un secco:‘No problem’. Ci conduce alla fortezza di Meherangarh. Io avevo capito che ci portasse a far merenda o a mangiare della meringa, ma l’inglese di Irfan a volte trae in inganno. Riusciamo a comunicare con l’uso di 3 verbi, 5 sostantivi e un paio di articoli indeterminativi, toccando temi come la politica internazionale, la religione, lo sport e filosofia. Ma a volte qualcosa sfugge, un po’ come i pensieri cattivi. Infatti, dalle torri dell’antico bastione che stiamo visitando, mi sporgo pericolosamente tra due merli, la Diva mi chiede gentilmente di tenerle la guida Lonely Planet di kg. 4,5 sbilanciandomi pericolosamente verso il basso. Tutto bene per fortuna, ma ho collegato il mio incontro con dei ragazzi che mi hanno riconosciuto nell’attore Arkan e l’invidia della Diva. Forse è solo un pensiero cattivo. Con cuffiette per la spiegazione in inglese del museo, ci aggiriamo attoniti per la fortezza fingendoci infastiditi dalla cattiva pronuncia del narratore. Confrontando le nozioni assimilate, la Diva ha capito che la fortezza serviva come location per film in costume, io, che ci organizzavano tornei di tresette. Abbiamo convenuto assieme quindi, che servisse come location per film sui tornei di tresette. Esausti di inglese paghiamo un indiano per cantarci ‘Furniculì Furniculà’ e sentirci a casa. Poi torniamo in albergo. Ormai, più che di tante divinità, siamo abbonati all’olimpico Orfeo dal quale ci facciamo cullare pomeridianamente nella canicola Rajastana. Ho paura che si stia maturando, a dispetto degli originari propositi, un materialismo soporifero che col motto ‘Chi c’è, c’è, qui se dorme’, abbia sostituito l’anelito mistico. Ma la droga del business, dell’affare del secolo, non ci ha ancora abbandonati, così ci facciamo portare al Clock Tower Market e al solito dopo pochi passi nel mercato vecchio, nel caos più totale, tra lambrette, vacche maiali, negozietti improbabili, vengo abbordato da un tizio che, sapendomi italiano, mi sciorina subito qualche parola nel mio idioma per poi citarmi Armani, Baggio e Sabrina Salerno, ovvero le tre più alte cariche istituzionali. Eppure a volte il caso, il destino, manco a dirsi ci fa seguire l’infido adescatore che ci conduce in un negozio di tutto rispetto. Il fac-totum del negozio, smantellando gli scaffali, ci mostra tutto sull’organza, ci mostra i modelli commissionatigli da Armani, a cui a quanto dice, da del tu, dalla Versace, che manda allegramente a quel paese, e di giocare a tombola con Valentino. Comunque ci soggioga col discorso delle conoscenze e compriamo tante tende e copriletto da eguagliare la superficie del tendone del circo Togni, a prezzi, a quanto dice la Diva, stracciati, come le vesti che dovremo indossare a Roma per permetterci di saldare l’affarone. Comunque siamo felici, anche se è una felicità da possesso materiale. Ma ce ne freghiamo, soprattutto ora che ho maturato la filosofia della scusa del destino deus ex machina, che per quando le cose vanno bene è un’ottima filosofia. Sulla strada che ci porta a cena ci intrufoliamo in un giardino in cui stanno preparando l’allestimento di un matrimonio di magnificente grandiosità, al pari forse di un concerto dei Pooh. Dopo cena, la Diva in preda ad amarcord nuziali, come un ariete trapassa il servizio d’ordine all’ingresso del giardino del matrimonio, ora già cominciato. I parenti degli sposi, imbarazzati simulano cortesia nell’invitarci a prendere parte al lieto evento. Allora la Diva, che dice di non volere disturbare, dopo ripetute insistenze e con già in mano due fette di cocomero in mezzo a due chapati, accetta. Poi sguaiata schernisce il videoperatore, sfotte una bambina vestita come Barbie e fomenta una banda di guaglioni che sono costretto a placare gettandogli in pasto una sigaretta. Rubando un portacenere, salutiamo frettolosamente e fuggiamo furtivi. Brandendo con un machete la siepe dell’albergo, e incitando i miei 12 cani da selvaggina, bonifichiamo tre ettari di giardino da gechi e grilloni per concedere alla Diva il meritato riposo. Si dorme. Immagine del giorno: sul ciglio di un stradone una bimba di cinque anni, aiuta il fratellino più piccolo a farsi il bidè con una latta logora piena d’acqua. La domanda: che detergente intimo avrà usato? 11/05 Partenza per Ranakpuhr. Colazione con fitta intestinale che però non prende nemmeno un caffè. Salutiamo i gechi e ci ripromettiamo di mandargli una cartolina. Sulla strada, con la Diva cerchiamo una mediazione, una rappacificazione dopo tutti i nostri successi personali che forse ci hanno allontanati per colpa dell’egoismo. Decidiamo d unire il fascino della diva del Punjab e lo charme del sosia col pizzo, in una miscela esplosiva, esotica e spremirupie. In mente il modello è chiaramente quello di AlBano e Romina, buttandola però un po’ più sull’erotico: in un India pudica nei cui film solo da poco è stato introdotto il bacio, l’effetto sarà di sicuro successo. Noi vogliamo osare, vogliamo introdurre il leccone nelle orecchie e la lappata ascellare. Ne parliamo col fido Irfan, che prima di rispondere, fa uso di 30 gr. Di betel per poi, stordito, dire ‘It’s a good idea’. Durante il viaggio ho un fugace morso di coscienza(che non capisco perché non le mettano la museruola): il nostro viaggio spirituale allora? Che fine ha fatto? Crediamo di avere trovato dei ‘noi stessi’, ma chi sono realmente? La Diva è l’incarnazione del successo e della bellezza e io un sosia che vive di luce riflessa. E noi esisteremmo dunque sotto queste spoglie, o siamo queste spoglie? Peppe Ungaretti scriveva ‘Si sta come d’autunno