Diani, lasciare il cuore in un pugno di sorrisi

Continuo ad avere le lacrime agli occhi da quando sono tornata da Diani. Il Kenya mi ha strappato anima e cuore, e dovrò tornarci presto per riaverli. Come posso descrivere cosa sto provando? E' come quando ti staccano il cordone ombelicale e non sei più legato al grembo di mamma. E' come quando in seconda media sono andata a vivere da mia zia...
Scritto da: Tuppa
diani, lasciare il cuore in un pugno di sorrisi
Partenza il: 04/08/2006
Ritorno il: 19/08/2006
Viaggiatori: da solo
Spesa: 2000 €
Ascolta i podcast
 
Continuo ad avere le lacrime agli occhi da quando sono tornata da Diani. Il Kenya mi ha strappato anima e cuore, e dovrò tornarci presto per riaverli.

Come posso descrivere cosa sto provando? E’ come quando ti staccano il cordone ombelicale e non sei più legato al grembo di mamma.

E’ come quando in seconda media sono andata a vivere da mia zia e ho dovuto per forza separarmi da mamma e babbo.

E’ come quando avevo 17 anni e mezzo, e è morto Salvatore. E una parte di me è stata sepolta con lui. La mia adolescenza, il gruppo con cui uscivo, le emozioni di ragazzina. Tutto morto.

E’ come quando mia sorella ha pasticciato la faccia di “Farfallina”, la mia bambola preferita, nonché mia migliore amica immaginaria. E ho cominciato a capire che bisogna accettare che dalle cose ci si separa, con dolore e coraggio.

Si, forse stavolta è diverso. Posso riprendere possesso di me. E posso farlo solo ritornando li, magari per mettere radici.

Mi manca tutto. Visceralmente. E lo stomaco è in subbuglio ogni volta che un’immagine di quei giorni torna alla mente.

Svegliarmi a Milano lo trovo così inutile. Che senso ha lavorare qui? A chi serve? Che cosa produco ogni giorno? Che utilità ha questa fottuta produzione? Ho forse un’utilità in questo mondo di plastica? Dove sono i sorrisi? Dove sono i Jambo jambo? Che ce ne facciamo di tutta questa fretta da cui ci lasciamo travolgere ogni giorno? Dove sono gli hakuna matata e i pole pole? Perché io sono nata nella parte “fortunata” del mondo? Queste le domande che mi pongo dal momento in cui i miei piedi hanno camminato per le strade di Ukunda, fino a oggi. E domani sarà lo stesso.

Ma andiamo con ordine.

Il 4 agosto arrivo a Malpensa e non sono poi più così convinta che fare questo viaggio da sola sia cosa buona e giusta.

Regalerei il mio biglietto a chiunque. Mi sento così piccola.

Ma poi comincio a osservare la gente in coda, le facce pre-vacanza, le valigie immense, e ecco che subito ho voglia di comunicare. Inizio a chiedere dove stanno andando, cosa stanno facendo, quanto devono aspettare, quanto staranno via. E le prime ore di ritardo aereo passano così, tra mille chiacchiere con sconosciuti in partenza. Ok, ci siamo, mi dico, sto entrando nel mio spirito da vacanza.

Quasi tutti quelli diretti in Kenya vanno a Malindi e Watamu. Nessuno vuole venire con me a Diani? Perché? Cribio. Ecco il bancone del visto per il Kenya. Faccio subito. Sono la prima a scoprirlo 🙂 Che donna sveglia.

E dopo un’infinita attesa, ecco che spunta anche il baracchino del mio tour operator (omesso nome, non sia mai che faccia pubblicità! siamo pazzi?). Galeotto fu il baracchino.

E’ li che incontro Chiara e Enrico per la prima volta.

“Dove andate?” “Al P.” (omesso nome, non sia mai che faccia pubblicità! siamo pazzi?). “Anche io! Che bello!” E’ una garanzia. Saranno i miei nuovi amici di vacanza. Non ci posso fare niente. E’ così che cominciano tutti i miei viaggi.

La tensione di qualche ora prima mi abbandona e comincio a rilassarmi sul serio. Sto andando in Kenya da sola. Ma che figa sono? In aereo dormo incastrata tra i sedili, nonostante il ronzio continuo della famiglia di fianco a me che si lamenta di quanto sia scomodo, di quanto faccia freddo, di quanto i videogames dell’Eurofly siano complicati, di quanto sia strano che io sia riuscita a giocare a tutto, e così via.

Alle 4 (il 4 è un numero ricorrente in questo viaggio) la sfiga è con me. Vado in bagno per cagar via le lasagne e scopro che le mestruazioni sono arrivate anche loro. Non sia mai che arrivino in ritardo. NO, in anticipo devono arrivare, e sull’aereo, così sono più comoda per cambiarmi e compagnia bella.

Donna previdente. Nello zaino c’è tutto quel che occorre. Mi cambio e vado di nuovo a nanna.

In aereo si gela. Grande escursione termica all’arrivo a Mombasa. Anche se non fa poi così caldo. C’è pure una lieve brezza.

In coda alla trafila passaporti ritrovo mama Chiara e papa Enri.

Credo che ci piaciamo da subito, perché si avverte una sorta di filo trasparente che comincia a tessere la tela della nostra imminente amicizia.

Al momento di portar le valigie sul pulmino, un ometto piuttosto svelto decide di aiutarmi e porta il mio trolley al posto mio. La mia prima mancia in Kenya. La prima di una lunga serie. Ecco l’incontro con gli altri due. Arrivata al pulmino c’è un’altra coppia. Li saluto con un: “CIAO!” Mi rispondono anche loro con un:”CIAO!” Vito e Barbara. Bei sorrisi, voci allegre, piacere, piacere mio, anche mio. Si, anche loro mi piacciono da subito.

Basta, è fatta. Siamo tutti italiani. Aspettiamo Chiara e Enrico e progettiamo la conquista di Diani Beach insieme.

Il percorso da Mombasa al PLR, il nostro albergo, (omesso nome, non sia mai che faccia pubblicità! siamo pazzi?), è pieno di gente in coda che attende di prendere il traghetto per recarsi al lavoro, persone a piedi, alcuni scalzi, altri in bici, donne con ceste enormi sulla testa, mercati, carni appese come nella vigna di zio Bastiano, baracche, case fatte di sterco e paglia, case fatte di mattoni. E allora cominci a capire che anche li ci sono i ricchi e i poveri. I ricchi non sono come i “nostri” ricchi. Sono solo meno poveri degli altri.

E cominci a vedere i bambini. E cominci a sentire i primi Jambo. E vedi quei sorrisi che ti si stamperanno nella mente e negli occhi. E lentamente ti strappano il cuore dal petto per tenerselo come pegno e insegnargli a guardare questo nuovo mondo con gli occhi giusti.

E comincerai a sorridere anche tu, perché oltre al cuore, ti strappano via anche le erbacce cattive che ti porti dentro. E saluti tutti. E non vedi l’ora di incrociare uno sguardo perché sarà ricambiato quasi con un certo affetto.

Ti chiedi come fanno, perché sorridono? Perché questa gioia che a noi “fortunati” manca? N., soprannominato cicciobomba, è il nostro punto di riferimento del nostro TO. Nel viaggio tra Mombasa e Diani, comincia subito a metterci in guardia contro i “terribili” beach boys. Ci dice che sono inaffidabili, che se prenotiamo un’escursione/safari con loro, verremo imbrogliati, che invece di portarci all’eventuale Lodge scelto per la notte, ci porteranno altrove, che l’organizzazione con loro lascia a desiderare e compagnia bella.

Mentre spara le sue ragioni, io guardo fuori, faccio foto alle case, alla strada, alla gente, alle biciclette, al cielo, agli alberi. Mi sembra tutto così bello, così denso, così vero. E appena arriverò in spiaggia, mi regalerò la compagnia di quei ragazzi “terribili”, perché io lo so già che di terribile c’è solo la condizione in cui sono costretti a vivere.

E mentre si viaggia, io e i miei nuovi compagnetti d’avventura ci raccontiamo chi siamo, da dove veniamo, cosa facciamo e cosa abbiamo intenzione di fare.

