Cuba vera

Cerco di riassumere in poche righe i termini del viaggio. Volo charter Blue Panorama da Milano Malpensa per Varadero e ritorno (2 agosto/17 agosto), costo complessivo 731 euro, fissato tramite internet sul sito todomundoviaggi, con un consistente risparmio sia rispetto alle altre destinazioni cubane (l’Havana in agosto, con la stessa compagnia,...
Scritto da: alexclz
cuba vera
Partenza il: 01/08/2007
Ritorno il: 17/08/2007
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
Cerco di riassumere in poche righe i termini del viaggio. Volo charter Blue Panorama da Milano Malpensa per Varadero e ritorno (2 agosto/17 agosto), costo complessivo 731 euro, fissato tramite internet sul sito todomundoviaggi, con un consistente risparmio sia rispetto alle altre destinazioni cubane (l’Havana in agosto, con la stessa compagnia, costava intorno ai 1100-1200 euro) sia naturalmente rispetto alle prenotazioni effettuate attraverso altre agenzie di viaggio (on-line e non). Il volo è stato buono, puntuale, magari non ricchissimo di comfort, ma più che dignitoso (troverete sui numerosi forum, diversi pareri negativi sulla compagnia Blue Panorama e su cui non mi esprimo. Dico solo che se un aereo mi porta a destinazione e mi rilascia a casa ha fatto il suo dovere e tanto mi basta). Per non rischiare di trovarsi scoperti in una realtà nuova, sia io che i miei due compagni d’avventura abbiamo deciso di cautelarci fissando le prime 3 notti a Varadero e muoverci poi autonomamente per l’isola, soggiornando di volta in volta nelle casas particulares. Sempre tramite internet, avevo quindi prenotato all’Hotel Club Tropical, spartano e con un cucina di modesta qualità, ma completo di tutte le altre comodità ed economico (26 euro, inclusi tutti e tre i pasti e le bevande tutto il giorno, particolare di grossa importanza, data la clamorosa umidità). Per di più l’hotel si trova sul mare ed è vicino al Terminal de Omnibus, al quale ci saremmo poi recati il terzo giorno per prendere l’autobus verso Santa Clara. Ritenuta la località più turistica di Cuba e guardata sempre con un certo distacco da guide e gitanti snob, Varadero è in realtà un posto tranquillo e piacevole, con un bel mare azzurro e una spiaggia bianca tipicamente caraibica. Non sono troppo attratto in genere dalle bellezze marine, ma devo dire che qualche giorno in questo posto valgono assolutamente la pena, se non altro per non doversi misurare fin dall’inizio con la sorprendente povertà del resto dell’isola. In mezzo ad alberghi più o meno nuovi (passeggiando lungo la spiaggia, si ha la sensazione di vivere una Viareggio o una Capri anni ’50, con tanto di vetturone americane dell’epoca, parcheggiate su un rustico lungomare), non mancano aspetti interessanti e, a loro modo, educativi. Tralascio la vita di mare durante la giornata, simile a quella che si può fare in tutte le parti del mondo (c’è la possibilità di fare escursioni al largo, di prendere canoe, patini…Tutte cose che si potranno facilmente verificare sul posto, basta avere il portafoglio pronto), per raccontare gli aspetti meno discussi nelle guide e nei racconti della gente. Coppie e famiglie avranno modo di apprezzare in serata le numerose animazioni dei vari resort presenti (certo, dipende da gusti) o i balli di gruppo presso alcuni bar che si incontrano lungo la strada principale. Ci si muove in taxi, calesse o auto. Girare Varadero a piedi può essere un pochino deprimente, nel senso che la penisola è lunga 20 km e, senza una gran quantità di quel tipo d’attrezzature (bar, locali, negozi etc etc), si corre il rischio di camminare per centinaia di metri senza venire a capo di nulla, pur essendo interessantissimo intravedere lo stile di vita cubano, con queste famiglie appollaiate fuori dalle case a chiacchierare e discutere. Gli animatori degli hotel tendono quindi ad accompagnare i clienti più giovani nelle discoteche più grandi (Cueva, Rumba, Continental) che a turno organizzano la serata “buona”, con la conseguenza di incontrare le stesse persone del giorno prima in un luogo diverso, tutte con l’immancabile e tristissimo braccialetto dell’hotel di appartenenza. L’accoglienza turistica locale si comporta così perché così pretende il governo, abile a mostrare uno specchio distorto della realtà cubana, che deve apparire folkloristica ma più in salute di quanto non sia, con discoteche di stampo americano, colme di turisti da tutto il mondo, con netta maggioranza di italiani, ispanici e canadesi. Capito ben presto come veniva indirizzata la vita notturna varaderina, abbiamo scelto la seconda sera di recarci a Matanzas, capoluogo della regione omonima, dove tra l’altro si trova Varadero. Alla discoteca la Salsa, consigliata dal portiere notturno del nostro hotel, abbiamo avuto modo di verificare che la “vera” Cuba ha un’immagine assai più interessante e assai meno idilliaca di quella intravista nella riparata penisola. Con i tassisti ufficiali si contratta sul prezzo (mai fidarsi