Cogitazioni a spasso per il Peloponneso

Introspezioni nel Mani e dintorni
Scritto da: sundani
cogitazioni a spasso per il peloponneso
Viaggiatori: 1
Spesa: Fino a €250 €
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Sabato 04 Agosto 2018 – Le mie vecchie scarpe

Complice una attitudine al viaggio minimalista ed essenziale che io e Cristina coltiviamo da qualche tempo con buoni risultati, la motocicletta non è troppo carica: le due valigie laterali riservate ai bagagli personali, una per ciascuno; quella centrale solamente al cibo da consumare nelle oltre venticinque ore di traghetto previste e, una volta consumato questo, ai giubbetti in pelle che certamente spesso non indosseremo; la borsa da serbatoio quasi vuota, ad accogliere comodamente gli oggetti spiccioli: guanti, sciarpine, quaderno, penna, telefoni, portafogli. Il portapacchi sulla valigia posteriore, acquistato e montato una settimana prima della partenza, dopo anni di propositi d’acquisto disattesi, è vuoto, libero di accogliere, se necessario, eventuali oggetti che potrebbero fare la loro comparsa durante il viaggio: magari un bouzouki da appendere alla parete di casa, a lato del liuto laotiano e del piccolo violino nepalese; o forse abbondanti provviste di formaggi caprini e malvasie atti a sfamarci degnamente nelle ulteriori venticinque ore di traghetto al ritorno, e magari altre di conviviali banchetti in patria.

L’oggetto mancato nel bagaglio, e meritevole di ragionata disgressione, è il mio vetusto paio di stivaletti rumeni: molte volte vicini al punto d’esser buttati, altrettante salvati ed utilizzati poi con maggior soddisfazione e riconoscenza. Li acquistai oltre sette anni orsono durante uno dei tanti brevi soggiorni nella città natale di Cristina, in un negozio vecchia maniera come tanti della città, per una cifra assai modesta, certamente inferiore alla ventina di euro. Dotati di chiusura laterale a cerniera e suola in gomma, la sobrietà della forma conferisce loro un aspetto quasi elegante nonostante una qual certa plasticità della superficie esterna di finta pelle, color grigio scuro. La camminata discretamente comoda e soprattutto la tenuta all’acqua decisamente buona le hanno rese le mie calzature d’elezione per l’utilizzo in motocicletta, permettendomi di rimandare, anno dopo anno, l’acquisto di ben più costose calzature specificatamente dedicate all’uopo. Per il tipo di utilizzo del mezzo che mi caratterizza, prettamente turistico e privo di velleità sportive, l’assenza di protezioni apposite è una carenza che ritengo, mi rendo conto a torto, poco rilevante. Stante la mia tutto sommato florida condizione economica, la mia può apparire spilorceria, immotivato risparmio: ho la presunzione invece di considerarla un bell’esempio di rispetto per il valore intrinseco degli oggetti in quanto tali e in relazione alla loro utilità, a prescindere dal valore economico; un sobrio disertare le fila del consumismo imperante.

La mia naturale propensione alla parsimonia, all’accantonare le cose vecchie piuttosto che a gettarle via, è certamente una eredità familiare materna e ancor più paterna, ma è stata fortemente rafforzata da convinzioni etiche e politiche. Con il passare degli anni sento crescere un senso di inadeguatezza, di fastidio se non di disprezzo, per i tanti onnipresenti e quotidiani esempi di oggetti e comportamenti superflui, inutili, innaturali, eticamente discutibili, e spesso tutt’altro che irrinunciabili. Viene a galla, come uno gnocco che abbia raggiunta la giusta cottura, una latente tendenza a prediligere il tradizionale al nuovo, il vecchio all’innovazione, la tradizione alla novità; una imbarazzante reazionarietà che non è l’assai comune sintomo di un cattivo incanutimento, ma l’elaborazione di un istinto che rende sempre più evidente ed insopportabile il grande spreco di tempo ed energie inopinatamente dedicate, nella nostra quotidianità, ad aspetti, materiali od emotivi che siano, superficiali e di poca contezza.

Nonostante tutto ciò, quest’anno gli stivaletti sono rimasti a casa, sostituiti da un nuovo paio di scarpe da ginnastica a caviglia alta di blasonato marchio teutonico, più adatte al caldo notevole della stagione e dei luoghi, ma certamente altrettanto inadatte ad un razionale uso motociclistico.

Domenica 05 Agosto – Bulimia culturale

Nel primo pomeriggio, dopo circa ventidue ore di navigazione in mare aperto, per quanto tale possa dirsi la modesta lingua marina che divide la costa dalmata dall’italica, avvistiamo terra a babordo. Il calore cocente del sole è alleviato da qualche rada nuvola. Al contrario di quanto lasciavano presumere alcuni a quanto pare infondati commenti in rete, che ancora una volta appaiono rappresentativi della mollezza e superficialità di questi tempi, la nave è pulita, confortevole, apparentemente in ottime condizioni e nel complesso i passeggeri, in larga parte europei bianchi, si dimostrano civili e rispettosi; abbiamo dormito su una poltrona e un divanetto in condizioni più che accettabili.

Il tempo mi è servito, oltre che per dormire e bighellonare mollemente sul ponte, per leggere qualche articolo dell’Internazionale di Agosto, ben tre quotidiani gentilmente prestatici da una vicina di poltrona, e le prime pagine del saggio Bompiani Storia di Israele, che attendeva la lettura, sullo scaffale della libreria di casa, da non meno di otto anni. Circa dieci anni fa, complice la mia lunga permanenza in Romania e una fascinazione per i paesi dell’est nata più per contrapposizione allo standard americano che per motivato filosovietismo, lessi con trasporto una Storia della Russia della stessa collana, e preso dall’entusiasmo in breve acquistai i tomi relativi ad Inghilterra, India, Francia ed Israele, oltre ad ereditare poi quello relativo agli Stati Uniti d’America da un’amatissima zia paterna. Tutti giacciono, intonsi, sullo stesso scaffale della libreria: poco edificante esempio della irragionevole bulimia culturale di cui anche io sono stato, e sono tuttora, vittima, seppur oggi con più consapevolezza (e quindi più colpevolezza, del resto) che in passato.

Sbarchiamo nel porto di Igoumenitsa alle 19:30 circa. La città appare desolata, semideserta. Con poca fatica troviamo l’appartamentino senza pretese in cui pernotteremo due notti.

Calato il buio, usciamo per una passeggiata e ci colpisce l’atmosfera ovattata e silenziosa: vi sono, sul lungomare e nelle vie interne del piccolo centro storico, bar all’aperto e chioschi di aspetto moderno e gradevole, ma, cosa assai sorprendente, privi di musica! Una circostanza che ritroveremo con continuità nel corso del viaggio: e che io, che con il passare del tempo amo il silenzio sempre più, trovo confortevole e a misura d’uomo. Non ho elementi che concorrano a sostenere la fondatezza dell’ipotesi, ma mi piace pensare che i greci, forti della loro tradizione umanistica e filosofica, al chiasso preferiscano una quiete che permetta di conversare e chiacchierare gradevolmente.

Lunedì 06 Agosto – Mete totemiche

Visitiamo rapidamente Sivota, dove facciamo colazione e, constatata la sostanziale inconsistenza del luogo, gradevole ma prettamente turistico e privo di fascino, ci spostiamo subito a Parga, quasi altrettanto insignificante. La prima è più piccola e appare essenzialmente incentrata sul turismo, con le stradine principali che sembrano quasi quelle di un villaggio turistico, comunque tutt’altro che affollato, ed è già un pregio non da poco in Agosto; la seconda, più estesa, ha i connotati di una cittadina che vive di vita propria ed è dotata di un piccolo centro storico, comunque poca cosa, che si estende in fronte al mare. La spiaggia è affollata ma riusciamo tuttavia ad affittare un ombrellone per qualche ora. Mare pulito e sabbioso, gradevole ma lontano dalle acque limpide ed azzurro-verdi che ognuno s’immagina al parlar di mare greco.

Martedì 07 Agosto – Rape rosse

Il mattino successivo consumiamo una dolcissima colazione nella bella pasticceria sotto casa, a base ovviamente di baclava, il tipico dolce turchesco di pasta sfoglia e pasta di mandorle o noci, che in Grecia preparano letteralmente annegato in uno sciroppo mieloso. Entro le 8:30 siamo in sella verso Patrasso.

Le strade sono libere, totalmente prive di traffico, ed anche questa è una circostanza inaspettata che riscontreremo ogni giorno con rinnovato stupore.  Incontreremo traffico a Patrasso, e, sulla costa del Golfo di Kalamata, solamente nel giorno di Ferragosto, in cui l’affollamento sarà comunque non più di quello che, sulla costa adriatica, si incontra in una domenica qualunque da maggio a settembre. Le sole motivazioni ragionevoli che trovo a giustificare tanta tranquillità sono un probabile scarso turismo interno a causa della crisi economica che tuttora stringe il paese, un turismo estero che si concentra sulle isole piuttosto che sulla costa del Peloponneso, e, non ultimo, il fatto che l’estensione della frastagliata costa, in termini di lunghezza, sia tale da garantire un ampio assorbimento dell’affluenza turistica.

