DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno .8
Alla migración peruviana capitai giusto dietro al responsabile di un viaggio organizzato, con una risma di passaporti da timbrare e gli inevitabili contrattempi. Aspettai più di mezz’ora per uno stupido timbro. Nella piazzetta di fianco gli autobus per Puno aspettavano di riempirsi per partire. Alla fine salì un bambino col fratellino grande appena da reggersi in piedi da solo. Dopo la solita introduzione cantò una canzone che parlava di un amore non corrisposto, accompagnandosi con un cascabel di conchiglie. Forse non sapeva neanche che cosa volessero dire quelle parole che aveva imparato a memoria, ma aveva già idea di come andasse il mondo. Al termine girò tra i passeggeri lasciando ad ognuno delle caramelle, poi ripassò per prendere i soldi. Le bandiere erano diverse, ma usanze e miseria erano sempre le stesse. Sulla strada nuovamente asfaltata l’autobus corse all’incredibile media dei sessanta chilometri all’ora e arrivò a Puno alle tre del pomeriggio. Fuori dal cortile che fungeva da autostazione, deposito, officina e biglietteria, riuscii ad eludere gli assalti dei bambini che proponevano servizi di portabagagli, hotel e mezzi per ogni direzione. Girovagai nella zona degradata che si sviluppa attorno al tratto di ferrovia ormai inutilizzato che collegava la stazione al porto. Una città a sé dove erano concentrate numerose compagnie di trasporto, hotel d’infimo ordine e ristoranti economici. Trovai un autobus che partiva per il Cusco alle sei. Comprai il biglietto e depositai lo zaino. Poi cercai un posto per placare la fame. Non c’erano problemi d’orario, lì si mangia quando la fame chiama e non per rispettare una consuetudine. Pertanto capitava di vedere gente mangiare a qualsiasi ora del giorno. Il problema, semmai, era che molti locali esponevano all’esterno delle lavagne con una lunghissima lista di piatti, che poi provavi ad ordinarli e sfortunatamente non erano disponibili. Uno specchietto per le allodole, insomma. Comunque qualcosa si trovava sempre e con la fame a fare da condimento alla fine risultava tutto ottimo. La radio trasmetteva una stupenda musica folklórica. Una volta rifocillato, ordinai un’altra birra per gustarmela in santa pace. Per strada alcuni ragazzi vendevano orologi dentro sacchetti trasparenti pieni d’acqua come se fossero pesci rossi, per dimostrare che erano veramente subacquei. Comprai una pannocchia bollita e me la sgranocchiai di gusto intanto che mi dirigevo all’oficina. Incontrai Kurt e Christian, due tedeschi che avevo conosciuto durante accanite partite a carte nel rifugio della Laguna Colorada. Anche loro andavano al Cusco, ma partivano alle sette. Ci salutammo, confidando di incontrarci ancora. La bigliettaia mi disse che, siccome non c’erano abbastanza passeggeri, mi avevano dirottato sull’autobus di un’altra compagnia. Doveva partire addirittura prima. Niente. Alle sette salirono i tedeschi. Ancora niente. Alle otto, finalmente, lasciammo Puno. Di fianco a me viaggiava una signora anziana, che andava a cercare suo figlio desaparecido da sei mesi. L’OMBELICO DEL MONDO Arrivammo al nuovo terminal del Cusco alle tre e mezza del mattino. Kurt e Christian presero un taxi per il centro. Io andai in sala d’aspetto a dormire, rimandando ogni decisione a più tardi. Verso le sei, quando il sole cominciava a definire i contorni delle montagne, uscii fuori. Un taxista mi venne incontro precipitosamente e mi propose un hostal ad un prezzo ragionevole, con “pasaje gratis.” La concorrenza era spietata. Il taxi si addentrò nella città assonnata e si fermò davanti ad un palazzo in Calle Nueva Baja. I colpi secchi sul portone di legno borchiato echeggiarono per la strada silenziosa. Uscì un tipo stravolto, confabulò qualcosa col taxista e mi fece entrare. Nel registro delle presenze erano segnati i nomi dei due tedeschi. Pazzesco. Era un palazzo coloniale molto ben tenuto, con le stanze disposte su due piani attorno ad un piccolo cortile interno pieno di fiori. Approfittai di quell’ora insolita per farmi una doccia calda senza l’assillo della fila fuori che aspetta. Uscii di soppiatto e andai al Mercado Central. Girai tra gli affollati comedores del mercato coperto in preda ad una fame feroce. Poi mi decisi. Desayuno a base di ceviche: pesce crudo marinato nel limone con aglio, cipolla, sale, prezzemolo e cancha, chicchi di mais tostato. Avevo perso ogni ritegno. Era la Domenica delle Palme. Plaza de Armas era decorata a festa. Ora come allora questa piazza è il cuore della città, anche se in epoca inca era grande il doppio. E’ circondata da palazzi coloniali con splendidi portici e balconi finemente intagliati. Su due aste di fronte alla Catedral sventolavano la bandiera bianca e rossa del Perú e quella con sette strisce color dell’arcobaleno di Tahuantinsuyo, i quattro quarti dell’Impero del Sole. Nel centro della piazza, sedute su una delle panchine circondate da fontane ed aiuole, incontrai Ingrid e Lara, le due danesi di Sucre e di Potosí. Ma non era finita. Mi dissero che in città c’era anche Andy il neozelandese… Salii per i vicoletti ricchi di leggende che si inerpicano dietro la Catedral e mi fermai per ammirare la città dall’alto. Tutt’attorno le montagne, come un’ostrica, proteggevano questa perla d’incomparabile bellezza. Sulla collina che si innalza dietro la Compañía risaltava la scritta Viva el Perú. Un giorno Manco Cápac, nel corso delle sue peregrinazioni, piantò un bastone d’oro nel terreno ed esso scomparve: questo punto indicava il q’osqo, ombelico del mondo in lingua quechua (anche se qualcuno preferisce spiegare l’etimologia con cumulo di pietre). Capì che quello era il luogo eletto da Huiracocha a residenza permanente dei suoi figli prediletti e qui egli fondò la città che poi sarebbe diventata la capitale del più vasto impero che l’America abbia mai avuto. Nel periodo di massimo splendore si estendeva lungo la costa del Pacifico e gli altipiani andini del Sudamerica dal Río Ancasmayo nell’attuale Colombia fino al Río Maule in Cile. I templi e i palazzi inca vennero demoliti dai conquistadores fino alle fondamenta, oppure le loro pareti furono incorporate nelle nuove costruzioni. Passeggiando per i vicoletti selciati del Cusco si può osservare che la maggior parte dei muri che compongono le case fino a circa due metri da terra sono costruiti con superbe pietre perfettamente tagliate ed incastrate con precisione millimetrica, più in alto invece da pietre grossolane spesso intonacate. I muri inca sono formati da blocchi rettangolari accuratamente scolpiti e disposti a strati come si fa oggi coi mattoni, oppure da poderosi blocchi poligonali di varie forme e grandezze che si incastrano uno con l’altro come un mastodontico puzzle. I vecchi edifici in pietra esercitano su di me un fascino irresistibile. Mi sembra di percepire in ogni blocco squadrato il lavoro e la fatica dei suoi costruttori. Si fanno beffe del trascorrere del tempo, rimangono lì, apparentemente immobili, custodi di segreti passati. Ma queste pietre grigie, prove tangibili di un’ antica magnificenza, recano sopra di sé l’onta della conquista e ormai servono solo a suscitare l’ammirazione dei turisti. Incontrai Kurt seduto sotto un portico della piazza a leggere il Condorito, il divertente fumetto cileno. Mi sedetti di fianco a lui per riposarmi un attimo. L’aria era fresca e pulita. Respirai profondamente l’anima del Cusco. Un ragazzo con le stampelle venne a sedersi tra noi due e si mise a cantare a squarciagola, interrompendosi ogni tanto per bere lunghe sorsate da una bottiglia di rum. Mi disse di chiamarsi Nicolás e che suo padre era di Napoli. Si disinteressò subito dell’alemán e iniziò ad alitarmi in faccia le sue disavventure. Parlava un misto di spagnolo e di italiano, ma con un internazionale accento etilico: “Sei mesi fa – sorso di rum – mi hanno sparato tre colpi nella caviglia.” “Ma va?” risposi, impressionato dalle cicatrici che le ciabatte di gomma lasciavano intravedere. “Sì, sì, davvero… E in più quei bastardi mi hanno anche accoltellato” e si tirò su la maglietta di Ronaldo, mostrandomi un profondo squarcio nell’addome. “Eh già, veramente dei gran bastardi” risposi sempre più inorridito. Kurt non afferrava i discorsi, ma vide quanto bastava per andarsene, lasciandomi solo con quella mina vagante. Mi disse che era stata tutta colpa di una donna e iniziò un vaniloquio durante il quale, infervorato, urtò la bottiglia che cadde dal gradino rompendosi in mille pezzi. Si interruppe di colpo, bascullando. Mi fissò come un presbite che guarda un francobollo e mi disse: “Si è rotta.” “Mi sa anche a me.” “E adesso?” incalzò con una punta di isterismo. Onde evitare gesti inconsulti andai alla licorería che stava giusto dietro di noi e ne comprai un’altra identica. Sicuramente l’aveva presa lì anche lui. Era fatta. Cominciò a tessere le lodi dell’Italia e degli italiani, brava gente che non esita ad aiutare gli amici in difficoltà e via di seguito. Mi convinse ad andare da due ragazze inglesi, sue