sugli alberi le spoglie’. Sono dunque personaggi passeggeri da interpretare, caduchi. Poi chissà. Si avvalora in noi il concetto di destino baro e disbaro. Intanto sviluppiamo il progetto ‘Il sosia e la Diva’. Secondo la Diva io dovrei portarla sulla schiena camminando carponi. Secondo me, dovrebbe concedermi almeno 4 concubine. Ma sono dettagli che troveranno una soluzione. Dopo svariati chilometri arriviamo all’hotel di Rodpuhr con la solita busta di meloni e manghi. Il receptionist, con disprezzo, ci chiede se vogliamo mangiare gli avanzi dei camerieri. Mentiamo asserendo che la frutta serve per degli impacchi della Diva. Poi cerchiamo l’estasi, ma non nella posizione del loto, ma in quella a croce di S.Patrizio(o X orizzontale). La Diva dice ”A me st’estasi me mette ‘na cicagna”. “Brava, vuol dire che funziona”, le rispondo sbadigliando. Nel pomeriggio visitiamo un tempio Giainista, molto bello e imponente. Un custode che ogni tanto mi conduce con se, mi apre una porticina e mi mostra una divinità non so perché reclusa al buio, oppure dei bicchierini con lo stoppino per l’illuminazione notturna: attorno il tempio è mozzafiato e lui, profondo conoscitore di questo, mi mostra le cose più brutte. In compenso poi vuole i soldi. La terza volta che mi chiama, fingo sordità. Al di fuori, foto con ammiratori vari. Firmiamo autografi e diciamo “We Love India” ad una giornalista. Sulla strada noto che i cani hanno una pezzatura a gelato cucciolone. Una riga obliqua separa due cromature, quella scura relativa alla pozza fangosa nel quale era immerso, quella più chiara la parte emersa. Poi vediamo mucche che brucano mondezza. La cosa buona è che così danno latte già impacchettato nel domopack. Anche i maiali rovistano la spazzatura, ma forse solo perché hanno perso qualcosa. In serata bivacchiamo, come otarie sugli scogli, nel cortiletto antistante la nostra camera. Non ci spostiamo nemmeno per mangiare. Veniamo serviti lì. Il letto non passa attraverso la porta e siamo costretti ad alzarci e andare da lui. Peccato, anche perché il giardino ospita splendidi animaletti tra i quali la lucertola dalle branchie rosse di cm.20, preferito dalla Diva. Si dorme. 12/05 E’ il destino o è il programma che ci vuole portare ad Udaipur? Evidentemente tutti e due visto che poi ci arriveremo. Fa caldo in macchina, la Diva boccheggia come una carpa, io ho sulla schiena un alone che non c’è malone. Il fido Irfan allora ci premia scaricandoci da un venditore di tappeti e affini. Tonnara n°? Ho perso il conto. Il pesce che in noi appariva sopito, scoda e allarga le branchie ebbro di gioia. Queste situazioni gli si confanno come lo stagno alla folaga. Ne usciamo sconfitti ma felici, come solo un pesce azzurro sa essere: una tovaglia con elefanti stampati, poi, torna sempre utile. Sulla strada, pullman con passeggeri anche sul tetto. Chi sa se anche per il costo del biglietto c’è un tetto. C’è qualcosa di primitivo in questo paese che provoca compassione e rabbia. Vediamo bambini che incitano una mucca a tirare l’argano di un pozzo, donne con balle di fieno sul capo, bambini che pascolano greggi. Ma noi ormai non ci facciamo quasi più caso, è così normale qui.
Intanto il paesaggio è cambiato. Montagnoso e poco più rigoglioso. Incontriamo villaggi poveri ma dignitosi. I bambini ci salutano, noi lanciamo cartoline autografe. Sul ciglio della strada donne e uomini in oscure attività di manutenzione stradale, oscura come da noi le attività dell’ANAS. Ma senza tute arancioni. A metà strada ci fermiamo a Kumbalghar, un forte con 36 km di mura di cintura difensiva. Mai espugnato. Non si sa se sia mai stato attaccato. All’interno bei templi e forte caldo. Anche fuori dal forte, comunque c’è forte caldo. Forte nel senso di intenso per essere precisi. Solita architettura perversa e labirintica, dal quale si domina tutto l’orizzonte, anche quello perduto e quello di gloria. Gioco con due cagnoletti che per l’India direi lindi. La Diva con estremo amore per la fauna tutta, dice d’allertare il WWF, perché ha intenzione di far sparire queste povere creature. Nessuno ci riconosce. Niente foto. Calo del consenso? Un bel po’ di curve, quel tanto che basta per provare lo stesso senso di nausea che provoca la visione del Costanzo Show ed eccoci alle porte di Udaipur. Noto che finora, nel nostro viaggio, non abbiamo incontrato Fichi d’India. Stessa sensazione di delusione che si prova non trovando Pan di Spagna e Insalata Russa nei luoghi deputati. Udaipur ci accoglie come città poco più evoluta. Il caos ovviamente è più cittadino e ci si manda a quel paese civilmente. Scorgo una capra che ha in bocca un lembo di carta igienica. Le cose sono due: o la bestia ha uno spiccato senso dell’igiene o comunque anticipa la funzione della carta igienica a monte. A volte gli animali. La Diva continua a filmare, e ha raggiunto le 327 ore di filmato sulle 295 di permanenza in India. Bisogna ammettere che si sia data gran da fare. Solita entrata in albergo con melone e manghi, tanto che essendosi sparsa la voce, nei prossimi alberghi ci faranno trovare in camera un banchetto di frutta e ambulante annesso. Salita e sbracata ipnosi religiosa. Poi, via per la città. Visita al City Palace. Villona appartenuta a successivi maragià, imponente, pacchianella con abuso di specchi e vetri colorati. Un po’ dancing anni 70, un po’ night club e un po’ bordello. Ma splendida veduta sul lago e sul lussuoso Lake Palace. All’uscita chiediamo al fido Irfan di condurci altrove. Si butta a kamikaze in un budello di vicoli, ed in uno di essi si crea la seguente