Attraversiamo lo spettacolare ponte Rio Antirion sul golfo di Corinto, e a Rio sostiamo nei pressi di una stazioncina ferroviaria dismessa ora adibita a bar, per uno spuntino al sacco a base di feta, grissini e un buon caffè.

Patrasso si presenta come un rovente e trafficato conglomerato cementizio e vaghiamo una quarantina di minuti nei pressi della strada portuale prima di imboccare, grazie alle cortesi indicazioni di un benzinaio, quella per Tripoli, che in breve si fa collinare, quasi vuota e molto gradevole. Si sale nelle molli montagne dell’interno fino a Kalavrita, piacevole cittadina montana, dotata di impianti sciistici e meta di un turismo prevalentemente invernale; in estate c’è un modesto afflusso turistico per lo più interno e familiare. La cittadina vanta un collegamento alla costa mediante un treno a cremagliera di fine ottocento, tuttora funzionante. Pernottiamo qui, e ceniamo prima che faccia buio in una taverna con pochi avventori, serviti amabilmente dal proprietario, che chiacchiera con noi in rumeno. Anche sua moglie, ci spiega, è rumena. Per la prima volta mangio delle rape rosse che non solo non saporano di terra, ma sono addirittura buone; ma forse, più esattamente, sto degustando un condimento a base di olio e aglio accompagnato da fette di rapa.

Mercoledì 08 Agosto – Napoli di Romania

La strada per Tripoli si snoda piacevolmente nel paesaggio montano e collinare, brullo ma comunque verde e relativamente fresco. In una sorprendente rarefazione veicolare ed umana attraversiamo minuscoli paesini che non sembrano presentare alcun interesse storico, oltrepassiamo Tripoli e, perdendo quota in un rilassato fluire di ampie curve con panorama aperto sull’amplissimo golfo, riconquistiamo la pianura calda ed arsa del mezzogiorno solo una ventina di chilometri prima dell’ingresso a Nafplio. Gli ultimi chilometri costeggiano la riva; sulla nostra destra si susseguono ampie spiagge per lo più sabbiose, talvolta ciottolose; sulla sinistra sparpagliate abitazioni e piccoli centri abitati. Occasionali passanti attraversano la strada in costume da bagno e mi sorprendo che nessuno ancora abbia predisposto apposita cartellonistica stradale: “Pericolo attraversamento bagnanti”.

Entriamo nella città da sud. La considero meta obbligata non tanto per essere riconosciuta come uno dei gioielli della Grecia, ed apprezzata meta turistica, ma per essere la Napoli di Romania citata in Memorie di un Italiano del Nievo, lettura che ho eroicamente concluso meno di un anno fa dopo vari tentativi falliti, il primo a meno di quattordici anni durante una delle desolanti vacanze estive sull’isola di Albarella: allora, imberbe lettore scoraggiato dalla voluminosità dei due tomi, mi arenai poco oltre le fantasmagoriche descrizioni della cucina di Fratta. Lo strano nome della città mi era affatto nuovo e curioso, e solo a lettura ultimata scoprii trattarsi della odierna Nafplio. Il territorio rumeno non si è mai esteso fin lì: l’appellativo “di Romania” indicava in passato l’appartenenza all’Impero Bizantino, noto anche come Imperum Romanum, Imperium Romanorium, Res Publica Romana, o più semplicemente Romanìa. A partire dal XIV secolo, quando Nafplio era un porto piuttosto importante, gli italiani iniziarono ad aggiungere l’appellativo “di Romania” al nome della città, Napoli in italiano, per distinguerla dalla omonima città marinara del sud Italia.

Il sole è cocente e la città parecchio trafficata. Il centro storico è consistente e significativo, come purtroppo di rado capita in Grecia, costituito per lo più da palazzetti di epoca sette e ottocentesca; le strette strade centrali, lastricate di marmo bianco come spesso si incontrano anche sulla costa dalmata, sono un susseguirsi di taverne, ristorantini, bar, caffè, negozi di souvenir, qualche boutique. Molti alberghi, parecchi turisti che si riversano nelle viuzze centrali e sul lungomare cittadino al calar della sera, quando le temperature si fanno più clementi. Il tutto dominato dalle fortezze di Acronafplio, addossata alla sponda nordorientale della città, e di Palamidi, imponente e suggestiva fortificazione duecentesca arroccata a guardia su un promontorio roccioso retrostante la città. Nonostante l’indubbia piacevolezza del quadro e un’affinità architettonica con le città di mare italiane la lunga mano della Repubblica Veneziana ha certamente lasciato anche qui le sue impronte Nafplio non mi entusiasma: non è il posto dove vorrei, almeno per un po’, vivere.

Trascorriamo il pomeriggio sulla spiaggia di Karathona, qualche chilometro ad est della città. Più che una spiaggia, è una lunga lingua di territorio semicircolare, estendentesi varie centinaia di metri, in cui il terreno, propriamente terroso piuttosto che sabbioso, dirada dolcemente nell’acqua marina. Una pineta rada ma molto estesa arriva ad una decina di metri dalla riva garantendo gradevoli zone d’ombra. La strada corre lungo il bacino, a dieci o venti metri dalla costa, per spegnersi al termine di esso. Lo spazio libero è così vasto da permettere agevolmente di parcheggiare e trovare un posto senza troppa gente intorno, anche in un pomeriggio assolato di metà agosto. Al di là della strada sono chioschi e qualche ristorantino dimessi, che ricordano baracche africane o asiatiche piuttosto che i moderni fashion-bar tipici delle movide vacanziere italiane o spagnole.

L’ingresso alla fortezza di Palamidi di trova proprio sulla strada che collega Karathona a Napflio, ed abbiamo quindi modo di passarvi innanzi sia all’andata che al ritorno. Senza rimpianti decidiamo tuttavia di non visitarla. Ho già visitato tante volte, in passato, ruderi di vecchi castelli, cinte murarie, roccaforti e antichi manieri, e, con l’accumulo delle esperienze ed il disincanto degli anni, ho realizzato che raramente la visita degli interni  è all’altezza o aggiunge granchè alla suggestione della vista d’insieme, dal di fuori, spesso in un contesto panoramico fascinoso. Che è poi un caso specifico della constatazione, molto spesso vera, per cui se si è addentro ad una scena, non se ne gode la bellezza, e che dei fatti e degli eventi di cui si è spettatori si ha maggior chiarezza e comprensione che di quelli di cui s’è parte attiva.

Al contrario di me, Cri ama, quando se ne presenta l’opportunità, consumare semplici pasti negli appartamenti ove soggiorniamo, preparati grazie a qualche acquisto improvvisato. Cosa che io tendo a considerare piuttosto desolante, avendo un approccio al viaggio più tradizionale, per cui ogni mancato pasto in un contesto pubblico, magari chiassoso o comunque ricreativo, sembra una occasione mancata.  Banale e diffuso frutto dei modelli culturali dominanti, ma, anche, retaggio di una infanzia e giovinezza in cui la scarsezza di occasioni sociali e ricreative condivise con i familiari più stretti, in primis i genitori, era consapevole motivo di una sofferenza distintamente percepita, e causa, anche, di una sottile distimia della quale ho forse ormai del tutto sbarazzato la mente, ma non il cuore. Cosi, sulla via del rientro nel tardo pomeriggio, il tempo risparmiato grazie alla mancata sosta alla fortezza di Palamidi, viene utilizzato per la visita di uno squallido supermarket ancora aperto.

Non troviamo pesce, come Cri desiderava, e rimediamo su alcune fettine di maiale poco invitanti e del vino rosè di dubbia qualità, ammesso, e personalmente ne dubito, che un rosè di qalità non dubbia esista. Questa volta, complice il silenzio suburbano nella calda serata estiva e le aspettative deluse, la cena è effettivamente piuttosto desolante, e anche Cri si ripromette, per il resto del viaggio, di concederci più ricche e dignitose cene pubbliche.

Rimediamo alla tristezza con una passeggiata dopocena in centro città, ora gremita e molto piacevole. Noto ora con sorpresa, come già nel pomeriggio in spiaggia, che il turismo è prevalentemente domestico.

Giovedì  09 e Venerdì 10 Agosto – Malvasia, un rosè capace di mettere in dubbio le mie indubbie certezze

I cornetti e le brioche, in Grecia, sono di qualità inferiore a quelli italiani: grandi e dall’apparenza invitanti, sono per lo più vuoti e fatti, a detta di Cri, di un inappropriato tipo di pasta sfoglia: opinione che tento di smentire il mattino successivo, predisponendo sul tavolo della cucina, ancora tristemente odorosa di grasso rancido, vari cornetti amorevolmente acquistati all’alba. Invano.