amiche “muy hermosas, hermano” che stavano in un albergo di lusso nei pressi della Iglesia de San Antonio. Quando mi accorsi che stavamo uscendo dalla città mi venne il dubbio che il taxista non avesse capito bene. Infatti ci stava portando in una chiesa omonima che si trovava chissà dove. Nicolás non considerò neanche per un momento di aver dato delle indicazioni quantomeno vaghe. Si infuriò, gliene disse di tutti i colori e quando ci fermammo ad un semaforo aprì la portiera ed uscì zoppicando sulle stampelle. Facemmo lo slalom tra centinaia di mezzi impazziti e fermammo al volo un taxi nella corsia opposta, che ci portò nel posto giusto. Ma nell’hotel, stranamente, nessuno aveva mai sentito nominare le due fantomatiche inglesi. Nella reception tutta specchi, tappeti e legni pregiati mi sentivo leggermente fuori luogo. Quella storia mi sembrava un tantino improbabile, ma preferivo non rivelargli i miei dubbi. Anzi, mentre uscivamo lo sostenevo moralmente nel profferire ogni genere di insulti contro i portieri. Si sedette esausto su una panchina di Plazuela de las Nazarenas e comprò un paio di sigarette sfuse da un bambino, che girava per la città con la sua cassettina di legno sostenuta da una cordicella annodata al collo. Poi riconobbe un tipo ancor più rovinato di lui e andarono via insieme. Fui assalito da un timore: e se quelle ragazze non solo esistevano, ma erano state la causa per cui l’avevano gambizzato? Rabbrividii al pensiero. All’imbrunire il centro si animò di giovani che distribuivano ai passanti inviti riduzione per discoteche, volantini che pubblicizzavano locali, happy hours, pizzerie, pubs, concerti. Davanti ad ogni ristorante c’era un buttadentro pagato per convincere i turisti a mangiare le specialità tipiche peruviane, adattate alle necessità dello straniero in vacanza che deve provare emozioni esotiche sentendosi però a casa propria. Negozi di artesanía a prezzi scandalosi, agenzie turistiche, musica martellante, inglese imperante. Trovare un cusqueño in mezzo a quella bolgia era come trovare un veneziano a Venezia. Incontrai Andy. Ero già stato avvisato, ma rimasi sconvolto lo stesso perché era in compagnia di Jürgen! “Ma come fai a conoscerlo?!” domandammo contemporaneamente tutti e tre. Passammo la serata al Mama Africa, un pub con musica dal vivo. Dentro c’erano anche Kurt, Christian, Ingrid, Lara e una dozzina di israeliani che avevo conosciuto strada facendo. Se il Cusco non fosse stata una città bellissima, me ne sarei andato via all’istante. In una via secondaria mi imbattei in uno dei tanti cortei religiosi che sfilavano per la Semana Santa. Un gruppo di donne abbigliate con polleras nere, camicie rosa, llicllas, i coloratissimi teli legati sul davanti con uno spillone, e copricapi flosci con le frange procedeva in fila indiana innalzando stendardi con l’immagine della Madonna. Di fianco, su due file, seguivano gli uomini con pantaloni neri al ginocchio, camicie bianche, gilè colorati, ponchos scarlatti con frange ripiegati su una spalla e chullos. A mezzogiorno entrai in un ristorante che aveva un’insegna molto promettente: Da Giorgio. Ma non ero sicuro che fosse davvero italiano. Per sicurezza ordinai in spagnolo. Il gestore mi portò il menù e riprese a chiacchierare con due turisti seduti ad un altro tavolo. Erano italiani. Giorgio era arrivato in Perú sedici anni prima da Varese, capelli lunghi e gran voglia di viaggiare. Era stato in molti posti, poi si era innamorato del Cusco e di una ragazza peruviana. L’aveva sposata e ne aveva avuto due figlie. Col ristorante aveva messo da parte qualcosa e aveva comprato una quota del Kamikaze, un locale notturno molto in voga. Gli altri due erano Alberto e Fiorenzo di Ancona. Si erano licenziati entrambi dal posto dove lavoravano e coi soldi della liquidazione erano venuti in Perú. Dopo il Lago Titicaca e l’inca trail, avevano affittato un appartamento a Pisac. Ci vivevano già da tre settimane, a trenta chilometri dalla confusione del Cusco. Ma ormai erano alla fine del viaggio. La settimana successiva sarebbero ripartiti, senza sapere quello che li aspettava al ritorno. Riassaporai il gesto di arrotolare gli spaghetti, la forchettata fumante e profumata e l’ultimo spaghetto ribelle che viene inesorabilmente succhiato, facendo anche un po’ di rumore per gustarlo con maggior soddisfazione. Dopo mesi di astinenza era una poesia sublime. “Tutto bene?” Mi voltai verso i tre che mi stavano guardando divertiti. “Mmm, che bontà. Ma dove le trovi gli ingredienti?” “Mi faccio mandare tutto dall’Italia, soprattutto olio d’oliva, formaggio e vino. Ogni tanto mi arriva un container a Lima, affitto un furgone e porto su tutto. La menata è che spesso c’è da aspettare per lo sdoganamento, due balle. Il resto, invece, riesco a trovarlo anche qui, anche la pasta ma non sempre. Se posso, comunque, la faccio io. Ognuno la pensa come vuole, ma io la sopita proprio non la reggo.” “Beh, in effetti… Perché eri chiuso ieri?” “Ah no, la domenica mi dispiace ma sono chiuso. Mi sono fatto un culo così per rimettere in sesto questo posto e per me domenica vuol dire riposo. Pensa che quando sono arrivato questa via era abbandonata. Anni fa c’erano le macellerie. Buttavano tutto in strada, per questo si chiamava calle sucia, cioè sporca. Adesso invece è una via pedonale, più su ci sono alcuni muri del palazzo di Sinchi Roca e anche un hotel. Quel nome non stava bene, così hanno deciso di chiamarla Calle Suecia. La Svezia, in realtà, non c’entra un bel niente.” Fiorenzo tornò al suo disegno che stava eseguendo a matita e carboncino su una parete. Ordinai un’altra birra. Attraverso la porta a vetri avevo notato uno strano viavai di persone. Salutai ed uscii. Il centro era invaso dai pellegrini venuti da ogni parte per assistere alla processione del Señor de los Temblores, un crocifisso di legno che, dicono, riuscì a placare il devastante terremoto del 1650. Per ricordare quel miracolo tutti gli anni la statua viene portata in giro per la città. Plaza de Armas era stracolma. A metà pomeriggio il Signore dei Terremoti uscì lentamente dalla Catedral. Al suo passaggio i devoti lanciavano preghiere e manciate di fiori rossi. Alla testa della processione marciavano i rappresentanti delle congregazioni e delle associazioni religiose con numerosi stendardi e le autorità civili vestite rigorosamente di nero. In mezzo alla confusione incontrai Alberto. Aveva appena finito di fare la spesa e stava andando da Giorgio per vedere a che punto fosse Fiorenzo col suo disegno. Restammo a parlare fino all’ora di chiusura davanti ad una bottiglia di autentico Chianti. Giorgio abbassò la saracinesca e propose: “Spaghettata? Offro io.” Mentre cucinava si sfogava contro una certa Consuelo, la cameriera peruviana che spesso e volentieri gli tirava il bidone lasciandolo solo a fare tutto, cucinare e servire ai tavoli. Il locale, comunque, non era grande. C’erano solo cinque tavoli, il bancone del bar e la cucina nascosta da una tenda. Non c’era nulla che ricordasse l’Italia, contrariamente a quanto succede di solito nei ristoranti all’estero. Solamente qualche bottiglia di vino allineata con cura su due mensole. Il fatto è che dell’Italia, Giorgio, non aveva proprio nostalgia. I muri bianchi erano vivacizzati invece da coloratissimi chullos. Dopo mangiato Alberto mise sul tavolo una bottiglia di rum. “L’avevo comprata per portarla su, ma mi sa tanto che stanotte rimaniamo qui, eh?” “Beh, ormai… L’ultimo autobus è partito” rispose Fiorenzo. Decisero di fermarsi nella stanza di sopra, dove stavano prima di trasferirsi a Pisac. Mi sono sempre chiesto come mai, a volte, le bottiglie si svuotino così rapidamente. Giorgio ci raccontò del maniaco che aveva insidiato sua figlia di otto anni e di come era riuscito a farlo cadere nel tranello tesogli da un suo amico poliziotto: “Mi disse di stare calmo, ma non ce l’ho fatta. Appena l’hanno caricato in macchina gliene ho date una scarica. «Adesso dovremo dire che è caduto dalle scale» commentò seccato il mio amico. Ma recitava la parte davanti ai suoi uomini, sapeva benissimo che finiva così. Il giorno dopo sono venuti i genitori qui da me. Volevano che ritirassi la denuncia. Il padre ha avuto anche il coraggio di minacciarmi. «Te saco la mierda» mi ha detto. «Dai, sono qui» gli ho risposto. Gli ho mollato una sventola che l’ho fatto volare contro il muro. Poveraccio, era un vecchio. Ma qui in Perú, a differenza che in Italia, se tu denunci qualcuno e ti succede qualcosa ne risponde il denunciato, la chiamano garantía.” Con la seconda bottiglia di rum affrontammo discorsi più leggeri, in compenso la sbronza si faceva sempre più pesante. Giorgio teneva sempre banco: “Anni fa avevo una moto e me ne andavo spesso in giro per le rovine poco conosciute che si trovano nei dintorni. Una volta sono caduto e mentre mi stavo rialzando mi sono trovato davanti un serpente velenoso pronto a colpirmi. Un mio amico mi aveva detto che in casi del genere bisogna fissare il serpente negli occhi, indietreggiare di tre passi e, sempre