Come Thelma e Louise…o quasi
L’inverno scorso lo Yemen, un tour organizzato però…Quest’estate è deciso: Stati Uniti on the road.
Deciso si fa per dire perchè non è stata una scelta facile facile quella di viaggiare di nuovo insieme in un percorso per nulla organizzato. Infatti io, che son la Thelma, mi ritrovo con un carattere diametralmente opposto a quello della Louise e supponevo che non sarebbe stato affatto semplice e scontato andar d’accordo per quasi venti giorni, insieme 24 ore su 24. La Louise negava l’evidenza! Comunque mi lascio convincere (e che diamine! avevo già acquistato la guida Lonely con quel che costa…Che me ne faccio adesso se non vado più via??) e decidiamo di partire esattamente il 14 agosto da Venezia, scalo a Philadelphia e destinazione finale (forse è meglio dire iniziale) San Francisco.
San Francisco è una città molto europea, diversa dalla molto americana New York che conosco abbastanza bene. Per quanto mi riguarda, pur essendo agosto, è pure una città mooolto fredda! Due giorni per visitarla superficialmente sono sufficienti, soprattutto se affittate per un giorno intero la bicicletta come abbiamo fatto noi. Con tutte quelle ripide salite, ma ripide davvero non per finta, e subito dopo quelle discese altrettanto ripide che preghi non ti mollino i freni. Il vantaggio è che la sera ti ritrovi con due belle chiappe dure! Rischio l’assideramento per attraversare il Golden Gate che è pure lungo ‘sto cacchio di ponte e a metà strada non so se tornare indietro, andare avanti o buttarmi di sotto. E non l’ho neanche visto bene datosi che il manufatto risulta parzialmente o quasi totalmente immerso nella coltre nebbiosa e umidosa.
Il giretto con il cable car non ce lo toglie nessuno, sennò che turiste siamo? Fisherman’s Wharf è un posto terribile, completamente ingolfato di turisti, dove non c’è proprio un tubo da vedere se non la lunga serie di negozietti che vendono souvenir inutili e kitch e di ristorantini che servono la famosa zuppa nel pagnoccone. Qui però ci facciamo fregare ben 20 bigliettoni per della big frutta. C’è pure una colonia di leoni marini letteralmente ammassati su delle banchine a pochi metri dalla darsena. Mi fanno pena però.
Ah, quasi dimenticavo, Fuga da Alcatraz è nella lista dei miei film preferiti: vuoi mica che mi perdo l’escursione alla location? Tutt’ora nutro seri dubbi sul fatto che l’abbiano girato proprio qui. Per la cronaca, la visita è stata prenotata con largo anticipo su Internet.
Il 17 agosto di buon’ora, arrancando su per le malefiche salite con le nostre valigione, ci rechiamo presso la National per ritirare la macchina a noleggio prenotata dall’Italia. Abbiamo richiesto, per non andare fuori trama, una decappottabile. La Ford Thunderbird verde non ce l’avevano ma eccola qui che ci aspetta una stupenda Pontiac G6 GT argentata con i sedili neri in pelle (avete idea della temperatura che raggiungono i sedili neri in pelle in un parcheggio soleggiato in Arizona?) con il tettuccio elettrico che si infila da solo dentro il portabagagli…Opss…E mo’, dove mettiamo le valige?? Nei due strettissimi sedili posteriori, ovviamente, difficilmente accessibili per una persona snodabile, figurarsi per una valigia rigida e pesante. E’ stato un mezzo supplizio ogni sera farle uscire ed ogni mattina farle rientrare. Noi, che siamo fighe, tanto per non andare fuori trama, ovviamente aborriamo l’uso del navigatore satellitare e siamo dotate di ben UNA cartina stradale acquistata in Italia. Col senno di poi: assolutamente un set completo e multiplo di cartine da confrontare tra loro oppure il navigatore.
Quel che mi preoccupava di più prima di partire era il cambio automatico della macchina. Niente di più comodo in realtà a parte una paio di inchiodate iniziali, è stato più difficile riabituarsi all’uso della frizione una volta tornata a casa.