dei tassametri o della prima cifra che sparano), prima di fare i conti, appena si scende dalla corsa, con una numerosa schiera di ragazze che ci prende di mira in quanto turisti e ricchi, secondo i loro standard. Un aspetto curioso di Varadero è infatti la totale assenza dalle spiagge di ragazze tra i 20 e 30, perché la polizia ne impedisce l’accesso per porre un freno alla prostituzione “fisiologica” della donna cubana. Il governo pretende in questo modo di camuffare la realtà isolana, mostrando una Cuba comunista che ha debellato il fenomeno. Ma basta muoversi di qualche chilometro (per esempio verso la suddetta Matanzas), incocciare strade poco illuminate, entrare in qualsiasi locale o essere semplicemente giovani e single, per entrare in questa rete parallela, che si muove nell’ombra o quasi, in perenne conflitto con la polizia, che in realtà frena questo stato di cose solo dove gli viene richiesto e ipocritamente lascia fare altrove. A Matanzas lo abbiamo visto e appresso sulla nostra pelle. E non si può evitare di parlarne. Perché significherebbe non capire Cuba, misurarsi con questa strana pseudo-prostituzione, ossia con questa donna cubana che non è una professionista del sesso, ma gioca sul suo corpo per avere qualche ora di felicità o assicurarsi qualche mese di tranquillità economica grazie ai regali dei turisti (il “mitico” socialismo cubano garantisce 10 pesos convertibles al mese, pari a 9 euro circa, e vivere con questo stipendio è drammatico!!!). E intorno a queste ragazze dall’esistenza segnata, si muove un sottobosco di favori, dall’amico/a che cerca di ronzare intorno per farti un favore e averne un beneficio, alla madre che ti spinge tra le braccia della figlia, al tassista abusivo che conosce la ragazza, al tizio che spunta fuori dal nulla per proporti una camera dove stare con la tipa appartato. Per una indomita curiosità di fondo (benché mi renda conto che affrontando questi temi, rischio per passare per il classico italiota in cerca di facili avventure), non nascondo di essermi spinto anche abbastanza in là, valutando meglio questi aspetti che, ripeto, negare sarebbe fazioso. Mi spiego meglio. Giunti il 4° giorno a Santa Clara con l’autobus Viazul (le cui convenienti tariffe si possono trovare sulle guide LonelyPlanet) tanto per dire, le signore che ci hanno affittato la nostra prima casa particular, hanno subito chiarito che se si intendeva portare una ragazza in casa, si doveva farle firmare un registro e allungare 10/20 pesos convertibles di mancia. Non ti parlano di gas, armadi, acqua, luce, chiavi. Ti parlano di donne e lo fanno con una naturalezza spiazzante, che ti etichetta (pur in maniera simpatica) come turista del sesso, anche se ti senti lo stesso turista di quando ti trovi in qualunque altra città del mondo. Al pari della spiaggia e delle discoteche di Varadero, anche a Santa Clara sembrano non esistere ragazze cubane di giorno e nei luoghi più frequentati. Abbiamo saputo che in estate queste si spostano in massa tutte sulle località costiere (non sulle spiagge, badate bene), per cercare fortuna con gli stranieri. Chiudendo per il momento la parentesi “cubane”, diremo che Santa Clara è cubana quanto più cubana non si può. Conta 250mila abitanti circa, ma sembra di vivere in uno dei paesini del nostro sud di una volta, con la gente seduta su sedie di legno in strada, bambini scalzi che giocano a baseball con mazze di legno, televisioni (l’unica “modernità” concessa) sempre accese. E questo presepe va avanti fino a notte. I patiti della storia e i fan della rivoluzione vengono a Santa Clara soprattutto per vedere la tomba del Che, il guerrigliero celebratissimo in tutto il mondo. Al pari di tanti altri miti, sorge il dubbio che al personaggio abbia paradossalmente giovato non poco la morte precoce avvenuta in circostanze poco chiare. Il mastodontico e grigio mausoleo è un cattedralone nel deserto, che incontri nel cuore di Cuba all’estrema periferia di Santa Clara, dove stona non poco, pomposamente eretto dove vicino non sorgono che baraccopoli o palazzoni popolari della peggior edilizia sovietica. Le riproduzioni del treno che il comandante assaltò assicurandosi il controllo della città, non sono altro che due vagoni inclinati di poco gusto, in mezzo a una strada che conduce fuori dalla città. Se i cimeli del Che deludono, più interessante è la zona del Parque Vidal, l’enorme piazza centrale che ha un gusto da primo Novecento, con il teatro neoclassico rimesso, qualche calesse, il gazebo in pietra dove si suona la musica e qualche caffè ai lati. Un giorno è più che sufficiente per la visita di questa curiosa città, dalla quale me ne sono andato un po’ commosso, per aver lasciato troppo presto la famiglia della signora Angela, con la quale avevo instaurato un bel rapporto. Il figlio era ingegnere chimico ma era menomato da un’infermità a un piede e costretto ad affittare stanze con la madre (del resto, che farsene a Cuba di un ingegnere chimico…Ovviamente