lentamente, voltarsi e andare via. Così capisce che non hai paura e che non vuoi fargli del male, e se ne va via anche lui.” “Ma daaai. E funziona?” gli chiese Fiorenzo scettico. “Te lo giuro, con me ha funzionato. Lo fissi, fai tre passi indietro e poi ti volti.” Alle tre uscii visibilmente storto. Non so come, ma riuscii a ritrovare l’hostal. Mi alzai dal letto alle due del pomeriggio, anche se non ero riuscito a soddisfare pienamente il bisogno di dormire. Ma era sicuramente meglio un po’ di sonno arretrato che vedere le travi del soffitto girare in modo nauseante sopra la testa. Ero completamente disidratato. Affrontai l’esuberante confusione che pervadeva senza tregua le stradine del mercato di fronte alla Estación San Pedro e mi risistemai un minimo in un comedor. Poi mi trascinai verso il Coricancha, il principale tempio inca del Cusco e di tutto l’impero. Un tempo era il centro della più potente delle istituzioni incaiche, il sequie, una raggiera di invisibili linee sacre che dal tempio si irradiavano verso ogni regione dell’impero. Queste linee avevano un importante ruolo simbolico e venivano usate per organizzare tutti gli aspetti della vita religiosa e sociale. Quaranta di queste linee sono state identificate e sono singolarmente simili ai centri irradianti di Nasca. Il tempio era stato distrutto dagli spagnoli, o meglio era stato coperto da opere posteriori. Sulle fondamenta e sulle pareti inferiori dei muri inca era stata infatti eretta la chiesa di Santo Domingo. Coricancha in lingua quechua significa Cortile d’oro. All’epoca i suoi muri erano rivestiti da settecento lamine d’oro zecchino del peso di circa due chilogrammi ciascuna e il cortile era disseminato di statue e di altre figure d’oro. Insieme alla pianta generale dell’edificio quei blocchi poligonali sono tutto ciò che rimane della struttura originale del tempio, a parte una vasca ottagonale di pietra al centro del cortile rettangolare, un tempo rivestita con cinquantacinque chili d’oro massiccio. Attorno al cortile si aprono delle anticamere. Le pietre che compongono i muri e le nicchie trapezoidali sono incastrate l’una con l’altra in modo così preciso che quasi non si riesce a distinguere il punto di giunzione. Si pensa che le camere più grandi fossero templi dedicati al Tuono, all’Arcobaleno, a Venere, alla Luna e alle Stelle e che pertanto fossero rivestite di lamine d’argento. Tutti questi tesori affluirono a Cajamarca, dove l’Inca Atahuallpa era tenuto prigioniero da Pizarro. Come prezzo della libertà il sovrano aveva offerto agli stranieri tanto oro quanto ne poteva contenere una stanza fino all’altezza del suo braccio alzato e il doppio d’argento. Il riscatto fu pagato, ma Atahuallpa fu ucciso e l’Impero del Sole conquistato. Alle sette del mattino salii su un autobus diretto a Pisac. Mi feci lasciare all’altezza del bivio per Tambo Machay. Oltrepassai la casetta del custode, che data l’ora era ancora latitante, ed arrivai ad una piccola rovina. E’ costituita da quattro poderose muraglie decorate con nicchie trapezoidali, scaglionate a diverso livello e collegate da scalinate di pietra. Dalla seconda muraglia un ruscello compie alcuni balzi, si immette in tre fontanelle e cade in una vasca cerimoniale. Il complesso è conosciuto anche come Baño del Inca, perché si pensa che servisse per le sacre abluzioni riservate al sovrano. Ma dopo aver bevuto un sorso d’acqua gelida ne dubitai fortemente. Camminando in discesa verso il Cusco incontrai sulla sinistra Puca Pucará, una fortezza di pietra rossa appollaiata su una collina. Una donna india stava allestendo una bancarella di artesanía davanti all’entrata. “Cómprame señor, mira…” Mi accalappiò subito e volente o nolente dovetti sorbirmi l’intera esposizione. Avevo solamente una camicia di cotone indosso e l’aria del mattino a 3600 metri di quota era piuttosto freddina. Guardai con interesse un bellissimo maglione di lana nero. “¿Cuánto cuesta la chompa negra?” domandai. “Ah, le piace questa? Ottima scelta, viene ottanta soles.” “Ottanta soles??! Ma se al Cusco costano trenta!” “Quella è robaccia industriale, osservi il lavoro e guardi il disegno: l’ha fatta mia nonna.” “Signora, ne ho viste mille al Cusco e sono tutte uguali.” “Ho capito che lei se ne intende, è sua per sessantacinque soles.” “No signora, siamo ancora molto lontani” le dissi fingendo scarso interesse.” “Senta come è morbida señor. E’ di baby alpaca.” Scossi la testa alquanto scettico. “Lo dicono tutti che le loro chompas sono di cucciolo di alpaca.” “Bueno, le faccio un prezzo di favore.” “Quanto?” Guardò nell’alto dei cieli e sospirò: “Cinquanta soles.” Sbuffai: “Señora, forse non mi sono spiegato. Perché devo spendere cinquanta soles quando al Cusco posso trovarne una identica a trenta?” “Senta quanto pesa, è tutta alpaca.” Tastai il maglione distrattamente. “Sì, sì, bello. Peccato che costi così tanto” e feci per andarmene. “Quaranta soles señor e le assicuro che non ci guadagno nulla.” “Trenta.” “No señor. Solo la lana ne vale di più.” Tirai fuori i soldi e glieli porsi. “Trenta soles.” Reagì come se le stessi offrendo della cicuta. “Solo perché è la prima vendita della giornata. Spero che porti fortuna” disse arraffando il denaro. Si segnò per scaramanzia e mi salutò tutta contenta. Mi infilai il caldo maglione e mi incamminai ricambiando i saluti. Avevamo fatto entrambi un ottimo affare. Dopo qualche chilometro arrivai a Quenqo, un complesso di rovine costituito da pietre scolpite, una gran roccia votiva e un anfiteatro di forma ellittica con diciannove sedili situato sulla collina chiamata Socorro. Nella grande roccia sono intagliati altari, sedili, scalinate, nicchie e canali a zigzag che danno il nome al sito. Si pensa che questi canali, che terminano con una biforcazione, servissero per il sacrificio rituale della chicha o forse del sangue di un llama: in base alla direzione che prendeva significava buona sorte o cattivo presagio. Un signore claudicante si avvicinò alla chetichella e iniziò a descrivermi tutte le caratteristiche del luogo. Anni fa lavorava come guida per un’agenzia, ma un maledetto giorno precipitò dalla roccia fratturandosi il femore. Da noi con una operazione di routine si guarisce, qui si zoppica a vita. I turisti potevano rimanere impressionati: lo licenziarono. Così adesso era costretto ad improvvisarsi cicerone per mantenere la famiglia. Gli lasciai una propina e proseguii fiancheggiando campi coltivati e boschetti di conifere. Ogni tanto incrociavo qualche vecchia india che camminava lentamente con l’inseparabile fuso per filare la lana. Immediatamente abbassava lo sguardo e passava in composto silenzio. Sulla collina che domina il Cusco si trova la poderosa fortezza di Sacsahuamán. Gli incas vollero dare alla loro capitale la forma di un puma ornitomorfo, una rappresentazione religiosa antichissima tra i popoli andini. Sacsahuamán costituiva la testa. I possenti muri dentati lunghi trecento metri posti su tre livelli formavano la cresta piumata del falco. Si pensa inoltre che Muyocmarqa, uno dei tre torrioni rinvenuti all’interno del sito, ne rappresentasse l’occhio. Di fronte alle tre piattaforme sovrapposte si trova la spianata dove dal 21 al 23 giugno si festeggia l’Inti Raymi, la festa del Sole, e la collinetta detta El Rodadero o Suchuna, con numerosi troni, altari e le Chinganas, grotte naturali che formano labirinti. Ciò che sconvolge il visitatore sono le dimensioni ciclopiche dei blocchi di pietra. Il più grosso ha un’altezza di nove metri, una larghezza di cinque e uno spessore di quattro, con un peso stimato di trecentosessanta tonnellate. E’ stato estratto dalla cava, scolpito e inserito verticalmente in un muro formato da altri giganteschi blocchi, tutti in perfetto equilibrio statico senz’altro sostegno che il loro stesso peso. Blocchi di granito di cinque metri di altezza e tre di larghezza sono frequenti. Bisogna considerare che gli incas non conoscevano né il ferro né la ruota. Qualcuno sostiene che non siano loro i costruttori di questi edifici megalitici, ma che li abbiano semplicemente trovati e vi si siano installati. Altri sono convinti che conoscessero delle pozioni magiche in grado di ammorbidire le rocce, che si incastravano perfettamente prima di indurirsi di nuovo. Gran parte delle fortificazioni furono comunque abbattute dagli spagnoli per costruire i loro palazzi al Cusco. Ora c’è una statua del Cristo che protegge la città dall’alto. Scesi per l’antica strada inca che segue il corso del Río Tullumayo. A quell’ora molti turisti salivano faticosamente i gradini di pietra consumati dal tempo. Il Sudamerica mi stava ormai abituando alle cose più incredibili e incontrare di nuovo, a distanza di un mese e mezzo, i due canadesi di Santa Cruz che stavano arrancando verso la fortezza non mi sconvolse più di tanto. Non potrei dire lo stesso degli altri turisti, che ci guardavano straniti mentre ci abbracciavamo come tifosi allo stadio dopo un gol. Trascorsi il resto della giornata a fare i preparativi per il giorno dopo. Comprai