Io vorrei fare tutto. Tutto. Safari, gita a Wasini, a Funzi, a Malindi. Voglio fortissimamente voglio. Dico che non è necessario che mi seguano nelle mie avventure, che farò anche da sola. Che da questo momento in poi facciamo un patto, ossia ognuno è libero di muoversi come, dove e quando vuole e nessuno si deve sentire in obbligo di seguire l’altro.

Barbara: “ma dove vuoi andare da sola? Tu sei pazza?” Ecco. Cominciamo bene. Sono pazza 🙂 N. Con l’orecchio teso segue i nostri discorsi e ci propone subito un pacchetto safari/gite che secondo lui non possiamo assolutamente rifiutare.

Ebbene, una volta all’albergo, lo salutiamo cortesemente, lui e le sue proposte, e con lui non faremo neanche la gita gratis a Ukunda 🙂 Veniamo accolti con un coctail di benvenuto. Succo di papaya credo. Ma non ricordo perché i miei pensieri erano totalmente rivolti al fatto di dover correre in stanza a cambiarmi l’assorbente.

La mia prima guardia del corpo keniana con cui ho a che fare è John (si può dire il nome di un cameriere o è pubblicità?). E’ il ragazzo che si occuperà di me e della mia camera fino a fine vacanza. Comincio subito a parlare con lui, gli chiedo da quanto tempo lavora li, come si trova, come funziona questa fottuta cassetta di sicurezza, gli chiedo scusa ma devo andare in bagno, mi dice hakuna matata, ci vediamo dopo.

Da quel momento in poi, sono chiacchiere ogni mattina all’uscita dalla stanza, e ogni pomeriggio quando vado in camera a espletare i miei bisogni più importanti. E presto cominciamo a salutarci con un abbraccio ogni volta che ci si incontra. Mambo? Poa poa.

Hakuna matata. Senza pensieri. Non c’è problema. Questo il motto della vacanza, insieme a Pole pole, con calma, senza fretta.

Cancello per sbaglio tutte le prime foto fatte a Mombasa. Hakuna matata.

A Wasini non vediamo i delfini e scoppia un temporale. Hakuna matata. E’ così facile farsi scivolare di dosso le piccole disavventure quotidiane.

Il secondo incontro è Sergio (è un animatore, può avere un nome o solo un iniziale?). Sergio verrà soprannominato “Tarzan” da Vito. Sergio è una statua di bronzo. Ha muscoli persino nelle orecchie. Fa parte del team di animazione. Così grosso ma così buffo e tenero.

Lo incontro in piscina mentre sto andando a cominciare una lunga serie di chiacchierate con quei ragazzi “terribili”.

Mi chiede subito se una sera vado con lui a Ukunda a ballare. Gli dico che vedremo, che sono appena arrivata, che voglio correre in spiagga a gettarmi in pasto ai beach boys. Lui ride, mi dice che sembro “crazy”.

E’ un’impressione che do a molti di quelli che da quel momento in poi finiranno nella mia strada.

Ehi ehi ehi, devo proprio dirlo. Tutti quelli con cui ho avuto a che fare, parlavano inglese!!! Ergo, il mio inglese è venuto fuori anche lui, e s’è fatto capire!!! Troppo fiera di me.

Pensieri.

Ho scoperto cosa significa aprire gli occhi.

Ho visto un mondo pieno di sorrisi e di persone che ti salutano a ogni angolo di strada.

Ho visto la povertà, quella dei documentari, quella che se non la vedi non ci credi. Ho visto i bambini con la mosca intorno.

Ho scoperto quale è il vero spirito di sopravvivenza.

Ho aperto una scuola di Italiano perché i ragazzi del posto hanno bisogno di poter comunicare con i turisti.

Ogni mattina alle 9, con la bassa marea, mi era possibile disegnarla sulla spiaggia.

All’arrivo di ogni nuovo studente, disegnavo una scuola più grande e un banco con il suo nome.

Ho disegnato sulla sabbia per rendere il mio inglese comprensibile. Ho fatto lunghe passeggiate con i miei studenti. Partivamo verso le 10 dopo le prime frasi in italiano, e alle 13 circa ero di rientro per pranzo. E poi al pomeriggio, dalle 15 fino a sera.

E le interrogazioni sono state la parte più bella e divertente delle mie due settimane con loro. Ho riso a crepapelle e loro con me. E di me. E ho insegnato a dire “Che caspiterina ridi?” (non era proprio così, c’era una parolaccia, ma meglio non farle pubblicità).

Parole chiave: cacca, caramella, noce di cocco, mzuri rafiki, the teacher is crazy, but “malaika” also.

Ho mangiato tutto per due volte. Ho cagato che con la mia solita regolarità.

Ho fatto ridere a crepapelle i bimbi di Ukunda che impazzivano nel vedere la loro immagine sulla mia digitale.

Ho regalato palloni, penne, matite, caramelle e quaderni a ogni bambino che mi ha sorriso e a quelli che troppo timidi non osavano avvicinarsi a me, e mi guardavano incuriositi da lontano. E dopo un mio Jambo e una carezza, il sorriso regnava sui loro volti. E anche sul mio.

I bambini Masai hanno ballato per me. E anche loro si sono sbellicati dalle risate nel vedersi catturati nel mini-schermo della mia digitale. Non potevano credere ai loro occhi.

Fine pensieri.

Pranziamo? Non me lo ricordo. Ricordo il momento in cui mi sono affacciata sulla spiaggia. Ultimo gradino, tocco la sabbia con i piedi nudi, è come borotalco mi dico. E i primi omini del posto si fanno avanti, e prima che aprano bocca gli dico: “Jambo, sono vostra, sono qui per voi:)” Si, aspettavo quel momento da quando sono riuscita a prenotare il viaggio. Avevo letto dappertutto che la gente del posto è la vera ricchezza del Kenya, e ne ho avuto conferma immediatamente.

Da lì in poi, ogni istante delle mie giornate si riempie di chiacchierate.

Non sono mai sola. E non voglio sentirmi mai sola. Ho sempre una o due o tre guardie del corpo che non mi abbandonano mai. Lo trovo bellissimo. Non ho mai paura di uscire da sola dall’albergo, perché da sola non sarò mai.

Cominciano le trattative per il safari, per i piccoli acquisti, per le gite, per qualsiasi cosa. E’ tutto piacevole. Mi diverto come una pazza perché propongo dei prezzi fuori dall’ordinario e si fanno tante di quelle risate che mi prendono subito in simpatia.

Ottengo buoni prezzi da tutti. Sono un’affarista nata. E nei giorni a seguire li faccio contenti. Prendo cosine un po’ qui e un po’ là per non lasciare nessuno senza il suo guadagno.

Gertrude mi vende due parei. Non ci mette molto a convincermi. Le dico che non ne ho bisogno ma che li compro lo stesso. Lei mi sorride e mi dice che si vede che sono buona.

C. Mi chiede una passeggiata fin dal primo giorno e riusciamo a farla solo verso la fine delle mie due settimane li. Questo perché ogni giorno il mio tempo era un po’ per tutti. r. Mi osserva per giorni da lontano e con discrezione. Viene a scuola da me, ma non osa mai chiedermi di dedicargli ulteriore tempo.

Nessuno con me è stressante, nessuno insiste troppo, nessuno è maleducato. Ogni mia discesa in spiaggia viene accolta dai Jambo Jambo, dai loro sorrisi, da tante richieste di passeggiate e chiacchierate. E mai mi viene chiesto qualcosa in cambio. Solo la mia compagnia, solo le mie notizie dal mondo, solo degli occhi che hanno visto cose diverse dalle loro.

La loro curiosità è forte quanto la mia. Li riempio di domande, di richieste e soddisfo ogni loro curiosità. E camminiamo e parliamo e ci arricchiamo. E nasce un amore talmente forte per loro che quando alla sera vado a dormire, non vedo l’ora che sia di nuovo mattina.

Ed è dalle prime chiacchierate che nasce il loro desiderio di imparare l’italiano da me. “Perché non me lo dici in italiano?” Certo che te lo dico. Anzi, facciamo così, se voi siete d’accordo, da domattina alle 9 ci troviamo in spiaggia e apriamo la mia scuola.