Ripresa la strada costiera percorsa all’arrivo, ci spostiamo, tra belle panoramiche e scarsissimo traffico, a Leonido, che trovo essere un borgo piacevolissimo. Arretrato di qualche chilometro rispetto alla costa, è un paese scarsamente toccato dal turismo, le cui strade rivendicano una sincerità, una semplicità rurale, che mi ricorda certe atmosfere dell’infanzia e mi tocca il cuore. Non sono imponenze monumentali a colpire, o particolarità architettoniche e storiche per cui, peraltro, non avrei strumenti e capacità ricettive, ma il brulicare attivo e continuo di persone avanti e indietro sulla via vecchia del paese, i negozi semplici di articoli impagliati, la bottega con la vetrina fittamente riempita di lattoneria e vasellame locale, e l’officina vecchia maniera in cui un uomo irsuto con le mani unte chiacchiera placido con un avventore.

Da qui la strada principale, in direzione Sparta, si inerpica all’interno e con rapidi tornanti guadagna rapidamente il fresco in un atmosfera rarefatta e vuota: vuota di paesi, e case, e veicoli, e uomini.

La scelta di questa strada interna, invece della costiera, non è stata programmata, ma si rivela azzeccata: dopo una trentina di chilometri raggiungiamo il passo ed entriamo d’un tratto, come intrusi sul palco nel bel mezzo  della recita, nella piazzetta centrale di Kosmas, pittoresca, splendida, inaspettatamente popolata. La strada si stempera su un pavè ciottoloso: tutto è roccia e pietra, ma molto alberato e fresco. Sono colpito dalla quantità di locali e tavolini diffusi sulla piazza rettangolare, tra il sagrato della chiesa e bei palazzetti storici, ed ancor più dalla notevole numero di avventori, per lo più intenti a consumare cibi e pietanze a base di pesce.  Passeggiamo solo pochi minuti nella piazza, che trovo incantevole, e non ci fermiamo perchè Cri, un pò ansiosa, preferisce proseguire dato che l’autonomia del mezzo non supera i trenta chilometri e, mi dicono, non ci sono benzinai nei paraggi. Da qui, almeno, la strada prosegue in discesa.

E’ una perla questo Kosmas, e sebbene vi abbiamo trascorso solo pochi minuti, la vista d’insieme sulla piazza è rimasta nella mia memoria con la fissità e nitidezza con cui si ricordano gli attimi che procurano forti reazioni emotive.

La pianura si raggiunge in breve, più o meno all’altezza di Geraki, ed è una pianura verde, coltivata un poco malamente, piatta e lenta. Amo questa atmosfera vagamente desolata, la stazione di servizio scalcinata, dove l’altro avventore è un anziano su una vecchia berlina che si porta via una tanichetta di benzina, e mi serve un ragazzetto in abiti borghesi uscito sonnacchioso da un bugigattolo sudicio.

Ecco, che la Malvasia fosse un vino, perlopiù bianco e fruttato, in qualche modo associato alle terre calde del sud del mediterraneo, lo sapevo anche io. Che l’etimo del nome fosse imputabile alla cittadella di Monemvasia, sulla costa della Laconia, mi era ignoto. La parte nuova della cittadina, sulla costa, non offre nulla di particolare, ma il paese vecchio, arroccato su un isolotto a forma di pagnotta collegato alla terraferma dal un breve ponte, è una testimonianza notevole, un museo a cielo aperto. Museo, ahimè, perchè di vita quotidiana reale, sull’isolotto, non v’è traccia, se non vogliamo considerare reale, che reale è, a ben guardare, l’attività ed il tramestio e l’andirivieni di negozianti, commercianti, tavernieri e gestori intenti a smistare e gestire il corposo flusso di turisti per lo più giornalieri che empie consistentemente i viottoli. Vi sono, pochi, alcuni edifici adibiti ad hotel o stanze, o appartamenti affittati ad uso turistico, ma di abitazioni utilizzate da locali residenti stanziali non percepisco traccia. Se v’è forse qualcosa, si tratta senz’altro di pochissime unità, incapaci di sostanziare una realtà sociale ed urbana ormai estinta. Detto questo, l’aggregato roccioso medievale, con l’intrico di viottoli e calli su vari livelli, le abitazioni che costituiscono un unicum con le pareti rocciose circostanti, e la ricca vegetazione che lo avvolge tutt’intorno e rivendica spazio, incarnandosi con forza nelle crepe e negli anfratti delle costruzioni semiabbandonate, come peli trascurati sopra un vecchio viso irsuto; l’aggregato medievale sembra una vulva adagiata nella folta e protettiva peluria pubica, un gheriglio di noce incastonato nel guscio litico dell’isola.

In una delle tante tavernette dell’affollata arteria principale, poco prima del tramonto, mi compiaccio di indovinare all’assaggio che la retsina, che ancora non conoscevo, è un vino bianco aromatizzato con resina vegetale. E nonostante Monemvasia sia insomma una meta fortemente turistica, si è comunque lontani dagli eccessi agostani cui siamo abituati nelle costiere adriatiche o versiliane, e ne abbiamo ancor più prova il giorno successivo, spostandoci a sud di pochi chilometri, lungo la costa. Disdegniamo una spiaggetta attrezzata suggeritaci dalla affittacamere, piuttosto frequentata e poco invitante, e sostiamo invece nel minuscolo ed isolato abitato di Agias Fokas, che, mi sembra, consta letteralmente di poche case sparse. Non vediamo negozi o locali, nulla che attiri l’attenzione, se non la gradevolissima baietta su cui sbocca e muore la piccola strada che porta all’abitato: dalla spiaggetta di sassolini e terriccio si stacca un isolotto, collegato con un pontile cementato lungo una quarantina di metri, su cui sono il cimitero ed una piccola cappella. Durante l’intera mattinata condividiamo la baia con due signore e, piu’ tardi e per poco tempo, con altre quattro persone di mezza età arrivate in auto. Ancora una volta un turismo locale di basso profilo che mi ricorda tanto l’Italia della mia infanzia, quando vacanze estive poteva ancora significare qualche singola giornata trascorso sulla spiaggia a poche decine di chilometri da casa, pranzo al sacco e rientro la sera stessa. Trascorriamo qualche ora di assoluta pace in questa oasi di silenzio e tranqulllità, dal traffico quasi assente e in cui la sola presenza umana sembra essere quella trapassata che ora riposa nel vicino cimitero, che in questo contesto arcadico riesce rasserenante e protettiva, non certo angosciosa od inquietante.

Il piccolo appartamento in cui alloggiamo due notti, un pianterreno fronte mare all’ingresso della parte nuova del paese, è cosi piacevole da indurre nuovamente Cristina nella tentazione di consumarvi uno spuntino a pranzo, ed addirittura la cena. Del resto, è cosi gradevole e ben attrezzato da indurmi a non disdegnare l’idea, complici alcune bottigliette di vino locale già presenti nel frigorifero al nostro arrivo. Ovviamente Malvasia di Monemvasia, bianco e rosè. Freschissismo, fortemente fruttato, sorprendentemente gradevole, mi costringe a riconsiderare ormai radicate convinzioni enologiche. Ebbene, sì: anche un rosato può essere dignitoso, addirittura gradevole, financo desiderabile.

Il giorno seguente abbiamo avuto occasione, sulla spiaggetta sassosa della Monemvasia nuova a qualche centinaio di metri dall’appartamento, di affrontare un mare molto mosso nei cui cavalloni mi sono tuffato e rituffato eccitato come un bambino, non volendo esser da meno d’un gruppetto di turisti stavolta stranieri, e dimentico di avere abbondantemente passato la quarantina. E tuttavia, mai avevo provato prima una tale sensazione di inermia nell’essere travolto da un mare di tale impeto e possenza. Il fondale sassoso genera inaspettate conseguenze: ad ogni ondata ho la sensazione di subire un breve ma intensissimo idromassaggio con scrub, forse più propriamente una sabbiatura a grana grossa; alla riemersione, sono stupefatto dalla quantità di ghiaino annidatosi nei più reconditi anfratti corporei, deretano incluso.