un telo di plastica da mettere sotto la tenda in caso di pioggia, minestre liofilizzate e altri cibi leggeri da poter trasportare senza sforzo, dieci once di foglie di coca e un vasetto di vaselina per impermeabilizzare gli anfibi. Riempii il sacco dello zucchero con le cose non indispensabili e lo depositai nell’hostal. “C’è da fidarsi?” chiesi al gestore. “Tranquilo señor.” Prese il sacco e lo chiuse in un armadio della cucina. Senza serratura. Finora negli alberghi non mi era mai capitato nulla di spiacevole. Sparavo che la serie positiva continuasse. EL VALLE SAGRADO Il viaggio per Pisac fu allucinante: l’autobus stracarico, il solito bambino che mi strillava nelle orecchie e un matto che insisteva ad urtarmi. Dopo aver contrattato un piccolo sconto sul prezzo, presi una stanza in un alojamiento con la finestra affacciata su Plaza de Armas. Sul registro delle presenze erano segnati i nomi di Alberto e di Fiorenzo. Nella piazza pavimentata con ciottoli bianchi e neri disposti secondo motivi geometrici si stava svolgendo l’animatissimo mercato che due volte la settimana richiama gli abitanti dei villaggi limitrofi. Le bancarelle colme di tappeti e di tessuti creavano una sorta di percorso coperto di teli impermeabili. Negli spiazzi rimasti liberi le campesinas si limitavano a stendere un telo per terra su cui esponevano frutta e verdura. C’erano soprattutto donne, con gli alti sombreros caratteristici della zona, e una marea di bambini, attaccati alla schiena delle giovani madri o già in grado di fare casino per proprio conto. Di fronte alla chiesa s’innalzava un grande ceiba interamente ricoperto di muschi, felci, barbe e rampicanti, segno che il clima stava cambiando. Un forte odore di erbe aromatiche impregnava l’aria. I colori delle merci e degli abiti tradizionali conferivano alla piazza un’atmosfera molto pittoresca. Da sempre provo un istintivo affetto per le popolazioni andine, misto ad una struggente tenerezza e simpatia per la loro natura silenziosa e schiva e per l’esistenza semplice che conducono con tanta dignità. Purtroppo verso le dieci cominciarono ad arrivare i bus turistici. Le sofisticate videocamere stavano già filmando dai finestrini. Oltretutto dovevano per forza parcheggiare in piazza, con tutta la confusione che c’era, perché se no, a fare cinque metri a piedi, rischiavano di perdere qualche chilo. E poi via, l’emozionante avventura di mescolarsi agli indigeni tutti belli colorati, da riprendere selvaggiamente con le attrezzature milionarie come se fosse uno zoo. Andai a sedermi in un bar all’aperto e ordinai una birra. A sinistra potevo vedere la strada proveniente dal Cusco, che con tre lunghi tornanti scendeva al paese. Era la calata dei barbari: decine di micro scaricavano gente pallida e sorridente, impacciata nei loro vestiti ‘da viaggio’ che non si sognerebbero mai di indossare in patria. Infatti sono sempre nuovi. Vecchie con culi mastodontici fasciati da improbabili bermuda e cappellini scemi per proteggere tinte e acconciature, occhialoni e scarpe da ginnastica. E avevano il coraggio di trovare tutto molto caratteristico e di fare delle foto. Loro! Ma si vedevano? Chissà che concetto hanno gli indigeni dell’occidente. Fiorenzo mi passò casualmente davanti. Era stato a far spesa e stava tornando a casa con due sacchetti di cibarie. Mi invitò a pranzo. Comprai una bottiglia di vino cileno e andai con lui nell’appartamento che avevano affittato dalla padrona dell’alojamiento. Si trovava nella parte nord-est del paese, proprio sotto la parete quasi verticale della Montaña Sagrada. Aprì un cancello metallico ed entrammo in un cortile polveroso dov’era parcheggiato un fuoristrada. In un angolo c’era una vasca per il bucato. Un cane cominciò a ringhiare. “Non preoccuparti, fa così perché è cieco.” C’erano solo due stanze, due letti e qualche poster per vivacizzare le pareti spoglie. Nella prima stanza, adibita anche a cucina, Alberto stava armeggiando attorno ad un fornello a cherosene. “Molto bene” mi salutò. “L’etichetta della casa prevede il rutto libero.” “La mia preferita” risposi. Stappai la bottiglia e riprendemmo il discorso da dove l’avevamo interrotto: la serata di bisboccia da Giorgio. “Ci ha raccontato che quella notte non ce l’ha fatta a tornare a casa ed ha dormito in cucina” mi disse Fiorenzo. Ridemmo come matti. Nel pomeriggio salii alle rovine inca. Dietro la chiesa parte un sentiero stretto e scosceso che supera la profonda gola del Río Qitamayo e risale una collina sulle cui pendici si estendono delle splendide terrazze tuttora coltivate. La P’isaq inca si trova a 3300 metri d’altezza, su un crinale delimitato da tre burroni. Pertanto bastavano poche strutture difensive per proteggere efficacemente questo luogo quasi inaccessibile. Ardite costruzioni in pietra sorgono un po’ ovunque sopra impressionanti baratri. Seicento metri più in basso scorreva il Río Vilcanota. Sulla riva destra la Pisac coloniale sembrava finta. Tra i tetti di tegole i teloni blu delle bancarelle indicavano chiaramente la piazza del mercato. Presso il Tempio del Sole riconobbi una capigliatura verde. Era quella dell’olandese che avevo conosciuto a Tarabuco. E puntuale spuntò la chioma rasta di Roberto. Ci salutammo increduli. Proseguii lungo l’ampio versante orientale che si apre sul Río Chongo, modellato da estese terrazze che descrivono ampie linee curve. Il sentiero che taglia il dirupo è ancora difeso da massicce porte di pietra, ripidi gradini e da un tunnel scavato nella roccia. Dove finiscono le terrazze si trova un gruppo di abitazioni senza tetto e di vasche cerimoniali. Provai a tornare indietro dal versante occidentale della cresta, lungo la stretta gola del Río Qitamayo. Le pareti quasi verticali del dirupo al di là del ruscello sono perforate da centinaia di buchi: una stupefacente necropoli inca saccheggiata da tempo dai tombaroli. Scesi lungo il sentiero lastricato, con scalette e ponticelli di pietra. Sulla cresta alla mia sinistra potevo ammirare delle costruzioni invisibili dall’altro versante. Ad un certo punto incrociai un campesino con una zappa in spalla, uscito da qualche campicello nascosto strappato alla montagna. Si fermò a fissarmi. “A Pisac?” gli domandai indicando verso il basso. Annuì con la testa senza scomporsi. Ringraziai e ripresi la marcia. A volte ci vuole poco per rassicurare la gente. Alberto e Fiorenzo mi invitarono anche a cena. Tornai all’alojamiento, sperimentai la famosa doccia calda prossima allo zero e lavai i vestiti impolverati. Mi presentai bello pimpante con un pacchetto di sigarette per loro e tre bottiglie di birra da un litro per la frittatona di patate. Dopo mangiato Fiorenzo uscì un attimo “per telefonare”. Tornò con un grammo di bamba. La serata prese una svolta inaspettata. Ma alle dieci e mezza qualcuno bussò alla porta. Aprimmo con circospezione. Era la padrona dell’alojamiento. Stava cercando proprio me. “Visto che sei italiano ho immaginato di trovarti qui. Sto chiudendo l’alojamiento, devi ritornare.” Non ero in grado di reggere una qualunque discussione. Figuriamoci per una questione così assurda, in spagnolo per giunta. Cercai di risponderle normalmente: “Beh, scusi, non posso suonare?” “No, vado a letto” rispose già scocciata, “domattina mi devo svegliare presto.” Mentre pensavo: “E a me chemmenefrega” le proposi: “Mi dia le chiavi, allora.” “Non se ne parla nemmeno.” Per andare in camera dovevo per forza passare per il ristorante e temeva che facessi uno spuntino notturno. Donna di poca fede, mi sarei limitato a piluccare qua e là. Non sapevo più cosa dirle. “Non può aspettare fino a mezzanotte?” Aveva perso la pazienza. “No, gliel’ho detto, sono stanca.” Anch’io cominciai ad alterarmi. “Senta, ho pagato per un albergo, non per la cella di un monastero. Oggi non mi ha detto proprio nulla riguardo orari di chiusura e cazzate varie. Non può piombare qui all’improvviso e dirmi di tornare.” “E’ meglio per lei, è pericoloso girare di notte.” Risi sguaiatamente. “Ho girato per Lima di notte e non mi è mai successo niente, sta a vedere che Pisac è più pericolosa!” Insomma non c’era verso, la megera non cedeva. “Ragazzi, mi sa tanto che stanotte dormo qui.” “Vai tranquillo” mi risposero. Ero tarantolato. Camminai speditissimo e dovetti aspettare la signora che era rimasta indietro. Andai in camera, cacciai tutta la roba nello zaino, compresi i vestiti bagnati, mi feci ridare i soldi e ritornai dagli altri. Aver fatto la doccia gratis mi sembrò il massimo dei dispetti. Nel corso della nottata finimmo una bottiglia di rum, stessa marca dell’altra volta, e fumammo foglie di coca in un narghilè artigianale fabbricato con una bottiglia di plastica. Di notte si alzò un forte vento misto a pioggia. Ci svegliammo verso le dieci infreddoliti e in coma. Recuperai per terra i vestiti che avevo steso fuori ad asciugare. Mi offrirono un caffè nel loro bar di fiducia e raggiungemmo a fatica la fermata degli autobus, vicino al ponte sul Río Vilcanota. Loro andavano al Cusco, io proseguivo lungo la valle. Passò