situazione di normale viabilità: nei due metri di larghezza e trenta di lunghezza, la nostra macchina, dodici lambrette, sei tuk-tuk, un tir, due auto snodati e una gazzella della polizia con 72 biciclette al seguito, presenti nei due sensi di marcia pretendono simultaneamente la precedenza. Irfan suda. La Diva chiede a questo delucidazioni. Irfan fiotta sudore. La Diva pretende un minimo di conversazione. Irfan emergendo da un’onda di sudore secreto, cerca di accontentarla. Intervengo umilmente spiegando alla Diva di posticipare la dialettica. La Diva sembra capire o almeno finge. Un passante improvvisatasi pizzardone, sbracciandosi e coordinando le vetture, sbriglia la matassa. Irfan non ha più molecole d’acqua disponibili. Comunque ci porta come un bravo papà ai giardinetti. Ma da bravo papà severo, non ci compra i lecca-lecca. Nessuno ci riconosce ai giardini, quindi diamo fuoco ad un ficus. Poi ci facciamo portare da Irfan sulla terrazza che da sul lago. Da questa meravigliosa terrazza prospiciente il lago, il Lake Palace, e la città stessa, a far mancare il fiato non sono tante queste bellezze quanto stormi di pipistrelli grandi come pnenodattili che sotto tese volute incerte, danno l’illusione dell’attacco suicida. Gran romanticismo. Ordiniamo patate fritte e le mangiamo conficcandocele reciprocamente nelle orecchie(non ci hanno portato la senape). Un geco molesta la Diva al bagno. Sembra quasi un segno dell’ormai esaurito successo, quando un signore indiano chiede alla Diva se sia un’attrice, riconoscendole una forte somiglianza con Elizabeth Taylor. Io mi vedo come Richard Burton, ubriaco sotto il tavolo con la Diva. Speriamo bene. Andiamo a dormire con opposti sentimenti.
13/05 Sveglia. Colazione con chapata fritti pucciati nel caffè. Rubiamo due banane e un osso di mango. Il fido Irfan ci conduce di tutta fretta ad un tempio che chiude alle 10. Tempo stimato di percorrenza:40 minuti. Partenza alle 9.15. C’è traffico. Irfan al primo giro ha il secondo tempo dopo lo Shumacher trasporto fieno. Un paio di rotatorie di troppo lo rallentano. A questo punto la pole position andrebbe all’autotrasportatore di mondezza. Irfan strombazza come un bersagliere e al terzo giro, nonostante il testa coda con una mucca (testa e coda della mucca, presi in pieno) avanza di posizione. Cambio gomme effettuato dall’impeccabile equipe di intoccabili. Cominciano i tornanti. Irfan, che come sul circuito di Montecarlo sa dare il meglio, scala la classifica. Arriviamo primi alle 9,59, con tempo da Pole, al tempio. Questo però non chiude alle 10, ma apre alle 11. Quindi, per ingannare il tempo (o il tempio), ci iniettiamo un’altra dose di templi, dirigendoci ad un altro lì vicino, che potrebbe esserci fatale. Qui la cosa migliore è l’incontro con cinque simpatici mocciosi a cui insegno una sorte di ballo del qua-qua. Poi chiudiamo l’overdose di templi, in quello delle 11 (è un tempio con orari ministeriali). Problema: si può entrare solo e rigorosamente a piedi nudi. I calzini della Diva sonno off. La Diva ha un contratto pubblicitario d’esclusiva coi pedalini Sock&Sock che la lega tanto da non potersene separare, rimane fuori come un cane all’autogrill.
Io invece me lo godo tutto. Una guida mi spiega tutto. Ricorderò poi solo i bassorilievi ispirati al Kamasutra e il Lingam che si staglia dalla Jona: anni di giornaletti hanno forgiato una mente malata, ma ricettiva a nuovi impulsi a tema. Ritorniamo a Udaipur. La Diva è sdegnata dalla vergognosa esclusione dal tempio e, dentro di se, sa che il suo successo è in terribile discesa. Forse accetterà di condurre la Domenica In indiana al posto di Mahatma Venier. Poi ci sciogliamo nei vicoli di Udaipur. La Diva compra altre due borsette: siamo a quota 35. Beviamo due bibite fresche ad alto contenuto batterico, su una terrazza di un albergo umile ma onesto. Poi, dopo un peregrinare cieco e ammollato dal caldo, torniamo in albergo. Non tentiamo neppure più un’immersione cerebrale: la nostra sola dimensione mistica è la fase REM, e se c’è un santo a cui siamo devoti, è solo San Namo Addivertì Nannì Nannì. Il sonno, ovvero la notte che ne sarebbe il tempo deputato, porta consiglio. Alla Diva quantomeno, che da essa è convinta ad una cena con tutti gli annessi e connessi al Lake Palace Hotel. Questo, avevo già accennato, è uno dei posti più chic ed esclusivi dell’India. E’ un’ isola al centro del lago di Udaipur sulla quale vige uno status speciale del lusso, inquadrato dall’albergo e aperto anche ai poveri curiosi come noi che, non potendo permettersi la dormita sul lacustre-ameno-albergo, ne saggiano comunque l’atmosfera e la cucina, con una cena che a Roma avrebbe prezzi definiti popolari. La Diva è in fibrillazione, convoca i suoi make-uper, i suoi stilisti, manicure, coiffeure e il dentista personale per un’otturazione volante. Io, per l’occasione mi taglio le unghie. Di gran toletta, usciamo dall’albergo, prospiciente il quale ci sono casupole, gente che vive sulle strade, porci intralciatraffico e questuanti. L’India è anche questo: contrasto. Ci solleva un tantino da certo senso di colpa classista, l’idea che noi in Italia non siamo poi così ricchi. Magra consolazione: per noi e per loro. A passo spedito giungiamo da un caronte indiano che con la motolancia d’ordinanza, ci sbarca come naufraghi blasonati sull’isola dei sogni. Ci accolgono livree locali, apritori di porte, saluti e sorrisi. Alla Diva ricorda il Lido di Venezia al festival del cinema. Quindi lancia sorrisi, saluti e baci ad ambasciatori, politici ed attori famosi. Peccato che non ci sia