Sabato 11 Agosto – Sparta

Pur sapendo che non dobbiamo aspettarci molto, ho messo in programma una tappa nell’entroterra a Sparta, giustificata se non altro dalla visita alle vicine rovine bizantine di Mystras. Che agevolmente raggiungiamo e visitiamo, ma senza particolare entusiasmo e stupore, forse perchè, con buone dose di crassa ignoranza, istintivamente mi aspettavo qualcosa che avesse a che fare con la Grecia antica, e stiamo invece passeggiando in costruzioni cristiane di inizio secondo millennio. Indugio tuttavia con piacere nella frescura di agias Sophia e nei porticati adiacenti, e ci piace visitare il monastero, dove acquistiamo qualche piccolo manufatto tessile e, Cristina, qualche icona. Le suore, che mi pare di capire conducano qui autentica vita monastica gestendo il monastero in autonomia, sono vecchiette silenziose e minute che offrono ai turisti qualche dolcetto, perlomeno a quelli paganti, e qualche sentore di composta ed umile spiritualità, che m’inganno di percepire a dispetto della mia ricettività debole, inaridita, cinicamente miope nei riguardi delle cose dell’anima. O, solamente, non abbastanza istruita, ignara di saperi che in tempi antichi, in tempi prestorici, erano, mi piace credere, parte integrante delle conoscenze istintive e quotidiane d’ogni uomo, come lo erano e sono i saperi istintivi del regno animale, prima d’esser sostituiti dalla capacità di pensiero logico e razionale, e dalla sbalorditiva, eppure non esaustiva, capacità tecnica che tanto differenzia l’uomo dalle altre creature.

Nell’uscire dalla cittadella monasteriale, l’intima e raccolta atmosfera chiesastica è subito dissolta da un accesso di sana, liberatoria e spassosa ridarella che ci assale nel sentire alcuni attempati turisti chiacchierare animatamente in dialetto veneto. Questi episodi inopinati ed occasionali, in cui, senza proferir parola, un incrocio di sguardi è sufficiente a sancire un immediato e completo allineamento del pensiero e della comprensione di ciò che sta accadendo, rafforzano e cementano una relazione, o un’amicizia, come non sono in grado talvolta anni di convivenza o frequentazione, e sono davvero, per noi, in questi ultimi anni, preziosi come come rugiada nel deserto.

A Sparta arriviamo nel pomeriggio, e raggiungiamo senza difficoltà l’indirizzo prenotato per il pernottamento. Una vecchia casa singola, su due piani, ampia, probabilmente edificata nei primi decenni del novecento, piuttosto malmessa e con un giardino in stato di modesto degrado. Nell’ampio ingresso fa cattiva figura un mobilio vecchio e malamente disposto; l’odore di stantio e la penombra rendono l’atmosfera vagamente inquietante. Invece di un vecchio ed ossequioso cameriere in livrea, però, ci accoglie Teo, capelli corti e viso da bravo ragazzo, abiti casual, modi sorridenti e cortesi. Cosa ci farà mai, in questo posto? Ci conduce al piano superiore tramite un’ampia scala a rampa elicoidale,  una scala che, con la sua forma sinuosa portata con l’eleganza di una vecchia signora d’alto rango ormai decaduta, sembra voler testimoniare, a nome della casa intera, d’un tempo passato florido, borghese, forse ricco. Allo stesso modo si presentano il piano superiore ed ogni altro ambiente che vedremo durante la nostra breve ma intensa permanenza. La scala si apre in un amplissimo ambiente che funge da corridoio e salottino, punto di ingresso, uscita, connessione e smistamento per le varie articolazioni della casa: a destra la nosta camera e, più oltre, un ampio soggiorno; alla sinistra un corridoio minore porta a sua volta ad un bagno comune e ad una cucina sulla destra e, sulla sinistra, ad un tinello che si apre su un’ampia veranda. V’è poi, al fondo del tinello, un scala buia che scende diritta in basso e termina su una spessa porta di legno verdastra, chiusa, che cela l’accesso ad altri reconditi vani, soggiacenti e certamente oscuri ed umidi e popolati di ricca fauna aracnea, inaccessibili agli ospiti e per questo irresistibilmente intriganti.

Ed ovunque il mobilio è vecchio, vissuto, i muri sovente scrostati, gli infissi anch’essi visibilmente provati ed inaspriti dagli anni e dal sole. Teo studia geologia, suona la viola e ci spiega che possiamo usare la cucina, accedere al frigo e fruire delle marmellate caserecce che lui stesso prepara. La cucina è fascinosa: mobilio anni cinquanta, mensole e dispense, vasi vasetti e vasellame, pentolini e piatti appesi, un vecchio ed ampio acquaio in marmo grigio, ed un corposo disordine maschile, un assortimento variopinto di oggetti variamenti sparsi ad occupare ogni spazio e superficie; un disordine che troviamo anche nel bagno, singolo e quindi condiviso con i vari ospiti ed i proprietari stessi, d’una pulizia non propriamente esemplare, ed in cui la disposizione fortemente entropica di tubetti, rasoi, flaconi, saponette e spugne, spazzole, pettini e dentifrici, e insomma di tutta una schiera  d’oggetti apparentemente indispensabili al presunto elevato standard di igiene e benessere corporeo occidentale, suscita non più una pittoresca reminiscenza d’un atmosfera domestica arcadica e matriarcale, saporosa di pagnotte sfornate in casa, fornelli fumanti e banchetti agresti, quanto piuttosto un fastidioso senso di schizzinoseria e disagio, ulteriormente enfatizzato dalla squallida vista sul giardino retrostante la casa, dove le erbacce invadono materiali edili e resti di qualche costruzione demolita disordinatamente sparsi nell’intorno. Gli indizi non lasciano dubbi:  la casa non conosce presenza femminile.

Teo ci fa sapere che è in procinto di uscire, ma che in serata rientrerà con Geroge, il suo coinquilino, e ci suggerisce qualche posto semplice in cui cenare. Restiamo soli, ci sistemiamo, trascorriamo qualche decina di minuti nel soggiorno, polveroso ma confortevole con il bel pavimento in legno ed i divani in stile novelle vogue, ed in cui fa bella figura un leggio con gli spartiti aperti.

Andiamo in città a piedi; il sole è ancora alto e la calura snervante. Di Sparta mi resta un’immagine geometrica, di strade diritte ed ampie e piazze marmoree neoclassiche, primo-novecentesche, che ben s’abbina, e ne è forse indotta, ad un’idea scolare e stilizzata di grecità, fatta di uomini barbosi, atletici e seminudi che passeggiano tra templi ed edifici di impeccabile rigore stilistico classico, disquisendo astrattamente di geometria, matematica, ed elaborando intuzioni delle scienze ancora a venire, in un tempo, quello, in cui, amo pensare, altri canali di conoscenza, che quello puramente intellettivo oggi largamente dominante, non erano ancora del tutto occlusi; quando le ultime reminescenze di un’era in cui la corteccia non aveva ancora rubato il palcoscenico all’ipotalamo concedevano, ancora, all’uomo di esperire una conoscenza del mondo non filtrata dalle sovrastutture razionali, logiche, cognitive, che hanno fatto dell’uomo un animale tanto anomalo. Quando, forse, ancora si poteva avere conoscenza e padronanza di una situazione o d’un fenomeno al modo in cui, oggi, può occasionalmente capitare contemplando un dipinto: una sorta d’appropriazione intensiva della conoscenza, che accade in un momento ed in tutto lo spazio; qualcosa che certamente si avvicina all’idea di illuminazione e comprensione mistica, in contrapposizione alla conoscenza estensiva che si dà, ad esempio, mediante lo studio d’un trattato o l’analisi sperimentale razionale e sistematica, capaci di fornirci su un prolungato termine temporale una comprensione per lo più puntuale, limitata alla spazio fisico o concettuale dell’esperimento o fenomeno o situazione in istudio.

Come sembra essere piuttosto comune  a queste latitudini, la città è semideserta a metà pomeriggio, per popolarsi senza chiasso e con contegno sul far della sera. Prima che venga buio, diligentemente, sciacquiamo via pensieri e congetture di dubbia portata intellettuale nella trattoria suggeritaci, senza infamia e senza lode.

Rientriamo presto, ed in qualche misterioso modo restiamo intrappolati nel tinello tra la cucina e la veranda, dove l’atmosfera, ed i nostri corpi, sfumano e prendono parte  alla commediola che i vari  personaggi di passaggio sono tenuti ad improvvisare sul palco scricchiolante dell’inquietante residenza; forse la giusta profferta da offrire ai fantasmi che certamente l’abitano, per i quali assistere al prosaico spettacolino d’una qualche mezzora di commedia umana sarà tributo sufficiente, penso e mi auguro, a concedere d’usurpare la loro augusta dimora per una notte o due. S’esibiscono una giovane ed alquanto insignificante coppia inglese  impegnata nel classico tour a tappe forzate pianificato in ossequio alle popolari guide turistiche di grande tiratura; un ragazzo dinoccolato e riccioluto, più interessante e simpatico, che se ne va a spasso da solo per una lungo tour d’intramezzo tra la chiusura d’un ciclo scolastico e l’apertura del successivo, al quale i fantasmi, a mezzo dei gestori attualmente incarnati in forma umana e vivente, hanno concesso, per pochi quattrini, di stendere il sacco a pelo su un’amaca in giardino; s’esibisce Teo che da buon gregario conscio della propria parte e dei propri limiti non esita a lasciar sulla scena il giusto spazio a George, protagonista ed indiscusso prim’attore del duo costituente la parte stanziale della compagnia. George è greco, molto greco: alto, magro, severamente scuro ed irsuto, con la voce leggermente rauca d’un fumatore già discretamente avvelenato, per l’apparente età di trentacinque o forse quarant’anni. Ma ha modi affabili e gentili, ed ama conversare.