“ma quanto costa?”… Ma come quanto costa? Non costa. Io insegno gratis. In cambio voglio i vostri cuori. Tutti.

E da qui “The teacher is crazy”.

I miei primi studenti sono R., G. E C.. Il più interessato è G. Preparo un quaderno con frasi in inglese da una parte, e in italiano dall’altra. G. Vuole copiarsele tutte sul suo quaderno. Non ha un quaderno. Gliene regalo uno.

Ogni giorno uno studente o due in più. Ho anche dei bambini che mi seguono. Sono in vacanza dalla loro scuola “vera”, e vengono quasi ogni giorno alle 9 per stare con me e imparare un po’ di italiano.

Una mattina dico ai ragazzi che voglio solo sdraiarmi sulla sabbia e godermi la spiaggia ancora deserta. Non fanno storie. Mi lasciano libera di sdraiarmi in solitudine. E mi accorgo anche che appena qualcun altro tenta di avvicinarmisi, loro pronti, gli dicono di lasciarmi stare, che è il mio momento di pace. Li adoro.

Vedo due bambini che mi osservano. Li chiamo a me. Mi dicono che vengono da Ukunda, che hanno camminato 15 km dalla mattina presto, per venire in spiaggia a raccogliere fondi per la scuola. Mi fanno vedere il documento in cui ci sono segnati nomi, cognomi, provenienza e denaro ricevuto. Mi dicono che stanno ricostruendo un’ala della scuola e che c’è bisogno di aiuto.

E’ Alì (si può dire il nome di un bambino? o gli sto facendo pubblicità?) che mi parla. Il più grande. Quello più piccino conosce poco l’inglese e mi dice ogni tanto due o tre parole in swahili che io purtroppo non capisco. Dico a Alì che in camera ho tanti quaderni, penne e matite, e che se accettano anche quelli, io glieli regalo volentieri.

E lui si illumina in volto, mi dice che va bene, che così i bambini della scuola avranno su che scrivere. Gli dico che voglio che uno dei quaderni sia solo suo, che può tenerlo per lui. Lui mi dice che darà tutto al maestro e che sarà lui a decidere a chi andranno i miei regali.

Mi dice che non se l’aspettava. Mi dice che mi guardava da lontano, che non voleva disturbare, e che non pensava che quella ragazza che sembrava dormire, fosse tanto buona. Mi dice che sembro un angelo. Che i miei capelli sembrano quelli degli angeli.

E in cuor mio dicevo solo, “tutta questa gioia per così poco?”. Subito lacrime agli occhi. Corro in stanza, prendo tutto e lo porto a Alì.

Ci facciamo una promessa prima di salutarci. Il 18 mattina alle 8.00 ci incontreremo all’ingresso principale dell’albergo e io gli porterò la mia borsa, delle saponette e delle magliette per la sua sorellina. Affare fatto. Quel che è promesso è promesso. Alì si fida di me. E io mi sento piena di felicità per questa fiducia incondizionata.

Racconto poi ai miei quattro compagni d’avventura della mia scuola, e anche loro mi dicono che sono pazza. Ma dicono anche “che bello”, “che brava”, “tu non sei normale”.

Ma perché, loro pensano di essere normali? Vito. Parliamone. La sua faccia è un sorriso perenne. Allegro fino all’incredibile. Con una voglia matta di farsi conoscere da tutti e farsi capire. Il suo inglese fa acqua da tutte le parti, più del mio (il che è veramente un caso raro). Eppure diventa il paladino della popolazione della piscina. Ogni giorno si fa il suo bel combattimento di pallanuoto. Si, è un vero massacro. Pur di vincere, tenta di affogare tutti. Persino una bambina. La lotta più importante la deve affrontare sempre con il bimbo grasso Ted. E nonostante Vito diventi famoso per i suoi tentati omicidi, tutti impazziscono per lui. Viene chiamato Materazzi da tutti con un certo rispetto.

Quando lui combatte in piscina, il suo avversario si chiama sempre Zidane.

Martino diventa il super-fun numero 1 di Vito. Martino fa parte anche lui dello staff di animazione. Quasi ogni giorno è una sfida a ping pong o biliardo tra lui e Vito. C’è amore tra i due. E si vede a colpo d’occhio.

Barbara. Barbara ha la risata più sonora di tutto l’albergo e di tutta Diani Beach. Se lei ride, Chiara ride, io rido, tutti ridiamo e ci chiediamo che cazzo ridiamo, e che cazzo hanno gli altri da guardare. Sarà perché Barbara racconta a voce alta aneddoti tipo “quella ha visto più piselli della padella di non ricordo chi”? La ginnastica alle mascelle ogni giorno rende le nostre facce sempre più sode e allenate. Siamo la compagnia più allegra dell’Hotel. E tutti cominciano a amarci e coccolarci e viziarci.

Grazie alla fama di Vito, riusciamo a ottenere che ogni pomeriggio alle 14.30 qualcuno si senta in dovere di portarci una noce di cocco già aperta. Che squisitezza.

I miei tempi in zona piscina sono limitati al dopo pranzo. Mentre gli altri sono in fase pennichella, alle 15 io sono già in spiaggia a parlare con qualcuno e a insegnare un po’ di italiano. E’ stupendo perché anche i bambini mi aspettano fuori dall’albergo. E’ straordinaria tutta questa voglia di trascorrere del tempo con me. Forse anche io ho un po’ della loro magia, penso.

Chiara. La risata di Chiara è contagiosa quanto quella di Barbara, ma meno sonora. Fatto sta che se una di noi comincia a ridere, la stupidera regna sovrana. La pazienza di Chiara è qualcosa che va all’infinito. Per tutta la vacanza è stata tormentata da una famiglia di suoi clienti che non sono capaci di stare al mondo e chiamavano sul suo cellulare ogni due per tre.

Chiara è la paladina protettrice di tutte le scimmie che popolano il PLR. Si, perché l’albergo è abitato anche da scimmiette che si divertono come matte a rovistare negli zainetti abbandonati dai turisti, alla ricerca di caramelle.

Ma ecco che la guardia, ogni giorno, deve inseguirle con la fionda. E Chiara a urlare: “SCAPPATEEEEE” – e – “tanto non le prendi” E così via.

Un giorno abbiamo assistito allo spettacolo di 16 (sedici!) scimmiette che si sono impossessate della camera di chissà chi. E le abbiamo viste saltare e giocare sul lettone. Un casino. Che risate.

Chissà quanto saranno stati felici quei turisti al loro rientro in stanza.

Chiara è il capo della famiglia mamaChiara-papaEnrico. E’ lei che ha il potere, è lei che diventa Big-mama per tutta la spiaggia.

Diciamo che è colpa di Enrico. Lui, grande affarista, in tre giorni riesce a finire tutto il suo budget portato dall’Italia. Come fa? Siamo sicuri di volerlo sapere? Ok, siamo sicuri.

Lui arriva in spiaggia. Gli dicono: “Questa splendida targhetta col tuo nome costa 70 dollari, la vuoi?” E lui dice: “Si certo.” Con l’atteggiamento di chi vorrebbe dare anche di più se glielo chiedessero, e si domanda perché non gli hanno chiesto 200 dollari per farla finita subito.

“Vuoi questa straordinaria puttanata che nessuno vorrebbe ma che io vendo all’eccezionale prezzo di 1200 scellini?” “Ma come? Solo 1200?” E pensa che darebbe anche le mutande. E infatti alla fine rimane anche smutandato. Da via scarpe, magliette, costume. Tutto, pur di dare.

Diventa chiaro che Chiara gli toglie la possibilità di avvicinarsi ai soldi! E da un certo punto in poi, senti solo Enrico che dice “per questo affare ti devi rivolgere a mama Chiara”. E allora in spiaggia impera sovrano l’urlo “Mama Chiaraaaaa!” Enrico,il suo inglese e la sua propensione per gli affari, fanno più ridere di Vito e della risata di Barbara.