nessuno. Visitiamo le hall, i girdini galleggianti curatissimi con scialo di ninfee e fiori, la piscina e l’immancabile tramonto. Laddove c’è un posto di lusso c’è un tramonto romantico ed irripetibile: anche quando è nuvolo. Segue breve programma di musica etnica, che qui è solo musica locale, con un naccheratore isterico e dentone. Drink senza oliva solo perché era una volgare spremuta di mango. Poco avvezzo alla cannuccia decoro la stola d’organza della Diva di succo. “A casa facciamo i conti” è la minaccia della Diva. Mi illudo che per ‘casa’ intenda quella vera di Roma e non la camera di albergo, e così mi cullo nella speranza di rimandare le busse. Quindi a cena. L’aria condizionata rende la sala un po’ fredda e sono tentato di ordinare polenta e salsiccia. Uno stuolo di 7 camerieri volteggia elegantemente attorno a noi. Uno serve le pietanze, uno rimbocca i bicchieri, uno non lo so, uno è uno smollicatore(o bonifica molliche), uno mi imbocca, uno con lo stuzzicadenti mi netta gli incisivi e un altro è seduto a cagnolino pronto a prendere al volo bocconcini di pane che gli lanciamo indolenti. Non so se soffra di persecuzioni, ma ho la sensazione di essere osservato. La Diva ha labbra livide dal freddo ma dice che è solo l’ultimo grido della moda in fatto di rossetti. Finite le libagioni, conversiamo amabilmente coi “Cape Town”, coppia sudafricana che ci pedina nel viaggio; non suonano i tamburi e non fanno ‘bula-bula’. Strano, eppure sono africani. Ritorno sul pattino reale e buonanotte ai suonatori. Ci siamo finti quello che non siamo, eppure eravamo pienamente a nostro agio. Dunque siamo l’altro. Siamo quello che non siamo. La finzione ci rende liberi; questo vale anche per l’orgasmo delle donne.
14/05 Si riparte. Per Puskhar. Di mattino, a colazione conversiamo con un romagnolo trepidante per l’attesa del risultato di Inter-Milan seminifale di Champions League. Lo rincuoriamo dicendogli di farsi forza. Viaggio lungo e accaldato. Traffico sostenuto. Chissà chi si crede di essere. Sorpassiamo jeep con 19 passeggeri di cui 4, i più scomodi, avviluppati alle 4 ruote motrici. Senza troppi intoppi giungiamo in quel di Puskhar, paesettone arrotolato attorno ad un lago sacro. Città sacra e vegetariana in cui i cittadini vanno a farsi i bagni dalle gradinate, i ghat, del lago, e a risciacquare le anime,. Non certo corpi e vestiti che non appaiono propriamente adamantini. Nella città non si mangia carne. Anche i cani sono vegetariani e masticano solo ossi di mango e i gatti coi topi sorseggiano amabilmente assieme dei soutè di melanzana. I gatti. Assieme ai topi, diceva. Gatti finora, fra tutti questi animali da compagnia improbabili per noi occidentali, ne abbiamo avvistati due o tre. Topi nemmeno. Eppure l’humus c’è, le condizioni non mancano. I gatti forse, opportunisti come sono, hanno preso il primo aereo verso nazioni più a la page. Ma i topi? Io ho la mia tesi. Il topo è anche di nome furtivo, ratto. Oscuro. Sa che non ci deve essere, che deve spaventare le donne. Sceglie luoghi e posti bui e sozzi per sottolineare l’orrore che devono generare le sue prerogative. Qui in India, dove la mondezza e le bestie sono in bella posta alla luce del sole, e dove sarebbero ammessi per graduatoria, se non ben graditi, si sentono demotivati e frustrati. E, ratti, fuggono. La Diva all’arrivo a Puskhar è stanca e fa i capricci, snobba la città per via delle sue frequentazioni fricchettone tardo anni settanta. Gli occidentali che si incontrano sembrano usciti dal concerto di Woodstock. Ostentano orgoglio cannabis, pur se il tanto celebrato oppio indiano da quel dì non circola da questi lidi e gli indiani masticano betel. Vestono da ‘Indiani’ anche se gli indiani non vestono in quel modo sciatto. I gradini dei ghat sono maculati di torte di mucche e , stimo, anche umane: tutto è tributo, regalo, se fatto col cuore o con l’intestino. Nella visita la Diva non viene riconosciuta da nessuno, tanto che sputa ad un ciabattino per attirare la sua attenzione. Parliamo con un giovane studente che dice di avere cinque ragazze ma che non può sposarne nessuna perché di caste inferiori alla sua, quella dei Bramini, dei religiosi insomma. La stessa cosa che è accaduta a me con Carolina di Monaco solo perché ho un lontano parente che fece il chierichetto. Proseguendo la passeggiata per la prima volta non disturbati da motorette e tuk-tuk, su un ponte che guada il lago e che volge al nostro albergo, incontriamo nuovamente due mocciosi luridini a cui avevo già dato qualche rupia, e, scortati da essi, dopo avere domato 4 cagnetti rintronati che la Diva ha riconosciuto però come appartenenti al gruppo eversivo Al Cagnetta. Cena frugale, più che per rispetto alla sacralità dei costumi locali, per le opzioni del menù. La Diva è ancora ossessionata da gechi mitomani che, imbottiti di miccette le si gettino addosso. La CIA sventa un attentato; un geco e Dario Argento hanno tentato di avvicinarsi alla Diva e sono stati precauzionalmente abbattuti entrambi, nell’impossibilità di distinguere l’uno dall’altro. A letto. Nella città si respira aria di spiritualità, ma era qualcosa di imposto, un po’ come quando nelle nostre messe, in segno di fratellanza bisogna stringere mani sudaticce, e che non ci ha demotivati alla meditazione ispettiva. Cercheremo altrove, anche se il tempo, come la lana in acqua calda, stringe. Cosa abbiamo scoperto? Chi siamo ora? Quelli di prima ma più incasinati. Divi, tonni prima, coloniali dopo, bimbi fessi e oggetti del desiderio commerciale, nababbi, mercanti. Ma sempre noi. Ma noi chi? Chichirichì.