E’ sabato mattina presto e quindi non c’è molto traffico. Via, verso la Hwy 1 anche se non riusciamo ad imboccarla al primo tentativo…E neanche al secondo. Le informazioni raccolte a casa con google map non sono così precise. C’è ancora un po’ di nebbia e questa costa tanto decantata non è poi così affascinante, anzi è quasi un po’ triste. La destinazione pomeridiana è Monterey. Ci fermiamo prima, però, ad Ano Nuevo State Reserve. Non trovando il baracchino che rilascia i permessi d’ingresso (giuro che eravamo intenzionate ad acquistarli), facciamo le furbette e ci incamminiamo nella reserve senza ticket. Non siamo mica tanto tranquille però, se ci beccano i ranger minimo ci mettono a pulire il culo agli elefanti marini per i prossimi sei mesi! Ci incamminiamo dunque, senza il lasciapassare A38 di Asterix, ma quanto camminiamo! Credo un paio d’ore, e per fortuna non fa molto caldo, finchè giungiamo nei pressi della spiaggetta dove alcuni di questi animaloni si sollazzano beati, sbraitando ed emanando un olezzo non proprio gradevole. I due ranger di guardia ci spiegano questo e quello e ci permettono di usare il loro binocolo per vedere gli animali da vicino. Molto meglio questi di quelli di Fisherman’s Wharf, sembrano sicuramente più felici.
A Monterey, dopo non poche difficoltà per trovare parcheggio, riusciamo a visitare il famoso acquario. Breve giretto in macchina attraverso questa simpatica cittadina di mare e decidiamo di ripartire con l’intento di spostarci verso l’interno per avvicinarsi il più possibile alla meta del giorno successivo, cioè il Sequoia National Park.
E’ dopo poco che avviene la tragedia.
A ripensarci adesso mi vien da ridere, ma quella volta ci è mancato poco che mi mettessi a piangere. Ma andiamo con ordine. E’ tardo pomeriggio e, per spostaci verso l’interno del territorio, decidiamo di imboccare una strada, segnalata come panoramica sulla cartina, che “avrebbe” dovuto condurci ad un’altra Hwy più interna. Praticamente attraversiamo un parco: il Pinnacles National Monument, nei miei incubi forever. Noi, nella nostra ingenuità, siamo convinte di sfociare prima o poi sull’altra strada ma forse abbiamo sbagliato qualcosa perché quella che percorriamo finisce in un parcheggio senza uscita, completamente deserto. Fuori la luna e quasi buio. Primo momento di panico: dove abbiamo sbagliato?? La strada era solo questa! Che si fa che non si fa, non abbiamo alternative se non quella di tornare indietro e non sono proprio poche le miglia da ripercorrere. A metà del ritorno ci ritroviamo davanti le sbarre chiuse del parco!! Panico e paura a 1000! Dunque, ricapitolando: ci siamo noi due sole e basta, il buio, la luna, il bosco a destra e a sinistra, due sbarre che non vogliono saperne di alzarsi, il telefono che non ha campo ed almeno 30 miglia che ci separano dal primo paese. Avete presente il film Blair Witch Project? Ecco, quello ci aspettiamo per la notte. Sinceramente non credo di aver avuto mai tanta paura in vita mia come in questo momento.
Louise: “chiamiamo il 911!”. Per fortuna il telefono non prende sennò sai che figura, quelli minimo minimo arrivano coi gli elicotteri, i marines e forse arriva anche Fox Mulder dell’F.B.I. In persona che ci interroga se per caso abbiamo avvistato qualche alieno nel bosco. Di lì, una serie di soluzioni una più assurda e ridicola dell’altra. Sto per mettermi a piangere.
Ma qualcuno dall’alto, dopo essersi fatto una grossa e grassa risata, decide che è il momento di intervenire. Decretiamo che è opportuno ritornare al parcheggio di prima in fondo al parco e lì pregare per la nostra sorte; facendo manovra con la macchina, saliamo PER CASO con le ruote sopra la griglia posta sotto le sbarre che, come per miracolo, si aprono davanti a noi. Beata ignoranza! Urlando per scaricare l’adrenalina, corriamo giù con la macchina verso il paese, convinte di essere scampate a morte sicura…Di paura potevamo anche morire, cosa credete! Adesso però abbiamo completamente perso la bussola e la nostra cartina è, a quanto pare, inaffidabile. Corriamo per ore su quelle infinite e buie strade americane senza incontrare cartelli, indicazioni, superate a destra e a manca da luccicanti ed enormi trucks ma, soprattutto, non ci sono stazioni di rifornimento. E’ passata la mezzanotte quando, secondo miracolo della giornata, arriviamo ormai in riserva presso un’area di servizio dotata pure di motel infestato da scarafaggi e nell’aria fetida di letame. Ma dove cacchio siamo? Boh, vedremo domani. Buonanotte Louise, buonanotte Thelma. Come prima giornata non è andata così tanto male.
Magari domani incontriamo J.D. – Brad Pitt che ci fotte le carte di credito.
Il mattino dopo, con il morale un po’ sotto le scarpe, cerchiamo di raccapezzarci e far chiarezza sull’itinerario. Squallida colazione in motel e si parte: destinazione Sequoia N.P.
Dobbiamo raggiungerlo, visitarlo attraversarlo ed in serata raggiungere Mariposa, alle porte dello Yosemite N.P. Le indicazioni iniziano ad essere più chiare e frequenti e rendono agevole il tragitto. All’ingresso acquistiamo il pass per tutti i parchi nazionali, 80 dollari e passa la paura.
Le sequoie giganti sono proprio belle, giganti appunto, very big, molto american big. Quando ci stai sotto ti senti piccola piccola, figurati io che son alta un metro ed un fagiolo.
Occhio però a non lasciare in macchina cibo o vivande in genere: ci sono gli orsi in agguato! Magari avvistarne uno, dico io, ma la Louise è terrorizzata e ad un certo punto è pure convinta che ce ne sia uno che ci sta per attaccare: corre via urlando “via, via c’è un orso, c’è un orso!” ma dov’è l’animale? Boh, la guardo incredula e divertita. E’ tutto uno scherzo di un bambino burlone poco distante da noi.
Il pomeriggio ci serve tutto per arrivare a Mariposa, dove giungiamo in serata. Qui alloggiamo in un bed & breakfast molto country, gestito da una dolcissima coppia di nonnetti. Il posto si trova in campagna ed è una casa-bomboniera: tutto molto decorato, molto rosa confetto, fiori, pizzi, ricami e merletti ovunque, orsetti di peluche sul letto. Persino lo spray deodorante per ambienti in bagno è ai fiori di campagna. I grilli fuori dalla finestra mi fanno sentire un po’ a casa. Buonanotte a tutti, oggi è andata decisamente meglio.
Oggi ci aspetta lo Yosemite N.P. Confesso di non essere grande amante della montagna e per questo motivo il parco non mi ha particolarmente colpito, pur riconoscendo la sua bellezza e maestosità. Lo attraversiamo tutto percorrendo la 120 Rd, il Tioga Pass Più si sale e più il paesaggio si fa affascinante. Rocce bianche e lisce come neve, pini solitari deformati dal vento che nascono e traggono nutrimento dalla pietra.
Riscendiamo giù velocissime, pur rispettando i limiti di velocità…Quindi non proprio velocissime. La prossima meta, un po’ lontana, è Lone Pine, villaggio stile far west alle porte della death valley.
Man mano che noi scendiamo, per un fenomeno fisico uguale ma contrario, la temperatura sale finchè siamo costrette a chiuderci nella nostra sportiva ed accendere il clima.
Arriviamo a Lone Pine nel tardo pomeriggio e purtroppo tocca uscire dall’auto: mammamia e che è? L’inferno? Un getto di aria tipo phon ci assale…Porca puzzola, non siamo ancora arrivate alla death valley e già qui non si scherza. Passiamo un’ora in un internet cafè con la connessione lentissima e l’aria condizionata a manetta per cercare un hotel per il giorno dopo a Las Vegas.
Cena con un ottimo hamburger in una tavola calda credo famosa, con vista sul monte Withney, piena piena di foto di attori e locandine di film johnfordiani.
A nanna presto, domani levataccia per attraversare ed uscire dalla famigerata valle entro mezzogiorno. In camera un potentissimo ventilatore senza interruttore spara aria fredda tutta la notte e ci fa rimpiangere il caldo del pomeriggio.
Alle 6 del mattino siamo già in macchina e dopo un’oretta entriamo nella valle, anche se contrariamente agli altri parchi non esiste un ingresso vero e proprio. Il paesaggio è lunare, molto affascinante e deserto. Incontriamo pochissime vetture di turisti. La temperatura è ancora assolutamente gradevole. Percorriamo l’artists drive con le sue rocce colorate e poi giù giù fino a Badwater, costeggiando il devil’s golf course. Ora inizia a far caldo sul serio e a Badwater ci fermiamo giusto il tempo per far la classica foto abbracciate al cartello – 86 m slm e per raccogliere qualche sasso per Ale, mio nipote con la mania del geologo.
Ritorniamo indietro per uscire dalla valle ed io ho un calo di pressione. Per questo motivo non ci fermiamo a Zabriskie Point…Peccato, mi dispiace per la Louise che sta bene ma io non ce la faccio proprio.
Sfrecciamo con la nostra argentea sportiva su lunghissime strade assolate e deserte, il vento tra i capelli (woww che frase d’effetto) e mi rendo conto che è proprio qui la sostanza di questo viaggio in America. Un viaggio che prevede molte ore in auto, moltissime miglia da percorrere, le distanze sono enormi, veramente, e lo sembrano ancor di più di quel che sono in realtà perché ci manca la sensibilità del miglio, che è molto più lungo del chilometro. Ma tutto ciò fa parte del viaggio stesso, è la sua essenza, probabilmente il motivo principale per essere fatto.
Arriviamo nel pomeriggio a Las Vegas ed anche qui sarebbe stato opportuno avere il navigatore.
Arrivi dal deserto e la intravedi come un miraggio, tremolante a causa dell’aria calda, distingui prima l’altissima torre dello Stratosphere, poi la piramide del Luxor e pensi che sarà facile girarla, non sembra molto grande. In realtà la città è veramente enorme e impieghiamo un’ora abbondante ad imboccare la strip. Perché qui, come in molte altre città americane, se sbagli strada sei fottuto! Devi fare un giro pazzesco per tornare al punto di partenza con tutti quei sensi unici.
Noi alloggiamo sulla strip al Bally’s, proprio di fronte al Bellagio di cui ammiriamo le famose fontane dalla finestra della nostra stanza.
Las Vegas è, per me, un posto da incubo. Non mi piacciono i luoghi dove c’è confusione e qui dire confusione è un eufemismo. Un enorme parco dei divertimenti, un gigantesco casinò, una marea di persone che camminano, giocano, mangiano, spendono, si divertono (?), il tutto immerso in un mare di luci multicolor, fari, musica e caldo. A me non è piaciuta affatto ma ammetto che, anche solo per una sera, valga la pena di visitarla, anche se poi è esattamente come la vedi in TV. Al mattino è di uno squallore sconcertante. Capatina all’outlet per qualche spesuccia.
Nei giorni seguenti scorrazziamo in lungo ed in largo negli stati dello Utah, Nevada ed Arizona, nelle riserve indiane, visitando nell’ordine lo Zion N.P., il Bryce N.P., l’Antelope Canyon e la Monument Valley Il Bryce N.P. È un parco tutto sommato piccolo rispetto ai parametri americani, ma molto bello. Percorriamo la strada che segue la sponda del canyon fermandoci nei vari belvedere ad ammirare incredibili panorami. L’anfiteatro zeppo di pinnacoli, picchi, guglie e punte dalle forme bizzarre e di colore rosso, visto al tramonto è uno spettacolo che mi rimarrà per sempre nella memoria.
Per visitare l’Antelope Canyon ci affidiamo obbligatoriamente ad un escursione organizzata dai Navajo (non proprio economica) che si divertono come pazzi a caricare i malcapitati turisti su scassatissimi pick-up aperti ma coperti e, sempre come pazzi, guidano su una strada sterrata piena di buche alzando enormi nuvole di polvere. Io sto seduta sul posto più esterno del cassone e ad ogni buca prego che qualcuno si accorga dell’eventuale mia imminente assenza. La Louise, vigliacca, se ne sta comodamente seduta al chiuso a fianco al guidatore navajo. Parlano tra loro, chissà che discorsi… Abbiamo la fortuna di partecipare all’escursione di mezzogiorno. Già, perché l’Antelope Canyon è uno spettacolo che neanche ti immagini ed a mezzogiorno, con sole perfettamente verticale che filtra dall’alto tra le strettissime sponde del canyon è una cosa da paura, veramente.
Antelope Canyon al numero 1 della mia classifica dei posti più belli visitati.
In questi territori la ricettività è ridotta al minimo e ogni sera fatichiamo a trovare una sistemazione. Nei pressi della Monument Valley, a Kayenta, i quattro motel presenti sono al completo. Decidiamo quindi di spostarci verso Mexican Hat a circa 30 miglia di distanza. Lì, ci dicono, dovrebbero essercene altri due o tre di motel ma la probabilità di trovare una camera è ridotta al minimo. La strada costeggia la MV ed è il tramonto: è bellissima, uno spettacolo! Se avessimo trovato una camera a Kayenta ce lo saremmo perso.
A Mexican Hat, al primo motel che incontriamo vogliono affibbiarci il deposito della legna, suppongo, ad un prezzo vergognoso. Ormai siamo convinte: stanotte si dorme in macchina.
Ultimo tentativo: uno squallidissimo motel, copia precisa precisa di quello di Psyco, gestito da una scontrosa e permalosa Navajo, che però dispone di una magnifica stanza two queen bed size a ben, udite udite, 55 bigliettoni! Dove stà l’inghippo? Non è che stiamo tanto a discutere, è già buio, va bene, la prendiamo.
Il motel è di legno compensato, con il portico esterno di legno compensato ma le sedie per fortuna di plastica. La camera è un forno ed il bagnetto una sauna.
A fianco a noi, un gruppetto di biker’s ciochettoni prendono il fresco e simpaticamente ci invitano a bere con loro.
Noi, che siamo un po’ provincialotte e forse anche un po’ bachettone, figurati se ci fidiamo! Questi sono già ubriachi e pare non abbiano finito di rifornirsi, metti che fraintendono, metti che pensano che siamo due un po’ facili, metti che se succede qualcosa la navajo mica viene ad aiutarci, e che cacchio, cerchiamo di non far le fesse ingenuotte in giro per il mondo! “No, grazie mille per l’invito ma siamo tanto stanche, buonanotte” Probabilmente un’ottima occasione mancata per conoscere delle persone simpatiche e cordiali, come abbiamo avuto l’impressione fossero il giorno seguente. Peccato.
Il mattino dopo visitiamo la Monument Valley Navajo Tribal Park, e decidiamo di percorrere l’itinerario panoramico sterrato con la nostra macchina scapottata, anche se è un po’ bassa, e non con l’escursione organizzata dai Navajo. Velocità di crociera 10 km/h ma non serve andare più veloci per non perdersi ogni scorcio di panorama. Unico inconveniente un sottile strato di polvere rossa che ricopre tutto, noi comprese. La sensazione predominante che provo è quella del dejà-vu.
E’ pomeriggio quando arriviamo al Grand Canyon. Incredibile, ma riusciamo a trovare una stanza nel lodge all’interno del parco e neanche ad un prezzo eccessivo. Pare che qualche giorno prima ci sia stato un nubifragio ed un fuggi fuggi generale per cui la struttura si è svuotata. Meglio così.
Riguardo la maestosità del Grand Canyon si è già detto e letto di tutto e di più. Infatti è così che te l’aspetti, maestoso ed enorme. Ed è così che lo trovi, grandioso, imponente, immenso, unico.
Anche un po’ pericoloso, però. Non c’è alcuna barriera, alcun impedimento a finire di sotto (ma c’è un sotto che finisce?), basta sporgersi un minimo, magari per fare una foto d’effetto e può succedere che l’effetto sia davvero devastante e definitivo.
Prima di cena andiamo sul “bordo del cratere” ad ammirare il tramonto. Peccato che finito il tramonto, com’è logico che sia, si fa buio e noi dobbiamo ritornare indietro attraversando il boschetto di certo affollato di animali feroci ed affamati. La Louise è al solito terrorizzata: che ridere. Dopo cena quasi non riusciamo a trovare la nostra stanza, vaghiamo nei boschetti al buio totale finchè dei gentili americani dotati di torcia elettrica ci aiutano a ritrovare la retta via.
Il giorno dopo è il “baruffa day”. Motivo della contesa: fare o non fare il giro in elicottero nel grand canyon?? Questo è il dilemma! Io non voglio farlo per motivi biecamente economici. Il ridicolo del melodramma che si scatena è che noi, essendo friulane dal carattere chiuso e duro, non risolviamo la questione con un baruffone sulla piazza, con tanto di sberle, calci, sputi e tirate di capelli, che sarebbe più radicale ma anche risolutivo. Nossignori, noi ce ne stiamo più di mezza giornata a “muso duro e bareta fracada”, come si dice qui da noi, senza proferir parola, a passeggiare nervosamente lungo il rim della sponda del canyon, ignorandoci a vicenda, prima a pochi metri l’una dall’altra e poi a tanti metri da perderci di vista. Che incazzatura e che angoscia! Qui, precisamente, IO Thelma, decido che non farò mai più un viaggio con TE Louise. Lo prometto a me stessa, assolutamente mai più. Perché IO lo sapevo che sarebbe successo, IO me l’aspettavo, IO l’avevo previsto…IO bla, bla, bla, bla…
La questione si dirime nel pomeriggio, davanti ad un cheeseburgher in un locale modello happy day’s: ”e perché tu sei così, ma anche tu sei colà ed è colpa tua se, e chi credi di essere, bla, bla bla bla e cazzate varie”. Questione risolta.
Per scaricare il nervoso, via di nuovo in macchina per miglia e miglia e ancora miglia e finiamo, ma guarda un po’, nientepopòdimenoche a Sedona. L’ho già sentita nominare, si anch’io, dev’essere famosa ma non so perchè, magari è un bel posto, forse, boh, vediamo. Per arrivarci strada di montagna, fondo sdrucciolevole, leggera pioggerellina ed eccoci qui in questa cittadina new age, le cui rocce ed i fiume, pare, irradino energia elettromagnetica. Giriamo un po’ a casaccio e sai che ti dico Louise: ‘sto posto non mi dice proprio niente. Sarà il tempo un po’ uggioso, sarà il residuo di tensione che c’è tra noi, sarà che siamo impermeabili a tutta ‘sta energia rocciosa,sarà che più semplicemente iniziamo ad essere stanche, ma ‘sto posto è un po’ una delusione. Torniamo indietro.
Stanotte dormiamo a Flagstaff, cittadina simpatica e giovane, così mi pare.
Il mattino seguente, in direzione Los Angeles, percorriamo un tratto originale di Route 66, precisamente da Seligman a Kingman. Devo ammettere che colloco questo pezzo di strada al secondo posto nella mia personale classifica dei posti più belli visti, subito dopo l’Antelope Canyon, quasi a pari merito.
Sosta per il pranzo in un locale tipico americano ma di un tipico che di più non si può.
Nel primo pomeriggio riattraversiamo il confine con la California, previo assurdo controllo se per caso contrabbandiamo fuits or vegetables…? E noi: “no sir, only coke in the car” e lui: “Coke is OK, tank’s e bye bye”… subito dopo un distributore di benzina dai prezzi assurdamente alti. Scopriremo dopo il perché. No, no, no facciamo rifornimento più avanti, figurati, con quei prezzi! Guarda qui, sulla cartina, quanti paesini ci sono lungo la strada, vuoi forse che non troviamo un altro distributore?? Appunto! Il Mojave Desert, ecco cosa ci aspettava al varco! E noi l’abbiamo sottovalutato, come due stupide incoscienti.
Strada dritta dritta, quasi deserta, il nulla a destra, a sinistra, dietro e soprattutto davanti. Purtroppo di paesi e di distributori neanche l’ombra. Maledetta cartina! Cerchiamo di tenere basso il numero di giri della macchina per non consumare troppo ma con il clima acceso è un po’ difficile. Il nostro computer di bordo ci segnala una cinquantina di miglia di autonomia, benon, siamo in una botte di ferro. Improvvisamente le miglia di autonomia diventano 25 e subito dopo scatta la riserva…Ma non è possibile! Riducendo sempre di più la velocità, praticamente ci superano anche gli scarafaggi, percorriamo un’altra decina di miglia nel nulla. Davanti a noi la strada sembra infinita. Ok, basta, occorre un piano! Ci fermiamo nei pressi di un incrocio con una stradina che porta ad un grumo di case che tremolanti si intravedono lontano. Scendiamo ed un caldo pazzesco ci colpisce come un pugno. La Louise si piazza in mezzo alla strada e comincia a sbracciarsi nel tentativo, riuscito, di fermare l’auto che sta arrivando. La vedo che discute con l’autista, cerca di spiegarsi, gesticola indicando avanti, indietro e poi, mani sulla testa, assume un atteggiamento di disperazione: un senso di sgomento mi assale, vuoi vedere che non possono aiutarci? Pare che la situazione sia questa: 30 miglia per tornare indietro, 30 miglia avanti per il prossimo distributore e nel paesino non c’è la pompa di benzina. Siamo fottute.
Ma è in questa occasione che abbiamo l’ennesima e tangibile conferma del grandissimo senso civico, dell’estrema cortesia, disponibilità e gentilezza del popolo americano.
Arriva un’altra auto che si ferma, un papà con tre figli a bordo. I due “merigani” confabulano tra loro e decidono del nostro destino. Ebbene, la soluzione a cui giungono è la seguente: il primo andrà in paese a cercare un po’ di benzina da chi può averne di scorta ed il secondo resta lì con noi a farci compagnia, sotto il sole, con i tre bimbi chiusi ermeticamente nella refrigerator-mobile.
Credo sia passata una quarantina di minuti quand’ecco ritornare il primo a bordo di un grosso pick-up con tanto di lampeggiante acceso (mancava la sirena). Scarica la tanica di benzina che il gentile papà provvede a mettere nel serbatoio. Siamo imbarazzatissime, non sappiamo che fare. Non vogliono neppure che la paghiamo ‘sta benzina…Ma come? ma per favore, almeno i soldi della benzina! Una stretta di mano e li vediamo allontanarsi verso il loro paesino di 25 anime perso nel deserto. Restiamo per un po’ lì in piedi, inebetite dal caldo e dall’incredulità, quasi commosse. Poi siccome stanno per sciogliersi le ciabatte di plastica, ci diamo una svegliata e ripartiamo.
Troppo forti ‘sti americani! Mi dispiace doverlo dire, ma una scena del genere in Italia ce la scordiamo.
La sera ci fermiamo a dormire a Palm Springs dove c’è un caldo insopportabile. Domani finalmente Los Angeles.
Prima di andare a L.A. Vogliamo visitare l’ultimo parco del nostro viaggio, il Joshua Tree N.P.. E’ molto carino e lo consiglio vivamente, con i suoi massi di granito grossi e levigati e i suoi bizzarri alberi, i Joshua Tree appunto. La mattina la impieghiamo tutta qui.
Già, si fa presto a dire “oggi pomeriggio arriviamo a Los Angeles”. Ho perso un anno di vita a guidare nel terribile groviglio di strade che da ogni dove confluiscono a L.A. Per il timore del traffico e per essere sicure di non sbagliare rimaniamo fisse sulla nostra corsia, che a volte è la prima, poi diventa la seconda ed anche la terza…Ma come, io non mi sono mai spostata! Insomma, dicevo, rimaniamo lì fisse sulla corsia e dritte dritte prima o poi dovremmo arriviamo al mare, a Santa Monica per la precisione. E così è, tanto che parcheggiamo e facciamo una passeggiata sulla spiaggia, giusto per vedere le mitiche casette dei bay watch. Non fa tutto sto caldo però.