Ogni tanto noi tutti si andava allo Shopping Center. Enrico no, lui andava allo “scioppin scenter”! Più forte di lui. Chissà se mai un giorno riuscirà a dire Shopping Center. Ce lo auguriamo tutti, perché a fine dicembre abbiamo intenzione di tornare proprio li! Un giorno decidiamo persino di andarci a piedi a sto Shopping Center. Idea che mi piace subito tantissimo. Sono circa le 16 del pomeriggio e per strada è pieno di persone che tornano a casa dal lavoro negli alberghi. La mia mania. Parlare con tutti. Ma proprio con tutti he. Riesco a far aspettare i fantastici quattro anche lungo la strada per lo Shopping Center.

Scusatemi, dico, sono un po’ come loro. Ma Barbara dice: “No Roby, tu sei peggio!” Lo prendo come un complimento. La mia fame di conoscenze non si sazia mai. Neanche la mattina del 19 agosto, quando alle 5 arriviamo all’aeroporto di Mombasa e creo una coda fermandomi a parlare con la guardia all’ingresso dell’aeroporto.

Barbara: “ma Roby, come fai a avere tutta sta voglia di chiacchierare anche alle 5 del mattino?” Una sera andiamo a mangiare le aragoste al villaggio dei pescatori. Sicuramente ci aspettavamo un ristorante “vero”. E invece M., che parla un buon italiano, ci porta in questa casa piuttosto malconcia a vedersi. Ci apparecchia una tavola in cortile e chiede a R., suo fratello, di avvitarci una lampadina così possiamo vedere qualcosa 🙂 Barbara dice che non mangerà niente in quel posto, e non toccherà neanche le posate.

Neanche finisce di pronunciare queste parole, che arriva un gran piatto pieno di aragoste, uno pieno di tranci di un pesce enorme, uno pieno di pomodori e insalate, e uno pieno di frutti vari. Papaya, mango, pompelmi e bananine. Le bananine! Che bontà.

Ogni pensiero negativo va via. Applaudiamo il cuoco, sempre R., e ci sbraniamo tutto con gusto. Mangiamo senza posate, solo con le mani, e M. E R. Apprezzano. Si vede che sono felici nel vederci soddisfatti. E ci divertiamo, brindiamo, offriamo loro da bere e li ringraziamo di tutto. M. Non beve per motivi religiosi. R. È della stessa religione ma beve lo stesso. Quasi non volesse rifiutare la nostra cortesia.

Proprio una bella serata.

Torniamo all’albergo e prendiamo posto in una tavolata del ristorante ormai deserto. Parliamo, raccontiamo, ridiamo.

Ridiamo, si, perché è impossibile non ridere quando Enrico racconta di una volta in cui si è dato fuoco al culo in un tentativo di emulare Jim Carrey e di aver sparso per la taverna un gran odore di culo bruciato. Potere dello zolfo.

E per tutta la notte, come nelle notti precedenti e seguenti, le nostre risate echeggiano fino a Mombasa.

Parentesi.

I giorni prima della mia partenza avevo conosciuto una ragazza su un forum che mi aveva detto che sarebbe venuta al P. Con il suo ragazzo nello stesso periodo in cui ci sarei stata io.

Bene, mi dissi, non sarò proprio da sola.

Fin dal primo giorno, scompare. Vengo a sapere in che camera sta, le lascio persino un messaggio, al quale non ottengo risposta nei giorni a seguire. Mi dico che probabilmente è qui per fare una vacanza romantica con il suo fidanzato, per cui non ha poi così tanta voglia di conoscermi.

Con Chiara e Barbara intuiamo chi sia perché di italiani ce ne sono ben pochi al P. Per cui è facile.

Un giorno la individuo tra la folla del pranzo, e mi avvicino dicendole “ma quella che roba è?”, indicando il nuovo piatto del giorno.

Lei mi rivolge la parola e io pronta: “Ma tu sei Paola?” e lei: “Si” e io: “E io sono Roberta, ti ho lasciato pure un messaggio e non ti sei fatta viva.” E lei: “he si, siamo stati al safari, a Wasini, per cui non c’eravamo” E io: “ah capisco.” E tra me e me: Si, ma quando siete tornati e avete ritirato il messaggio – e io l’ho visto che l’avete ritirato almeno due giorni fa – avresti potuto anche rispondermi. Ho pensato. Ma chi se ne frega. Insomma, perché imporre la mia presenza a qualcuno che forse non ha tanta voglia di conoscermi? Per fortuna ho trovato i miei fantastici quattro. E tutte le altre persone che ho conosciuto.

Una delle ultime mattine, mentre prendevo il telo mare in piscina, si è avvicinata a me una donna, molto dolce e con un viso parecchio solare. Maria Grazia.

Mi dice: “Scusami se te lo chiedo… Ma tu, sei qui da sola? Sei forse una ragazza che ha lasciato un messaggio su un forum dicendo che saresti venuta qui dal … Al…!” E io: “oddio, può darsi! Beh, si, su diversi forum…” E lei: “ma daiii, ti sto cercando dal primo giorno in cui io e mio marito siamo arrivati. Sapevo che ci sarebbe stata questa ragazza da sola e ero un po’ preoccupata che potessi rimanere da sola. Ma a vederti in questi giorni, l’ho capito che non avresti potuto restare da sola a lungo.” E ci siamo fatte grandi sorrisi, abbiamo chiacchierato un po’, ci siamo dette che siamo contente di esserci incontrate anche se alla fine, e ci siamo augurate un sacco di belle cose.

E li ho capito la differenza tra chi ha veramente voglia di conoscere e farsi conoscere, e chi finge di avere la stessa voglia e poi scompare.

Fine parentesi.

Durante le lunghe passeggiate in spiagga, un giorno conosciamo F.

F. È un altro beach boy che lavora per una delle tante agenzie che organizzano safari e gite indimenticabili. E’ anche uno dei pochissimi che a Diani parla italiano. E ci propone la gita al parco marino di Kisite con sosta all’isola di Wasini. Ci fa un prezzo che non rifiutiamo e con 5 euro in più otteniamo che nel nostro pranzo siano incluse le aragoste.

E così giovedi andiamo a Wasini. Mi sono divertita quanto mi diverto quando vado a Gardaland. Barbara la racconterebbe come “una giornata da dimenticare”. Ma non è da dimenticare, e lo sa bene anche lei. Ogni istante vissuto insieme è stato pieno di cose buone per i nostri cuori e le nostre menti.

Prima di salire sul battello incontro un ragazzo che vende Chupa Chups con il bastoncino che diventa fischietto una volta che finisci di succhiare la caramella. Penso: “Caspita, un dolcetto e un gioco insieme. Non posso non prenderli. So che sull’isola è pieno di bambini”. Penso anche al dentista, ma è più forte di me. Ne prendo un pacco da 100. Nessuno si accorge di questa mia mossa.

Insieme al nostro gruppo, c’è Franck e i suoi tre figli gemelli. Chi è Franck? Franck è un signore francese (si può dire il nome di un signore francese?) piuttosto affascinante, secondo Barbara, e che sempre secondo Barbara, rimane fulminato dal primo momento in cui mi mette gli occhi addosso.

E io a dire: “ma che dici? ma che dite? ma che ne sapete?” Si, perché poi se ne convincono anche gli altri.

E io sempre a dire: “ma qui si parla soltanto. Voi non avete mai parlato con nessuno?” E mentre noi si parla soltanto, l’oceano fa il suo dovere, e rende la gita piuttosto movimentata.

Innanzitutto ci nasconde i delfini. Poi ci regala onde lunghe e alte, tali da far spaventare un po’ tutti. E io a ridere, e sentirmi quasi a casa, come quando vado in barca con babbo a Gonone e il mare è agitato.

Queste sono onde lunghe, dico. Non avete idea di come sia il vero mare mosso! E mi diverto come una pazza. E’ come Gardaland. Uno dei figli di Franck è verde. Si, decisamente potrebbe vomitare da un momento all’altro. Jambo, jambo bwana… Si, si canta anche in barca. E’ la nostra guida che comincia. Vito lo filma perché è una scena imperdibile.