prima il mio autobus. Ho ancora avanti agli occhi quell’addio dal finestrino. Avanti, ancora avanti. L’autobus correva spedito sulla strada asfaltata. Ero contento di essere di nuovo in movimento, di vedere il paesaggio sfrecciarmi davanti. Un’ora più tardi arrivai a Urubamba. Con questo nome è anche conosciuto il fiume. Ma nel tratto di trecento chilometri che va da Sicuani a Machu Picchu, el Valle Sagrado de los Incas, si preferisce chiamarlo Vilcanota o Vilcamayu, che vuol dire Fiume sacro. In compagnia di un meticcio percorsi la strada che collega la statale al centro cittadino. L’imponente mole del Nevado Chicón scomparve sotto la volta alberata. Alcuni tronchi erano stati intagliati in forme umane. Mollai lo zaino in un hostal situato ad un paio di cuadras dalla piazza e mi fiondai in un ristorantino nella zona del mercato. Mangiai una gustosissima trucha tomatada che usciva dal piatto. La trota è stata introdotta dagli europei e sta lentamente soppiantando la varietà autoctona: il pejerrey. Dicono che il fosforo aiuti la memoria. Per come mi sentivo avrei dovuto mangiare una balena. Tornai in camera e sprofondai in un sonno profondo. Durante il pomeriggio nel perimetro della piazza le mani dei fedeli avevano realizzato elaborati tappeti di fiori, polveri colorate e farine. Il centro si era magicamente riempito di gente e di bancarelle. Ero l’unico straniero in mezzo a quella moltitudine in giubilo. Alle otto i rintocchi delle campane della Catedral diedero inizio alla processione del Venerdì Santo. Un fiume di candele accompagnava una statua del Cristo in croce portato in processione per le vie del paese. La tradizione voleva che si bevesse chicha in abbondanza. Intraprendenti signore posizionate in luoghi strategici soddisfacevano la folla con capaci orci e secchi di bevanda schiumosa. Ne assaggiai giusto un bicchiere poi salutai tutti e me ne tornai a dormire. Il minibus cigolava in maniera preoccupante sulla strada che si avvinghiava tornante dopo tornante sulla montagna dall’altra parte del fiume. Mi feci lasciare al desvío per Maras. All’incrocio un paio di taxi aspettavano con inveterata pazienza che qualcuno chiedesse di essere portato a Maras. La mia richiesta di andare a Moray portò una ventata di novità nella monotonia di quella spola avanti-indietro, sempre la stessa tutto il giorno e tutti i giorni. Concordai il prezzo con il taxista e ci avviammo tra dolci colline coltivate. Superata Maras la strada si ridusse a poco più di una pista polverosa da cui spuntavano grossi massi. Percorremmo circa sei chilometri immersi in un delizioso paesaggio rurale completamente fuori dal tempo, dove la gente usava spostarsi ancora a dorso di mulo. La strada terminava sull’orlo di un ampio bacino naturale. Qui a 3500 metri d’altezza gli incas hanno realizzato delle terrazze perfettamente circolari, la più grande con un diametro di centocinquanta metri, che diminuiscono di misura man mano che si scende di livello. Ce ne sono due affiancate e una terza, più piccola, dall’altra parte della strada. La maggior parte degli studiosi sostiene che avessero una funzione agricola con connotazioni magico religiose. Erano ancora parzialmente coltivate. Al ritorno mi feci lasciare a Maras e mi inoltrai nella campagna, seguendo le indicazioni che mi dava la gente del posto. Non c’era un sentiero ben definito, mi dicevano di tenere come punto di riferimento un costone roccioso che spuntava in lontananza. Tra le montagne si notava la fenditura rettilinea della valle del Vilcanota. Più in là la cima del Volcán Veronica dominava l’orizzonte da un’altezza di 5750 metri. Era l’ultima cima di una certa importanza. Dietro, ma non potevo vederlo, le montagne digradavano verso i bassipiani amazzonici. E’ la regione della Montaña o Selva Alta, che comprende i fianchi orientali delle Ande ad una quota compresa tra i 3700 e i 1000 metri d’altitudine. Continuai a scendere per cinque chilometri, poi in basso, a metà di un profondo canalone, apparvero le salineras. Centinaia di vasche bianche si aggrappavano sul fianco sinistro del canyon come tante celle di uno sciame di api ubriache. D’estate l’acqua calda del torrente viene convogliata nelle vasche e fatta evaporare per ottenere il sale. In quella stagione, invece, la produzione è ferma e c’era soltanto qualche operaio che si occupava di riparare le vasche o di costruirne di nuove. Immerso in un paesaggio dantesco, costeggiai il canalone fino al letto del torrente. Attraversai il Río Vilcanota sul Ponte Pichingoto e sbucai a Tarabamba, sulla statale. Aspettai un autobus al paradero e tornai a Urubamba. La passeggiata mi aveva messo addosso un appetito lupesco. L’autobus mi lasciò proprio di fronte ad un ristorante. Non potevo oppormi al destino. Entrai e ordinai un sudado de trucha, che la figlia di dieci anni della cuoca mi servì come piace a me: più lunga del piatto. Anche il fatto che avessero finito le birre piccole e che fossero rimaste solo quelle da un litro lo interpretai come parte di un ineluttabile disegno occulto. Il paese era immerso in una calma irreale. I muri sbrecciati erano tappezzati di manifesti sbiaditi di un vecchio concerto di Rossy War y su banda caliente. Entrai in una tienda. Ho sentito dire, non ricordo dove, che porta male iniziare la giornata con una birra e finire con un’altra di diverso formato. Così mi toccò prenderne una grande. Visto che c’ero comprai anche una tavoletta di cioccolata, alla faccia dei salutisti. Mi sedetti al tavolo, nella penombra del negozietto. La signora non perse la ghiotta occasione di parlare con l’unico gringo in circolazione. “Ah, Itt-aaalia” esclamò con lo sguardo sognatore perso tra i barattoli di conserva. Mi confidò che avrebbe fatto qualunque cosa pur di andare via da lì. Uscii appena in tempo. Ancora un minuto e mi avrebbe chiesto di sposarla. Arrivai un po’ barcollando all’hostal e dormii praticamente fino al giorno dopo. Alle sei del mattino le campane annunciarono la Pasqua. Festeggiai con un mate de coca, sperando di guarire dall’inspiegabile sonnolenza che mi stava affliggendo negli ultimi giorni. Per l’occasione cercai di rendermi presentabile, se non per la ricorrenza religiosa almeno per rispetto alla gente che ci credeva. Solo che in mancanza di altri vestiti che non fossero quelli che avevo indosso da più di tre mesi, l’unico miglioramento che potei ottenere fu radermi la barba. Andai a Chinchero, a venti chilometri da Urubamba. Gironzolai pigramente per il mercato degli alimentari che si tiene tutti i giorni su un prato alla base del villaggio. I campesinos esponevano i loro prodotti agricoli sopra dei teli stesi per terra. Era interessante soprattutto notare le differenze tra gli abiti tradizionali dei diversi villaggi della vallata. Vidi alcune donne anziane portare più delle due solite trecce. Era la prima volta che mi capitava. Rimasi meravigliato come se avessi visto chissà cosa. Purtroppo anche qui piombarono plotoni di turisti armati di macchine fotografiche e di cineprese, che fecero strage di cultura e di sentimenti. Fra loro c’erano anche molti italiani, nella classica vacanza mordi e fuggi di Pasqua. Per le stradine selciate del villaggio mi imbattei in una sorta di rosario all’aperto, celebrato davanti ad una statua della Madonna. L’aspetto singolare è che il rito era officiato da una donna. La piazza principale di Chinchero è chiusa a sud da un massiccio muro inca alto due metri nel quale si aprono dieci nicchie trapezoidali. Sul terrapieno sorge una chiesetta costruita nel 1607 su fondamenta inca, cui si accede da due scalinate, una a metà del muro e l’altra a destra, sotto un’arcata coloniale appoggiata al campanile. La chiesa non riusciva a contenere tutti i fedeli, che uscivano ben oltre il minuscolo porticato. Un’altra scalinata, a sinistra della piazza, conduce ad una spianata più in basso delimitata da un profondo ruscello, dove si trovano alcune rocce scolpite e intere colline terrazzate. Quando terminò la messa tutti si riversarono nella piazza e si mescolarono tra i banchi del mercato settimanale di artesanía. Le donne indossavano una gonna nera bordata di rosso, una blusa rossa di panno e un cappello piatto di feltro rosso adornato di galloni. Le trecce spuntavano dalla mantella di panno marrone avvolta sulle spalle. Numerosi uomini, vestiti invece all’occidentale, brandivano il huarayóc, il bastone decorato con placche d’argento simbolo dell’autorità rurale. Queste insegne risalgono al periodo coloniale e sono l’ultimo rimasuglio della loro fierezza. Solo le donne ormai mantengono vive le tradizioni. E’ difficile, infatti, vedere un uomo in abiti tradizionali. Sebbene la società indigena sia rigidamente maschilista, sono le donne in realtà che mandano avanti la famiglia, lavorando, prendendosi cura dei numerosi figli e bastonando gli incorreggibili mariti sempre ubriachi e improduttivi, se non a letto. All’una la piazza si svuotò e rimase solo un gran freddo. Aspettai a lungo, perché gli autobus erano tutti strapieni. Quando finalmente ne arrivò uno