Destino Caracas

Destino Caracas. Bizzarrie linguistiche: la voce dell'altoparlante all'aeroporto di Madrid identifica sorte e destinazione. Nove ore di volo, di noia, di nuvole. Fanno male le orecchie quando il verde scuro riempie gli oblò. E si comincia ad appiccicarsi ai vestiti quando in coda all'Italcambio bisogna attendere i comodi di un computer che fa le...
Scritto da: Gabriele Nava
destino caracas
Ascolta i podcast
 
Destino Caracas. Bizzarrie linguistiche: la voce dell’altoparlante all’aeroporto di Madrid identifica sorte e destinazione. Nove ore di volo, di noia, di nuvole. Fanno male le orecchie quando il verde scuro riempie gli oblò. E si comincia ad appiccicarsi ai vestiti quando in coda all’Italcambio bisogna attendere i comodi di un computer che fa le bizze. La lentezza dell’informatica sfianca più dei polverosi libroni contabili nelle banche di Jaipur. Mi giro e mi ritrovo questa faccia da venezuelano coi capelli neri a spazzola e i baffetti sottili e l’accento di Pescara. Walter Gentile ha appuntato sulla camicia a rigoni bianchi rossi e blu come i colori della Pepsi Cola, ci rifila dopo breve trattativa tre biglietti per Los Roques a centodieci dollares.

“Con quella camicia e quella giacca non ti assumerà mai nessuno !” ha sentenziato lo specialista in Risorse Umane che si adegua alla cravatta sul lavoro ma poi la sera – da gran trasgressivo – se la toglie e, ci teneva a dirlo proprio a me, va a vedere il concerto di Patti Smith. La prossima volta mi faccio prestare questa di camicia da Walter Gentile e voglio proprio vedere, sì voglio proprio vedere … Ah come la odio questa generazione di schizofrenici del travestitismo, la mattina in ufficio e la notte a viados, tutti col loro bel tatuaggio da uomini veri ma ben coperto dalla maglietta della salute stirata da mamme o fidanzate.

“Fan tanto i masù e poi lo ciapel in del cu!”, mi ha fatto ridere la checca stesa al sole di Milano, l’ultima volta che sono andato in piscina.

Controfirmiamo travel (dell’American Express questa volta, dopo l’esperienza dello scorso anno a Khajurao) e io smaltisco un po’ di Bolivar da mille dalla mazzetta appena cambiata, convinto più che dalla tiritera dalla panza di Walter che, slacciato l’ultimo bottone, si rivela essere un pistolone tipo Colt o Magnum o qualcosa di simile, senza la ricopertura di cioccolata.

“Al Terminal Nuevo Circo? Io so’ italiano ma a Caracas si gira con questa!” Vaccinati dalle stazioni dei bus di mezzo oriente, decliniamo l’invito in jeep per Maracay e saliamo sul primo taxi.

Afa. Strada che serpeggia a tre corsie tra dorsi di montagne guarnite di nuvole bianche come glassa. Militari a controllare il traffico e vecchie enormi Chevrolet che tirano il fiato sui tornanti. Autisti chinati dentro i cofani: versano acqua sul motore per portare un po’ di refrigerio. Cartelloni pubblicitari grandi come schermi del cinema e casupole di mattoni crudi raggruppate qua e là, sui cucuzzi, come sulla cartapesta di un presepio.

Caracas è un tipo che guida a marcia indietro nella nostra direzione. Un rosario e un ciucciotto pendono dallo specchietto retrovisore dentro la mia prospettiva, lilla come i vetri dei finestrini, mentre con abile mossa preparo i soldi per il tassista e il resto occulto nelle classiche mutande.

Ma al Terminal Nuevo Circo, tra palazzoni con l’aspirazione di grattare il cielo per vedere se c’è ancora qualche cosa da vincere e stamberghe fatiscenti, non occorrono le pistole né la fila dei santini sul cruscotto. Si segue il primo che starnazza “Maracay!” e si va via.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche