Da cajamarca a cuzco: sulle orme di pizarro

Ottobre 1532, Caxamarca (Cajamarca). Le prime tenebre scendono veloci dalle cime; la città è in festa. L’esercito di Atahualpa, principe di Quito, occupa tutta la pianura e cori stonati si levano dalle migliaia di gole dei guerrieri vincitori. Le truppe di Cusco sono ormai allo sbando e la vittoria è sicura. A pochi chilometri, Atahualpa,...
Scritto da: gabrielepoli
da cajamarca a cuzco: sulle orme di pizarro
Partenza il: 01/01/2007
Ritorno il: 10/02/2007
Viaggiatori: da solo
Spesa: 2000 €
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Ottobre 1532, Caxamarca (Cajamarca). Le prime tenebre scendono veloci dalle cime; la città è in festa. L’esercito di Atahualpa, principe di Quito, occupa tutta la pianura e cori stonati si levano dalle migliaia di gole dei guerrieri vincitori. Le truppe di Cusco sono ormai allo sbando e la vittoria è sicura. A pochi chilometri, Atahualpa, figlio di Huayna Capac e fratellastro del signore di Cusco e rivale Huáscar, si riposa nelle acque termali; è soddisfatto, anche se un piccolo cruccio ancora lo assilla. La notizia dell’arrivo di un gruppo di uomini barbuti, sporchi e puzzolenti –ma armati di strani bastoni che possono uccidere a distanza e accompagnati da grossi e bizzarri animali-, lo inquieta. No, non teme questi personaggi giunti dal mare, tuttavia, potrebbero rappresentare un pericolo se si alleassero con i resti dell’esercito di Huáscar. Potrebbe risolvere il problema inviando truppe a distruggere gli intrusi, ma la curiosità di vedere all’opera le nuove armi e il desiderio di novità sono forti. In fin dei conti, ci sarà sempre tempo per eliminarli, ma occorre evitare che possano incontrarsi con i soldati di Cusco. Che fare? La soluzione migliore è di invitarli a Caxamarca. Quando Francisco Pizarro riceve la visita degli emissari di Atahualpa ha da poco fondato la prima città spagnola, San Miguel de Piura. Come il re inca, anch’egli è indeciso, combattuto fra la paura di un’imboscata e la bramosia di tesori. Le forze a sua disposizione sono esigue, uno sparuto gruppo di avventurieri e qualche archibugio, utile più a far rumore che a ferire. Può contare sui cavalli, sconosciuti agli indigeni, che consentono di caricare con violenza il nemico appiedato e su un’arma segreta. A Panama, il comandante spagnolo ha fatto imbarcare alcuni barili di vino moscato, dolce e inebriante, e il frate Yepes, uno dei tre domenicani al seguito, ha provveduto a versare in alcuni di questi contenitori del potente veleno. Nessuno ne è a conoscenza perché il rischio dell’infamia è troppo alto: egli stesso, padre Yepes, ormai provvidenzialmente deceduto, e pochi altri ne sono al corrente. La decisione è presa; se sono arrivati sin lì è per conquistare un regno –e i suoi tesori-, quindi si parte. E poi, chissà, potrebbe anche andar tutto bene, soprattutto se riuscissero a catturare il re nemico. Felipe, l’indio interprete, ha riferito che l’esercito avversario deporrebbe le armi, una volta fatto prigioniero il sovrano.

