DA LIMA A IGUAZÚ e ritorno .4
Atterrammo su una striscia di terra larga quanto le ali. Appena misi giù i piedi inondai la pista di Miranda di succo d’arancia. Non avevo nemmeno la forza di pensare al disastro che avrei combinato se fosse successo solo un minuto prima. Il tipo elegante si sbellicava dalle risate, il pilota un po’ meno. A pochi passi dalla pista c’era una macchina che lo aspettava, con tutta la famiglia a bordo. Fu lieto di darci un passaggio fino alla stazione degli autobus. Jürgen mi vide in evidente difficoltà motoria e portò anche il mio zaino fino alla macchina: una Fiat Uno, molto comune in Brasile e in Paraguay. Riuscimmo ad entrare tutti: marito, moglie, tre bambini, io e i tre nibelunghi, oltre ai nostri zaini. La moglie conversava tranquillamente, come se viaggiare in quelle condizioni fosse una cosa di tutti i giorni. I bambini, nelle loro postazioni elevate, trasformarono quella situazione in un nuovo e divertente gioco. Arrivammo alla fermata degli autobus piuttosto rattrappiti. Il tipo ci cambiò i guaraníes avanzati e qualche dollaro, un’altra delle sue tante occupazioni. Ci salutò con l’immancabile sorriso, salì in macchina e ripartì.
FRONTIERA Il prossimo autobus sarebbe passato alle due del pomeriggio. Parlando un misto di spagnolo e di portoghese maccheronico comprammo i biglietti per Corumbá. Dei pesanti nuvoloni neri spensero in un baleno quella giornata fino ad un attimo prima radiosa, scaricando un’acquerugiola fine e persistente. Restammo ad aspettare seduti sotto la tettoia del bar. Lentamente mi ripresi e riacquistai un colorito quasi umano.
Sull’autobus capitai di fianco ad un vecchio che attaccò a parlarmi in portoghese. Quando si fermava per ritrovare il filo del discorso annuivo fingendomi interessato, quando invece dal tono mi sembrava di cogliere una battuta mi esibivo in uno dei miei soliti sorrisi ebeti. Non capivo praticamente nulla di quello che mi stava dicendo, ma il vecchio chiacchierò soddisfatto per tutto il resto del viaggio. L’autobus correva spedito sulla strada perfettamente asfaltata, che sembrava galleggiare in mezzo agli acquitrini del Pantanal, una vera e propria sfida a quella regione aspra e meravigliosa. La natura dominava ancora incontrastata. Le poche fattorie, rialzate su collinette chiamate cordilheiras, non disturbavano affatto quel paesaggio primordiale. I rami scheletrici degli alberi morti ospitavano centinaia di avvoltoi neri. Sotto di loro, nell’acqua stagnante, vagavano in cerca di nutrimento aironi, gru e jabirú, le grandi cicogne bianche e nere simbolo del Pantanal, conosciute anche come tujujú. In cielo volavano aquile, falchi e kara kara. Un capibara ci attraversò la strada e andò a tuffarsi in uno stagno, scomparendo tra la vegetazione affiorante. Essere di nuovo in movimento mi mise di ottimo umore. Jürgen era riuscito ad aggiudicarsi un posto davanti, dove poteva allungare comodamente le gambe. Hans e Carola dormivano nei sedili di mezzo. Dopo un paio d’ore giungemmo in vista del Río Paraguay. In quel punto alcuni rilievi interrompevano la piatta monotonia del paesaggio. Qui sorge Morrinho, collinetta. La sua posizione elevata le permette di salvarsi dalle disastrose inondazioni del fiume. Porto Morrinho, invece, è costituito essenzialmente da un ponte e da un misero embarcadoiro, entrambi portati via dall’ultima piena. Ci incolonnammo dietro altri veicoli fermi. Due massicci pilastri di calcestruzzo irti di tondini di ferro svettavano minacciosi sulle due opposte rive del fiume. Tutt’intorno i bulldozer avevano spianato la boscaglia lasciando una distesa di fanghiglia rossa. Ma i lavori di ricostruzione sarebbero durati ancora chissà per quanto. L’autobus entrò insieme ad altri mezzi sopra una grande chiatta. Uscimmo per sgranchirci le gambe e per gustare la magia di quel posto. A monte il fiume si allargava in un dedalo di canali e di isolette popolate da colonie di uccelli di ogni specie. Sulle sponde poltrivano numerosi jacaré, i caimani dagli occhiali. Almeno, fino a quando il rumore dell’imbarcazione non li faceva scattare rapidamente in acqua.