in Usa o Europa lo prenderemmo di corsa uno così, ma il regime ne impedisce l’espatrio), mentre la moglie di colore teneva sempre in braccio un bel bambino appena nato. Angela era stata invece autrice di teatro e ho avuto modo di capire che era di una cultura superiore rispetto alla media dei cubani, benché non esitasse a sbracciare come tutti gli altri al Terminal de Omnibus, per cercare di convincere il turista a scegliere la sua casa in affitto. La notte prima di andare via, seduto sul marciapiede al buio come un vero cubano, discutere con lei del regime (ma sottovoce, tutto con doppi sensi) e di Cuba, è stato un momento tra i più sinceri e commoventi della vacanza. Da Santa Clara ci siamo mossi quindi per Trinidad facendo una fugace sosta a Cienfuegos, che pullula come Santa Clara di manifesti del Che, il cui faccione semi-serio appare lungo la Carrettera Central e l’Autopista (mi sarebbe piaciuto vedere qualche indicazione, guard-rail, striscia, asfalto in più… ma tant’è, a Cuba comanda Castro). Anche Cienfuegos ci è parsa molto carina e tipica, benché assaggiata solo per un paio d’ore, con la sua ampia baia e una costa più selvaggia rispetto a quella nord. A Trinidad si giunge dopo un tragitto lungo la montagna retrostante, a passo lento, come lenti sono i ritmi di quest’isola che non sta vivendo il nostro 2000 del consumismo, ma si adatta a sopravvivere con quello che passano (poco) i barbudos e gli aiuti (tanti) dei turisti. E Trinidad è la sintesi di tutto questo. Patrimonio dell’Umanità per aver conservato l’aspetto di villaggio coloniale e covo di bucanieri, rispetto ad altri borghi storici (medievali, coloniali, barocchi che siano) possiede una sincerità spiazzante, per la totale assenza di commercializzazione delle sue attrattive principali. Le stradine di Trinidad sono asfaltate solo in rarissimi tratti, mentre fanno da padroni ciottoli irregolari e malfermi, al confronto dei quali i sanpietrini di alcune nostre cittadine sembrano velluto. Cavalli al trotto che sporcano di escrementi il selciato malfermo, mosche e mosconi che invadono gli sporchissimi banchi di carne, case basse più simili a catapecchie che a confortevoli dimore, abitanti appiccicosi come in nessun altra città di Cuba quando si tratta di spillare denaro allo “straniero”. E poi una clinica cittadina di imbarazzante “semplicità” (nonostante una fornita farmacia interna), una scuola elementare per disabili finanziata con fondi cileni che commuove per la sua mestizia (e alla quale ho comprato alcune penne e lasciato un’offerta), bar dove manca tutto o quasi (elettricità, varietà di generi), un supermarket discretamente fornito ma organizzato “alla sovietica”, con file enormi alle casse e ai diversi banchi. La Plaza Major e l’Iglesia possiedono un certo fascino, dovuto alla loro capacità di mescolare lo stile coloniale con il barocco, gli stucchi colorati dell’America Latina con le decorazioni pompose dell’arte spagnola. Il museo de la Ciudad ha sede nell’ex palazzo del governatore e, pur non offrendo particolari attrattive, mantiene intatto il sapore del tempo che fu, con le scrivanie degli alcaldes spagnoli e un piccolo negozietto di souvenir che manda a oltranza la canzoncina del Che (ancora lui, basta!!!). Dall’alto della torre si può godere di una bella vista e si possono cogliere ambienti curiosi come il mercatino dell’artigianato o come un cortile a fianco di Plaza Major, dove un gruppo di cubani di mezza età, ama suonare il repertorio dei Buena Vista Social Club, circondato da un’aia con le galline e l’immancabile Chevrolet degli anni ’50. A 12 km dal centro del paese, sorge la celebrata Playa de Ancun, descritta nelle guide e dai locali come la spiaggia più bella costa sud di Cuba. Si tratta invero di un tratto di mare carino ma di bellezza poco più che discreta, senz’altro non paragonabile alle splendide Varadero e Playa de l’Este, per non parlare di Cayo Largo, Maria la Gorda, Cayo Coco e Cayo Santa Maria. Valgono per Ancun alcuni dei discorsi fatti per Varadero (zero ragazze o quasi, tanti ragazzini petulanti, famiglie cubane al gran completo, poche attrezzature sulla spiaggia, ma è un bene, qualche resort pacchiano a ridosso della spiaggia, zero banche con conseguente cronica penuria di contante da parte dei miei poco parsimoniosi compagni di viaggio). Decisamente più interessante la vita notturna di Trinidad, nella quale come per magia riemergono dalla nebbia i giovani e le giovani cubane, cui spetta il compito di allietare i turisti nella nobile e difficile arte della salsa. A fianco della scalinata della chiesa, viene infatti allestito un cortile di fortuna dove i locali si esibiscono in balli e canti, e dove i turisti possono gustare, seduti su i gradini, qualche buon mojito che si vende nei due piccoli bar a fianco. Come e forse più che a Varadero, Trinidad è marcata a vista dalla polizia, che si schiera ai lati della scalinata e nella Casa de la Musica per impedire gli abbordaggi delle jineteras, peraltro abilissime a lanciare fugaci ma inequivocabili occhiate al turista single. Tutto ciò provoca un mix di divertimento (per l’atmosfera, quasi da spy-story o da “Pirati dei Caraibi” ma in versione reale) e desolazione, per l’avidità coatta delle ragazze e l’ossessiva presenza degli uomini in divisa, che rovinano l’aria del Caribe. La Casa de la Musica è molto carina, ma risente di questa situazione grottesca. Alle finestre del locale si stipano poi decine di giovani e giovincelle, che bramano qualche dollaro dai turisti all’interno e ascoltano di sfuggita un po’ di musica, unica deroga a loro permessa (la prima sera ho pagato l’ingresso a tre ragazzi, forse gli unici che non mi si erano lanciati addosso per scroccare qualcosa e che, per la loro onestà, ho voluto “premiare” di mia iniziativa). Altrettanto vitali sono il Piano Bar, sempre in cima alla scalinata della chiesa, a fianco della Casa de la Musica, e la Cueva, un luogo fin troppo turistico per gli standard cubani, ma posto all’interno di una grotta suggestiva, dove si arriva al termine di una passeggiata che porta in cima a una montagnola e che di notte vale da sola il prezzo del biglietto (soprattutto se si ha la fortuna, che ho avuto io, di avere un bel cielo stellato). Ma una vera marcia in più hanno i vicoli e le stradine, buie, misteriose, strette e piene di approfittatori e approfittatrici, che sbucano dai portici, dalle finestre, dagli angoli nascosti e chiedono o vendono favori, attenti a rimanere nell’ombra per non farsi “beccare” dagli agenti, appostati a ogni ezquina. Le sensazioni vissute a Trinidad hanno un che di cinematograficamente eccitante che, come dicevo prima, difficilmente si vive altrove. Qua tutto diventa magicamente accessibile. La città vive anche di notte, non nasconde la propria anima come fanno gli splendidi borghi antichi europei, che restano alla mercé dell’orde di turisti durante il giorno, ma si spengono quando il buio avanza. Trinidad non ha perso invece la sua identità piratesca pur vivendo il XXI secolo. Le case sono spesso ricavate in vecchi fienili, antiche taverne o botteghe d’epoca dismesse, solo qualche vecchia televisione a volume alto ti fa ricordare di essere in epoca moderna. Sensazioni che hanno trovato conferma in occasione della mia escursione a cavallo (fatta grazie alla conoscenza di un ragazzo cubano, amico dei 3 di cui dicevo sopra, che mi ha fatto pagare 10 pesos invece dei 26 richiesti dal Cubatour per un giro tra l’altro “più istituzionale”). Trotto nella giungla tropicale, guado del fiume, attraversamento della ferrovia in stile vecchio west come mai mi sarei aspettato di fare nella mia vita, bagno alla cascata, assaggio del succo di zucchero di canna e cavalcata a perdifiato nella prateria: senza lezioni, senza aiuti, così, lasciato semplicemente allo sbaraglio e così esaltato da non sentire la paura. Potrei raccontare altri mille aneddoti di Trinidad (dalla vedova nera che mi sono ritrovato a mezzo metro di distanza mentre ero in bagno, alle tante conoscenze femminili fatte, tutte ovviamente non per mia iniziativa, al nubifragio del quarto giorno che ha creato rivoli d’acqua sporca per le viottole di Trinidad e ci ha costretti per un paio d’ore a sedere sull’uscio della casa particular a bere una bottiglia di ron). Ma consiglio di gustarla da soli, tassativamente senza accompagnatori e guide, riservandole un paio di notti, forse tre, perché l’aria malsana, la sporcizia e la povertà eccessiva alla lunga mettono alla prova, così come le pressanti e noiose attenzioni dei trinidegni, simpatici come non se ne trovano altri a Cuba, ma troppo invadenti. Lasciata questa incredibile cittadina, decidiamo di muoverci finalmente in direzione dell’Havana, la città più attesa della nostra vacanza, dove ci aspettiamo di trovare un ambiente realmente cittadino e dinamico. Prima di partire (in ritardo per dei problemi di posti sul Viazul, fino ad allora l’unico ente cubano realmente efficiente), ci facciamo consigliare dai padroni della casa particular di Trinidad, Maribel e Armando, un appartamento per la capitale, dove arriveremo solo in serata. Così, dopo circa 6 ore di autobus, giungiamo verso le 20,30 al Terminal de Omnibus de l’Havana, dove ci attende Raul, un allegro signore di 40 anni con la camicia hawaiana aperta. Ci racconta di essere un marinaio e di avere un appartamento a l’Havana Vieja (e non al Vedado, come ci aveva detto Maribel). La soluzione, pur essendo meno economica rispetto alle precedenti (a Santa Clara e Trinidad con 10 dollari si dorme, Raul ne chiedeva molti di più, ma ho contrattato per 15), si rivela perfetta dal punto di vista logistico. Raul abita in un appartamento di cui è proprietario in realtà un avvocato americano della Florida, che lo lascia all’amico cubano per i mesi in cui non lavora, permettendogli di sub-affitarlo. Risultato: l’appartamento è di un livello nettamente superiore rispetto agli altri da noi visti o abitati, e soprattutto è a due passi dalle maggiori attrazioni turistiche della capitale, ragion per cui evitiamo di prendere troppi taxi per muoverci. Alle 21,15 della prima sera sono già a cucinare pasta nella cucina della casa, con Raul che osserva curioso la preparazione e gli altri due che sbafano a volontà dopo un viaggio abbastanza lungo. Terminiamo la serata uscendo per una piccola visita con Raul, che ci fa da Cicerone, mostrandosi sin troppo apprensivo, perché teme che ci mettiamo nei guai con la “tentacolare” metropoli. L’Havana in realtà appare fin dal primo impatto, una città sì latina e con molte zone d’ombra (lontano dai quartieri controllati dalla solita polizia governativa), ma molto tranquilla e nient’affatto pericolosa come la descriveva Raul o come scrivevano le guide (sarà che avendo vissuto per molti mesi a Londra, le altre città mi sembrano sempre camminare, mentre là si correva). Come al solito le impressioni tradiscono: vivere un luogo dal di dentro, con pregi e difetti annessi, rende assai più sereni di quanto non faccia l’immaginazione. Dalla mattina successiva iniziamo da soli il tour turistico della città, partendo proprio dall’Havana Vieja, con la Plaza de las Armas, la Giraldilla, il palazzo del Governatore, la bellissima Calle Obispo con alcune alberghi e bar veramente carini e moderatamente turistici, la Cathedral con la splendida piazzetta, l’Iglesia di San Francisco e il piccolo ma animatissimo mercatino dell’Artesania, di fronte al palazzo omonimo. L’Havana non è Parigi, Roma o Londra: non esistono mega palazzi o musei che richiedano visite-fiume di alcune ore con lunghe file. Ci si può dedicare quindi anche a toccate e fuga nei bar dove si suona la musica tradizionale o fermare al Museo del Ron, dove degustare un po’ d’Havana n. 12 e togliersi lo sfizio, con 6 dollari, di prendere un daiquiri al Floridita, il bar preferito da Hemingway, ricordato da una statua nell’angolo e da alcune foto. La seconda serata non va benissimo. Sto soffrendo per una dissenteria fastidiosa e Raul sembra patire di iper-protettività, tanto da esigere di uscire con noi. Alla fine la mia notte sul cesso non è granché, ma nemmeno Teo e Marco se la godono più di tanto, angustiati dalle raccomandazioni del bizzarro marinero, che gli si incolla addosso senza che loro abbiano le mie (pessime) risorse caratteriali per scrollarselo di dosso. Stremato da una notte in naftalina, la seconda mattina non attendo che los dos amigos si alzino e mi lancio da solo alla volta di Centro Havana, per una visita al celebratissimo Museo de la Revolucion che, come tutti gli altri cimeli comunisti, si rivela in realtà abbastanza modesto. Qualche vetrina con ritagli di giornale e qualche vettovaglia castrista non rendono merito alla storia dell’isola, che pare esistere in quanto legata al suo leader e al comandante Che Guevara. Ma da “scienziato politico” (una laurea ce l’ho anch’io) mi godo comunque la parentesi storiografica, con qualche mal di pancia per la dissenteria che provo a contenere stringendo i denti e la biglietteria invadente, che pretende un po’ troppe informazioni, manco lavorassi per l’MI6. Riparto lungo il Paseo Martì, largo stradone che conduce verso il Parque Central, stretto in mezzo a palazzoni ora eleganti ora distrutti, animato da un pittoresco mercato di frutta, carne e verdura, vino sfuso dentro sacchetti di plastica, teste di maiale, banane verdi, gialle e persino nere, stra-mature per il sole. Prima di proseguire avanti, svolto a sinistra per salire in cima all’Edificio Bacardi, uno dei più celebrati dalle guide. In verità non c’è un turista che è uno e il portiere mi dice che per un peso mi porta in cima. Saliamo in ascensore fino all’ottavo piano e poi a piedi, per godersi un panorama molto piacevole della città. Giunto al Parque Vidal, mi fermo a mangiare qualcosa alla Pastelleria la Francesa, proprio a fianco del rinomato Hotel Inglaterra: sarebbe un posto “in” per i cubani, ma un turista può prendersi un salato e un pezzo dolce per 3-4 pesos al massimo. E così eccomi al Capitolio, lussureggiante nella sua maestosa figura che richiama il Campidoglio di Washington cui si ispira. Non esistono al suo interno tesori d’arte da farsi strappare le vesti, ma una sua visita vale assolutamente la pena, per l’eleganza di alcuni locali e la bellezza dell’ex parlamento e dei saloni centrali. Esco e attendo Marco, che spero sia sveglio alle 15 del pomeriggio. Niente da fare. Così accapo alla Fabrica Partagas de Tabacos (il business dei sigari, e lo dice un non fumatore, è un classico irrinunciabile di Cuba, dove peraltro nessun nativo fuma più, perché diventato troppo caro), sosto di fronte all’albero del Parque la Fraternidad con le terre di tutta l’America Latina e do un’occhiata al bell’edificio del teatro. “Se vuole la porto la dentro” – mi interpella il guardiano. “Quanto?”. Un peso naturalmente. La visita solitaria al teatro dell’Havana, il più antico d’America, è stato uno dei momenti più intimi della vacanza. Solo sulle belle logge da teatro d’epoca, con il guardiano che mi seguiva a debita distanza, e poi sempre da solo sul palco, con un teatro immenso tutto vuoto e buio, con l’eleganza e la gloria che si poteva respirare, pur lontana ormai più di cinquant’anni, quando all’Havana cantavano tutti i migliori artisti del mondo. All’uscita, ribecco finalmente i due “fenomeni”, ma i racconti durano poco, visto che due jinetteras ci abbordano da un balcone in fondo a una viuzza. Sono le 18 e sono in giro dalle 9 della mattina in non perfette condizioni fisiche. Lascio lì gli amici che sembrano gradire una chiacchierata con le due ragazze e me ne torno all’appartamento. In serata mi trovo da solo con Marco, perché Matteo sceglie di passarla con una delle due. Ci buttiamo in taxi verso la zona del Vedado sul lungomare, poi proseguiamo oltre in direzione Miramar verso la Casa de la Musica. Suonano i Clan537, il miglior gruppo cubano del momento. Paghiamo 10 dollari e non sappiamo che per gli habaneros questo è uno dei momenti clou della stagione musicale. Anche da bere costicchia (5 dollari a consumazione… niente comunque a che vedere con gli standard italiani), ma c’è gente molto elegante e tirata, quasi su livelli europei, con pochissimi neri e ragazze bianche che sanno un po’ troppo di escort a pagamento. Nel giro di mezz’ora ci rendiamo conto che le impressioni erano giuste e due ragazze ci si piazzano accanto, divertendosi a parlare con noi per quasi un’ora, tra l’immancabile drink offerto e qualche ballo insieme. Poco prima della chiusura, una se ne esce chiedendo soldi. “Cercati un altro e buonanotte” – rispondo io un po’ schifato. L’intensa giornata vissuta mi rende meno angusti i malanni e mi ricarica per il 4° giorno habanero (che poi sarebbe la terza mattinata). Riesco nella titanica impresa di far alzare Marco prima delle 10 (Matteo, rincasato prima di tutti, si alzerà lo stesso a pomeriggio inoltrato) e lo faccio camminare per chilometri e chilometri. A piedi ci traversiamo tutta l’Havana Vieja e Centro Havana per andare al Vedado, dove intendo vedere Plaza de la Revoluciòn e tutto il resto che il quartiere propone. Superata la barriera della zona più turistica della capitale, è evidente che anche l’Havana piange miseria come tutto il resto dell’isola, anche se la parte nuova del Vedado e Miramar mostrano alcuni vialoni con villette liberty/coloniale che non hanno niente da invidiare ad alcune quartieri secondari da me “scoperti” a Londra. Plaza de la Revoluciòn puzza tanto di soviet supremo con la babelica torre dedicata a Josè Martì, nazionalista e indipendentista troppo spesso esaltato da un’architettura che poco sembra conciliarsi con i suoi natali antillani. La piazza è enorme, spoglia, triste senza dubbio. Ancora quel “mito” di Che Guevara, che spicca nel palazzaccio che ospita il ministero dell’Interno, per una dell’istantanee più celebri dell’Havana. Probabilmente, in occasione di adunate oceaniche dove si celebra il regime, la piazza deve avere un suo fascino: vista in un giorno qualunque fa spavento per le sue enormi proporzioni e la sua pochezza di attrattive. La gita odierna prosegue per la visita alla fabbrica Huppman (chiusa), la zona dell’Università con la bella scalinata e il celebre lungomare, detto Malecòn. Partiamo con un ingresso fugace al bell’hotel Melià Cohiba, dove si dice si possa gustare il miglior buffet dell’Havana, alla modica somma di 25 dollari, bevande escluse. Un improvviso acquazzone ci obbliga a infilarci in una sottospecie di centro commerciale, dove comunque c’è un discreto supermercatino, un bel locale (JazzCafè) e qualche posto dove mangiare qualcosa. Ripartiamo dopo un’oretta e mezzo con il cielo ancora grigio e gonfio d’acqua, che rende il Malecòn forse ancora più bello. La passeggiatona è lunga 8 km e noi naturalmente ce la facciamo quasi per intero, dal Melià fino a Plaza de Armas, dove abitiamo. Su questo lungomare di gran fascino spiccano palazzoni di bello e cattivo gusto, colorati e recentemente restaurati, misti ad altri che cadono a pezzi, come certe villette con vista mare che un tempo devono esser state il nido di qualche star americana. La lunga scarpinata permette di riflettere in maniera più puntuale su cos’è e cos’era Cuba, sul comunismo e i suoi scempi, ma anche sulla forza del sistema capitalista e dei suoi eccessi (come tutti sanno, certi facili profitti resero l’isola una meta molto appetita dalla mafia), su come, in definitiva, dovrà essere la nuova Cuba che nascerà sulle ceneri di questo regime fallimentare. Il Malecòn ha la magia di contenere tutti i caratteri di questo paese, per come coniuga eleganza e decadenza, storia antica e storia recente, bambini allegri pronti a un tuffo in acqua nonostante il tempo pessimo, donne di ogni età sempre pronte all’abbordaggio, terrazze sventrate, alberghi moderni, macchine d’epoca che sbucano ovunque e tanto altro. Davanti si vede solo la torre del Moro e un mare sterminato, con una ragazza che stranamente si fa gli affari suoi e fissa l’orizzonte in religioso silenzio. Manca solo un po’ di vento che ingrossi il mare e ti getti addosso qualche onda per sentirsi addosso tutta l’alma de Cuba, rendendo ancora più viscido quel lunghissimo stradone di cemento. Marco fa altri ragionamenti e sa la prende con questi cubani approfittatori e con queste cubane avide, con i servizi che fanno pena e tutto il resto, forse un po’ deluso da questo “paradiso” che non è quella dei depliant e dei racconti di viaggio accomodati. Ma non mi faccio influenzare e anzi, anche il mio lunatico amico ha modo di vivere con me una nuova seratona dai sapori forti in compagnia di due amiche cubane che ci bloccano all’ingresso di Calle San Rafael e non si staccano finché non ce ne andiamo. Sorvolo su ulteriori particolari, limitandomi a ricordare il ritorno all’appartamento, quando incocciamo un simpatico portiere notturno che ci attacca un bottone clamoroso. Marco capisce poco lo spagnolo e se ne sta lì in silenzio. Io parlo con il tale di politica, lavoro, turismo, vizi e virtù di Cuba. Lui amplifica tutto e ci tiene lì per 2 ore!!! Che bello lavorare così. Ma è davvero simpatico e ha uno sguardo da brava persona. Alla fine gli regalo come ricordo una moneta da 1 euro, ed è contento come un bambino perché nessuno ha in tasca questi euro (sarà…), che i cubani non possono accettare perché la CaDeCa (casa di cambio) non cambia monete. Ultima giornata piena per l’Havana. La dissenteria pare aver imboccato l’ultima curva e piloto i miei amici verso un’altra capatina al mercatino dell’Artesania dove acquistiamo gli ultimi souvenir, raggiungendo quindi un amico tassista che ci accompagna a una bodega di sigari sull’altra sponda della baia, occasione buona per vistare anche uno dei due storici bastioni difensivi (el Morro o la Cabana). In realtà la puntatina alla tienda oficial è una mezza delusione, nel senso che i sigari e le confezioni sono splendidi e di gran qualità, ma piuttosto cari e noi abbiamo già fatto una mossa di riserva. Naturalmente il consiglio è quello di non fidarsi dei venditori di strada, che ti appioppano la classica fregatura, anche se per pochi pesos. Fortunatamente un amico di Raul lavora in una fabrica di tabacos e ci fa avere 20 sigari a testa alla modica cifra di 2 pesos l’uno. Magari non avremo la certezza matematica della loro qualità, ma Raul giura sull’assoluta originalità dei Cohiba e San Cristobal de l’Havana che ci vende per interposta persona, regalandoci inoltre un Romeo y Julieta e un Partagas n.4 a testa. È per questo che il nostro amico tassista rimane un po’ deluso quando vede che non compriamo niente, anche se non perde la propria cortesia, invitandoci a visitare la Cabana invece del Morro (più antico e celebre) perché più grande e ricca di ambienti da vedere. La visita vale davvero la pena, se non altro per il bellissimo panorama e quei cannoni puntati verso il mare che evocano in maniera sincera i tempi duri che furono, con queste grosse bocche di fuoco pronte a sventare l’ennesima incursione piratesca. La giornata si risolve in un passeggiata su questo lato della città, un ritorno all’appartamento prima del solito, doccia ed ennesima sgrifata di aragosta, la quarta dall’inizio del nostro sbarco in terra cubana, la seconda consecutiva cucinata direttamente da noi, visti i costi ridicoli (14 aragoste a 20 pesos!!!) che ci hanno invogliato a correre il rischio. La serata finisce stavolta in maniera calcolata. Teo ha la sua “novia” già incontrata il giorno prima, idem io e Marco, le solite due amiche più che carine (anzi moooolto) e per una volta ce ne freghiamo dei falsi moralismi, anche perché passare una bella serata con una ragazza non significa essere per forza il classico turista sessuale da quattro soldi. Andata a buon fine la serata, l’ultimo giorno ha onestamente poco da dire. I miei compagni sono stanchi e poco avvezzi alle levatacce in vacanza. La città ormai l’abbiamo vista nei quattro quartieri fondamentali (Havana Vieja, Centro Havana, Vedado, Havana de l’Este) e ci rechiamo al mare nella bellissima Playa de l’Este. Un solo grave appunto. Il mare è stupendo, la spiaggia bianca e finissima, la gente meno assillante che altrove, peccato che a metà pomeriggio ci scappi un diluvio stile Noè che obbliga tutti i bagnanti a scappare a gambe levate. Coperti insieme a un centinaio di persone sotto un tendone dell’Havana Club, ci godiamo la compagnia di due funambolici romani cui avevano rubato le valigie. I due palesano una consumata militanza di Cuba e mostrano interesse solo per le poche ragazze presenti più che per il mare o una visita dell’Havana. Ma Cuba è anche questa e ci ridiamo sopra. La serata si conclude con un’uscita sul presto con Raul, che ci porta al ristorante l’Asturiano di fronte al Capitolio. Mangiamo alla grande, offriamo la cena anche a Raul e paghiamo in tutto 10 pesos!!! Roba da non credere per la quantità e la qualità di quello che abbiamo mangiato. Terminiamo la nostra ultima sera al bar Monserrat, dove scoliamo l’ennesimo Havana n.12, degustato di fronte all’ultima esibizione dal vivo di salsa e facendoci una foto con il buttafuori, che scopro essere Alexis Rubalcaba, un signor nessuno dalle nostre parti che invece vanta la medaglia di bronzo olimpica ad Atlanta’96 nei pesi massimi. Il gigante ha un faccione simpatico e dopo averci scambiato qualche parola, accetta di farsi questa foto (sfocata) con noi. Ci svegliamo per l’ultima mattinata cubana. Teo si riduce all’acquisto last minute dei souvenir per casa, mentre contratto con il tassista per farci portare al Terminal de Omnibus, Marco vede su una carrozza Daniele Massaro, ex jolly offensivo del Milan (squadra per cui il mio amico tifa), ma gli urla “Marco, Marco”, e ovviamente Daniele non si volta. Al Terminal siamo sfortunati perché i posti per Varadero sono esauriti e sono costretto a un’ennesima contrattazione con i tassisti presenti sul posto per ottenere un passaggio di circa 200 km a poco prezzo. Alla fine la sbarco per 45 pesos (quando la tariffa statale della corsa è di 65 pesos) e mentre Marco e Teo si addormentano, ne approfitto per una bella chiacchierata con il tassista, persona amabile che a denti stretti mi spiega nuovi particolari dell’etica castrista. “Di questi 45 pesos – spiega – a me rimane 1 pesos (80 centesimi di euro), il resto va allo stato”. Lo guardo basito e lui butta lì laconico: “Aquì todo es de Fidel”. Chi conosce la grammatica spagnola sa che “estar” significa essere in condizione temporanea, “es” significa lo stesso ma in situazione permanente. Le parole del tassista hanno un suono sinistro e malinconico che mi fa, tra me e me, inveire per l’ultima volta contro questo sistema assurdo, dove la logica del “tutto allo stato” non produce servizi, infrastrutture o welfare, ma solo investimenti sulla sicurezza e sulla conservazione di cimeli che esaltano il regime. La favole dell’assistenza sociale è una giustificazione che i filo-castristi troppo spesso tirano fuori, sorvolando sulle condizioni alimentari e igieniche di un’isola che vive con due secoli di ritardo. Gli effetti dell’embargo poi, mi paiono un po’ sopravvalutati, nel senso che è vero che gli Usa potrebbero fornire aiuti disinteressati a Cuba al di là di quello che dice Castro, ma è anche vero che l’isola dispone di un potenziale enorme a ogni livello, che resta purtroppo inespresso a causa del rifiuto aprioristico all’economia di mercato. Turismo, colture esotiche, tradizione storico-artistica di tutto rispetto, folklore genuino come si registra in pochi altri paesi, popolazione di grande generosità e genialità, potenziamento delle rotte commerciali e civili, grazie alla posizione centrale nel grande mar dei Caraibi. Cuba somiglia a quei giochi di strategia dove si parte su un territorio vuoto, enormemente ricco di possibilità, nel quale va costruito tutto da zero. Il comunismo sta rinunciando da 50 anni a queste possibilità e non accetto il fatto che l’unica alternativa sia la “Miami-zzazione” dell’isola, con questo paradiso naturale trasformato in pochi anni in una nuova cittadina della Florida o in una nuova Cancun. Non vedere altre alternative significa rinunciare a sognare o programmare un futuro migliore, sia per l’isola, sia per la sua gente, che non può ancora sopportare a lungo i limiti imposti alla sua libertà e l’estrema austerità del suo stile di vita. Chissà. Sto divagando, ma non ho fatto altro in fondo che mettere per iscritto i pensieri di quei momenti, dove euforia e divertimento vacanziero, dovevano spesso fare i conti con una realtà aberrante di fronte alla quale era impossibile non fermarsi a riflettere. La Laika dell’ultimo tassista ci porta senza intoppi ai cancelli dell’aeroporto di Varadero (ma lui non può entrare, perché la tariffa era appunto 65 pesos e se viene bloccato da un poliziotto che scopre che abbiamo pagato solo 45, perde il lavoro e, aggiunge, deve farsi qualche mese di galera!!! Per questo dichiarerà al suo superiore di aver coperto una tratta minore). Prima di scendere gli regaliamo un dizionario di italiano-spagnolo, visto che aveva manifestato l’intenzione di imparare la nostra lingua. Il viaggio di ritorno si mostra confortevole come quello d’andata, abbiamo modo di scambiare qualche impressione con gli italiani a bordo e godo nel sapere che ho speso meno di tutti e sicuramente ho vissuto avventure in luoghi dove molti nemmeno si affaccerebbero. Lascio quest’isola con un po’ di malinconia, con un po’ di desiderio di tornare in Italia (la prima volta che mi capita quando sono in vacanza) perché per una volta mi rendo conto della fortuna che abbiamo a vivere nel nostro maledetto paese, dove non funziona niente, ma funziona certamente più che a Cuba. Viva la sincerità, viva la libertà, viva i cubani e la loro futura indipendenza da ogni sistema di potere.


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