Non è ancora sorta l’alba, il sabato 16 di novembre, ma i 170 spagnoli stanno all’erta; non hanno chiuso occhio da quando, il pomeriggio del giorno prima, sono entrati nella grande piazza di Cajamarca. Gli Europei non hanno ricevuto alcuna molestia, ma tremano ugualmente. Nascosti fra i palazzi e le strette vie della città, attendono di incontrare il sovrano inca. La sera innanzi, Hernando Pizarro, fratello del comandante, ha fatto visita ad Atahualpa; non è stato un grande incontro. Il re è borioso, scostante, ma i suoi generali hanno accettato di bere il vino avvelenato ed ora parecchi di loro sono in preda agli spasmi senza conoscerne il motivo. E’ pomeriggio; il corteo reale entra in pompa magna nella piazza. Migliaia di uomini disarmati per la sciocca supponenza del sovrano, nobili che spargono petali di fiori dinanzi alla portantina regale sulla quale, superbamente assiso, Atahualpa avanza spavaldo. Gli spagnoli restano nascosti e il solo padre Vicente de Valverde si avvicina alla portantina reale col Vangelo in mano. Il re e il religioso parlano senza comprendersi, maneggiano il libro sacro che cade al suolo. “Santiago!”, urla Valverde; “Santiago!”, rispondono gli armati dai loro nascondigli. Tuona la piccola bombarda, è il segnale dell’attacco. Al galoppo, i cavalieri iberici si gettano sull’imperatore, lo catturano, intanto che tagliano mani, squarciano petti, recidono teste. “Santiago!” Il sovrano è vinto, guardato a vista all’interno di un palazzo, ma i conquistadores non sono stanchi di sangue e per ore continuano ad uccidere. Alla fine, saranno almeno settemila i morti inca. Il borioso Atahualpa ora è una mite pecorella; cerca di salvare la vita e promette in cambio agli iberici un’intera stanza piena d’oro e due d’argento. Per lunghi mesi, carovane di lama carichi d’oggetti preziosi affluiscono a Cajamarca; centinaia di chili del metallo più pregiato del mondo arricchiscono le bisacce di Pizarro e dei suoi accoliti, ma tutto questo non basta per salvare la vita al re. Un altro sabato, il 26 luglio del 1533, al calar della sera, Atahualpa è legato ad un palo e strangolato. A Cajamarca arriviamo anche noi; non ci sono tesori da trafugare, non esistono nemmeno resti di architettura inca, a parte quella che è comunemente identificata come la “stanza del riscatto”, una saletta costruita con solide pietre che la leggenda vuole essere stata la prigione di Atahualpa, riempita, poi, di tesori provenienti da tutto l’impero. La città è graziosa, il clima mite; a 2.719 metri di altezza non c’è pericolo di subire il mal di montagna. L’origine di Cajamarca risale a 3.000 anni fa, abitata, fra le altre, dalle etnie Combemayo e Otuzco prima e Caxamarca poi, fino alla conquista inca avvenuta attorno al 1450. La Plaza de Armas, una delle più ampie del Perù, è situata sopra all’antica piazza dove il re fu assassinato. E’ una città tranquilla e pulita che si anima in febbraio; qui, infatti, si festeggia uno dei più importanti carnevali del paese. Saliamo con calma la lunga scalinata che conduce alla sommità della collina di Santa Apolonia, da dove ammiriamo lo splendido panorama delle vette, della fertile valle e del centro, con la bella cattedrale barocca dalle influenze plateresche. In cima al colle vi sono i resti di un altare di pietra d’epoca Chavín che la gente del luogo ha battezzato “La sedia dell’Inca”. Oltre a Baños del Inca, le terme di Atahualpa con l’acqua che esce a 79°C, vale la pena visitare il sito geologico di Combe Mayo, a mezz’ora di strada dal capoluogo, con misteriose caverne scavate nella roccia e solcate da petroglifi. Qui, fra alte pareti di pietra, percorriamo una scalinata di roccia alla fine della quale si apre una spianata circondata da torri di granito e grotte. Immersi nel silenzio, solo interrotto dal gemito del vento, seguiamo per un breve tratto un antico canale d’irrigazione lungo otto chilometri che, alla fine, sbocca in una diga di pietra dove i primi abitanti deviarono le acque del versante atlantico verso il Pacifico per rendere fertili le proprie terre; un autentico miracolo d’ingegneria. Confronto fra due culture A Cajamarca –il cui significato è “paese del fulmine” secondo alcuni e “regione delle spine” secondo l’Inca Garcilaso de la Vega–, ebbe luogo nel secolo XVI il confronto tra due culture antagoniste, scontro simbolizzato in una stanza piena d’oro e due d’argento. Nel secolo XXI, con le miniere di Yanacocha, Cajamarca si imbatté ancora una volta nella leggenda del prezioso metallo. Las Ventanillas de Otuzco Otto chilometri a nord di Cajamarca, in un faraglione del colle Llanguil, vi sono quattro grotte quadrate scavate nella roccia vulcanica e disposte su vari piani, conosciute come