Di fachiri neanche l’ombra

L’India sono loro Prima di partire per questa nuova meta, così esotica e controversa (qualcuno la ama, qualcuno la odia), facciamo visita ad amici italiani che conoscono l’India molto bene; siamo in cerca di buoni consigli. Loro ci spiegano che ‘l’India sei tu’, ovvero: sono la tua personalità ed il tuo atteggiamento a determinare il...
Scritto da: _ba_
di fachiri neanche l'ombra
Partenza il: 15/10/2007
Ritorno il: 30/10/2007
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
L’India sono loro Prima di partire per questa nuova meta, così esotica e controversa (qualcuno la ama, qualcuno la odia), facciamo visita ad amici italiani che conoscono l’India molto bene; siamo in cerca di buoni consigli. Loro ci spiegano che ‘l’India sei tu’, ovvero: sono la tua personalità ed il tuo atteggiamento a determinare il rapporto che vai ad instaurare con questa colorata nazione.

Ci ho pensato molto ed ora che l’ho vista posso esprimere un’opinione anch’io: l’India sono loro. Gli indiani.

Un miliardo di persone, e si vede! Ti avvolgono non appena arrivi, ti parlano, ti toccano, ti cercano, ti prendono in giro, cercano di truffarti, ti danno il benvenuto, vogliono venderti qualcosa, chiedono l’elemosina oppure la mancia, insomma riempiono un mondo dove odori, colori, musica, abitudini, tutto è diverso da quello a cui siamo abituati. E’ un vero shock culturale, perché la personalità dell’India è fortissima e si esprime in tutti i contesti: persino ciò che ha provenienza occidentale viene masticato, indianizzato e digerito. La musica pop esiste; ma soltanto in hindi o in punjabi o comunque cantata da star indiane. Il cinema è popolarissimo; ma non quello di Hollywood, bensì quello di Bollywood, con i suoi musical, le storie simili a telenovele, le sue stelle, le sue regole.

L’odore delle spezie, la puzza dei rifiuti organici, l’inquinamento dei gas di scarico ed il profumo dell’incenso e dei fiori si mescolano e ti stordiscono. Cumuli di immondizia si innalzano ovunque, dal momento che i cassonetti non esistono e gli scarti si buttano per terra.

Le mucche ci sono davvero: si aggirano placide per le città, ostacolano il traffico, sporcano, si nutrono di rifiuti. Anche i maiali grufolano nell’immondizia, mentre in alcune città le scimmie saltano da un tetto all’altro. Puoi veder passare per la strada un elefante che porta un secchio con la sua proboscide oppure un dromedario che traina un carretto carico di merci. Le donne, simili a fiori appena sbocciati, indossano i loro coloratissimi sari ed i loro gioielli d’oro e d’argento. Molti uomini portano il turbante o gli orecchini. Il traffico è impressionante: auto, motorisciò (api rimaneggiate per fare da taxi, colorate di giallo e di verde), ciclorisciò (trainati da biciclette), pedoni, biciclette, vespe, motociclette, camion, autobus… guidano a sinistra, lanciati alla massima velocità e con il dito premuto sul clacson. Le regole della strada, come ogni altra cosa, sono soggette a contrattazione: puoi vedere un autobus che cambia una gomma, fermo sulla corsia centrale dell’autostrada; oppure un motorisciò che imbocca una via contromano o ancora che si butta fuori dalla strada vera e propria per sorpassare, facendo lo slalom sullo sterrato in mezzo agli alberi, con dietro due italiani di vostra conoscenza che si tengono aggrappati al sedile… La povertà è tanta e si vede. C’è gente che dorme sui marciapiedi, oppure in tende precarie vicino alla strada. Altri stanno appena meglio ed occupano baracche fatiscenti, in quartieri dove non esistono né fogne né acqua corrente; la gente lava i panni con l’acqua del pozzo e si accoccola dove capita per provvedere ai propri bisogni. Gli storpi e i lebbrosi ti passano accanto. I bambini frugano nei cumuli di immondizia, per raccogliere carta e plastica da rivendere a chi le ricicla. Un ratto attraversa la strada. La mano tesa dei mendicanti e la consapevolezza della povertà fanno davvero riflettere: è un ricordo che ti riporti a casa.