Che poi mica lo sappiamo se è la nostra guida. Prima di salire sulla barca abbiamo perso la nostra vera guida, per cui siamo saliti senza di lui sul primo battello che ci è capitato.

Comunque, dopo una breve gita che pare agli altri infinita, arriviamo in una sorta di secca. Qui si può fare snorkeling. E io ho pinne e maschera portate apposta. La corrente è forte anche qui. Ma non ho paura della corrente.

Sono la prima a scendere in acqua. Fredda. Si, decisamente fredda. Non vedo l’ora di mettere la maschera, perché sono in mezzo all’oceano e non vedere cosa c’è sotto mi fa sentire un po’ in pericolo. A fine gita mi dicono che c’erano anche gli squali. Per fortuna me l’hanno detto dopo.

Insomma, cominciamo questo giro di snorkeling. In principio siamo io, Franck e i suoi tre piccoli. Divento una specie di supereroe per i suoi figli. Mi seguono ovunque io vada. Restano a bocca aperta a ogni mia immersione. Si chiedono come faccio a trattenere il respiro così a lungo. E anche Franck rimane affascinato. Mi dice che sono come un pesce.

E io gli dico che io SONO un pesce.

Anche la guida mi dice che è bello guardarmi sott’acqua. Che sembra il mio ambiente naturale.

La fauna marina. C’è. Si, c’è. Vedo pesci enormi. I colori sono sul grigio, verde, giallo e nero. Mancano i colori del mar Rosso. Non vedo niente di azzurro. Non ci avviciniamo troppo alla barriera perché è pericoloso per via della corrente.

I bambini tentano di immergersi con me, ma vengono spinti a galla con forza.

Al momento di risalire sulla barca, prendono paura. Si, perché la corrente è veramente forte. Vedo che due di loro non riescono neanche a avvicinarsi. Nuotano e nuotano ma non riescono a raggiungermi. Li vado a prendere e dico loro di tenersi stretti al mio braccio. Nuoto e nuoto, e li porto vicino al salvagente della guida. Gli dico di tenersi forte e di non mollare il salvagente per nessun motivo.

Franck in tutto questo badava al terzo bimbo. Non si accorge delle difficoltà degli altri due. Tant’è che quando poi gli racconto dell’episodio, mi ringrazia e mi dice che non s’è proprio accorto. E si sente proprio in colpa. Gli dico che può capitare, che non si facesse troppe pippe, oramai sono salvi. Quando finalmente siamo tutti in barca, cominciamo a tremare a più non posso. Fa un freddo cane e comincia a piovere.

Ritrovo i fantastici quattro che nel frattempo eran rimasti a bordo. Tremo come una foglia. Che freddo. Piove. Che freddo. Gli omini della barca si adoperano per metterci al riparo sotto un telone enorme. Ma oramai siamo tutti bagnati. Niente di grave.

Smette di piovere dopo pochi minuti. Il mare è sempre più agitato. Leggo negli occhi di Chiara la paura che la benzina non sia sufficiente, e che rimarremo in mezzo all’oceano per sempre. Si sentono dei rumori sempre più forti dal motore, non si capisce se la barca ce la farà a arrivare all’isola di Wasini. Io ho fiducia. Ed eccoci arrivati. La pace. Vengono a prenderci con una specie di piroga a più posti. Per remare l’omino usa un bastone lungo che arriva a toccare il fondo del mare (sarà stato un metro e mezzo di profondità). E allora tutti insieme: OOOOOOOOH ISSAAAA… OOOOHH ISSAAA…

E così fino a riva. E i figli di Franck si divertono e sono più rilassati di qualche minuto prima.

Terra. Finalmente. Eccoli. I primi occhietti e i primi sorrisi. E i primi timidi: jambooo. Che diventano dei JAMBO JAMBO JAMBO infiniti appena apro lo zainetto e tiro fuori i Chupa Chups.

Peremende, peremende. Give me a bon bon. Peremende peremende (peremende=caramella, dolcetto).

Ed eccomi, a dirigere sto traffico infinito di bimbi che sbucano come funghi da ogni parte. One by one. Uno alla volta. E vedi le manine che si tendono verso di te, e gli occhi pieni di lacrime di chi ha paura di non riuscire a prendere neanche un dolcetto. Ma gli insegno a prenderli uno per volta, a lasciare che tutti prendano almeno un chupa chups, e così tutti sono soddisfatti. E quando dico “ONE…”, loro proseguono con “..BY ONE”. Tutti in coro.

E quando intono “Jambo…”, loro mi cantano Jambo Jambo.

E cammino per le vie del piccolo villaggio di Wasini con i bimbi che cantano per me. Alcuni attaccati con la manina alla mia gonna, altri che si attaccano alle dita delle mie mani, e tutti che fischiano con il loro nuovo fischietto. Sono gonfia di lacrime e di amore da riversargli addosso.

Franck mi dice che sono pazza. Mi dice che non ha mai visto una cosa così bella nella sua vita. Mi dice che a un certo punto erano talmente tanti i bambini intorno a me che anche lui s’è sentito le lacrime arrivare agli occhi. Mi dice che i suoi bambini mi adorano. E che non poteva essere altrimenti.

Con Franck parlo un po’ inglese, un po’ francese e un po’ italiano. Un mal di testa. Mi sento come Salvatore, ne “Il nome della Rosa”.

E tutti si chiedono quando avessi comprato sti chupa chups, dato che siamo stati quasi sempre insieme e non si sono accorti. Esatto, quasi. Pranziamo. Mangiamo aragoste, granchi, riso e varie bontà. Ma confesso che le aragoste mangiate da Maurice qualche giorno prima erano decisamente più buone e cucinate meglio, per lo meno erano cotte 🙂 Anche i granchi sono praticamente crudi. Ma hakuna matata. La giornata è bellissima e dunque chissenefrega.

Nell’isola ritroviamo Fr.. Chi è Fr.? E’ la nostra vera guida. Quella che ci siamo persi all’inizio della gita. O meglio, è lui che ci ritrova. Noi l’avevamo già rimosso.

E’ un omino un po’ cicciottello che anche lui, secondo Barbara, voleva qualcosa in più da me. E io sempre: “maccheddici?” Vito mi fa una foto con Franck a tradimento. Vito cerca di combinare sto matrimonio Italia-Francia, ma non ha capito che non s’ha da fare. E io dico anche che è l’inizio di un’amicizia, niente di più. Mi dicono che io sono troppo ingenua. Sulla strada del ritorno, continuo a pensare ai bambini che mi hanno stretto le mani quel giorno. E piango. Piango solo con l’occhio destro, quello dalla parte del finestrino. Perché non mi va di condividere queste lacrime con qualcuno. E’ gioia, è tristezza, è senso di impotenza, è voglia di fare qualcosa, ma cosa? Ci fermiamo al Barclays perché Enrico deve prelevare dei soldi. Ne approfitto per fare un giro per i negozietti. E entro in un mini-market. Parlo con in proprietario. Gli chiedo se ha quaderni, penne e matite. Gli dico che ne voglio prendere una bella quantità. Mi dice che non ce li ha tutti quelli che voglio, ma che se vado da lui domani mattina alle 9.00, me li farà trovare.

E allora è deciso, domani mi faccio portare a scuola da qualcuno, con tutto quel che riesco a comprare al Barclays.

A cena ricordiamo con tanta allegria i momenti vissuti durante quella giornata. E leggo nelle nostre facce che ci vogliamo bene, che siamo davvero felici di averla vissuta insieme.

Parentesi telo mare Non ho portato il telo mare dall’Italia e non è possibile portar fuori dall’albergo i teli che vengono distribuiti gratuitamente in piscina.

Per cui per la gita a Wasini ho preso in prestito uno degli asciugamani del bagno.

Forse avrei dovuto avvisare John. Ma non l’ho fatto. E John nel pomeriggio è venuto da me, con una tristezza in volto che ancora se ci penso metterei la faccia dentro il cesso e tirerei lo sciacquone.

Mi ha detto che il suo capo l’ha rimproverato perché mancava un asciugamano dalla mia camera. L’ha accusato di averlo rubato lui e di esserselo portato a casa. Gli ha detto che se non avesse fatto riapparire quest’asciugamano, avrebbe dovuto ripagarlo o avrebbe perso il lavoro.