15/05 Penultima tappa, Diva esclusa, è per Jaipur. La Diva ce l’ha con tutti, offende anche il letto per essere troppo orizzontale. Ma l’India la metterà alla prova. Di strada facciamo sosta ad Asmer, paesone di infedeli che con la Diva decidiamo di annettere al sacro romano impero. La via principale, che ci porterà alla moschea, è pervasa da questuanti, storpi, gran confusione indiana in salsa musulmana, quindi più decisa. Tensione nell’aria per una processione che lenta e inesorabile, poi, ci sommergerà. Prendiamo la mazza e ci facciamo largo. La moschea è una gran bolgia. Pare piuttosto un bazar e la tendenza è a spillare religiosamente soldi, ma ormai meno smagati limitiamo i danni. Bagno di folla e di sudore e se, qualora ci fossero, di insalata di bacilli. Se c’è un virus qui, è alla portata di tutti. Comunismo virale, alla faccia dei raffreddori di Marx. Ritorno alla macchina con bimbo questuante che batte il record di fedeltà: copre con noi la distanza di 500 metri tra fanfare e canzoni come alla festa di S. Efisio. Si riprende il viaggio. Sulla strada noto due maiali dentro uno dei rari cassonetti dell’immondizia. Evinco sia una sorta di cassonetto per la raccolta differenziata, dove i porci, assolvono il compito di differenziazione tra materiale edibile e non. Ennesimo e ultima scrematura. In India non si butta niente. Come del maiale d’altronde. E per quello li mettono nei cassonetti. La Diva intanto, in macchina ha assunto una postura da puerpera con una gamba sul sedile anteriore e una sulla spalla di Irfan. Dice che è per il caldo. Io mi sbottono la camicia e vengo percosso per atti osceni. Arrivo ad albergo di Jaipur; ambiente piuttosto raffinato, inizialmente quindi, non mi fanno entrare. La Diva intercede: entro ostentando un grosso melone sottobraccio. In stanza ce lo dividiamo come trogloditi con un osso, accendendo un fuoco alla divinità della frutta. La tendenza, noto, è alla regressione spirituale, al totem al feticcio. Non accettiamo più alambicchi esistenziali, elucubrazioni divinatorie. Noi siamo stati creati dal Dio Melone, ciò che è, è stato, e sarà. E basta. Soddisfatti ci spiattelliamo a foca sul letto. Prima di addormentarci grugniamo, come commiato alle scorze rosicchiate di melone. Ci svegliamo ululando. Dobbiamo andare in città a procacciarci cibo e materie prime. Veniamo condotti nella città vecchia, nella zona del mercato. Ennesimo inconcepibile caos ubriacante. Tra le strade soffocate da persone mezzi meccanici e bestie, che renderebbe isterico un comune cristiano dopo 7 minuti, ma non loro che anzi palesano goduti pisolini a pochi centimetri dal bordo della strada. Innervositi dal traffico e rabbiosi a causa dei fan che non ci riconoscono più, anneghiamo il rancore al ristorante, cibandoci di Samosa (triedri imbottiti di patate e verdure) che placano i nostri succhi gastrici. Torniamo in albergo; la notte sarà foriera di minacce intestinali.
16/05 La Diva nel bel mezzo della notte viene colta da quello che in gergo medico viene definita la vendetta di Montezuma, ma che qui ribattezzeremo “La vendetta di Puskhar”. E’ qui infatti, che un geco mitomane ha immerso nel gelato sorbito dalla Diva, pericolosi germi a base dello stesso principio attivo dell’olio di fegato di merluzzo. La Diva dopo avere aperto le segnature una prima volta durante la notte, raddoppia in mattinata. Dei crampi addominali la candidano ad una prestazione da annuale. Io applico una strategia difensivistica, direi catenaccio, per bloccare i suoi attacchi, affibbiandole 2 pasticche 2 di Imodium, un terzino olandese fortissimo. Confidando in lui, lascio la panchina per andare col fido Irfan, libero dalla coniuge, in cerca di belle donne e champagne. Dopo un paio di festini a base di coaina, orge, noccioline e orzata, nauseato dalle noccioline, mi faccio portare all’Ambet Fort e al Jamer Fort per filmare con la telecamera le immagini da mostrare poi alla Diva come alibi. All’Amber Fort faccio capannelle con degli indiani tenendo alta l’attenzione sulla problematica fecale della Diva. Seguono consigli e battute da caserma. L’aspetto positivo della faccenda è comunque che sono riuscito ad evitare la salita al forte a dorso d’elefante, tanto desiato dalla Diva. Non vorrei però che voglia rifarsi a Roma con i pony di villa Borghese. Tornato in albergo, la situazione è apocalittica. Dapprima la Diva ha i brividi, poi vaneggia, poi invoca mamma, poi invoca S.Galla, poi invoca Mike Bongiorno. Mi decido e chiamo il dottore. Arriva lo sciamano. Le impone le mani sul capo e una rana sotto l’ascella. La Diva ha 39.5° di temperatura, poco di più e possiamo usarla per preparare i pop corn. Lo sciamano le somministra una cura ayurvedica a base di fegatelli di locuste, cervelletti di formica e filetto di mosca cieca. Io vado a caccia e glieli procaccio. La Diva sembra stare meglio. Infatti con uno scatto alla Carl Lewis esegue un salto triplo con svomitazzata itinerante. Come cenerentola, pulisco. Un paio di dritte da parte di Madre Teresa di Calcutta e da buon infermiere la sfamo e la abbevero, tremante al pensiero che da un momento all’altro la Diva detonando mi rifaccia le fantasie agli abiti. La tecnica del tappo in bocca eviterà noie. Lentamente la Diva migliora, un paio di corse al bagno per, come dice lei, rifarsi il trucco, e il peggio sembra passato. Io intanto vado a cena in albergo. Al roof garden ceno con la sola compagnia di due musici svogliati. Mi sento come un cinquantenne tedesco che, in un night club di Cattolica fuori stagione, anneghi in prosecchi annacquati l’ennesima pena d’amore, col pianista checca che gli propina per la sesta volta consecutiva una straziante ‘Rotonda sul mare’di Fred Buongusto cantata in falsetto. Riporto in