Alla rodoviária di Corumbá, appena scesi dall’autobus, finimmo sotto le grinfie di operatori turistici con tesserini ben esposti sui colletti delle camicie. Ci proposero alberghi ed escursioni di tutti i tipi, mostrandoci decine di depliant patinati. I tedeschi decisero di fermarsi. Io non ne potevo più di caldo, zanzare, acqua e umidità. Volevo tornare al più presto sulle Ande. Ci salutammo frettolosamente e ci scambiammo gli indirizzi. Montai su un taxi e chiesi all’autista di portarmi in frontiera. Con lo sguardo seguii gli altri dirigersi verso l’albergo, guidati dall’operatore turistico tutto contento. Il taxi mi lasciò sotto un arco monumentale bianco, la Porta del Pantanal. Attorno era tutto pulito ed ordinato. Percorsi a piedi il breve tratto di terra di nessuno fino al posto di confine boliviano di Arroyo Concepción, decisamente più grigio e scadente, con numerosi chioschetti e la solita umanità costretta ad arrabattarsi per campare.
Un giovane staccò il fondoschiena dalla fiancata di un’automobile decrepita e si precipitò verso di me, battendo sul tempo i suoi colleghi, che gli lanciarono qualche maledizione e ripresero a chiacchierare tra di loro. “¿Taxi señor?” Fui letteralmente travolto dalla sua irruenza e in men che non si dica mi aveva già caricato lo zaino nel baule. “A Quijarro, veinte bolivianos, buen precio, ¿vamos?” “Calma, devo ancora passare dalla migración. E poi ho solo reais.” “Non c’è problema, reais, dollari, va bene tutto. Ti aspetto qui.” Non c’era verso di fargliela, riusciva sempre ad aggirare qualunque scusa, vera o presunta che fosse. Entrai nella casermetta ma continuavo a tenere sotto controllo il taxi buttando frequenti occhiate oltre le vetrate. Non si poteva mai sapere, magari il taxista aveva fatto un pensierino al pesante zaino chiuso nel baule, sicuramente più sostanzioso di venti bolivianos. L’ufficio della migración era identico a tutti quelli che avevo già visto: scrivania colma di scartoffie, di registri e di timbri, bandiera tricolore boliviana, foto incorniciata del presidente Bánzer Suárez in alta uniforme e quadretti degli eroi dell’indipendenza, i generali Simón Bolívar, el Libertador, e Antonio José de Sucre, che hanno dato il nome rispettivamente alla repubblica e alla capitale. Consegnai il passaporto al funzionario seduto dietro la scrivania.
“Aaah, Itt-áa-lia!” esclamò con un sorriso smagliante mentre faceva scorrere le pagine.
Assunsi la solita faccia da idiota e confermai, ricambiando il sorriso.
“Ritorna in Bolivia, eh?” “Eh già, mi è piaciuta tanto.” Qualche leccatina qua e là è sempre utile per velocizzare queste formalità.
“Mmm, non riesco a trovare il timbro di uscita dal Brasile. Dov’è?” mi chiese sbandierando il passaporto con fare inquisitorio.
“Ah, se è per quello manca anche quello d’entrata, vede, sono entrato in Paraguay per la strada del Chaco, poi…” e gli raccontai per filo e per segno tutto l’itinerario che mi aveva portato fino a lì.
“Sì, però questo è un posto di frontiera col Brasile” tagliò corto, “non mi frega niente se manca il timbro di uscita dal Paraguay, e nemmeno quello di entrata in Brasile. Però non posso farla passare di qua senza il timbro di uscita dal Brasile. Praticamente è un clandestino!” “Ma non è colpa mia se non c’era la migración a Bahía Negra. Il confine l’ho sorvolato sei ore fa e questo è il primo ufficio che incontro. Dall’altra parte” dissi indicando il Brasile “mi hanno fatto uscire senza problemi.” “Lì i controlli non li fanno più da tempo. E poi glielo già detto, non mi tiri più in ballo il Paraguay. Deve tornare a Corumbá per farsi fare i timbri brasiliani.” Era inutile insistere. “Qui a che ora chiude?” “Siamo sempre aperti.” Almeno quello. Però ormai erano le sei passate. L’ufficio di Corumbá probabilmente era già chiuso.
“¿Vamos señor? mi chiese il taxista.