In breve gli altri attori sgattaiolano nelle retrovie, si nascondono nei camerini, o forse George, con sapiente noncuranza, li sa distrarre ad altre faccende, e trascina noi due soli all’aria aperta nel terrazzo, dove conversiamo e beviamo fresco vino bianco prodotto, dice, da uve della loro proprietà, che ci offre in caraffa e bicchieri di rame come ne abbiamo visti nelle botteghe di Leonido. A dispetto della mia cronica incapacità a sostenere conversazioni, in qualche modo conversiamo fluentemente per un’oretta almeno, nonostante il vino si limiti  ad una brocca da circa mezzo litro in tre. Ci racconta di una situazione economica ancora dura, e si percepisce il malcontento per il rigore imposta dall’Europa. Non sapremo, però, che cosa Geroge faccia nella vita, se quella sia forse una casa ereditata o che altro, nè quale sia i rapporto tra lui e Teo, e di che soldi campino. Insomma ce ne andremo senza sapere di dettagli inutili, si evita il prosaico scambio delle solite informazioni sul chi siamo e cosa facciamo, per lasciare direttamente spazio a conversazioni, opinioni e punti di vista su argomenti vari e disparati. Sarà forse anche questo un tratto di grecità, il degno comportamento del popolo che ha insegnato l’arte del ragionare a tutto il mondo occidentale?

La stanchezza in sinergia con la leggera euforia alcolica sono sufficienti ad annebbiare la vista alla memoria, alla soverchiante e tirannica autorità razionale che mi abita e tutto vorrebbe sapere e controllare ed ordinatamente archiviare, cui non  resterà quindi nulla da conoscere e raccontare; conosce e si compiace, archivia e mette a frutto a modo suo, invece, l’altro inquilino del mio corpo, più defilato e timido, ma così seducente e necessario, quella misteriosa ed ancestrale memoria e conoscenza corporea che chiamiamo comunemente istinto.

Siamo molto felici e rinfrancati della chiacchierata, ed anche i legittimi residenti devono avere apprezzato o perlomeno non essere rimasti delusi od irritati, giacchè la notte trascorre serena e senza accadimenti molesti o misteriosi.

Ne saremo persuasi il mattino successivo, quando, con vago ed inconfesso senso di sollievo, scopriamo che la moto è ancora funzionante e non ha nemmeno le gomme a terra. Allora, davvero, non siamo capitati in una casa maledetta, in un malcelato covo di entità demoniache sotto sembianze umane, nel rifugio di truci malfattori dediti ad attirare i turisti per fagocitarli e digerirli lentamente, come una dionea le mosche.

Siamo anche confortati e leggermente eccitati dallo scoprire che i ragazzi conoscono, almeno per sentito dire, e pare ne abbiano sentito dire bene, una delle nostre prossime tappe, la Art Factory nei pressi di Kalamata, rispetto alla quale abbiamo un ottimo presentimento e di cui la breve esperienza Spartana sembra un eccellente prodromo.

Domenica 12 Agosto – Il dito medio del Peloponneso

Da Sparta partiamo dunque Domenica mattina. La strada è buona e come sempre poco trafficata. Ci inoltriamo nel dito di mezzo del Peloponneso, il seducente Mani, con l’intenzione di compierne il periplo in senso antiorario. Nei pressi di Areopoli si percepisce un netto cambio di paesaggio, che si fa brullo e secco; sulla sinistra si staglia imponente il versante ampio, esteso e concavo di una montagna.

Prima di entrare in città deviamo per Limeni, porticciolo piccolo e gradevolissimo. Il mare è, qui e lungo tutta la penisola, quello specchio turchese da cartolina che ancora non avevamo incontrato. Tuttavia, la località è piuttosto affollata e ci limitiamo ad una breve passeggiata, per poi risalire ad Areopoli che però costeggio solamente, transitando sulla strada esterna al centro storico, della cui esistenza non mi avvedo e che scopriremo solo due giorni dopo, spostandoci da Kokkala a Megali Mantineia. Saltiamo quindi Areopoli a piè pari e proseguiamo sulla strada principale, senza deviazioni, fino a Gerolimenas, nei pressi dell’estremità meridionale della penisola. La strada corre piuttosto internamente rispetto alla costa ovest, ed inaspettatamente piatta.

Per scorgere il mare od incrociare qualche paese sarebbe stato necessario imboccare una delle tante stradine laterali che si diramano ai due lati della principale, cosa che però ho evitato sapendo quanto irriterebbe Cristina. L’approccio diametralmente opposto che abbiamo nell’affrontare un percorso, una scampagnata fuori porta, una passeggiata perlustrativa od anche solo una necessaria battuta di shopping al mercato,  è una ottima metafora dei nostri opposti temperamenti: io, flemmatico, amante del dettaglio elaborato e della conoscenza esaustiva, sono irresistibilmente tentato dall’imboccare ogni deviazione, perlustrare ogni vicolo e prendere sistematica visione di ogni merce disponibile, nel defatigante quanto vano tentativo di saziare una brama onnivora di conoscenza dettagliata dell’intero spazio potenziale a nostra disposizione. L’ambizione può essere lodevole, ma i risultati sono spesso controproducenti: l’eccessiva attenzione al dettaglio può comportare una fatale distrazione dalla meta, ed il bersaglio è perso, la corsa all’obiettivo sciupata in un gallinesco beccheggiare che spazientisce e dà alla testa. Cristina, collerica, non è dotata di curiosità disinteressata e gusto per il dettaglio, e non concepisce il dispendio ingiustificato, privo di scopo apparente, di energie e tempo. Così, le deviazioni la spazientiscono ed irritano. Per quanto questo atteggiamento precluda spesso l’accidentale scoperta di inattesi piaceri o utili conoscenze, è innegabile che aiuti a mantenere l’attenzione alla meta ed il più delle volte consenta di raggiungere l’obiettivo ed ottenere un risultato. Non è un caso che io ami il Canaletto, mentre Cristina prediliga l’approccio di un Matisse od un Kjarval.

E, con il senno di poi, mantenere la strada principale si rivela la scelta migliore (e davvero, a completare la metafora, non farei un gran torto alla verità a dire che Cristina m’aiuta, nella vita, a mantenere la retta via). Avremmo altrimenti rischiato di consumare molto tempo in una iterazione di paesaggi e siti non dissimili, che nulla o poco avrebbero aggiunto l’uno all’altro, quand’è invece più sensato e gratificante visitarne un numero inferiore, comunque rappresentativo, ma con più calma e serenità. Una buona regola di parsimonia del viaggiatore che, non  senza sforzo, sto coltivando da ormai qualche anno con  discrete soddisfazioni. Per spiegarlo agli amici, ho razionalizzato questo approccio con validi paragoni ed incontestabili metafore. Il più calzante è forse il seguente: quando andiamo al ristorante, non per mera necessità di riempir lo stomaco ma per il piacere di una esperienza, come si dice oggi, enogastronomica, ordiniamo forse tutte le portate del menu? No: ne scegliamo alcune, e non consumiamo il pranzo angustiandoci di come sarebbero state le altre. Così, perchè mai della sterminata sfilza di siti imperdibili, borghi irrinunciabili e panorami  mozzafiato snocciolati dalla Lonly Planet dovremmo fare esperienza esaustiva? Quella lista è il menù: non dovremmo semplicemente sceglierne alcuni, e degli altri non curarcene oltre? Ma, poi, è proprio necessario perder tempo a consultare l’intero menù? Non è piacevole, talvolta, e così liberatorio, disdegnare la prolissa e sistematica lista, per affidarsi al celere e circoscritto consiglio del cameriere o ancor meglio del cuoco? O, se dell’integrità e disinteresse del cameriere o del cuoco, non certo super-partes, nell’elargir consigli abbiamo motivo di dubitare, lasciar campo libero all’istinto e scegliere dalla carta senza tanti indugi, quasi a prendere la prima riga su cui cade l’occhio, giusto giusto appena assicurandosi che non si incappi in qualcosa a noi palesemente sgradevole? Non potremmo chiedere al tabaccaio o al panettiere, o meglio ancora al barbiere, cosa ci suggerisce oggi, nei paraggi? Se proprio vogliamo fare i precisini e non ci piace lasciar spazio all’improvvisazione o all’improfessionalità, potremmo rivolgerci all’uffico turistico: otterremo certamente una lista più circoscritta e una spiegazione più sommaria ma mirata. Non potremmo comportarci allo stesso modo con  la  carta della Lonly? E quando visitiamo un museo e, rischiando l’emicrania nello sforzo di non perdere nemmeno una bacheca, un dipinto od una statua, ci ritroviamo a dedicare pochi ansiosi secondi ad ogni opera o reperto? Ma perchè mai? Non è forse il caso di sceglierne alcuni soli, e guardarli, contemplarli, studiarli, con la tutta la calma di cui vorremmo disporre?  Se non abusato, questo approccio alle esperienze turistiche e culturali, ma anche a tante altre situazioni della vita, consente grandi soddisfazioni, grandi risultati e vantaggi, e me ne faccio anno dopo anno paladino e crociato, in una perenne battaglia con il mio indomito temperamento indagatore.