strapieno secondo i parametri europei, mi aggrappai dove potei e tornai a Urubamba. Nel pomeriggio le nuvole di dissolsero lasciando il cielo azzurro e pulito. Andai a sedermi sui gradini della Catedral. Un gruppetto di campesinas si avvicinò timidamente, ma rimase a debita distanza. Una di loro venne verso di me e mi chiese se potevo cambiarle una moneta da cinquecento lire. La mattina dopo, col solito autobus strapieno, andai a Ollantaytambo, un villaggio coloniale costruito interamente su fondamenta inca nel punto in cui gli alti monti serrano la valle del Vilcanota. Su un picco roccioso perpendicolare al fiume si erge la fortezza in cui Manco Inca nel 1536 sconfisse Pizarro. L’accesso è difeso da una ventina di ripide terrazze facilmente controllabili. Nella parte alta rimangono sei poderosi monoliti di porfido rosso alti quattro metri e larghi due, perfettamente incastrati uno di fianco all’altro. Si pensa che facessero parte di un Tempio del Sole rimasto incompiuto. Provengono da una cava lontana sei chilometri, dall’altra parte del fiume. Dietro uno sperone roccioso altre terrazze seguono il profilo orientale della montagna che delimita una valle laterale, dove scorre un torrente che alimenta splendide fontane di pietra prima di buttarsi nel Vilcanota. Ollantaytambo è un perfetto esempio di urbanizzazione inca, con stradine perpendicolari affiancate da superbi muri formati da enormi blocchi di pietra tagliata, sui quali crescevano sgargianti buganvillee. La maggior parte dei suoi abitanti vestiva gli abiti tradizionali: le donne portavano un cappello di feltro rosso simile ad un cestino con vari ricami sulla sommità, assicurato alla testa con un nastro impreziosito da perline bianche; gli uomini una più sobria paglietta colorata. Il panorama è delizioso. Davvero un posto incantevole, ideale per una sosta. Verso sera mi sentii chiamare: “Italiano, ehi italiano.” Mi voltai. Riconobbi una ragazza greca che avevo conosciuto al Cusco. Era disperata perché le avevano svaligiato la casa dove si era ritirata per scrivere, a tre chilometri da lì. O almeno così mi disse. Era al quinto mese di gestazione. Mi chiese dei soldi per telefonare al suo ganzo, che doveva trovarsi al Cusco o a Lima, non sapeva di preciso. Ma non riusciva a trovarlo. Nell’attesa ci bevemmo qualche bicchiere di chicha rosa, che una campesina pescava con un mestolo da un secchio di plastica. Il sole stava scomparendo dietro le montagne e la temperatura cominciava sensibilmente a calare. In piazza le donne indie recuperavano i fagioli che avevano steso su dei teli per farli asciugare. Andai a mangiare. “Posso venire anch’io?” mi domandò con un’espressione da cane bastonato. Era ovvio che dovessi pagare io, così pensò bene di invitare anche un suo amico peruviano. Anni fa faceva il portatore su e giù per il camino inca con trenta chili sulle spalle. Adesso invece aveva deciso di seguire le orme paterne e si era messo a lavorare il legno. “Fa delle cose bellissime, dovresti vederle” mi diceva lei. Passai una notte terrificante avanti e indietro dal bagno. La chicha mi aveva fatto malissimo. Avevo l’intestino sottosopra. Un paio volte non feci in tempo a fare le scale e vomitai giù dal balcone di legno, innaffiando i fiori del giardino. Proprio di fronte, dietro i cactus, la fortezza inca illuminata da uno spicchio di luna sembrava beffarsi dello straniero. Arrivai in stazione in condizioni pietose, con lo stomaco in mano. Ero proprio da buttare via. Più che una stazione era un cancello dove finiva la strada, con un gabbiotto di fianco che fungeva da biglietteria. Si trova a circa un chilometro dalla piazza, a pochi passi dal fiume ruggente. I venditori stavano allestendo le bancarelle all’interno, di fianco ai binari. I loro clienti erano i passeggeri del treno. Arrivò un camioncino che scaricò una quantità esagerata di bagagli davanti al cancello e andò via altrettanto rapidamente, lasciando lì la proprietaria. Alle otto passò il carissimo treno turistico. Aspettai quello dopo. Nell’attesa chiacchierai con un francese e con un tedesco. Mezz’ora dopo si fermò un altro treno. Aspetta, aspetta, non succedeva niente. Andai per l’ennesima volta in biglietteria a chiedere informazioni. Il bigliettaio comunicò che: “C’è una frana più avanti, bisogna aspettare almeno tre ore.” Il francese scosse la testa. “Lo sapevo. Già l’anno scorso non sono riuscito a visitare Machu Picchu. Dopodomani ho l’aereo per Lima, devo per forza essere al Cusco domani sera. Ho un brutto presentimento… Ti va di fumare?” “Che cosa?” “Ho dell’erba che ho preso in Brasile: è una bomba.” La bomba ebbe un effetto esilarante e non riuscivamo a trattenere la ridarella. Ridevamo per tutto. In più lui aveva una faccia che avrebbe fatto ridere anche uno sotto tortura. Mi dispiace di non averlo fotografato. In piena fame chimica andai da una venditrice di pannocchie bollite e ne comprai una. “Due soles.” “Cosa? Ma in tutto il Perú il choclo costa un sol!” Si avvicinò e sottovoce, come se mi stesse confidando un segreto, mi disse: “Bueno, solo perché sei tu te la faccio pagare un sol, ma non dirlo a nessuno.” Poco dopo i venditori sbaraccarono e andarono via. Ci dissero che per quel giorno non c’erano più treni, e se lo dicevano loro… Il convoglio fermo sui binari tornò indietro. I passeggeri erano increduli. Il francese andò ad informarsi alla biglietteria. “Hay un derrumbe. Mañana.” Non ci restò altro da fare che tornare in paese. Il tedesco era incavolato marcio perché non poteva più rimandare. Era stato malato per tre giorni e aveva già dovuto abbandonare l’idea del trekking completo. Adesso sfumava anche l’ultima possibilità di partire dal km 104. La signora rimase lì, in mezzo a una montagna di bagagli. In fin dei conti io ero l’unico ad essere contento. In quelle condizioni non sarei riuscito a salire neanche su un marciapiede. Arrivai in piazza stremato ed accaldato. Ci accasciammo su una panchina. Ma non davamo nell’occhio. In piazza tutti erano sdraiati senza fare assolutamente nulla, un intero paese disoccupato immerso nella più totale apatia. L’arrivo di un autobus ebbe il potere di resuscitare tutti dalla catalessi, a parte noi due. Le donne raccolsero i loro cestini e si fiondarono a vendere da mangiare ai passeggeri. Qualcuno gridò: “Uru-bamba, Uru-baaamba.” Durò pochi, intensi istanti. Poi tutto tornò come prima. Salutai il francese e mi trascinai in hostal, stessa camera del giorno prima. Non lo rividi più, non so nemmeno come si chiamasse. La mattina dopo alle sei ero di nuovo in stazione. Purtroppo non erano ancora riusciti a rimuovere la frana dai binari. Chiesi al bigliettaio di farmi entrare e cominciai a camminare sulle traversine della ferrovia. Procedevo con passo intermittente, come quando sui marciapiedi cerco di non pestare le fessure. Intravidi un cartello ferroviario. Cercai di decifrarlo, ma era troppo lontano. Baldanzoso affrettai il passo. Scoprii con orrore di trovarmi al km 68. Il camino inca solitamente inizia al km 88! Dopo circa mezz’ora incontrai una famiglia di contadini che attraversava i binari per andare a lavorare nei campi vicino al fiume. Sorrisero meravigliati e mi chiesero come mai non prendessi un camion fino a Chilca. Non ci potevo credere, allora la strada proseguiva. Mi avevano detto che terminava a Ollantaytambo e che da lì in poi c’era solo il treno. Seguii un viottolo tra i campi e aspettai seduto su un muretto di sassi. Si fermò un pick-up. Montai dietro con tre vecchi, una donna e due bambini. Con un po’ di discrezione e una generosa offerta di coca feci capire che ero un umano anch’io, anche se avevo dei lineamenti strani. Scambiammo anche qualche parola, sobbalzando ad ogni buca. A metà strada scesero tutti. Mi accordai col guidatore per farmi portare fin dove finiva la strada, al km 82. Ripartì subito, lasciandomi solo davanti ad alcune baracche. Non potevo più tornare indietro. INCA TRAIL Attraversai il ponte metallico e raggiunsi l’altra sponda. Cominciai a salire tra boschetti di eucalipto, ruscelli e rovine inca. Di sera due ragazze inglesi piantarono la tenda di fianco alla mia. Mi dissero che la ferrovia era stata ripristinata. Poi arrivò Peter. A ripensarci, adesso, mi viene male. Ho rischiato la vita un mucchio di volte, nei modi più stupidi ed incoscienti, ma alla fine mi è sempre andata bene. “Morire non è poi così facile come sembra”, credo che fu questo l’ultimo pensiero che mi era passato per la mente. Ero aggrappato ad un cespuglio, sospeso sopra uno strapiombo di ottocento metri. Sentivo l’odore della terra umida misto al profumo dell’erba, la stessa sensazione che avevo provato da piccolo quando ero caduto in bicicletta dentro un canale che costeggiava una stradina di campagna. Comunque non ero venuto in Perú per ammirare così da vicino la flora spontanea della giungla! E’ strano come non fossi spaventato. Direi piuttosto che ero scocciato, perché avevo sporcato i vestiti che ero riuscito faticosamente a lavare il giorno prima, approfittando di una fugace schiarita del cielo. Li