Mi sono sentita una gran schifezza. Ho spiegato a John che non avevo un telo mare e che ne avevo bisogno per Wasini. Che non pensavo di nuocere a nessuno. E allora ho scritto un biglietto per il suo capo, dicendogli che ero stata io a prendere l’asciugamano, e che John è una brava persona. Che quella cattiva ero io.

Il suo capo l’ha letto e mi ha sorriso. Mi ha detto che sono proprio una brava ragazza e che la prossima volta devo avvertire qualcuno se porto via un asciugamano.

John mi dice hakuna matata. Mi abbraccia e ricomincia a sorridere.

E io ancora oggi sento enormi sensi di colpa per i brutti momenti che gli ho fatto passare con il suo capo.

Fine parentesi.

I fantastici quattro, diventano tutti miei genitori. Ogni volta che mi allontano per troppo tempo, al rientro in albergo mi fanno capire che sono stati in pensiero. Si preoccupano per l’estrema fiducia che do a chiunque mi si avvicini e mi proponga di fare qualcosa, sia che sia una passeggiata, sia che sia una visita al villaggio di Ukunda, sia che sia qualsiasi cosa. Io dico sempre si, con piacere.

E vado a Ukunda un po’ di volte senza di loro. Con una guardia del corpo diversa ogni volta.

E a ogni mio rientro a “casa”, Barbara e Chiara mi fanno capire che oltre al fatto che hanno sentito la mia mancanza, si sono anche preoccupate molto. Che dolci. Imparo a voler loro un sacco di bene. E mi mancheranno da impazzire quando andrò a fare il safari senza di loro.

La mia prima volta senza di loro a Ukunda è con J. (il primo J… Si perché poi ne incontrerò degli altri).

Chi è J.? E’ un ragazzo jamaicano trapiantatosi in Kenya 4 anni fa. E’ gentilissimo con me. E è il primo dei ragazzi della spiaggia a cui ho voluto veramente bene. Il primo a cui ho cominciato a insegnare un po’ di italiano.

Mi porta in giro per il villaggio. Gli spiego che voglio fare dei regali ai bimbi, per cui mi accompagna al Barclays a prendere dei quaderni, matite, penne e non ricordo che altro. Ho la mia scorta portata dall’Italia, ma ho paura che non sia sufficiente. E poi mi accompagna per le strade del mercatino di Ukunda, quello che generalmente non viene fatto visitare ai turisti. E li compro un sacco di palloni. Si, perché i bambini vogliono giocare a palla. La felicità è nel pallone.

Andiamo in una scuola, dove lascio parte del bottino acquistato. Il direttore mi ringrazia, mi racconta dei progetti in ballo per migliorare la scuola, mi accompagnano in giro per le classi. I bambini non ci sono. Sono in vacanza per due settimane. Non importa. Al loro rientro troveranno i miei regali.

In giro per Ukunda i bambini seguono i nostri movimenti e ci accompagnano. Quando intono “Jambo, jambo bwana…” un coro di voci squillanti e allegre continuano e cantano inseme a me. Quanta gioia ti possono regalare tutti quei bambini. Che mal di pancia dalla felicità. E riempio di doni tutti quelli che incontriamo. J. Mi porta nei quartieri più poveri, quelli dove generalmente le guide degli alberghi non ti portano, e dove lascio palloni a ogni gruppo di bimbi che incrociamo.

Stanchi dell’enorme camminata, ci fermiamo in una specie di bar a bere qualcosa.

J. Mi dice che sono “crazy”. Che non ha mai conosciuto una ragazza come me. Che sono un angelo caduto dal cielo. Che i miei occhi sono già un bel regalo per tutti quei bambini. Che lui sarà la mia guardia del corpo anche quando tornerò in Italia. Perché io sono un angelo da proteggere per sempre.

Mi commuovo come una bambina. E mentre mi accompagna al P. (albergo), sul matatu piango come una disperata ripensando al pomeriggio in mezzo a tutti i pupi, alle parole bellissime che mi son state dette, alla bellezza delle cose semplici, alla ricchezza che ho trovato e che non c’è nel mio mondo. Ho visto che anche J. Aveva le lacrime agli occhi.

Al rientro in albergo, trovo Franck che mi aspetta in reception. E’ venuto a portarmi i binocoli per il safari. Gentilissimo. Gli avevo detto di non essermeli portati dall’Italia, e lui mi ha subito detto che ne aveva quattro, e che uno me l’avrebbe prestato volentieri.

Piove tanto e lui è venuto lo stesso. E nella mia testa rimbomba la vocina di Barbara che dice: “questo è cotto!” E forse l’ho pensato anche io, la sera in cui sono andata all’Indian Ocean a restituirglieli. Partiva di mercoledi, e mi ha detto tante belle cose. Roberta, non devi cambiare, sei molto generosa, anche se il mondo in cui vivi ti porta a non esserlo, non cambiare, sei una bravissima persona, i miei figli ti trovano meravigliosa. E cose così. Ci scambiamo gli indirizzi email, a presto, a presto.

Prima di andarci con J., a Ukunda ci sono stata con Vito e Barbara. Abbiamo preso il taxi dall’albergo, perché ancora non sapevo dell’esistenza del matatu.

Il nostro taxista è stato gentilissimo. Non ci ha persi di vista un attimo. Ci ha portati dove il cambio euro-scellini era più favorevole, ci ha aiutati a capire come funzionano le schede keniote Safaricom, ci ha fatto ascoltare Jambo Jambo e Pole pole in macchina.

Mentre acquistiamo le schede telefoniche, dei bimbi incuriositi ci aspettano fuori dal negozio. Il più basso di tutti, il più piccino, con una maglietta gialla che gli arriva fino alle ginocchia, sicuramente dono di qualche turista, trova coraggio, entra, viene verso di noi, ci tende la manina (la manina più piccola del mondo), stringe la mano a ognuno di noi e esce senza dire niente, col fare di chi fa abitualmente cose del genere.

Vito si commuove al punto che gli si vedono sbucare due lacrimucce all’angolo degli occhi. Il lato tenero di Vito.

Parentesi. Le serate al PLR (albergo).

Ogni sera alle 21.30 è previsto uno spettacolo diverso. Acrobati, ballerini, maghi e masai ci regalano ricordi bellissimi.

Ma quello che ci ha regalato più risate e buon umore in assoluto è il complessino del venerdi. Suonano le canzoni che oramai conosciamo a memoria. Jambo jambo e pole pole, Kilimanjaro e compagnia bella.

Il cantante è il vero protagonista. Appena scorge l’obiettivo di una telecamera o di una digitale, si esalta e regala il meglio di se tra balletti e ancheggiamenti. La nostra ultima sera lo facciamo scatenare all’impossibile. Gli scrivo un biglietto con la formazione della Nazionale Italiana. E gli faccio leggere i nomi uno per uno. Ogni nome diventa un’aola al nostro tavolo. OOOOOLEEEE’! E a fine Formazione c’è scritto “italia campione del mondo!”. Lo legge, e le nostre urla diventano più forti. Di fianco a noi un tavolo di francesi. Uargh! Ridiamo come pazzi. E la settimana prima, c’erano con noi le due famiglie italiane più belle che potessimo incontrare. Marco e la sua famiglia ci hanno regalato tante di quelle risate aggratis, che difficilmente le dimenticheremo. Marco una sera mi ha accompagnata a fare un giretto in spiaggia con suo figlio e il figlio di Gianfranco. Mi dice che in questi giorni mi ha osservata molto e che m’ha vista parlare proprio con tutti. Che oramai sono la regina della spiaggia e che nessuno si può permettere di farmi del male, perché sennò accorrono numerosi per proteggermi.

Seduti al tavolino del bar della spiaggia, tutti ricordiamo vari episodi in cui ognuno di noi è stato protagonista. E via a parlare degli affari di Enrico, dei furti di brioches di Chiara (che erano poi destinate ai bimbi in spiaggia), delle battaglie in piscina di Vito, delle risate di Barbara e della mia canottiera dell’Unicef. Quanta allegria. E quanta serenità.

Era davvero tantissimo tempo che non mi sentivo così BENE.

Fine parentesi.

Un’altra volta a Ukunda è stata con A. j. Se l’è presa per il fatto che io abbia accettato di farmi accompagnare da qualcun altro. Ma questo verrà dopo.

Chi è A.? Ho prenotato il safari di due giorni allo Tsavo East in spiaggia con A1. Di un’agenzia locale. A1. Dopo una breve trattativa, mi ha fatto un buon prezzo (150 euro) e io ho accettato.

A. È stato la mia guida al safari. Abbiamo legato subito. A differenza degli altri ragazzi conosciuti a Diani Beach, lui parla anche un po’ di italiano. Ci siamo presi in giro dalla mattina presto (dalle 5.00!!!). E ogni pausa al safari l’abbiamo sfruttata per scambiarci due battute.

Vito e il resto della truppa non sono venuti con me. Vari motivi, paura dei leoni, paura della malaria, paura di niente e di tutto. E pigrizia 🙂 I miei compagni di pulmino sono italiani anche loro. Chi di Napoli, chi di Milano, chi di Roma. Lì per lì leghiamo subito. E facciamo comunella. Il mio preferito è Salvio.

Confesso che sono tutti meno affettuosi dei miei VERI compagni di avventure.

Preferisco passare i momenti di relax con A. Alla sera rimango a chiacchierare con lui fino a mezzanotte, per poi sentirmi dire che in 5 anni che fa la guida, nessuno si era mai fermato a dedicargli così tanto tempo, nessuno dei suoi clienti ha mai parlato con lui fino a notte fonda.

“Io sono speciale” Gli dico. “E’ vero” Mi dice lui. E mi dice anche che sono anche una regina.

Mi racconta della sua famiglia. Lui è decimo di 15 fratelli. Mi parla del dolore provato per suo fratello di 12 anni morto un mese prima per un cancro alla gamba sinistra. Mi racconta di suo padre, di quanto gli abbia voluto bene, e di quanto abbia sofferto quand’è morto di malaria. Mi dice che uno dei suoi fratelli vive in Germania ed è sposato con una tedesca. Mi dice che ha due nipotini, e che da quando suo fratello vive in Germania è più grasso.

Mi chiede del mio mondo, mi chiede se in Italia la gente è tanto diversa da quella che incontri in Kenya. Si, gli dico. Tanto diversa. Gli dico dei miei infiniti lavori, cerco di spiegargli che anche nel mio mondo la vita è dura. Ma come si può fare un paragone? In Italia vedi per strada persone morte che non sanno di essere morte.

Gli parlo di prosciutti negli occhi, e lui ride perché immagina per davvero la gente con i prosciutti sulla faccia.

Quanto siete belli qui, gli dico. Belli dentro intendo. Belli da mozzare il fiato.

Ci auguriamo la buona notte e il giorno dopo alle 5.30 facciamo colazione insieme e vediamo i primi bufali arrivare a bere alla pozza d’acqua sotto il Voi Lodge. Gli altri ragazzi italiani che erano con me si svegliano alle 6.

Alle 6.30 prendiamo il pulmino per il safari mattutino. Speriamo di vedere i leoni che fanno colazione. Il giorno prima abbiamo visto elefanti, gazzelle, giraffe, impala, dik-dik, ghepardi, ippopotami, leonesse (taaaaaaaaante!), bufali e non ricordo che altro. Tutti immortalati nella mia digitale, insieme a un tramonto mozzafiato. Inutile dirlo, ma anche la savana mi ricorda la Sardegna. Stessa vegetazione, stessi colori dell’autunno, e a tratti, stessi odori.

Riusciamo anche il secondo giorno a vedere quasi tutto il meglio della savana. La terra rossa, i quadri fatti con i pastelli di mamma natura, nuvole scolpite sul cielo da uno bravo, giraffe che ti salutano con le orecchie, leonesse che banchettano intorno a un bufalo morto e sbudellato, dik-dik per fortuna sempre in coppia. Si, per fortuna, perché A. Mi ha detto che i dik dik viaggiano sempre in coppia, e se uno muore, l’altro muore di nostalgia. Di rientro dallo Tsavo ci fermiamo a una sosta pipì. E’ incredibile come i bambini sbuchino come funghi appena tiri fuori una matita dallo zainetto. E eccoli, pronti, appena mi vedono mi corrono incontro e si mettono in fila. In verità sono io che li metto in fila. L’ho imparato a Wasini. E anche a loro dico “one by one”, uno per volta, e loro si mettono in fila. E se dico solo “one…” anche loro proseguono con “…By one!” tutti insieme.

Sono proprio una brava maestra 🙂 Ci fermiamo anche a un villaggio masai, dove bambini e adulti ballano per noi. Io sono concentrata sui più piccoli. Abbiamo biscotti, caramelle, penne, quaderni e un pallone bellissimo per loro. Altre scene strazianti di visetti che temono di non riuscire ad avere la loro porzione di tutto quel tesoro. Ma il capo villaggio è saggio. Li fa inginocchiare, e man mano che ognuno di loro ottiene qualcosa, li fa allontanare per lasciar spazio a chi ancora non ha avuto niente.

E’ una scena bellissima. Scolpita anche questa nel mio cuore.

Come tutto il safari, me lo porto dentro, e se l’ho vissuto così bene è anche merito di A. Si, ho avuto buoni compagni di viaggio, ma nessuno mi è entrato nell’anima quanto lui. Mi affeziono al punto che accetto il suo invito a andare insieme a Ukunda a ferragosto. Mi dice che se voglio portare altre cose ai bimbi, lui mi accompagna volentieri. E dirò di più. Una volta a Ukunda, è lui che compra i palloni per loro. “Mannò A.!! Devo prenderli io. Tieniti i soldi per le tue cose…!” Come potevo dirgli che lui aveva bisogno di tenerli da parte per sopravvivere? La sua risposta: “Roby, tu hai già fatto tanto in questi giorni – riferendosi a tutti i villaggi presso cui ci siamo fermati di rientro dal safari, e in cui ho lasciato traccia di me a ogni angolo – ora lascia fare qualcosa anche a me.” Il suo gesto mi spappola il cuore e un nodo enorme mi si forma in gola. E non solo per questo, insiste anche per pagarmi il matatu!!! A., Tu non puoi, volevo dirgli. Tu devi tenerti i soldi per mangiare. Ma era così felice che non volevo essere io a spegnere quella luce che veniva dai suoi occhi.

Andiamo a casa di suo fratello. E’ una casa fatta di mattoni in cui non vive solo lui. E’ una specie di dormitorio dove ci sono anche delle famiglie. Il fratello di A. Ha perso la vista a all’occhio sinistro per una botta presa mentre giocava a pallone. Non aveva i soldi per farsi curare, per cui col tempo la vista è andata a farsi fottere. Racconti forti. Ma tutti col sorriso sulle labbra. Cortesia, dignità e umiltà. Non voglio andarmene da qui. Devo fare qualcosa. Devo fare qualcosa. Devo fare qualcosa.

Sento voci di bimbi dalla strada. Nel mio zainetto ho una scorta di Chupa Chups. In un batter di ciglia si forma una nuvola di bambini davanti alla porta di casa. Quante risate, quanti jambooo!, quanti occhioni. Il mio cuore si spappola e si ricompone a ogni angolo di Ukunda.

Racconto la mia giornata a Chiara e gli altri. E lo vedo nei loro occhi che sono contenti per me, per il fatto che sono ancora viva, per il fatto che ho fatto bene a fidarmi di A., e per la gioia che sicuramente mi si legge in volto.

Una sera vado, sempre con A., in un locale di Ukunda. Si chiama Masai Club. Entriamo. Tutto buio. Tutti scuri. Si vedono solo occhi e sorrisi. E dall’oscurità arrivano delle voci. Si, son tante voci che in coro chiamano: “Robertaaaaaaaaaaa! Come on! Robertaaaaaaaaa!” Giuro, mi si formano immediatamente le lacrime agli occhi. Trovarmi in un paese che non è il mio e dopo neanche 10 giorni venire riconosciuta in un locale dalla gente del posto, è per me una grande conquista.