camera alla Diva due banane, che le lancio mentre si aggrappa da un ramo all’altro: comincia a stare meglio. Io non ho tempo per immersioni ascetiche. Per la Diva credo però si sia trattato del classico caso di rigetto di personalità al personaggio innestatole. L’infezione avvenuta è nient’altro che un rifiuto del ruolo impostatole. Il personaggio interpretato, anche se agognato, è stato osteggiato ed espulso dalle profondità più oscure della mente, espellendo le sovrastrutture della Diva dalle viscere. Dimenticavo di accennare allo svenimento della Diva. Interpretando sublimemente il ruolo della dama del 700’ in preda ad angoscie amorose, la Diva di ritorno dalla toilette, sorretta a braccio dal suo paramedico di fiducia, cade in uno stato di morte apparente fino a raggiungere la consistenza di un sacco di calcestruzzo per secondi uno, tanto quanto basta a farmi buttare giù qualche necrologio degno della Diva. Ma come Lazzaro, la Diva risorge senza pagare la parcella, né allo sciamano, né a Gesù. E’ fatta, domani ci aspetta Agra, che non è una città al limone o che allappi la bocca.
17/05 Molli come meduse, ma presenti a noi stessi, ci imbarchiamo sull’ammiraglia comandata dal nostromo Irfan. Nostromo nel senso marittimo , non Nostr’omo che significherebbe aggiogamento schiavistico, per quanto, l’idea non mi dispiaccia. La Diva però è strana, pare avere perso capricci e stranezze degni del suo nome. Balbetta frasi di riconversione casalinga; ‘Voglio tornare a casa..’,’Che bello a Roma potrò lavarti le mutande..’ etc. La cosa mi fa ben sperare., ma sto allerta. La strada per Agra è trafficatissima. Si susseguono sorpassi alla Barrichello. Irfan strombazza come se la Roma avesse vinto lo scudetto. In India d’altronde il clacson è trumento di giuda più utile del volante. La suonata è istanza di presenza ed esistenza stradale, tanto che ne viene promosso l’uso attraverso delle scritte sul retro di autobus e camion :”Horn Please”. Suonate per favore. Vi scongiuriamo. Strombazzate altrimenti non riesco a dormire. Ormai gli scenari che si susseguono ci sono familiari. L’ambiente sta divenendo poco più lussureggiante, ma abbiamo il callo duro. Eppure qualcosa, nella folle contrastata scenografia, colpisce sempre. Nel traffico, una famiglia di tre persone sulla motocicletta, perché in lambretta come su Furia cavallo del west, ci si sta anche in tre. Ma anche in quattro. Padre alla guida, madre seduta di taglio per via del sari indossato. Bimbo in fasce in braccio. Il pupo frigna. La madre con naturalezza sfila la poppa e lo abbevera, col padre che prosegue la corsa nel traffico assordante.
Prodigioso. Con scialo di tecnologie all’avanguardia, in formula 1 non sono ancora riusciti a realizzare il rifornimento in corsa: gli indiani, loro, sì. Ci fermiamo a metà strada a Fathephur Sikhi, città modello fatta costruire dal potente Akbar. Arrembaggio al turista. Sedicenti guide vogliono abbindolarci, ma noi non molliamo. Sono lontani i tempi tonnati del Rio Mare in cui ci spezzavamo con un grissino. Con quello più ostico, la butto sul politico. Lo incito alla lotta sindacale per far abbassare il prezzo del biglietto di ingresso. Solo così, gli spiego, non sentendoci già presi in giro, noi turisti, asseconderemo l’accompagnamento di una guida, che per la verità, a causa del loro inglese migliore solo all’italiano di Schumacher, è spesso inutile. Sfodero il ‘Capitale’ di Marx, il libro rosso di Mao, faccio fucilare due krumiri. E’ un tripudio di bandiere rosse e litografie di Che Guevara. Qualcosa, nella sonnolenta India, forse si sta muovendo. Visitiamo Fathephur Sikhi avviluppati da un calore secondo solo alla Death Valley. Non paghi, tentiamo la sortita alla moschea. Io indosso la cotta con sopra la tunica dell’ordine dei templari. Vedremo chi avrà la meglio. Accompagnato da un infedele sbircio il loro luogo sacro spacciandomi con la guida accollatami, spagnolo. L’infedele, che doveva aver guerreggiato a Siviglia, mi descriverà la moschea in lingua iberica. Momento di schizofrenia. Vengo assecondato anche quando cerco di mutare pelle. Anche se in spagnolo conosco solo il termine ‘Pelota’ e ‘Real Madrid’, credo di intuire l’idioma. La Diva, rimasta indietro con un altro infedele, ci raggiunge e svela l’inganno. Con una lauta mancia, mettiamo a tacere un pericoloso caso diplomatico e religioso. Aznar, Berlusconi e il Papa erano stati già allertati. Ancora poco e facciamo ingresso ad Agra. Entriamo in albergo facendo garrire il nostro gonfalone con lo stemma del melone sormontato da una corona di manghi. L’accoglienza è freddina. Il servizio, che sa di vendetta, è così lento che per avere recapitati in camera 2 cucchiai ed un coltello devo chiamare personalmente una fabbrica di posate. L’angolo ascetico è ormai sacrificato a ben più bassi istinti primari. Accettiamo lo stato delle cose senza porci troppi perché. Il pensiero occidentale di ricerca degli obbiettivi e quello orientale più fatalistico, si fondano in un torpore cerebrale che ci fa russare come scrofe col raffreddore. Chissenefrega è la filosofia del giorno. Satolli di sonno ciabattiamo per un mercato della città nascondendo penosamente solo un desiderio: trovare un posto dove mangiare. Per placare il senso di colpa compriamo delle scarpette da maragià per il fantolino Valerio. Ma e un blando espediente che non regge alla lunga. Dopo poco, idrofobi, occupiamo un ristorantino un po’ scalcinato per riempire gli stomaci. Godiamo come gatti ronfanti quando ci vengono serviti spaghetti di soia e dosa, ossia frittellone di farina di lenticchie farcito di bendiddio oscuro. Ci mettiamo una tacca e ci ripromettiamo di tornarci. Chi lascia la strada vecchia per la nuova, controlli la pressione delle gomme.