I bazar sono il cuore di ogni città o piccolo paese. Possono offrire ogni genere di merce, dalle stoffe di tutti i colori alle onnipresenti frittelle, mentre il venditore ambulante di the con latte percorre le vie con in mano una teiera e lancia il suo richiamo: – Ciai, ciai… Non esistono bar o panchine dove fermarsi a riposare. Bisogna andare e andare, dal mattino alla sera. Per fare una pausa c’è solo un sistema: pagare un biglietto ed entrare a vedere un monumento o un parco, dove d’improvviso ci si ritrova circondati di pace, con gli scoiattoli che corrono nel prato e i pappagalli che cantano. Io e Stefano abbiamo deciso. L’India la amiamo.

Okkio alle penne Mai distrarsi: qui bisogna stare all’erta. C’è sempre qualcuno che ti propone qualcosa e spesso in realtà intende amichevolmente… fregarti.

Arriviamo all’aeroporto di Delhi alle 6 del mattino e dopo neanche mezz’ora già provano a truffarci. Siccome sapevamo che tra fuso orario e viaggio saremmo atterrati sfiniti, per la prima notte abbiamo prenotato una camera d’albergo dall’Italia, quindi appena arrivati saltiamo su un (presunto) taxi per farci portare all’hotel. Dopo una decina di chilometri (siamo ancora molto lontani dalla nostra meta, ma noi non lo sappiamo), il taxi accosta e chiede ad un passante dove si trova il nostro albergo. Il passante ovviamente non lo sa. Allora l’autista si ferma davanti ad un (presunto) ufficio informazioni e mi fa entrare, in teoria per chiedere dov’è di preciso il nostro hotel. Stefano resta in macchina, dal momento che il nostro primo sospetto è che il (presunto) taxista voglia fuggire con i bagagli. Invece l’idea di base è molto più creativa. Subito arriva un complice, il titolare dell’agenzia, che mi chiede il numero di telefono dell’albergo e (sembra) lo digita per chiamarlo. Poi mi passa la cornetta, e di là c’è un tizio che sostiene di lavorare alla reception del mio hotel, mi chiede chi sono e poi mi dice che gli dispiace, ma non esiste nessuna prenotazione a nostro nome e l’albergo è pieno, inutile andarci, tanto non c’è posto. D’un tratto, ci vedo chiaro! Ecco da dove arriva la puzza di bruciato: ci vogliono portare in qualche altro hotel, dove pagheremmo una follia per coprire anche il costo della provvigione per taxista e titolare d’agenzia – ovvero, i procacciatori del cliente. Riattacco, punto i piedi e con petulanza tutta femminile pretendo che mi portino al mio albergo, non me ne importa niente se è pieno, io pago per andare lì e solo lì, eccetera. La finta crisi isterica funziona: ripartiamo e arriviamo a destinazione, dove, ovviamente, c’è una camera che ci aspetta. Nello stesso giorno, sperimentiamo anche il tentativo di furto. Stiamo camminando per le vie di Old Delhi, ancora spiazzati dal nostro primo contatto con l’India, quando arriva di corsa un bambino di 3 o 4 anni, bellissimo e stracciato, che ferma Stefano mettendogli le manine sulla pancia e strillando allegro nella sua lingua. Stè lo guarda intenerito… è un bambino irresistibile… però nel frattempo io noto che ce ne sono altri 10 che stanno accorrendo e che le manine del bimbo si sono spostate e, guarda caso, ora stanno proprio sopra la borsa di mio marito… acchiappo marito e borsa e me li porto via senza tante cerimonie.

Un giorno da star Un giorno, in un passato lontano, arrivarono i persiani e si presero l’India del nord. Portarono l’islamismo e molte loro abitudini, per esempio quella di prendersi 200 mogli o concubine e di tenerle nascoste in un harem perché nessuno le potesse guardare con desiderio.

Inevitabilmente però, sotto molti altri aspetti vennero masticati, indianizzati e digeriti. Quasi tutti i loro sudditi rimasero legati alla religione indù.

La dinastia musulmana più importante fu quella dei Moghul, che regnarono da Agra e Delhi, lasciando dietro di sé grandiosi palazzi in marmo e arenaria rossa, impreziositi da sculture sottili come ricami di pietra, da ampi giardini e giochi d’acqua.

Il Maharajà Shah Jahan era molto legato a sua moglie, la persiana Mumtaz Mahal. Quando lei morì di parto, dando alla luce il suo quattordicesimo figlio, il dolore del marito fu così grande che decise di costruire un grandioso mausoleo a imperitura memoria del loro amore. Il monumento, ‘una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo’ (R. Tagore) è tutt’oggi un luogo stupendo, romantico simbolo dell’India e patrimonio storico del mondo intero: si chiama Taj Mahal.