A. Mi guarda esterrefatto: “ma come? Conosci più persone tu di me?” E scoppia in un’enorme risata.

A quanto pare si, qui c’è qualcuno che mi conosce. Ma con sto buio non si vede a chi appartengono quelle voci. Mi avvicino al punto da cui arrivano e… E sono i miei ragazzi. Si, sono i miei studenti della spiaggia. Mi invitano a sedermi con loro, mi dicono che sono contenti di vedermi anche la sera, e soprattutto che sono contenti che non ho paura a uscire dove escono loro.

C’è chi mi dice che avrei dovuto accettare anche il suo invito prima o poi, ma io rispondo che a breve partirò, che sarà per la prossima volta.

Parliamo un po’ e aspettiamo lo spettacolo di danze africane che ci sarà a breve.

Una serata bellissima. Quando A. Mi riaccompagna al PLR (albergo), mi abbraccia forte, ci salutiamo, vado in stanza e mando un sms a Chiara per dirle “mama, sono tornata, tutto bene, sono viva, ci vediamo a colazione.” Il tempo corre via, e l’affetto che mi lega ai ragazzi a cui insegno italiano diventa sempre più grande. L’attaccamento a loro è così forte che viviamo in simbiosi. Arrivo in spiaggia, e loro vengono verso di me.

Gli ultimi tre giorni sono tutti per loro. C. Mi racconta della sua camera da letto. Mi dice che se un giorno vorrò andare a casa sua dovrò essere forte, perché mi verrà da piangere. Gli dico che mi viene da piangere anche solo al sentirgli dire queste cose.

Mi fa una carezza e mi dice: “That’s life baby! Hakuna matata!” Hakuna matata? Ma come fate? Ragazzi come fate? Mentre G. Ricopia le ultime lezioni sul suo quaderno, R. Mi chiede se ho voglia di passeggiare con lui. Dice che sono due settimane che mi aspetta, che ha lasciato che passeggiassi con tutti, che comunicassi con chiunque, e che ora tocca a lui. Mi prega di dedicargli del tempo.

Gli dico che non è necessario che mi preghi 🙂 Andiamo.

E camminiamo e parliamo, e studiamo. Gli indico le cose, gli dico il loro nome in italiano e lui me lo dice in inglese per farmi capire che ha capito. E poi facciamo il contrario. Io gliele indico chiamandole in inglese, e lui deve dirmi il nome in italiano.

Diventa un gioco divertente. Lui ha un gran senso dell’umorismo. Mi indica cacca di cammello e mi dice: “conchiglia! Vuoi?” Arriviamo quasi fino al SPR (altro albergo, di cui ho omesso il nome, non sia mai che faccia pubblicità. Siamo pazzi?). ). 8 km di passeggiata intervallati da momentanei temporali durante i quali troviamo rifugio in mini capanne abbandonate. E qui inventiamo storie di fantasmi e misteri.

Al momento di tornare indietro, mi dice che ha un regalo per la maestra, perché questi sono gli ultimi giorni di scuola. Mi dice che l’ha preso il giorno prima a Ukunda per me. E’ una collanina. Mi dice che l’elefante porta fortuna. E io gli credo. E l’abbraccio forte.

Giovedi e venerdi passo ancora del tempo con lui e gli altri ragazzi. Giovedi sera mi dice che il suo vero nome non è R. Mi dice che è un nickname, che tutti in spiaggia usano dei nickname. Mi chiede scusa per avermi mentito. Gli dico che anche io ho un nickname, glielo spiego, e si sbellica dalle risate.

Si chiama J. Anche lui. E lo confesso, è il mio studente preferito e dopo vengono G. E C.

Credo che i momenti più belli me li abbia regalati lui negli ultimi tre giorni. La semplicità con cui guarda alle cose, la sua simpatia, la sua voglia di imparare e comunicare, il suo spiccato senso dell’umorismo, la sua dolcezza, le sue storie, la sua passione per il cinema, i suoi “be careful” ogni volta che stavo per mettere un piede su un sasso, ogni istante è una fotografia che conserverò gelosamente nella memoria.

Ci promettiamo che al mio ritorno, andremo a Malindi insieme, così mi farà conoscere la sua mamma e i suoi fratelli.

Anche A. Mi promette che mi porterà a Malindi dalla sua mamma quando tornerò. Magari si potrà andare tutti insieme.

J. (l’altro, quello della Jamaica) mi fa una piazzata incredibile per tutta la confidenza che ho dato anche a altre persone dopo di lui. Pensava d’avere l’esclusiva. Cerca di farmi sentire in colpa. Mi fa piangere. Mi chiede scusa. Mi dice che ha sbagliato. Mi dice che non mi dimenticherà. E che parte del suo cuore partirà con me quando andrò via.

L’ultimo giorno è davvero straziante per tutti. A colazione Vito sorride a metà, Barbara non parla quasi, Chiara e Enrico sono tristi anche loro. Io non faccio che piangere. E anche J. (R.) piange. “No one will take your place in our hearts”.

Il direttore del PLR (albergo) viene al nostro tavolo e dice: “Ragazzi, voi potete partire, ma LEI – indicando me – deve restare qui!” Sconvolgente. Gli dico che io resterei volentieri se lui mi offrisse un lavoro. Lui mi dice che ce l’ha un lavoro per me.

Oddio, che faccio, così su due piedi… Non ho più soldi. Torno in Italia e poi ritornerò, gli dico. Mi dice che ho promesso, e che le promesse si mantengono.

Dj Shabani la sera di giovedi mi chiede di ballare con lui prima di salutarci. Mi dice che si impegnerà e studierà italiano. Lascio a lui il mio quaderno con le lezioni. Mi promette che quando ci rivedremo saprà dirmi qualcosa in più nella mia lingua. E io gli prometto che quando tornerò saprò qualche parola in più di swahili.

Mi dice che sono un angelo. E io gli dico che lo so, e che me lo dicono tutti. Lui ride 🙂 Il 18 mattina alle 8.00 il bimbo Alì mi aspetta all’ingresso del PLR (albergo). E io arrivo puntuale. Con la borsa e con i regali per sua sorella. Mi dice che Dio mi benedica, e mi protegga, perché me lo merito. E mi abbraccia.

Anche i ragazzi del bar, tutti keniani, mi dicono che non posso andare via. Che sentirebbero la mia mancanza, che se voglio, posso restare a vivere nelle loro case.

John (il cameriere, è pubblicità questa?) venerdi mi abbraccia più forte che gli altri giorni. Gli lascio una mancia per tutte le cose carine che ha fatto per me. Mi dice che Dio mi benedica. E che non si dimenticherà mai di me.

Il cuoco mi dice che ora resterà senza Italian Teacher. Che si aspetta di rivedermi presto.

Ho un regalino per tutti. Voglio che si ricordino di me. Sono sopresine degli ovetti kinder. Ne regalo una a ognuno di loro. Mi sorridono e si illuminano di gioia. You are a crazy girl. Fino all’ultimo mi sento dire questa frase.

Regalo una saponetta alla donnina della colazione. Mi bacia e mi abbraccia e mi dice che sentirà la mia mancanza, perché io sorrido, perché io le ho parlato ogni giorno, perché quando mi vedeva arrivare alla mattina sapeva che avrebbe scambiato due chiacchiere piacevoli e la sua giornata sarebbe stata più bella. Mi dice che mi aspetta anche lei e che potrò fermarmi da lei a dormire ogni volta che vorrò.

Humphrey, il barista, mi da il suo indirizzo, io gli do il mio, con il mio numero di telefono. Gli dico di passarlo anche agli altri. E così da allora, ci sentiamo spesso, ci diciamo che ci manchiamo, e che non vediamo l’ora di riabbracciarci tutti.

Ho promesso che tornerò perché ho amato intensamente ognuna delle persone che ho incontrato.

Il mio cuore è rimasto là, in riva al mare, a seguire la bassa e l’alta marea, a aspettare i momenti delle passeggiate, a ricordare ogni abbraccio e ogni risata, a farsi coccolare dai canti dei bambini, a conservare per me il posto che mi spetta.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche