Cos’è Cuba, gennaio 2013
1. Appena arrivata all’Havana vado all’Hotel Nacional a cambiare gli euro in cuc. Percorro il Malecon; una strada larga, trafficata e senza passeggio. A sinistra la città, a destra l’oceano. Le ambasciate, brutti alberghi ed edifici governativi. Dal lato opposto, i cubani si siedono su un muro e restano per ore a guardare il mare. Di ritorno, mi ritiro nel ventre antico della capitale: fregi, portoni, colonnati, balconate, scale, ceramiche che struggono per la loro confessione di irreversibilità, con sapori di zucchero grezzo, di carne calda, di vento battente, di pelle nuda. Nell’erosione degli intonaci e dei legni senti il vento sul mare e tra le palme, la pazienza del giorno, la luce che intarsia le avarie di edifici e strade, salvandoli in una delicatezza di trina. I colori dell’Havana: un bianco stancato dall’usura, il rosa confetto, il giallo girasole accanto a un giallino crema, il beige corda, il verde smeraldo, il celeste e il blu oltremare, il verde azzurrino che ricorda certe quiete distanze collinari. Qualcuno canta e balla in strada o dietro le grate delle finestre: voci che mi fanno pensare al canto di chi, pieno di carichi, si accompagna lungo la salita. Un grosso buco nel marciapiede, risolto con un piatto di ceramica azzurra che calza a pennello. Ragazzi a torso nudo e piedi scalzi giocano a baseball o a pallone al centro delle strade. I più piccoli fanno gare nel terriccio con le biglie di vetro. Le scritte dei negozi tracciate a mano con vernici azzurre e gialle. Venditori, madri, schizzi saporiti di piccole cose, accadimenti minimi, pane fatto coi prodigi dei semplici. Vado a visitare il Museo d’Arte Moderna, dove scopro le opere di Edoardo Abele, il suo rigoglio ludico fatto di case minuscole, corpi di donna dai grandi occhi pensierosi, proliferazioni floreali e minerali, astri, funamboli, piccoli uccelli. Poi gli scavi senza speranza di Fidelio Ponce de Leon, l’ubriachezza caraibica di Mariano Rodriguez. In molti artisti, una rilettura scherzosa del cubismo di Picasso. In altri, un’interpretazione scanzonata di Mirò. Due giorni in cammino per le strade meno battute del centro storico, mai stanca. Inutili le foto, le riprese, la scrittura. Le migliaia di persone che attraverso, le parole che ascolto disgregano i luoghi in una radiosa levità di bolla. Indosso scarpe basse, il viso per la prima volta senza trucco. Qui niente mi rassomiglia, e in questo io mi riconosco. Sul bancone di una caffetteria prendo una copia di uno dei due soli quotidiani di Stato in circolazione a Cuba, il Granma, dal nome dello yacht su cui i giovani Fidel e Raul sbarcarono a Cuba per liberare l’isola dalla dittatura di Batista. La prima pagina parla del Leader Maximo che si è recato a votare al collegio elettorale di Plaza de la Revolution. Il testo ne descrive l’andatura cauta e, a dispetto dell’età, l’abitudine al buon umore, la memoria prodigiosa, l’acume e la malizia; soprattutto la dolcezza con cui si rivolge ai bambini che custodiscono le urne. Una foto lo ritrae insieme ai membri del seggio. In questo scatto stampato male Fidel, molto vecchio, somiglia a Padre Pio. Per strada, molti capiscono da lontano che sono italiana. Quando si avvicinano mi salutano e mi dicono: “Holà, Italia: mozzarella, mafia e Berlusconi”. Nel pomeriggio vado a visitare Alamar, un grosso sobborgo popolare a est dell’Havana affacciato sul mare. Da qui, nel 1994, iniziò la fuga disperata del balseros verso Miami. All’Havana, come in tutta Cuba, l’odio per gli americani non ha sopito l’istinto esterofilo. Non potendo esibire la bandiera degli Stati Uniti, dalle auto in corsa, stampata su scarpe, cappellini e magliette, vedi la bandiera dell’Inghilterra. Ma l’America i cubani continuano a sognarla. Nelle case, le televisioni servono per vedere i video dei cantanti cubani diventati famosi a Miami, di cui copiano le catene di metallo dorato al collo, i pantaloni a vita bassa, le movenze hip-hop e i tatuaggi. Le ragazze che si prostituiscono si riconosco dai capelli ossigenati, dai tacchi a spillo, dalle minigonne di jeans, dalle sigaretta accesa e dalle unghie variopinte. Le trovi sedute al bar accanto all’Hotel Inglaterra, in Park Central. Arrivano, si siedono e aspettano i maschi, di solito over 50 e italiani, che le raccolgono per la sera. Le ragazze sono quasi tutte nere o mulatte; graziose, ma non belle come dicono. Meglio i ragazzi, che si prostituiscono anche loro, molti omosessuali, adescati da maschi, pure in questo caso over 50 e italiani. Queste ragazze, questi ragazzi, vivono in abitazioni chiamate “solar”, edifici un tempo sfarzosi, caduti in malora dopo gli anni ‘50, senza vetri né infissi, le finestre vuote da cui vedi solai crollati, preziosi pavimenti in ceramica inizio ‘900, scale precarie, contatori elettrici scoperchiati, le abitazioni in fila dietro grate di ferro. Qui, in pochi metri quadri vive un’intera famiglia. Una ragazza scopa il pavimento in cemento, accantonando la spazzatura che ti aspetti solo in aperta strada. Nella stanza accanto, una brandina da campo, una bambola smembrata, scarpe, scatoli e vestiti attorcigliati in balle per terra alla rinfusa, una mini tv anni ‘60, un angolo cottura con le pentole di rame. Una giovane cuce i cappellini di Che Guevara venduti all’angolo della via per un cuc. Le persone che vivono qui mi lasciano entrare senza fare domande, felici che scatti loro delle foto. Non mi chiedono neppure che gliele spedisca; gli basta rivederle sul monitor della fotocamera. Soprattutto le bambine hanno sorrisi che sembrano brividi, come se non si fossero mai guardate prima. Una di loro mi chiede di visitare la sua cameretta. Saliamo lungo una scala di legno che dà accesso alla stanza da letto: un sottotetto asfissiante, di quelli che i nostri nonni usavano per stivare il tabacco. I giacigli accomodati per terra, le lenzuola disfatte, il pavimento di legno celeste, una finestra sventrata che parte da terra, non più alta di 30 cm, accanto a cui le bambine si sdraiano per essere ritratte in pose da bambola. Il balcone è un rudere coloniale da cui è meglio non affacciarsi. Sotto, l’Havana immensa e nuda. In cucina il padre ripara una radio, un bimbo di due anni corre spoglio per casa. La madre è una donna che dimostra il doppio dei suoi anni. Le chiedo di fotografarla. Sorride vistosamente; le dico di stare naturale. Lo scatto che ne esce è quello di una figura scalza, in controluce, sul viso le tracce di un’amarezza senza rimedio. Molte delle abitazioni in cui vivono stipate decine di famiglie erano un tempo alberghi del regime caduti in abbandono. Una donna che mi vede filmare il cortile e gli interni mi dice che queste baracche non sono nemmeno loro, sono del Governo, che anche chi ci abita, incluso il pappagallo in gabbia sul balcone, è del Governo. Il figlio vuole essere ripreso sullo squarcio che gli si apre sotto. Chiedo anche a lui di stare naturale. Ma nel momento dello scatto alza il pollice verso l’alto e grida “Viva Italia”. Da queste case, le ragazze che di giorno stanno scalze, senza trucco, vestite di pochi abiti lisi, la sera scappano trasformate da minigonne e lustrini. Profumano d’incenso, escono con gli infradito e, tacchi a spillo in mano, si avviano spedite verso il bar accanto all’Hotel Inglaterra. Sulla strada verso Alamar do’ un passaggio a Judita, una donna che lavora presso il Ministero Cubano dell’Agricoltura. Mi spiega che a l’Havana, come in tutta Cuba, si vive con stipendi mensili che vanno dagli 8 dollari di un operaio ai 35 di un militare. La doppia moneta (il pesos cubano per i cubani, il cuc per i turisti, equivalente a un dollaro americano) ha creato una condizione insostenibile per il popolo che, se da un lato può acquistare in moneta locale i beni di prima necessità, a integrazione di quanto garantito loro dalla tessera governativa, è poi costretto ad acquistare tutto il resto in cuc (prodotti per l’igiene, per la casa, per l’istruzione, abiti e scarpe), a prezzi inaccessibili, per merci di provenienza cinese che in Italia costerebbero meno della metà. Ecco perché la gente in strada, quando incontra un turista, si avvicina per chiedergli saponi, penne, quaderni, abiti e scarpe che gli avanzano, a volte gomme da masticare o rossetti. Per le strade niente pubblicità. Qui i muri e i tabelloni sono dedicati alle frasi di Fidel, Che Guevara e José Martì, scritte a mano con vernici colorate, o alle foto dei cinque detenuti politici a Miami, trattenuti in carcere per aver combattuto il terrorismo americano contro i cubani. Sera all’Havana. Le strade restano al buio, solo un paio di lampioni lungo la strada. Persi i colori del giorno, le case coloniali sono palpebre che anche chiuse vegliano. Una ragazza seduta fuori la porta; dentro casa, dalle stanze in fondo il suono di una rumba. Appese ai muri, farfalle di merletto sintetico, una stampa del Cuore di Gesù, una Madonna al centro della stanza, magra e brillante come una Barbie. Un locale governativo aperto: il guardiano si dondola su una sedia di legno, ascoltando dalla radio un vecchio discorso di Fidel. Da una finestra più avanti, le mani di una donna posate l’una sull’altra oltre la grata sembrano le ali di un uccello che si è appena posato dopo una migrazione.
2. Cienfuegos, spiaggia di Rancho Luna. Evito le baie segnalate dalla guida, preferendo quelle consigliate dagli abitanti del posto: più sgombre, più vere. A riva, incontro una coppia di calabresi trapiantati da 50 anni in Canada. Lei mi dice che faccio bene a viaggiare, a spendere i soldi adesso, che è inutile risparmiare; che non si è mai vista la bara di un miliardario seguita da quella piena di tutti i suoi soldi. Lui, grasso e con una vistosa catena d’oro al collo, dice che questo posto fa schifo, che anche Trinidad, dove forse andrò, è una fogna; che la vera Cuba è Varadero, dove ci sono i “bildings” e si fanno i “bisniss”.
3. Appena fuori dalle città il trambusto evapora, per lasciare spazio al volo calmo e generoso dei rapaci, a un paesaggio tropicale fatto di palme reali, terra rossa, strade sterrate, fiumi e vento. La strada che porta verso Pinar del Rio è un’ampia carreggiata in cui s’ incontra l’anima contadina di Cuba. I mezzi pubblici, moderni ed efficienti, qui esistono solo per i turisti. Ai cubani non resta che chiedere passaggi lungo la via ai mezzi del governo – camion o trattori scoperti – concessi in comodato d’uso ai lavoratori delle imprese di allevamento e agricoltura di cui vive la regione. Le strade extraurbane del Paese sono per noi un circo sregolato che diverte o stupisce, a seconda delle occorrenze. I mezzi che percorrono le strade sono auto russe e americane anni ‘50, trattori e camion di ogni sorta, motociclette, biciclette, calessi a cavallo che procedono anche contromano. Tra i pedoni: galli, galline, cani, piccoli maiali liberi, venditori che si lanciano al centro della carreggiata per cercare di vendere caschi di banane, polli arrostiti, torroni artigianali, tenuti in pile tra le mani. Nei pressi di alcuni villaggi, i campesinos occupano tratti di carreggiata con distese di grano e fagioli messi a essiccare, incuranti del traffico di mezzi, auto di turisti e biciclette, che per questo sono costretti a procedere a senso alternato. Nei paesi dell’entroterra le abitazioni sono costruite con assi di legno di pino o di palma, verniciate a mano coi colori lieti del Sud America, molte di sbieco a causa dei cicloni. Quelle in muratura dipinte sono di solito le case particular per i viaggiatori. Accanto, casupole in legno sbiancato e cemento, nell’affastellamento di mezzi fuori uso, copertoni, ferraglie, materiali di recupero, ricoveri per gli animali. Fuori, appese agli alberi, lunghe righe di panni colorati stesi ad asciugare sembrano i fogli di preghiera in uno Stupa tibetano. Ogni cosa in questi luoghi ricorda i racconti di mia madre bambina: il gallo che canta alle 6, poi il coro degli uccelli tra gli alberi e dei pulcini nei pollai, lo strillo del venditore di pane, poi di quello che porta il giornale, il calesse che consegna il latte in vecchi otri di alluminio. E ancora, gli ambulanti di frutta, verdura, patate dolci e frutti tropicali, i carretti colmi di fiori e girasoli appena raccolti, i friggitori all’aperto di pesce, chicharritas e dolci in pasta di yuca, il lustrascarpe sul marciapiedi, i molti abitanti che siedono fuori le porte per vendere, stesi a terra, oggetti improbabili: una macchinina giocattolo, i cd adoperati come catarifrangenti per bici e calessi, i ricambi riciclati per aggiustare un rubinetto, pinze usate per stendere i panni, elastici, collane di metallo dorato. Un giovane all’angolo ripara accendini per sigarette, un altro stucca il cofano di un’auto russa, un altro ripara le maglie di una catena a colpi di pietra sul bordo del marciapiede, un potatore scolpisce un albero con un macete. Un altro, a colpi di martello, crea da due tubi di ferro il telaio di una bicicletta. Nei villaggi, il terminal degli autobus è una fila di calessi a cavallo. Sul lato di ciascuno, la destinazione scritta a pennello. Quelli privati trasportano tabacco e canne da zucchero, o qualche passante raccolto in strada. Verso Vinales, sacra famiglia cubana di ritorno dai campi. Lui giovane, bello, a torso nudo. Lei, una madonna nera bambina che allatta il piccolo al seno, con gli occhi curiosi pieni di gioia. Il pomeriggio è caldo e velato. Prendo una bicicletta e vado a fare una passeggiata appena fuori dal paese. La catena è senza grasso, il cambio non funziona, così scendo e la porto di fianco. Lungo la strada mi fermo a guardare due piccole case abitate da campesinos. Il centro del villaggio è lontano, qui i turisti non si fermano. C’è solo l’asfalto vuoto, palme reali, vento e, lontano, i mogotes. Mi fermo, scavalco il recinto e chiedo alle donne che mi hanno vista se posso stare un po’ con loro. Mi dicono di entrare con un generoso gesto all’indentro delle mani. Le bambine, dai 6 agli 8 anni, vengono a salutarmi, corrono a nascondersi, ritornano, si guardano, ridono, poi mi prendono per mano chiedendomi di entrare. Le pareti che dividono le stanze sono pannelli di legno senza porte che non arrivano al soffitto. Dalle finestre senza vetri, il suono delle palme, l’aria dei tropici. Qui non esiste corrente elettrica: un piccolo pannello solare fornisce l’energia che serve soprattutto per tenere accesa la tv, sintonizzata su un canale che trasmette h24 i video musicali dei cubani a Miami. La camera da letto dei grandi: un giaciglio adagiato a terra occupa tutto lo spazio della stanza. In fondo, in un soppalco a scaffali, balle di abiti e scarpe arrotolati insieme. La camera delle bambine: più piccola, ma uguale. In fondo, un angolo cucina con antiche mattonelle colorate, le pentole nero carbone, catini di plastica per il recupero delle acque, utensili in legno o in latta. Il bagno: fuori, accanto al ricovero dei maiali e delle galline che vagano liberi nella stessa terra in cui, a piedi nudi, le bimbe corrono chiedendomi di essere fotografate. Ho con me la solita busta di cose da donare. Per ringraziarmi mettono su un dvd di salsa e reggaeton, e iniziano a ballare con un’abilità e una sensualità che paralizzano. Potrei restare qui tutto il tempo. E’ chiaro che oggi io sono per questa famiglia l’unica occupazione del giorno. Le cose che ho donato loro – pochi soldi, un pacchetto di gomme, una collanina di perline di vetro, un sapone, degli abiti – sono trofei di cui le più piccole si vantano l’un l’altra, proponendosi scambi. Affacciata alla finestra vedo una valle immensa e deserta. Lontano, un campesino col suo aratro lancia versi d’incitamento ai buoi, che da qui sembrano le note di una canzone. Nel solco appena tracciato, grandi uccelli bianchi si alzano in volo come un mulinello di carte al vento verso le cime dei mogotes.