A Gerolimenas sostiamo una mezzoretta. V’è un bel porticciolo con qualche imbarcazione turistica, ma nulla lascia sospettare presenza di effettiva attività di pesca, di cui non abbiamo peraltro trovato traccia in alcuna delle località marinare visitate. E’ notevole invece, e colpisce, l’uniformità del paesaggio naturale e architettonico, che rassomiglia al disegno minimale di un bambino, o allo stereotipo del paesaggio lunare. Nel panorama brullo, roccioso, con vegetazione rada e bassa, si stagliano grappoli di case-torre in pietra d’una insolita tonalità tra il grigio ed il nocciola. Si tratta delle tipiche abitazioni della regione; per saperne di più, non avete che da consultare la vostra guida turistica. Oppure, potreste regalarvi il privilegio di chiedere al barbiere o all’oste della trattoria, o, se siete fortunati e un poco più coraggiosi, al prete… Molte sono  abbandonate, ma non poche appaiono invece in utilizzo; la percezione è che molti paesi siano in stato di abbandono solo parziale, e la presenza di residenti locali dediti ad attività agricole e pastorizia, vediamo spesso piccoli gruppi di pecore o vacche, conviva con un moderato e non invasivo turismo che sfrutta vecchie case-torre ben ristrutturate o costruzioni recenti ma costruite ne rispetto dello stile tradizionale: pianta quadrata, blocchi di pietra al posto dei mattoni, rade finestre piccole e rettangolari e, spesso, uno o due ampi archi sulla facciata anteriore atti a creare un piccolo loggiato. Il tetto è sempre piatto e normalmente adibito a terrazzo. La regione ha potuto contare su fondi europei per attività di mantenimento e restauro atte a preservare un paesaggio architettonico ed antropico unico e peculiare. L’impressione,  confermata nei due giorni successivi, è che gli interventi siano stati implementati come si deve, e che il fenomeno turistico mantenga dimensioni contenute.

Oltre Gerolimenas, gli abitati sono ancor più radi. Vathia, che raggiungiamo in breve, è un piccolo borgo costituito interamente da case-torre ed è oggi l’esempio iconico dell’architettura maniota. La tappa è quindi obbligata, e certo interessante testimonianza architettonica. A piedi perlustriamo rapidamente l’agglomerato, che è di fatto completamente abbandonato. Il borgo, tutto eretto in pietra, è arroccato su un’altura dominante la punta meridionale della penisola, e la totale mancanza di residenti rende la tappa a mio avviso piuttosto desolante e meno significativa di molti altri piccoli paesi dell’area in cui esiste invece una seppur modesta presenza umana stanziale. Vediamo due, forse tre abitazioni che sembrano tuttora in stato di utilizzo, ma non è chiaro se si tratti di qualche stanza riattata ad uso turistico o, forse, di qualche alloggio mantenuto in stato di agibilità da qualcuno che di fatto vive altrove. Dubito si tratti di case abitate con continuità. Del resto, la presenza di un così esiguo numero di abitanti non basterebbe comunque a farne una comunità viva.

Proseguiamo verso Kokkala staccandoci dalla strada principale, per una secondaria che si fa stretta e si inerpica tortuosa sui rilievi a picco sul mare: panorami mozzafiato e curve che fatico talvolta a chiudere, nonostante l’andatura placida.

Transitiamo per Agias Lauria che mi colpisce per sembrare, a quel che posso vedere, completamente priva di costruzioni recenti. La strada divide in due un ampio spiazzo separando sulla sinistra l’abitato ed una attraente taverna, e sulla destra la chiesa ed il versante che scende rapidamente al mare.

La pensione di Kokkala, semplice e alquanto disadorna ma pulita, è gestita da una coppia di mezza età che abita nella pensione stessa, e sembra farlo nè più nè meno con lo stesso atteggiamento degli avventori, o eventualmente con maggiore svago e tranquillità, liberi dell’ansia del viaggiatore di passaggio. Non parlano inglese e sembrano sostanzialmente disinteressati al fatto che qualcuno si fermi o meno da queste parti. Nei due giorni che trascorreremo qui li vedrò prevalentemente seduti sul terrazzo a chiacchierare placidamente: lui, in infradito, torso panciuto e villoso al vento; lei, magra di una magrezza di ritorno, che lascia intuire un passato prossimo di forme sode ed aggraziate solo recentemente avvizzite, in leggeri vestitini estivi di una semplicità al limite della trasandatezza, memori dei tempi migliori in cui non ho dubbi modellassero ben più attraenti disegni e contorni. Ma sono sorridenti e gentili e, forse proprio per questo distacco, per questo farci sentire presenza loro utile ma tutt’altro che necessaria, per questa disarmante semplicità e orgogliosa assenza di quella finzione tipica del rapporto con il turista, ci mettono a nostro agio.

In questa zona, in questi paeselli e qui a Kokkala, il mio inconfesso desiderio di restare qualche passo indietro ai tempi, la mia propensione ad una rassicurante arcaicità del quotidiano, si trovano appagate.  Si percepiscono un’attitudine alla continuità storica, ad una ripetizione nel solco di tradizioni consolidate e tramandate, un senso di fatale immutabilità che, tutti insieme, plasmano quell’epica del quotidiano capace di permeare d’una sottile aura di sacralità gli atti e i pensieri della vita di ogni giorno, e di farci sentire particelle costituenti necessarie alla definizione del grande disegno di cui siamo parte, e dal quale è vana la pretesa di sottrarci.

Il paese è piccolo, non è particolarmente pittoresco e l’attività turistica sembra modesta, legata forse ad un turismo locale di medio o basso profilo. A pochi passi dalla pensione vi è una baia sassosa piccola ma graziosa, dalle acque limpide e ricche di pesci. Sulla riva ciottolosa è anche una bella taverna. E tuttavia, ancora, siamo quasi soli.

Le  attività commerciali sembrano ridotte ai minimi termini. Individuiamo due spacci alimentari alle due estremità del paese. Uno, a nord, è relativamente moderno e vi acquistiamo subito qualcosa non appena giunti in paese. L’altro, a sud, si trova a mezza strada tra la pensione e la baia, e vi ci fermiamo al rientro da quest’ultima, sul far della sera, con l’intenzione di prendere qualcosa di fresco per cenare sul terrazzo della stanza (giacchè, ahimè, le cattive abitudini non si perdono tanto facilmente): un esempio di casa-bottega come penso oramai ve ne siano poche in Europa. Il negozio, in cui si accede salendo tre scalini dal ciglio della strada principale, consiste in un’ampia stanza con pochi scaffali semivuoti sulle due pareti alla sinistra dell’ingresso. La parete di destra è attrezzata a cucina e ha tutta l’impressione di essere effettivamente la cucina di casa; oltre la cucina una porta è aperta su un bagno candidamente alla vista della clientela. Al centro, un tavolo con sopra una televisione, ed intorno qualche sedia; al di là del tavolo, la parete di fondo si apre sul retro che si affaccia sul mare e sull’ampio, esteso, placido panorama.

Acquistiamo alcuni pomodori, mezza ciabatta e della feta. Ci serve un uomo oltre la cinquantina, di colorito olivastro e corporatura massiccia, ma dalla camminata affaticata. Ovviamente, parla solo greco. Ci serve con gentilezza ma esegue ogni operazione sotto lo sguardo vigile di chi sembra comandare davvero,  e che immagino essere la moglie: una donna quasi anziana, anch’ella dalla pelle scura, abbrunita dal sole, piuttosto grassa e quasi inferma. Sta infatti seduta sul terrazzino antistante la stanza, e solo occasionalmente si alza movendo a fatica pochi passi con l’ausilio di una stampella. Il quadretto è oltremodo pittoresco ed originale, e più che bastante a saziare il desiderio di ruralità e autenticità di qualunque turista, tuttavia il cuop-de-teatre giunge al momento di pagare il conto: l’improbabile pizzicagnolo maniota prende i pomodori, li depone sul piatto di una vecchia stadera, e rapidamente controbilancia l’altro con una serie di pesi. Penso che lo strumento non avesse meno di cinquant’anni. Poi scarabocchia qualcosa su un piccolo quadernetto, e noto su un tavolino adiacente vari quadernetti simili, che presumo assolvere la funzione di registro dei conti. Non vedo traccia di calcolatrici o registratori di cassa. Insomma, fatto salvo il frigorifero alle nostre spalle, la bottega funzionerebbe ne più ne meno allo stesso modo anche in assenza di elettricità.