18/05 Giornata dedicata all’Agra monumentale, almeno questo è l’intento. Simbolo di Agra è il Taj Mahal, che si dovrebbe visitare all’alba per goderne tutte le sue sfumature cromatiche auroree. Ma noi daltonici preferiamo dormire fino a tardi. Poi comunque si va al Taj Mahal , monumentale mausoleo che un maragià fece costruire alla moglie morta di parto. Certo che se tutti facessero lo stesso, il problema dei parcheggi sarebbe molto peggiore. Per raggiungerlo cancelliamo ogni nostra remora umanitaria (ove fosse mai esistita) e balziamo su un risciò. L’emozione è forte e vibrante, nel nostro piccolo ci sentiamo come Papa Innocenzo III. Poi in ottemperanza a romantici ricordi tonnari, ci facciamo sfilare 15 € cadacranio. Un po’ tanto, timidamente pensiamo, non osando però esternare il concetto perché sarebbe da cafoni e ignoranti: la cultura non ha prezzo. Comunque il prezzo varrà ogni centesimo, non tanto per il mausoleo, che una tomba per noi italiani è bella fino ad un certo punto, quanto per il rinnovato successo che il nostro pubblico ci riserva dopo giorni di oscuramento. Una foto dietro l’altra con i nostri fan. I più arditi ci spiano e, da navigati paparazzi, ci immortalano nella nostra intimità. Chiacchiere, strette di mani. Ci voleva proprio. Il mausoleo. Ricordo solo il suo cupolone, come quello del Colosseo o San Pietro, non ricordo bene ora, che è un po’ che stiamo fuori Roma. Continuiamo a setacciare la città abiurando altri templi e forti. Il senso di ascesi che ci eravamo preposti sta svanendo. Un laicismo reazionario si sta impossessando di noi. Vogliamo cancellare tutto ciò che abbia a che fare con religione e introspezione. Bruciamo due bonzi prima che lo facciano loro(bella forza), violentiamo una mucca sacra, sostituiamo blasfemi la testa d’elefante del Dio Ganesh con quella di Marzullo, anche se i fedeli non se sono accorti, e, infine cantiamo ad alta voce ‘Dio è morto’ di Guccini senza erre moscia. Acchiappiamo al volo un altro risciò. Infastidito dalla lentezza del pedalatore, nonostante lo zuccherino regalatogli, lo scalzo dal posto di guida e gli insegno come si fa. Conduco il risciò per 200 metri in lieve solita. Dopo le prime gagliarde pedalate in cui mi sento Pantani sul Tonale, ho sentito nei miei quadricipiti un senso di repulsione cinetica. No, non certo stanchezza, ma stomachevole senso di inutilità del moto. Madido di sudore, ripongo l’addetto al manubrio. Metto a tacere la bravata con un assegno in bianco. Ecco, nella mia ricerca esistenziale ho capito che la mia natura non è sicuramente ciclistica. E’ già qualcosa. Più mogi che magi, torniamo in albergo dopo essere stati arpionati consciamente in una tonnara in cui la Diva ha acquistato pietre d’acquamarina per un valore sufficiente ad innalzare il PIL indiano del 2,5%. Confusi dopo un sussulto di autocritica, ci chiediamo se non sia opportuno approfondire nuovamente i temi che ci eravamo preposti all’inizio del viaggio. Ci siamo lasciati andare, non abbiamo avuto nessuna rivelazione etc. Etc. Cullati da ipocriti sensi di colpa compiaciuti assaporiamo il fremito onirico. Pure ci destiamo per tornare a far danni in giro per Agra. Nuovamente assaporando il gusto consumistico andiamo alla ricerca di altri affari del secolo. Rimaniamo a bocca asciutta pur sbattendoci come polipi sugli scogli, tra negozi e bugigattoli. Ma in fondo, era solo il creare le basi di un insoddisfazione, da colmare a tavola ingollando novità culturali. Bissiamo dal ristorante ignorante ma schietto, del giorno prima. Ci circondano persone che appallottolano e pucciano riso nel masala. Noi, schizzinosi, usiamo alteri le posate, ma la voglia di affondare le mani nel pappone mi assale. La Diva mi lega le mani e mi imbocca prima dell’inevitabile. Ottime frittelloni con ripieni di verdure e patacche di farina di lenticchia, ci rinsaldano al mondo crudele. Ci facciamo riportare in albergo, dalla cui finestra prospiciente una scuola, la mattina spiamo le lezioni del primo giorno di scuola indiano. La differenza mi è sembrata stare nel fatto che oltre ad essere tutti in divisa, “L’orario provvisorio”, che in Italia dura fino a Dicembre, non era contemplato. Prevale la didattica corale, la maestra cita e i bimbi pedissequi ripetono. E non volano i cartoccetti: popolo di non violenti? Orfeo fa l’appello e noi lo si asseconda.