“No, non andiamo proprio da nessuna parte.” Gli risposi anche male, poveraccio. “Non mi fanno passare.” Ci volle del bello e del buono per fargli capire la situazione, già pregustava i suoi soldi. Tornai a Corumbá in autobus. Stranamente, l’ufficio immigrazione si trovava proprio vicino al capolinea di Praça Independência. Seguii le indicazioni del conducente e mi avviai di buon passo. “Figurati se è aperto” pensavo rassegnato, maledicendo il Paraguay e la sua influenza nefasta. Nonostante fosse ormai prossimo il tramonto, c’era ancora un caldo pazzesco, reso più insopportabile dallo zaino e dalla fretta. Incredibile, l’ufficio era ancora aperto! Me la presi con me stesso. Negli ultimi giorni ero diventato troppo pessimista. I funzionari sbrigavano il loro lavoro da un finestra a piano terra che dava sul marciapiede. Mi accodai dietro quattro israeliani. I loro passaporti, col candelabro a sette bracci sul frontespizio, si aprivano da sinistra a destra incasinando i funzionari che non sapevano più da che parte girarli. Finalmente arrivò il mio turno.
“Buona sera, mi servono i timbri di entrata e di uscita. Vi anticipo subito che manca il timbro di uscita dal Paraguay, perché…” e raccontai ancora una volta quel percorso un po’ anomalo.
Mi guardavano accigliati, non so se per risentimento o per perplessità. Quando finalmente ebbero chiara la situazione, mi dissero: “Sì, però non è possibile apporre nello stesso giorno il timbro di entrata e quello di uscita.” Stavolta aggrottai io le ciglia, incredulo. Rispiegai dal principio tutti gli avvenimenti di quella giornata e conclusi dicendo: “sono appena arrivato a Corumbá, saranno un paio d’ore. Non ho intenzione di fermarmi, voglio semplicemente andare in Bolivia. Ma in frontiera mi hanno eccepito la mancanza dei timbri brasiliani. Quindi, se adesso me li fate, levo il disturbo e vado in Bolivia.” “E’ tutto chiaro, ma non si possono mettere entrambi i timbri lo stesso giorno.” I casi erano due: o si erano passati la voce di rompermi le scatole, oppure l’associazione degli albergatori di Corumbá li pagava per trattenere i turisti il più a lungo possibile in città. Per quanto possa sembrare assurdo, non ci fu nulla da fare. Mi feci apporre il timbro d’entrata e chiesi a che ora aprisse l’ufficio l’indomani.
“Alle nove.” Non avevo idea di dove mi trovassi. Tornai al capolinea degli autobus e mi avvicinai ad un taxi. “Scusi, quanto costa fino alla rodoviária?” Il taxista mi guardò un po’ stupito per l’assurda richiesta. Gli feci capire che forse avrebbe guadagnato di più guidando la sua auto invece che continuando a lucidarla con uno straccio. Ci pensò su, poi rispose: “Sei reais.” In tasca ne avevo solo quattro. “Vanno bene quattro reais e un dollaro americano?” “‘Ta bom, ‘ta bom, embora.” Mi feci portare davanti all’hotel dove alloggiavano i tre tedeschi. Il gestore mi confermò il loro arrivo e mi indicò il numero delle loro camere. Si chiamava Antonio, era un mulatto ben piazzato e muscoloso ma dall’aria innocua. Fu in assoluto il più simpatico e il più disponibile fra tutti quelli che incontrai. Mi diede una doppia al prezzo di una singola e mi fece tranquillamente credito fino al giorno dopo. Era sempre sorridente e di buon umore, pronto a soddisfare qualunque richiesta e a risolvere qualsiasi problema. Mi chiese se volevo partecipare ad un’escursione in barca nel Pantanal, ma senza insistere. Era una domanda di routine che rivolgeva a tutti i turisti. Come se a Pisa ti chiedessero se vuoi visitare la torre. Ma non fu né assillante né fastidioso. Nelle stanze dei tedeschi non trovai nessuno. Probabilmente erano usciti a mangiare qualcosa. Mi feci una doccia fredda e approfittai dell’ottimo buffet del ristorantino interno. In televisione trasmettevano le immagini delle devastanti alluvioni che in quei giorni stavano colpendo il territorio di São Paulo. Un tragico bollettino di morti e distruzioni, che andava a sommarsi alle altre innumerevoli tragedie che scuotono quotidianamente questo sconfinato Paese. Dopo cena scrissi un messaggio e lo infilai sotto la porta di una delle due camere dei tedeschi. Poi andai in camera e mi sdraiai mutandato sul letto. Scrissi una lettera sotto il ventilatore impostato su velocità uragano che faceva svolazzare gli angoli dei fogli. Verso le dieci sentii bussare. Erano Hans e Carola, sorpresi e felici di rivedermi. Spiegai la faccenda dei timbri e li consigliai di andare il giorno dopo all’ufficio immigrazione. “A questo punto non potrete ripartire prima di dopodomani.” “Abbiamo deciso di rimanere tre giorni per un tour del Pantanal. Comunque ci andiamo domattina, così non ci sono problemi. Grazie.” Jürgen si era attardato fuori a bere delle birre. Mi assicurarono che me l’avrebbero salutato. Mi ringraziarono nuovamente e andarono in camera. Finii di scrivere la lettera, poi crollai esausto.