Questa arcaicità, questo modo di esistere, o meglio di persistere, antico e lento, familistico, forse quasi ostile alla evoluzione troppo rapida del mondo che se ne sta solo a qualche decina di chilometri da qui, vanno ben oltre alla banale stilizzazione ad uso turistico che vuole fare apparire come un’isola in cui il tempo si sia inspiegabilmente fermato ogni angolo del globo dotato di bellezze naturali e, possibilmente, di una ricca o in qualche modo rimarchevole storia antropica, commercialmente sfruttabili. No: qui, davvero non sembra interessare granchè che questa immagine da cartolina in bianco e nero ormai sbiadita sia commercialmente sfruttabile. Qui si usa la la stadera perchè la stadera è sufficiente, e non si sente il bisogno di ulteriori complicazioni.

Questo essere cosi indifferente alla gente del posto mi rende come liberato dall’etichetta di turista. Provo un inconfesso senso di agio in questa realtà dove la rassicurante continuità del vecchio, dell’antico, del consueto sembrano contare più della novità magari comoda ma troppo inconosciuta per essere accettata senza sospetto o titubanza, e sono trasportato in uno stato quasi narcotico di appagata e atemporale staticità. E’ anche questo, credo, che mi consente di essere soddisfatto, persino sereno, nel consumare l’ennesima cena auto da fè, questa volta sul terrazzino della camera, e senza nemmeno del vino od una birra.

Dopocena facciamo due passi nel paese. A pochi passi dalla pensione vi è una locanda, piuttosto dimessa e trascurata, ma molto frequentata. Anche questa, come avremo modo di apprezzare il giorno seguente, è una attività a gestione familiare, aperta dal mattino presto a notte, che nell’arco della giornata funge, in momenti diversi o sovrapposti, da bar, spaccio di macelleria, taverna, ristorantino. E, ovviamente, abitazione. Anche in questo caso le concessioni alla modernità sono minime. Il locale è ampio ma disadorno, spoglio, in una parola povero. Le mattine successive vedremo un uomo tagliare pezzi di carne su un tavolaccio dietro una cortina di tende a spaghetto stile anni cinquanta, mentre la moglie, magra ed energica,  sarà indaffarata a lavare per terra, mani nude, straccio e ramazza, fermandosi di tanto in tanto per preparare in fretta il caffè a qualche avventore mattutino che, come noi, se ne stia comodamente seduto ai tavolini nel patio antistante a godere della frescura del primo giorno.

Lunedì 13 Agosto – Altre dita e motociclisti totemici

Ci svegliamo presto il mattino seguente. Alle sette e mezzo scendo in strada con l’intenzione di trovare un caffè e acquistare qualcosa per una veloce colazione.  Tutto appare ancora fermo ed assopito; la locanda è chiusa, ma poco oltre vedo qualcuno arrabattarsi  intorno ad un furgoncino, e mi accorgo esservi una forneria: caricano le ceste per le consegne del pane quotidiano. Entro, ed anche in questo caso la realtà è piuttosto diversa da ciò cui siamo abituati oggi. Seppure semplice, il locale è arredato piuttosto bene, direi modernamente, ma colpisce, in questo caso, la temperatura: queste forneria è letteralmente, nella sua interezza, un forno! L’area di lavoro, con i tavoli su cui sono adagiate forme di pasta e ceste di pane fresco da poco sfornate, è completamente a vista, con solo il bancone a separarla da quella di smercio. Di conseguenza, l’aria e caldissima. Nonostante ciò, una ragazza in carne, bruna, piuttosto giovane, mi serve sorridente e con molta gentilezza. Acquisto del pane salato, che, insieme ad un vasetto di marmellata regalataci dagli adorabili Teo e George (sono certo che l’ha amorevolmente preparata Teo) ed allo yogurt acquistato ieri, permetterà una colazione dignitosa. Credo si accorga del mio stupore per la temperatura del negozio, e mi sorprende con un inatteso gesto di gentilezza regalandomi un gelato (e resto confuso del come un banco frigo possa funzionare in questo ambiente).

Alle otto partiamo con la moto quasi scarica ed abiti leggeri e ripercorriamo a ritroso la strada verso Vathia. Agias Laura è vuoto, la trattoria chiusa; per curiosità imbocco una laterale seguendo l’indicazione di un cartello, ed arriviamo in un paesino minuscolo: alcune persone sono sulla strada e prendono il pane dal furgone della forneria, che nel frattempo ci ha raggiunto. Rientriamo sulla principale ed in breve giungiamo a Marmari, dove una bella baia sabbiosa è sovrastata da un promontorio su cui si erge il resort omonimo. Quello che non si vorrebbe trovare in un posto così, ma che tutto sommato, date le dimensioni contenute e la struttura in pietra ben fatta, è tutt’altro che sgradevole. Mi colpisce notare che, nella spiaggia, ogni ombrellone in paglia sembra avere sulla sommità un piccolo pannello solare. Che mai avessi visto nulla di simile, e mi capiti di vederlo qui, è probabilmente un segno del mio passo lento rispetto agli ormai così rapidi tempi del progresso.

Ma non scenderemo al mare e non approfondisco se si tratti di un miraggio o di un fantasia fomentata dalla mia narcisistica ed ipocondriaca pretesa di inadeguatezza. Ci limitiamo a consumare un caffé al bar del resort, una piacevole terrazza con vista sulla baia, ancora una volta sorprendentemente poco frequentato, e sono colpito dall’arredamento in legno, rustico e tutto sommato davvero piacevole.

Ci rimettiamo in sella ma dopo pochi metri una  stridula voce femminile ci ferma: “I hate motorbikes, I’m afraid I’ve lost my dog! Where is my dog!”. Una donna di mezza età, magra e ben agghindata, si muove agitata in mezzo alla strada e ferma un van carico di turisti in arrivo al resort. Agitazione generale, sorpresa e qualche sorriso, ma ecco che si materializza la cagione di tanto panico: un cagnetto bianco corre frizzante a destra e a sinistra sulla strada; la signora lo insegue goffamente tentando una assai vana cattura. I ragazzi del van se la ridono, ma uno di loro, corpulento, come da copione abbranca la bestiola e la consegna valorosamente alla proprietaria, già visibilmente sollevata. Sembro dunque essere stato la causa di questo imbarazzante cameo di ordinaria follia turistica…con sorniona indifferenza sorridiamo, cordialmente partecipiamo alla conclusione felice del dramma, e cautamente ci allontaniamo senza linciaggio da parte del pubblico.

Poco oltre, si raggiunge Porto Kagio, altra meta iconica del Mani, che è nulla più di una pur sempre piacevole baia, in cui la strada si stempera in uno sterrato e corre lungo la riva: da una parte, verso il mare, ombrelloni e i tavolini delle varie taverne allineate, dall’altra una sequenza un po’ banale di casette evidentemente ad uso turistico. Anche queste sono, comunque, rispettosamente costruite nello stile del luogo. Nella baia vediamo molte imbarcazioni turistiche ma, come altrove, nessuna  barca da pesca.

Oltrepassiamo Vathia e ritroviamo una bella baia adocchiata il giorno precedente: splendida! Tramite un breve sentiero che si stacca dal tornante scendiamo alla riva di grossi sassi ciottolosi; ai margini si stagliano scenografiche scogliere rocciose e, sulla sinistra, oltre un piccolo promontorio, si apre una ampia caverna marina. Non sono ancora le dieci del mattino, e godiamo del privilegio di essere soli e, ancor più importante, di una modesta ma vitale striscia d’ombra sotto delle roccette. Continuo a stupirmi della sorprendente bassa densità turistica: entro mezzogiorno la baia si popola di non oltre una trentina di individui, per i quali lo spazio è ampliamente sufficiente a consentire di non compromettere uno scenario che non si può che definire idilliaco. Le acque sono di un azzurro-smeraldo da cartolina, e ne approfitto per una corroborante nuotata.

Il pane salato acquistato la mattina è un pasto dimesso e di connotazione quasi mistica, che ben si addice al contesto silenzioso ed astratto del paesaggio.