indossavo ancora bagnati, perché quel tempo infame non aveva permesso che si asciugassero. Se avessi saputo che finiva così non mi sarei messo a fare il lavandaio in costume da bagno, lasciando gambe e braccia in balia di milioni di zanzare, che mi avevano succhiato furiosamente il sangue martoriandomi la pelle delicata e bianchiccia. Nulla di paragonabile alla legnosa scorza dei nativi, che contiene un sangue amaro avvelenato dagli stenti e dalla coca. Vengo dalla Valle Padana e credevo di essere abituato a queste sanguisughe volanti. Le nostre zanzare, però, sono grosse, lente e molto stupide. Secoli di selezione naturale ci permettono ormai di affrontarle quasi ad armi pari. L’unico fastidio, semmai, è quando nelle calde e afose notti estive ti ronzano nelle orecchie e in stato di semincoscienza ti molli una sberla che ti passa il sonno. Queste invece erano minuscole, tenaci e si muovevano in sciami famelici. Non ero riuscito nemmeno a vederle, ma le avevo sentite, eccome. Era bastato un attimo e come per incanto mi ero ricoperto di puntini rossi, quasi avessi contratto un morbillo fulminante. Con le mani immerse nella tinozza avevo cominciato subito a grattarmi gamba con gamba, poi avevo iniziato a darmi delle manate nervose riempiendomi di schiuma. Marino mi osservava allibito. Non era riuscito a capire se stessi eseguendo una danza tribale o se fossi completamente rimbambito. L’avevo implorato, isterico, di portarmi il repellente per le zanzare. Ma ormai, nonostante una massiccia spruzzata, il danno era fatto e il bruciore insopportabile. Eravamo alla fine della stagione delle piogge. Il sentiero si snodava ripido dai 2.200 metri della partenza, il km 82 della linea ferroviaria Cusco-Quillabamba, ai 4.200 metri del Paso Huarmihuañusca. Pioggia, umidità, rovi, fango e quant’altro potesse procurare un notevole fastidio mi avevano ridotto in uno stato pietoso. E non mi ero portato dietro nessun vestito di ricambio per non appesantire lo zaino. Due sere prima non avevo resistito e mi ero lavato in un ruscello, sebbene la temperatura dell’acqua ricordasse da vicino l’azoto liquido. L’immersione mi aveva fatto mancare il fiato, ma almeno mi ero tolto di dosso la stanchezza di due giorni di marcia ed ero riuscito a sopportare meglio la nottata in tenda, piantata nell’unico posto pianeggiante ancora disponibile: un prato acquitrinoso sotto le rovine inca di Sayacmarqa. “Ciapa chi.” Marino mi tese subito la mano per sottrarmi a quell’abisso. Mi issai a fatica, tirando un sospiro di sollievo nel sentire nuovamente la terra sotto i piedi. “Pensavo che ti volessi suicidare” mi disse, sorridendo nervosamente per lo scampato pericolo. “Tutto bene?” “Sì, non preoccupatevi, niente di rotto” tranquillizzai lui e Marilena, una coppia di Trento che avevo incontrato sul percorso la mattina del secondo giorno. Mentre mi ripulivo dal fango pensavo che non doveva essere un caso se due persone con quei nomi si erano messe insieme. Ma come diavolo avevo fatto a scivolare da quel sentiero, così ben lastricato dagli incas da sembrare una strada? Sarà stata la stanchezza, che dopo quattro giorni di trekking con lo zaino in spalla aveva cominciato a farsi sentire… O piuttosto il micidiale misturotto di caffè e di mate de coca? Mi sentivo in effetti un po’ frastornato, tremolante e stranamente impedito nei movimenti. Quella mattina a Huiñay Huayna la pioggia cadeva copiosa, lasciandoci tutti interdetti: la notte prima, infatti, il cielo era stellatissimo. Molti si erano alzati ugualmente alle quattro e si erano messi in marcia. Noi avevamo guardato fuori e ci eravamo girati beatamente dall’altra parte. Non ce la sentivamo proprio di affrontare gli elementi andini col solo scopo di arrivare per primi… Per cosa, poi? Per vedere l’alba e scattare una foto di Machu Picchu modello cartolina? Non avevo più voglia di buscare altra pioggia. Se non avesse smesso avrei aspettato anche una settimana. Alle sette pioveva ancora. Per combattere il freddo e l’attesa avevo messo a bollire non so quante gavette d’acqua, a cui avevo aggiunto generose manciate di foglie di coca, eccedendo forse un tantino la misura. Ne avevo offerte parecchie tazze a Peter, un francese solitario che poteva avere cinquant’anni, anche se era difficile stabilirne con sicurezza l’età. Aveva due occhietti vispi, il naso a patata rosso come quello di un avvinazzato e un paio di baffoni biondi che celavano un sorriso compiaciuto. Sembrava Babbo Natale da giovane. Il sole era ormai al tramonto quando il primo giorno di marcia l’avevo visto sbucare dalla foresta col suo passo tranquillo da scampagnata domenicale e l’aria pacifica e serafica, come sempre. L’avevo riconosciuto subito: era il tipo strambo che avevo incrociato casualmente il giorno prima a Ollantaytambo. A parte l’espressione inconfondibile, mi aveva colpito perché calzava degli stivali talmente sformati e fuori misura che i piedi, invece che sulla suola, poggiavano all’interno direttamente sulla pelle scamosciata. Regalo di un turista tedesco che glieli aveva lasciati al termine del suo viaggio. Portava con sé uno zainetto molto ridotto dove teneva un sacco a pelo, un telo di plastica, un libro di Conrad, una torcia elettrica e due o tre cose da mangiare. Minacciava di piovere da un momento all’altro, ma aveva rifiutato cortesemente il mio invito a passare la notte in tenda. Nei giorni successivi l’avevo perso di vista. Poi di sera era arrivato ciabattando all’ostello. Aveva dormito fuori a ridosso del muro, sotto l’esiguo riparo fornito dallo spiovente del tetto. Aveva accettato molto volentieri le tazze di mate fumante. Marino e Marilena ronfavano ancora alla grande. Dopo aver dormito per due notti all’addiaccio, senza tenda, cercavano di recuperare il sonno arretrato. Ci eravamo seduti sulla soglia a guardare la gente partire sotto la pioggia. A tratti le nuvole si aprivano, lasciandoci intravedere in lontananza i picchi innevati dai mutevoli umori. “E’ bello qui” mi aveva detto scrutando l’orizzonte. “D’accordo, non è l’Himalaya, ma un paio di giorni potrei anche fermarmi.” Aveva viaggiato in tutto il mondo. Il freddo doveva essere stato davvero intenso e l’attesa proprio insopportabile, perché alla fine credo di essermi bevuto da solo più di un litro di mate. Me ne rendevo conto solo adesso. Sotto di noi si apriva la valle del Vilcanota, il fiume sacro degli incas, che scorreva impetuoso sotto una spessa coltre di nebbia. Qua e là spuntavano colline coperte di vegetazione tropicale, come tante isolette verdi in un mare di candida schiuma. No, non potevo morire. Se ero sopravvissuto a quello spettacolo grandioso, non sarebbe stata di certo una banale caduta a farlo. In quel momento, puntuale, ricominciò a piovere. Riprendemmo la marcia, maledicendo ad ogni salita tutti quelli che ci avevano assicurato che da lì in poi sarebbe stata tutta discesa. Procedevamo a ritmo sostenuto, ma venivamo ugualmente superati dai portatori indigeni, che quasi correvano coi loro sandali fabbricati con strisce di pneumatico e con fardelli di trenta e più chili sulle spalle. Molte agenzie del Cusco organizzavano spedizioni con tende, viveri, cucina da campo e portatori. Era impressionante vederli incedere così agilmente, con le guance gonfie di foglie di coca regalate dai turisti e spesso a digiuno, perché le agenzie non includevano il vitto nella loro misera paga. Tutti pensano che loro, tanto, sono abituati, come gli sherpa in Himalaya. Balle. Fu una sensazione incredibile arrivare a Intipuncu, la Porta del Sole, e sapere che lì sotto, coperta dalle nuvole, c’era la ‘città perduta degli incas’ appollaiata sulla Montagna Vecchia: Machu Picchu, appunto, in lingua quechua. Avevo la consapevolezza di aver raggiunto un obiettivo a lungo sognato, oltretutto in condizioni atmosferiche difficili. Avevo camminato per quattro giorni ed ora aspettavo che il sacro sole facesse anch’egli uno sforzo e dissipasse quel manto biancastro. Ma non avevo fretta. Machu Picchu, maestoso ed immobile, pian piano sarebbe apparso in tutto il suo splendore, avrei percorso l’ultimo tratto di sentiero, ero arrivato alla fine del camino..