Alle sei sbarrai gli occhi. Non c’era più verso di dormire. Da un mucchio di tempo non riuscivo a farmi una dormita come dico io. Uscii. Al piano terra di una casa a pochi passi dall’hotel, di fianco ad una finestra, era affisso un cartello scritto in tre lingue: Compro dollari. Bussai al vetro e immediatamente arrivò il padrone di casa. Cambiai quindici dollari. Doveva essere una tradizione di Corumbá quella di svolgere gli affari dalla finestra. Avevo già visto diversi negozi di alimentari che adottavano la stessa strategia di vendita. Per arginare la criminalità dilagante erano costretti a trincerarsi all’interno di negozi ed uffici. Anche se ci trovavamo lontani dalle pericolosissime metropoli, eravamo pur sempre in Brasile, uno Stato ricchissimo ma con un’elevatissima povertà e il debito estero più alto del mondo: duecento miliardi di dollari! Tornai in albergo e pagai la stanza e la cena. Poi andai nel ristorantino a sbafare la colazione compresa nel prezzo. Mancava ancora un po’ di tempo prima che aprisse l’ufficio immigrazione. Captai una conversazione tra due australiane che parlavano di un internet service. Mi feci spiegare dove si trovasse e ci arrivai facilmente dopo una piacevole passeggiata per le vie del centro. Nell’architettura degli edifici è ancora vivo il ricordo dell’epoca passata. Nel 1840 Corumbá era il porto fluviale più importante del mondo e collegava questa regione col Paraguay e con l’Argentina. Le eleganti abitazioni e i numerosi magazzini sono la testimonianza dell’antico splendore della città, che scivolò pian piano nell’oblio quando la ferrovia soppiantò il trasporto navale. Ora si sta risollevando grazie al turismo.
Davanti all’ufficio della migração c’era già una discreta fila di gente che aspettava l’apertura della finestra. Andai a spedire la lettera nell’ufficio postale, che si trovava sull’altro lato di Praça da República. Come al solito c’era un solo sportello abilitato alla vendita dei francobolli. E come al solito davanti si allungava una coda chilometrica. Mentre riattraversavo la piazzetta alberata, intravidi in lontananza Jürgen con la sua inconfondibile camicia scozzese a scacchi rossi e neri. Gli corsi incontro, ma era troppo distante. Lo vidi entrare in una macchina e sparire dietro lo spigolo di una casa. Peccato. Mi sarebbe piaciuto salutarlo per l’ultima volta.
Dopo un’altra fila ottenni l’agognato timbro di uscita. Tornai in frontiera con l’autobus e mi ripresentai alla migración. Il funzionario mi riconobbe subito. “Tutto a posto?” mi domandò con un sorrisetto sarcastico.
“Sì, tutto a posto” risposi, e gli consegnai il passaporto aperto sulla pagina che conteneva i timbri brasiliani. Lo prese in mano e li contemplò soddisfatto.
“Aaaah sì, adesso sì che va bene. Quanti giorni?” “Trenta giorni” risposi. Era il massimo consentito.
Fece finta di cercare il timbro, rovistando in mezzo a cumuli di carta. Poi, come se si fosse improvvisamente ricordato di un particolare che prima gli era sfuggito, si fece serio e mi chiese: “Ce l’ha il certificato di vaccinazione contro la febbre gialla?” Probabilmente ero il primo a cui lo chiedeva. Lo guardai con sufficienza e lentamente, assaporando la botta morale, aprii la cerniera del marsupio e tirai fuori il certificato.
Accusò il colpo, perché non poteva più attaccarsi a nulla. Timbrò il passaporto e la carta turistica e me li consegnò. “Ecco qua, buona permanenza” mi augurò a denti stretti.