Las Ventanillas; si tratta di tombe della cultura Cajamarca (600-1200 d.C.). Alcune sono semplici e altre contengono diverse piccole stanze laterali. Fu un luogo “tardivo” di sepoltura, nel quale venivano depositate le ossa dei morti, poi ricoperte con una lastra. L’undici agosto del 1533, Pizarro, con il socio Diego de Almagro, lasciò Cajamarca, attratto dalla mitica capitale inca, Cusco. Per quanto possibile, cerchiamo anche noi di percorrere l’itinerario degli spagnoli, lungo il Capac Ñan, il cammino reale inca che collegava le due capitali, Quito in Ecuador e Cusco in Perù. La strada non è certo delle migliori, ma in qualche modo giungiamo a Cajabamba, ai piedi della montagna tutelare Chochonday. Altri sessanta chilometri verso sud e ci accoglie il villaggio di Huamachuco dove, fra il 400 e il 1000 d.C. Fiorì l’omonima cultura. Nei pressi del paese, visitiamo Cerru Amaru ,“monte serpente”, sulla cui cima i chiles, pozzi artificiali, ci ricordano che il luogo era un santuario dedicato al culto dell’acqua. A pochi chilometri sorge Marcahuamachuco, altro tempio ricco di costruzioni monumentali, deputato alle feste in onore degli antenati. Comprendiamo che sarà quasi impossibile proseguire ancora a lungo per questa via, a meno di non procedere a piedi o a dorso di mulo; d’altronde, gli Inca non disponevano di animali da tiro e quindi non sapevano che farsene di carri su ruote. Il Capac Ñan, paragonabile per estensione e magnificenza alle strade romane, fu disegnato, infatti, per un mondo a piedi. Con sempre maggior difficoltà, il cammino sale snodandosi lungo la dorsale della cordigliera, fino ai 5.000 metri del passo. Sopra di noi il cielo è talmente terso da ferire gli occhi; abbassiamo lo sguardo e rabbrividiamo alla vista di precipizi senza fine. Iniziamo la discesa guardinghi, passando fra gigantesche rocce ricoperte di muschio azzurrognolo e costeggiando laghetti dove nuotano anatre silvestri; un ultimo avvallamento e scorgiamo il villaggio di Andamarca, al termine del percorso. Visto dall’alto, il paese appare come un’enorme arena circondata di rilievi scavati a terrazza per la coltivazione di patate, quinua, kiwicha, mais e orzo. L’emozione per l’inatteso splendido paesaggio si attenua quando ci avviciniamo al centro urbano. Vecchie e povere case di adobe dai tetti in lamiera, stradine di terra battuta maltenute e polverose, bimbi dai visi sporchi e rovinati dal clima caldo di giorno e freddo di sera e poco altro; questa è Andamarca, cittadina di poco più di tremila abitanti, famosa perché qui trascorse in catene i suoi ultimi giorni l’Inca Huáscar, prima di essere assassinato per ordine di Atahualpa. Il fratricidio fu l’ennesimo errore commesso dal principe di Quito, perché fornì un alibi agli spagnoli che lo accusarono di omicidio e poterono tranquillamente giustiziarlo. Omicidio? Un sorriso amaro ci sfiora, ricordando le migliaia di vittime inermi passate a fil di spada dagli uomini di Pizarro. Ad Andamarca, a fine agosto, si celebra il Yaku Raymi, la Festa dell’Acqua propiziatoria dell’anno agricolo che di lì a qualche giorno inizierà. Durante tutta la settimana, la popolazione del villaggio festeggia con cerimonie religiose –cattoliche e preispaniche-, danze e le immancabili solenni bevute. Proseguire lungo il cammino è ormai impresa superiore alle nostre forze, per cui ci dirigiamo verso la costa, risaliamo a Huaraz, nel Callejón de Huaylas e imbocchiamo la strada sterrata verso la moderna città di Huánuco. Alla nostra destra la Cordillera Negra, a sinistra la Blanca, scansiamo buche, costeggiamo profondi precipizi, incontriamo minatori stanchi e qualche minuscolo villaggio fino a La Unión, piccolo centro che ha ben poco da offrire, a parte le primitive terme, ma a dieci chilometri di distanza vi sono le rovine della seconda città più importante del Tahuantinsuyu peruviano dopo Cusco: Huánuco Pampa. Costruita fra il 1460 e il 1480, la città inca, grazie alle condizioni climatiche ottimali, era sede di un complesso sistema di depositi per l’immagazzinamento di prodotti quali patate e cereali. I magazzini sono oltre cinquecento, sia di forma circolare sia rettangolare, disposti in modo da usufruire di una permanente ventilazione e di un sistema di refrigerazione naturale, fattori che mantenevano i prodotti al riparo dalla fermentazione e dalla proliferazione di agenti nocivi. Huánuco Pampa sorge a 3.736 metri di altitudine ed è costituita da circa quattromila edifici. Al centro della grande piazza principale troneggia l’Ushnu, una struttura di pietra sopra alla quale stava seduto l’Inca durante le cerimonie; sono ancora visibili i resti della Acclahuasi, la casa delle Vergini del Sole e i quartieri militari.