19/05 Si torna a Delhi. La storia, la vita, è ciclica, e dopo uno zingareggiare in tondo per il Rajastan, la circonferenza si chiude, serrando in questi ultimi due giorni rimasti, conclusioni che però non arrivano. Ma poco importa. Non abbiamo voglia di portarci dietro problematiche occidentali. Si va e basta. Godiamoci lo scampolo. Ci penseremo poi. Si parte col fido Irfan che nonostante tutte le ore lasciatolo a prender caldo per colpa dei nostri ritardi, fa affiorare un vago dispiacere da fine viaggio: lo si capisce dal fatto che ormai è un fiume in piena, racconta, si sbottona, ci racconta della sua famiglia. Gli indiani sono curiosi ma discreti. Chiedono e non chiedono. Mica come la Diva che poco manca che pretenda lo stato di famiglia in carta bollata, per soddisfare la sua sete di indiscrezioni familiari. Lungo la strada comincia a sfumare quella sensazione di ignoto che fino a quel momento, nel cambiare tutti i giorni loco, ci avvolgeva. Ora il ciclo si compie. Torniamo a casa. Quasi frugo nel taschino per cercare le chiavi della nostra casa di New Delhi. Non le trovo. Devo averle lasciate sotto le zerbino. Along the road, lungo la strada, scusate ma ormai mi sento cosmopolita e scrivo ’Apolide’ alla voce ‘Nazionalità’ sul passaporto, lungo la strada dicevo, Irfan ci segnala un po’ imbarazzato, le ‘Red Cross’. Bene, pensiamo, assistenza sanitaria. Un corno. Irfan ci spiega che le ‘Red Cross’ sono i loro bordelli. Luoghi franchi per il sesso mercenario, cito schifato io, tacendo malamente un fremito erotico. Le ‘Red Cross’ sono ammassi di casupole con festoni e lanterne rosse, come fossero delle piccole feste dell’Unità, in cui in simil-tende ci si va ad accoppiare. Molto pericolosi, avverte paterno Irfan, forse per placare la mia squallida libido. Diciamo noncuranti di proseguire, ma intanto ruoto il capo di 180° per guardare le uniche immagini di perdizione in quest’India apparentemente puritanella. Ma ecco che Irfan, ormai animatore a tutto tondo, e da cui mi aspetto che da un momento all’altro intoni un coro di ‘Quel mazzolin di Fiori’, lancia un’idea che a me pare irrealizzabile, ma che instilla nella Diva il demone della consacrazione. In soldoni la proposta è questa: dato che siamo italiani, si potrebbe andare a scampanellare all’ambasciata d’Italia in India di base a Delhi, e richiedere un incontro con la nostra amicona e connazionale Sonia Gandhi, la quale sarà di certo libera per farsi un bitterino con noi. La Diva va in fibrillazione, rispolvera tutti i manuali di cerimoniali di corte, appunta sul petto la spilla del grand’Ordine di malta e si cuce al volo una stola d’ermellino. Io più modestamente mi preparo qualche battuta simpatica del tipo: “Com’è la vita senza spaghetti?” o “Il sari le dona. Me ne donerebbe uno anche a me?” o addirittura un più tecnico “So che qui avete il proporzionale con sbarramento al 4%”. Fatto sta, che macinati i chilometri necessari a raggiungere la capitale, ecco che ci presentiamo di fronte l’Ambasciata Italica in India.
Davanti alla cancellata dell’ambasciata si affollano una cinquantina di indiani in fila indiana per l’appunto, per permessi di soggiorno o affini. Noi abbiamo problemi più seri e in quanto la fila per gli italiani è rappresentata solo da noi, entriamo di diritto nella guardiola di sicurezza e veniamo messi in contatto con chi di dovere. Una diplomatica italiana, al telefono con la Diva, la fredda con un ‘Sonia Gandhi è cittadina Indiana e capo del partito di governo, dunque non esplica tale pratiche di rappresentanza’. Grande delusione: si è negata trincerandosi in un nazionalismo becero, un po’ come i terroni di seconda generazione che si ammantano di leghismo. Peggio per lei. La Diva è affranta però: anni di studi di Scienze Politiche bruciati da squallide convenienze politiche. E questa sarebbe democrazia? Adda venì baffone. Domanda: sarebbe mai attecchito il comunismo in India? Forsechessì forsechenno. Forsechessì perché sono molto rispettosi delle regole e dei dogmi, pur se non li comprendono, e perché sono ancora abbastanza digiuni di cultura capitalistica, quasi vergini di mercato direi. Forsechenno perché gli indiani sono ancora molto permeati dal concetto di casta, che è qualcosa che va aldilà del nostro concetto di classe sociale basato fondamentalmente sul censo, e legato strettamente ai dettami della religione induista, e poi perché non accetterebbero mai di accogliere una dottrina laica, arida e pragmatica. E poi perché col colbacco in india farebbe troppo caldo. Ritorniamo all’albergo che ci ospitò al trionfale ingresso in India. Ma ora con una sensazione di rifiuto. Il ‘No’ della sporca faccenda dell’ambasciata lo leggiamo come il rifiuto di un mondo verso il nostro volere di capire e integrarci, partendo dalla spiritualità. E come se ci venisse detto ‘E’ inutile, siete italiani, non ce la farete mai a raggiungere i vostri obiettivi qui’.