RITORNO AL CUSCO ‘Allora per la scala della terra sono salito, /fra gli atroci meandri delle selve sperdute, /sino a te, Machu Picchu.’ (Pablo Neruda) Il complesso archeologico è una monumentale opera fatta in parte di montagne, in parte di pietre, in parte di foresta e in parte di acqua. Mi fece un’impressione strana, come di solitudine, nonostante la marea di turisti che disturbavano la sua regale immobilità. Sembrava davvero di trovarsi in un’altra dimensione. Terminata la visita andammo a riposarci sui gradini dell’orribile hotel, eretto proprio di fianco all’ingresso alle rovine con un impatto scenico devastante. Se penso che fino a vent’anni fa non esisteva il turismo di massa e che ogni viaggio era davvero un’avventura… Adesso arrivano perfino in elicottero. Eravamo distrutti, ma non ce la sentivamo proprio di prendere l’autobus. Sarebbe stata una dichiarazione di resa, una sconfitta, un tradimento. La parete montuosa è così ripida che sono stati necessari sedici tornanti per permettere alla Carretera Bingham di superare il dislivello di seicento metri e raggiungere il fondovalle. Un sentiero, invece, scende giù dritto attraversando ripetutamente la strada. Arrivati quasi in fondo, un bambino vestito in maniera tradizionale ci superò di corsa correndo giù per il sentiero a rotta di collo. Arrivò al ponte sul Río Vilcanota proprio mentre stava transitando un autobus carico di turisti. Erano partiti contemporaneamente da sopra. Il bambino si fermò e tese la mano. L’autobus si arrestò di fianco a lui. Tutti lo fotografavano e gli davano dei soldi. Era senza fiato, ma continuava ugualmente a sorridere come nella pubblicità di un dentifricio. Infilò le monete in tasca, li salutò e ritornò verso la montagna. Doveva fare alla svelta se voleva avere il tempo necessario per fare altre discese. Facemmo una sosta a metà del ponte per ammirare il fiume da vicino. Poi tutti insieme lasciammo cadere dei fiori in acqua. L’Urubamba più a valle si immette nell’Ucayali, che alla confluenza col Marañón dà origine al fiume più grande della Terra, il Solimões, chiamato più avanti Rio delle Amazzoni. Dopo quattromila chilometri attraverso paesaggi di incomparabile bellezza, quei fiori sarebbero arrivati all’Atlantico. La stazione ferroviaria di Puente Ruinas, sull’altra sponda, non faceva più servizio passeggeri. Ci toccò scarpinare per altri due chilometri fino ad Aguas Calientes. Avevo i piedi distrutti. Marilena non ce la faceva più. “Dai, che quando arriviamo ci facciamo una polenta” le urlai. “Col capriolo?” Mi fermai con Marino per aspettarla. “Sì, e coi funghi.” “E cotiche e fagioli?” “E cotechino in crosta con purè e salsa.” “E una bottiglia di Teroldego?” “E una crostata di prugne.” “Sìiii, e caffè e ammazza caffè” sospirò Marino. In quel punto il fiume fa un’ampia curva. Con un fragore assordante le acque burrascose superano delle forti rapide. Aguas Calientes sarebbe un bel villaggio, calato in uno scenario grandioso, circondato da alte montagne ricoperte di vegetazione lussureggiante e con alcune sorgenti termali a cui deve il nome. Se non che la vicinanza a Machu Picchu l’ha trasformato in un’orrenda trappola per turisti. Numerose bancarelle astutamente collocate vendevano artigianato dozzinale, paccottiglia e recuerdos di dubbio gusto, come le tarantole inchiodate dentro teche di vetro. Una fila ininterrotta di ristoranti, bar e pizzerie arridevano ai viaggiatori lungo la ferrovia, a meno di tre metri dai binari. Il tentativo di apparire una località all’altezza dei turisti esigenti risultava ridicola e non faceva che evidenziare maggiormente la povertà del posto. I computer degli internet café giacevano inutilizzati, coi video spenti per mancanza di elettricità. Domandammo in giro dove fosse la biglietteria del treno. Ci indicarono una casetta giallina. Entrammo in una stanza di dieci metri quadrati, con due sportelli di legno muniti di sbarre metalliche, un tavolo e una panca di legno. Il treno per il Cusco partiva alle cinque. Dentro c’erano solo due persone. “A che ora apre la biglietteria?” domandai. “Alle due.” Era l’una. Restai con Marino a tenere il posto, mentre Marilena andava a comprare qualcosa da mangiare. Tornò con un’intera pizza, che sbranammo con disperata ingordigia. Come sospettavo la gente cominciava ad insinuarsi nella fila passando davanti agli altri. Quando aprì lo sportello la tensione esplose. Ero stanco, affamato, lurido. Sfoderai uno spagnolo rabbioso e forte della gavetta maturata in Italia difesi strenuamente il nostro turno in fila. Comprai tre biglietti ed uscimmo da quella babilonia. Fuori la fila aveva raggiunto una lunghezza spaventosa. Puntammo verso i locali lungo la ferrovia. I venditori ambulanti ci inseguivano a turno vendendoci perline e statuette. Alle tre e mezza arrivò il trenino rosso e giallo della Enafer. Marino si scolò la birra d’un fiato e si alzò di scatto. Marilena cominciò a prepararsi. Non riuscivo a capire. Mi voltavo attorno cercando di scoprire che cosa stesse succedendo. Ci guardammo interrogativi, loro in piedi, io ancora seduto con la birra in mano. “Beh?” “Dai che c’è il treno.” “Ma parte tra un’ora e mezza” risposi, sempre più confuso. “Sì, ma stanno salendo tutti. Non voglio viaggiare in piedi.” “Aaaaah, per quello. Non preoccupatevi, ogni biglietto ha il suo posto numerato. Anche sugli autobus funziona così.” “Sei sicuro?” “Fidatevi, abbiamo tutto il tempo che vogliamo.” Si sedettero di nuovo e ordinammo un altro giro di birra. Arrivammo alla ciudad imperial alle nove di sera. Per superare il forte dislivello il treno affrontò la discesa a zigzag, procedendo alternativamente avanti e indietro. Dalla cima della montagna ammirammo una splendida veduta della Catedral e della Compañía illuminate. La sera dopo incontrai Marino e Marilena in piazza. Erano contentissimi di rivedermi, perché li avevo avvertiti che forse sarei partito quel giorno stesso. Sotto i portici incontrammo Giorgio: era domenica. Andammo tutti insieme al Cross Keys Pub a berci una birra. Calzava un paio di sandali fatti coi copertoni. Se li era fatti fare su misura, perché del suo numero non esistono. Gli raccontai della serata a Pisac con Alberto e Fiorenzo. “A proposito, sono partiti?” gli domandai. “Sì, l’altro giorno. E hanno fatto anche la storia” mi rispose con aria grave. “Cioè?” “Si sono ovulati. Venti grammi di cocaina a testa. Io ho cercato di dissuaderli. Cazzo, se proprio devo rischiare lo faccio almeno per un miliardo. D’altra parte… Lo sai, no? Quando tornavano non avevano più niente. Spero solo che non li abbiano beccati.” ULTIMO GIORNO L’ambiente asettico dell’aeroporto mi catapultò in una realtà che avevo ormai rimosso. Al check-in dell’Aero Continente la signorina in divisa mi disse che non riusciva a trovare la mia prenotazione. Le feci capire che non mi sarei accontentato dei suoi occhi dolci che sbatteva in continuazione, come per ripagarmi del disguido, presumo. Lo so che noi gringos siamo venali, ma insistetti perché saltasse fuori un posto. Alla fine spostò la prenotazione sull’aereo successivo. Un poliziotto si avvicinò sornione ed indifferente, mi allungò delle banconote e mi pregò sottovoce di comprargli due stecche di sigarette al duty free. Le vendevano solo ai passeggeri in partenza previa esibizione del biglietto. Il piccolo velivolo sorvolò il Nevado Salcantay, alto 6271 metri. Per l’ultima volta contemplai le Ande. Dopo un volo tutto scossoni e sbalzi di pressione, che mi entusiasmò enormemente, atterrammo a Lima. Ignorai le offerte di taxi e cercai lo sportello della Lufthansa. Era chiuso. Mi diedero l’indirizzo dell’ufficio centrale di San Isidro. Il taxista ciarliero mi indicò l’ambasciata giapponese teatro del lungo rapimento da parte del Movimiento Revolucionario Túpac Amaru, finito in un bagno di sangue. Prenotai un volo per il giorno dopo e tornai nello stesso hostal di quattro mesi prima. Alejandro mi riconobbe mentre passeggiavo per Jirón de la Unión, nonostante fossi seminascosto da un sombrero comprato a Tarabuco. Mi confidò che in quei mesi aveva conosciuto una ragazza e che aveva combinato il guaio. “E’ testimone di Geova. Non vuole abortire.” “E fa bene.” “Non avresti cinquanta soles da darmi?” Ero stufo di essere trattato come un portafoglio con le gambe. Non volli aiutarlo e anzi rincarai la dose dicendogli che ero sicuro che sarebbe finita così, assatanato com’era. Non avevo gradito per niente quando l’ultima sera mi aveva aspettato sotto l’hostal con Raimundo e mi aveva rinfacciato l’ospitalità per scroccarmi la cena. Sui gradini della Catedral incontrai Kurt, disperato perché gli avevano rubato il marsupio con dentro tutto. Stava aspettando che gli rilasciassero dei travellers’ cheques sostitutivi e in un paio di giorni, se tutto andava bene, l’ambasciata gli avrebbe dato un altro passaporto. Con lui c’era Antonio, l’amico di Alejandro, anzi ex amico perché mi confidò che avevano litigato. Era contento perché stava per tornare in Svizzera. Uno allegro, per fortuna, stavo cominciando ad angosciarmi. Immancabile arrivò anche David, insieme ad un turista danese. Andammo tutti a bere in un baretto piuttosto malconcio, dove conoscemmo un vecchio austriaco che fabbricava ceramiche. Passò la serata a raccontarci i suoi viaggi anni ‘70 in Italia, finché non si accasciò sul tavolo privo di sensi. Alla fine restammo io e David. Mi portò a mangiare in un posto molto economico frequentato esclusivamente da peruviani, seminascosto in una traversa di Avenida Nicolás de Piérola. Mi sfogai con lui, lamentando il fatto che molta gente si mostrava amica, ma in realtà cercava solo di spillarmi dei quattrini. “E’ vero, qui molti fanno così. Anch’io porto in giro i turisti per locali, faccio da guida, procuro qualsiasi tipo di droga. Sono un disperato e pure maricón, ma credo nell’amicizia. Per me è un lavoro, non ho mai cercato di fregare nessuno.” Cercò i soldi per pagare. “Lascia stare amico, offro io.”