Da La Unión, con un mototaxi ci avviamo al centro termale per un momento rigenerante. Non ci convincono le fatiscenti vasche in cemento, così preferiamo entrare nelle antiche terme che, ci raccontano, erano usate anche dagli Inca. Candela alla mano, strisciamo all’interno di un buio cunicolo scavato nella roccia e scivoliamo sempre più giù, dentro alle viscere della montagna dove scorre un rivolo d’acqua quasi bollente. La tremula fiamma serve a ben poco; riusciamo solo a distinguere le due pareti di granito, ad un metro di distanza l’una dall’altra, in mezzo alle quali, accucciati per non ammaccarci la testa contro la volta di sassi aguzzi, stiamo noi, l’acqua caldissima e il denso vapore. Resistiamo non più di dieci minuti, poi usciamo barcollando e chiedendoci di dove verrà e da che parte andrà a finire quell’acqua solforosa.

La moderna città di Huánuco non è molto interessante in fatto di monumenti e rovine inca, perciò procediamo lungo una bella strada asfaltata che conduce a Cerro de Pasco, la città più alta del mondo (4.333 metri). Cerro è uno dei più importanti centri minerari del paese, popolato da gente costretta a sopravvivere al clima infelice pur di assicurare il pane ai propri figli. Di lì a La Oroya e poi giù nella Valle del Mantaro fino a Jauja, cittadina dalle case basse, con i tetti di tegole che ricorda i vecchi paesi spagnoli. Francisco Pizarro vi giunse nel 1534 e qui, il 25 aprile dello stesso anno, fondò la prima capitale spagnola del Perù. Proseguendo lungo la bella e fertile valle, superiamo la moderna e poco invitante città di Huancayo e, dopo qualche chilometro, l’asfalto lascia il posto alla strada sterrata.

Ancora polvere, buche, burroni, guadi, ma anche paesaggi d’eccezione, villaggi dimenticati dal tempo, torrenti impetuosi che paiono erodere la terra e la sensazione di assoluta libertà. E’ questa la strada che in alcune ore ci porta alla bella città di Ayacucho, tristemente celebre negli anni ’80 per aver dato i natali al sanguinario movimento terrorista Sendero Luminoso che tanto orrore ha sparso in queste lande e in tutto il Perù. Ayacucho ora è una tranquilla cittadina dal clima eccellente, dove il turismo ancora stenta ad arrivare e forse per questo ha mantenuto inalterate le caratteristiche di centro agricolo in cui la vita scorre serena. Il Capac Ñan passava da queste parti, toccando la città inca di Vilcashuaman, a circa ottanta chilometri di distanza. La città del Falco Sacro (da vilca, sacro e huaman, falco) prima di entrare a far parte del Tahuantinsuyu fu la capitale del feroce popolo Chanka, acerrimo nemico degli Inca. In lingua originale, chanka significa “saltellare”; una delle caratteristiche di questi guerrieri, infatti, era di recarsi in battaglia procedendo a piccoli balzi. I Chanka portavano i capelli lunghi, raccolti in trecce e si dipingevano il viso di rosso, a differenza degli Inca i cui capelli erano tagliati corti e il viso pulito. Ai tempi dell’Inca Viracocha, il “popolo saltellante” giunse ad invadere e distruggere Cusco –a quel tempo poco più di un villaggio di fango e privo di palazzi-, ma vennero ben presto sconfitti e messi in fuga da Inca Yupanqui che in seguito detronizzò il padre Viracocha e assunse il nome di “Sovvertitore del Mondo”, Pachacutec. Il nuovo sovrano ricostruì la capitale con palazzi e templi, pavimentò il letto dei fiumi Huatanay e Tullumayu che delimitano il centro, ne rafforzò gli argini, disegnò strade e quartieri seguendo la traccia dettatagli da Inti, il dio sole: un puma la cui testa era il tempio fortezza di Sacsayhuaman, il corpo la grande piazza di Huacaypata e il treno posteriore la zona a sud del Coricancha, la casa del Sole. Sterminati i Chanka, Vilcashuaman fu ricostruita come città inca fra il 1400 e il 1500 d.C. E rappresentò uno dei centri amministrativi più importanti del Tahuantinsuyu, arrivando ad ospitare fino a trentamila soldati di guarnigione. La città è collocata sopra ad una piattaforma che sovrasta una profonda gola dove scorre il rio Vischongo. Di qui, la strada inca scende nella valle, situata 1.800 metri più in basso, con una interminabile scalinata, e si dirige quindi verso l’odierna città di Abancay, poco oltre la quale il cammino si dirama. La via secondaria sale verso nord est fino a Choquequirao, centro che, assieme a Vilcabamba La Grande, ospitò per quasi quarant’anni –dal 1536 al 1572- la resistenza inca contro gli invasori spagnoli. Il cammino principale prosegue verso est, toccando Limatambo e Anta e terminando ne “l’Ombelico del Mondo”, Cusco, la capitale gioiello dell’impero.

L’alimento del futuro è la quinua Studi realizzati in Germania ed Austria, hanno concluso che la quinua sarà l’alimento del futuro grazie alla sua naturale composizione proteica ed all’assenza di fertilizzanti nella sua coltivazione,. Chenopodium quinoa (quinua) è un cereale che cresce ad oltre 3.000 metri di altitudine, sulle Ande; ha un elevato contenuto proteico (14.22%) ed è l’alimento di base utilizzato dagli astronauti della NASA durante i loro viaggi aerospaziali. Gabriele Poli



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