Bianche cupole, decorazioni floreali fatte di pietre semipreziose incastonate nel marmo, minareti che svettano ai quattro lati del complesso, giardini lussureggianti attraversati da corsi d’acqua in cui il monumento si rispecchia: è davvero uno spettacolo da non perdere. E infatti, migliaia di turisti si recano ogni giorno a visitare il Taj Mahal.

Arriviamo anche noi, due italiani in un mare di indiani. A quanto pare, la stagione turistica è in ritardo a causa di due bombe esplose rispettivamente in un cinema in Punjab ed in una moschea in Rajasthan. Una cosa è certa, in giro di occidentali se ne vedono davvero pochi e qui in particolare non ce ne sono per niente. Quelli esotici, qui, siamo noi. E questi 10.000 turisti indiani sono armati di macchina fotografica e non hanno paura di usarla.

– Please, please, one picture! La prima richiesta ci sembra originale. Ci lasciamo fotografare in mezzo a un gruppo di giovani studenti. Poi però ci si avvicinano sempre più persone: bambini, coppie, gruppi di amici adolescenti, famiglie, persone anziane… ci scattano decine e decine di foto, a noi scappa da ridere, neanche fossimo attori della televisione! I più timidi si accostano facendo finta di niente, mentre un loro amico scatta la foto di nascosto. I più coraggiosi mi mettono una mano sulla spalla, dopo aver chiesto il permesso a Stefano, che si sta divertendo troppo per essere geloso.

Alla fine della visita siamo sfiniti, ma abbiamo vissuto… un giorno da star!

Da qua a là Proviamo di tutto: treni e autobus di tutte le categorie.

I treni sono comodi, però per fare il biglietto bisogna passare un sacco di tempo in coda. Tutto sommato, noi abbiamo pochi giorni di vacanza, quindi scegliamo spesso di prendere l’autobus, che in media per percorrere 200 km impiega almeno 6 ore.

Delhi – Agra. L’autobus è di medio livello: gli ammortizzatori non esistono, però c’è la TV che trasmette film di Bollywood. Stefano, che il giorno prima ha buttato giù senza problemi un bicchiere d’acqua di rubinetto, cosa che non bisognerebbe assolutamente fare (lui lo sa, ma lì per lì non ci pensava), non si sente tanto bene.

Pushkar – Jodhpur. Prendiamo uno di quegli autobus che fanno tutte ma tutte le fermate, viaggiano su strade sterrate ed hanno gente persino sopra al tetto. Sembra un film.

Jodhpur – Jaisalmer. Stefano è seduto vicino al finestrino aperto. L’autobus fila a tutta velocità, clacsonando come al solito e schivando le mucche che attraversano la strada. Tre file avanti a noi, un signore emette strani rumori… poi si gira verso l’esterno e sputa. Lo scaracchio però, invece di cadere a terra… rientra dal finestrino aperto e colpisce Stefano nell’occhio!!! Stiamo ancora rabbrividendo dallo shock, quando parte il secondo sputo… fuori, dentro, splatch! Sul braccio di Stè. Parte la trattativa per riuscire a chiudere il finestrino, dato che il signore del sedile davanti non ne vuole sapere; alla fine lo convinciamo ad accostarlo un po’. Appena in tempo… una ragazzina si sente male, si affaccia fuori e comincia a dare di stomaco! Stefano mi salta in braccio con agilità straordinaria, ma perlomeno stavolta è salvo: il vetro è sporco, ma solo sulla parte esterna.

Jaisalmer – Delhi. Sono 900 km, 20 ore di viaggio, quindi decidiamo di prendere il treno notturno, con le cuccette prenotate. Sono comode, anche se siamo in terza classe. Ogni scompartimento ospita 6 cuccette. Due sono per noi. Due vengono occupate da ragazzi indiani. Le ultime due… vengono prese da una famiglia di 5 persone, i genitori più 3 figli piccoli. Per quanto educati, sono pur sempre 5 persone in 2 cuccette, e per ironia della sorte occupano proprio quella sopra e quella sotto alla mia. I bambini hanno tutti la tosse, la mamma ha un tremendo raffreddore e tira su col naso, il babbo poverino è chiuso in treno e non può sputare, ma solo emettere i rumori del caso. Alla mattina, l’allegra famigliola fa colazione con la sprite. E tutti ruttano; soprattutto la mamma, che è bellissima, ben vestita ed elegante però sembra amare molto le bibite gassate. Insomma, io non sono schizzinosa, ma dopo 18 ore di tosse, raffreddore, raschiamenti di gola, pianti del più piccolo, gargarismi e rutti vari, sento il bisogno di un angolo tranquillo e riservato. Mi sposto nello scompartimento accanto, che è tutto vuoto. Arriva il controllore. Si sdraia sui sedili di fronte a me. Ed emette una scoreggia spaventosa. Ho capito: mi arrendo, non scapperò mai più.