Vuoi forse che non troviamo da dormire a Santa Monica?? Come si dice, le ultime parole famose.
Di motel manco l’ombra e gli alberghi sparano cifre per noi inaccettabili. Attorno alle 20 realizziamo che è opportuno ritornare a Los Angeles dove speriamo di trovare una camera. Facile a dirsi. Dobbiamo in qualche modo imboccare la Hwy 10 ma non ci riusciamo, onestamente siamo un po’ impedite. Chiediamo info ad un gentile police man fermo ad un distributore. Dobbiamo fargli pena perché decide di scortarci all’imbocco della malefica strada. A noi non pare vero e ce ne stiamo incollate al culo della macchina del nostro angelo custode. Giriamo Los Angeles by-night credo almeno per un paio d’ore e per fortuna non c’è molto traffico, vista l’ora. Ribadisco, saremo forse un po’ stordite noi ma di motel non ne vediamo proprio. In ogni caso alcuni quartieri non sembrano proprio raccomandabili, altri troppo lussuosi perché ci siano motel. Sta a vedere l’assurdo che in una città come L.A. Non troviamo da dormire, il n’est pas possible…Che palle! Verso le undici, al limite dell’esasperazione, dichiaro: il primo motel che incontriamo, costi quel che costa, mi fermo e di lì non mi muovo più. Ed ecco la tanto agognata scritta luminosa: motel vacancy. Siamo centralissime, lungo Sunset Blvd. Parcheggio e la Louise va a trattare il prezzo con il messicano alla reception. Spuntiamo un prezzaccio per le prossime tre notti ed hanno pure Internet free.
Gli ultimi tre giorni li passiamo a L.A. Che, nonostante i pregiudizi fondati su commenti negativi che avevo sentito in precedenza, è una città che mi è piaciuta. Certo la devi accettare per quel che è. E’ come la sosia di Marilyn che bazzica lungo la walk of fame: non più giovane e sgarzolina, un po’ rinsecchita con la parruccona platino e l’immancabile abito scollato bianco. Ecco com’è L.A. Una città che si veste dei fasti del passato, che deve ogni giorno celebrare quel che è stata ma se guardi bene sotto la sua patina luccicante, se la osservi da vicino ti accorgi che è un po’ decadente, molto agé, ma non per questo meno affascinante, anzi.
Stiamo andate anche agli Universal Studios che sono una pacchianata, lo ammetto, ma quanto ci siamo divertite nella casa dei Simpson! Che poi sono per me un mito.
L’ultimo giorno in America lo trascorriamo su e giù per le strade di L.A., Beverly Hill’s, Rodeo Drive e la collina con la famosa scritta. Nel pomeriggio andiamo a Venice a passeggiare sulla Ocean Front Walk che è un vero e proprio zoo umano dove s’incontrano personaggi bizzarri e stravaganti.
L’ultima notte la passiamo in aereoporto, l’aereo parte domani mattina alle 6.
Mi ci sono voluti quattro mesi per metabolizzare questo viaggio. E’ un’esperienza che ti segna e ti lascia sentimenti contrastanti, all’inizio la stanchezza, poi subentra la nostalgia e quando i ricordi sono lontani, ti restituisce l’entusiasmo che solo un viaggio unico come questo può regalarti.
Se ripenso a quei giorni la prima cosa che mi torna in mente sono gli spazi enormi e sconfinati, le strade che sembrano non avere fine, la maestosità dei paesaggi, il silenzio del deserto. Ho acquisito un diverso concetto di spazio ma anche spero un più forte senso civico, mi auguro di essere stata contagiata dalla cortesia, disponibiltà e tolleranza del popolo americano. Perché un popolo non è chi lo governa ed invito caldamente chi ha pregiudizi negativi verso l’America ad un viaggio come questo per conoscere l’essenza vera di un grande paese e della sua gente.
P.S. Riguardo il mio proposito, partorito al grand canyon, di non viaggiare più con Sylvie: a Natale siamo state in Marocco. Ma questa è un’altra storia.