Rajput Rajput è il nome dei 14 clan che regnavano sul Rajasthan, ognuno con il suo Maharajà. Discendenti del sole e della luna, erano governanti poco abili e pessimi diplomatici, ma grandissimi ed orgogliosi guerrieri. Sempre in guerra, tra di loro oppure contro i Moghul di Delhi, non conoscevano la paura. Piuttosto di arrendersi al nemico, popolazioni intere sceglievano il suicidio collettivo: nessun difensore è mai stato preso vivo. Non stupisce che le loro città siano dominate da forti imponenti, circondati da alte mura e sistemati in posizione dominante, con all’interno un palazzo ben difeso.

Jaipur è chiamata anche la Città Rosa. Nel 1853, il Maharajà volle dare un caloroso benvenuto al Principe di Galles che si recava in visita nella sua città; fece quindi tingere tutti gli edifici di rosa, il colore che in India rappresenta l’ospitalità. Il Maharajà di oggi abita ancora nella zona privata del suo palazzo. La parte pubblica del City Palace invece si può visitare; portali decorati con colori brillanti e sormontati da immagini di pavoni ti conducono ai cortili interni.

Il simbolo di Jaipur è un edificio noto come Hawa Mahal: la Casa dei Venti. Assomiglia ad un elaborato alveare in arenaria rossa; era la zona riservata alle donne della famiglia reale, che da dietro le pareti finemente traforate potevano osservare, non viste, le strade sottostanti. Jodhpur invece è una città tutta blu. E’ molto accogliente: gli abitanti ti fermano per le vie per salutarti, stringerti la mano, darti il benvenuto e chiederti se ti piace l’India.

Il Forte di Mehrangarh sovrasta il paese vecchio. Contiene un palazzo molto ben conservato e dalla bellezza eclatante, grazie ai cortili disposti su vari livelli, ai balconi scolpiti in marmo o arenaria, alle fini decorazioni, alle stanze ancora ricchissime, completamente dipinte ed adornate di specchi e di finestre dai vetri colorati. Jaisalmer si trova ai margini del deserto del Thar. Le sue mura e i suoi 99 bastioni contengono non soltanto il palazzo del Maharajà, ma anche la città vecchia con le case più antiche, le haveli, dimore dei mercanti che prosperavano grazie alla Via delle Spezie, che attraverso questa città collegava India ed Asia mInore. Tutta Jaisalmer è costruita in arenaria gialla, dello stesso colore del deserto. Dentro le mura trova posto anche un complesso di 7 templi jainisti. Essi dedicano i templi ai loro guru, rappresentati da statue di santoni seduti a gambe incrociate. Mille altre statue di uomini e donne, soli o a coppie che si abbracciano strette, adornano i soffitti, i tetti, la pareti di questi ricchissimi luoghi di culto.

Troviamo una stanza stupenda all’interno di una vera haveli, senza nemmeno i vetri alle finestre ma nel complesso molto suggestiva – poi però dobbiamo combattere per conservarla! La prima notte, nessun problema. Il giorno dopo però, uno sconosciuto ci ferma all’ingresso, dichiara di essere lui il proprietario e che quindi è lui che deve incassare i soldi dell’affitto. Noi andiamo dritti alla porta accanto, cioè all’albergo presso cui siamo registrati e che ci ha assegnato la stanza che occupiamo. L’hotel conferma che di quel tizio non dobbiamo tener conto e il conto andrà pagato a loro. Sennonché, alla sera, il tipo ci blocca sulla porta e vuole i soldi. Gli rispondo di mettersi d’accordo con l’albergo, ma non ci vuole andare perché ‘devono venire loro da me’. Fingo di perdere la pazienza – la crisi isterica a Delhi aveva funzionato – e filo a chiamare l’albergatore, che non ci pensa due volte ed arriva di corsa. Lite ad alta voce! Contiamo 5 contendenti, più quelli che guardano. Infine, il proprietario dell’hotel prende il cellulare e chiama qualcuno con il vivavoce. Quel qualcuno gli dà ragione e noi riusciamo a rientrare in camera.

Tutto è bene quel che finisce bene. Arrivederci, India.



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