Nel primo pomeriggio risaliamo la strada verso il Marmari e prendiamo stavolta la deviazione per Capo Tenaro, altra presunta meta obbligata. Anche qui la strada si spegne in un ampio sterrato con taverna sotto cui è una graziosa baia. L’aria è rovente e sabbiosa, ed una ventina di persone se ne stanno strette vicine sotto il solo albero dello spiazzo in grado di fornire un’ombra dignitosa. Il parcheggio è pieno. Ancora una volta, mi stupisco della sostanziale irrazionalità che domina il turista comune: la consapevolezza di essere nel punto geograficamente più a sud d’Europa, conoscere il nome del luogo in cui ci si trova, o saperne la forma per avere sottocchio una carta geografica, possono forse aggiungere qualcosa alla nostra intrinseca esperienza e percezione del luogo? No, se non, certo, una suggestione a sua volta originata da un’arbitraria attribuzione di valore: perchè mai essere più a sud degli altri punti dell’area geografica individuata con lo stesso nome dovrebbe di per sè costituire un valore aggiunto o distintivo? Conoscere il nome di qualcosa che intrinsecamente non conosciamo, ne accresce forse la nostra conoscenza? No: significa semplicemente attribuire  all’oggetto un’etichetta, un’identificazione. Ce ne andiamo quindi, risolutamente e senza patemi d’animo, da un posto oggettivamente caldo, arso, sabbioso, e non particolarmente suggestivo rispetto ai molti altri che abbiamo visto nella zona. Non prima, però,  di acquistare una buona dose di frutta dal fruttivendolo ambulante incidentalmente trovato qui, per la cena sul balcone di questa sera…

Ad Agias Laura, che, provenendo da Sud, sempre si presenta alla vista come un improvviso e pittoresco agglomerato di case antiche da cui ci si trova d’un tratto circondati, vediamo la taverna aperta e Cristina propone una fermata per una birra, che eseguo prontamente con entusiasmo. Parcheggio al fianco di due BMW con targa italiana, e non possiamo che sedere in fronte ai due riconoscibilissimi guidatori. Si tratta di una attempata coppia torinese in stile motociclista tecnico iperattrezzato: stiloso completo estivo  pantalone-giubbotto con tanto di gilè giallo fluorescente di sicurezza, casomai qualcuno non si accorgesse del loro passaggio e sbadatamente non ne seguisse l’impeccabile traiettoria con ammirato e reverente sguardo,  stivaletti, caschi di marchio rinomato, marsupi e zainettini vari, occhiali da sole, guanti, gps, e dio solo sa quant’altro che io non sono nemmeno in grado di discernere. Superattrezzati, superesperti. Certo tutto questo si indossa primariamente per il fine indiscutibilmente valido di una sicura protezione personale, tuttavia sono certo che altri e meno nobili siano, il più delle volte, i soggiacenti motivi che tanto entusiasmano il motociclista a dedicare tanto impegno e cura al proprio corredo da guerra. Perchè, si, proprio dello sfogo dell’innata brama umana di dominazione si tratta (o meglio sarebbe dire sub-umana?), che scendendo dal prode mezzo ci si erge sui rigidi e possenti stivali come a volere dominare sull’intorno da un podio; si sfoggia la tenuta come un’armatura che con la propria mirabile fattura non solo protegge, ma conferisce forza e valore, e costituisce di per sè un mezzo di affermazione e intimidazione verso l’altro, verso il potenziale nemico o concorrente, e si trae infine sfiancati e soddisfatti il casco come l’elmo il guerriero quando la polvere  si posa ormai e giace sulla strada lasciata dietro a sè.

Lui, alto, piacente e di corporatura atletica nonostante l’età evidentemente oltre la sessantina, è il classico Big-Jim della situazione, l’uomo che non deve chiedere mai, e non poteva che guidare un mastodontico GS1200. Che oggigiorno è letteralmente, almeno in Italia, la moto totemica per eccellenza. Lei è una donna di corporatura tozza, dall’aspetto rossiccio e lentigginoso, dolce ma vagamente masculino: una connotazione piuttosto tipica nell’esemplare femmina della specie del motociclista, tanto più rara del maschio. Guida una più sobria R1200, stradale di aspetto sportivo e modaiolo.

Io e Cristina siamo in pantaloncini corti, scarpe da tennis e maglietta. Appurato che non siamo locali, credo ci considerino dei disgraziati o quantomeno degli irresponsabili amanti dell’azzardo…Comunque scambiamo serenamente qualche parola, e nonostante la mia naturale diffidenza per questa varietà ipertecnologica, ahimè ormai dominante, della specie cui anche noi arbitrariamente apparteniamo, è piacevole discorrere sui rispettivi viaggi e percorsi, e chiacchieriamo cordialmente per una ventina di minuti, in cui mi impegno a tenere bene alla larga qualunque considerazione tecnica o prestazionale, argomenti per i quali nutro non solo disinteresse, ma addirittura un sostanziale rifiuto.

I nostri amici sorseggiano caffè e cappuccini, dato che il consumo di alcolici non s’addice  ad una breve sosta nel mezzo della tenzone pomeridiana; noi, per nulla inclini alla competitività, così orgogliosamente snaturati che di voglia o necessità di combattere non ne sentiam mancanza, senza nemmeno troppo imbarazzo consumiamo sommessamente due fresche e dissetanti birre, e siamo cosi vergognosamente irresponsabili da non sentirci nemmeno in colpa o fouri luogo.

Partono pochi minuti prima di noi, anch’essi in direzione Nord. Dopo qualche curva li vediamo fermi sul ciglio della strada, poco innanzi a noi. Rallento, mi accosto e chiedo:

<<Tutto bene?>>

<<Eh – dice lei – mica tanto>>, e lui, senza proferir parola, con una mano tiene tra le dita e mi mostra la falange mozzata di un dito dell’altra mano.

Qualcosa è andato storto, le protezioni non hanno reagito come dovrebbero, un improvviso default delle taumaturgiche proprietà protettive ha avuto luogo, o qualche subdolo accadimento ha distolto il valente condottiero dal consueto stato di vigile controllo della situazione…

Non si sa bene come, ma insomma è successo che il super-uomo a bordo della super-moto, al fine di scattare una foto, si è fermato sulla strada leggermente in discesa, ha messo il cavalletto laterale, è sceso e, voilà, la moto, ignara di quanto sia prosaico e provinciale rispettare sempre e pedissequamente norme e leggi, inlcusa quella gravitazionale, incapace di fare per una volta uno strappo alla regola, si ribalta in avanti come un cavallo che inciampi a terra esausto. Il bello viene adesso: nel rialzarla, avendo nel frattempo sfilato le mani dai guanti se non altro per l’intenzione di scattare la foto, nel susseguirsi confuso e svelto  di manovre non ben ponderate, la falange dell’indice sinistro si ritrova per un istante, come in uno schiaccianoci, tra la leva azionata della frizione ed il corpo della pompa da cui la leva viene richiamata, tranciando così di netto la falange che si trova inopinatamente nel mezzo.

Anna, la compagna, che è tra l’altro medico pediatra, resta tranquillissima ma sembra non prendere posizione rispetto all’intenzione di Massimo di continuare a scendere in moto fino a destinazione, giusto tenendo in tasca l’ormai non più suo pezzo di dito. Del resto, un uomo che non deve chiedere mai non può certamente perdere tempo per pochi grammi di carne in più od in meno. Certamente non è un musicista.

Nonostante questo possa apparire in contraddizione con la tendenziale leggerezza della nostra bardatura, io e Cristina abbiamo una idea alquanto diversa sul valore che è doveroso attribuire al proprio corpo, tutto: senza esitazione fermiamo la prima auto che passa, e siamo anche relativamente fortunati. Incappiamo in una giovane coppia di turisti italiani vagamente alternativi, su una monovolume scalcinata mal adattata a camper. Procedono in direzione opposta, verso Sud, ma la loro iniziale titubanza mi lascia totalmente indifferente, e qui esce forse la stoffa del responsabile di produzione che deve talvolta prendere decisioni improvvise e magari impopolari: chiediamo perentoriamente di fare posto, carichiamo Massimo con il prezioso pezzetto amputato avvolto in un fazzolettino, e nel giro di pochi minuti ripartono verso nord con l’ordine di fermarsi a Kokkala, dove io nel frattempo li anticipo arrivando rapidamente in moto per chiedere di un dottore. Mi rivolgo, ancora, alla gentilissima fornaia, cui racconto brevemente la faccenda e che, forse memore del mio stupore della mattina, mi regala prontamente, e con mio sommo apprezzamento, una bottiglia d’acqua fresca. Mi spiega che a Kokkala non c’è un dottore, ma esiste però, nei mesi estivi, un presidio medico specificatamente pensato per i turisti, che si trova giusto qualche abitazione più in là. Ma non è molto convinta. Infatti, recatomi alla dimessa porta dell’ambulatorio, un cartello mi avverte che il dottore è ad Atene. Le lentezze, le disfunzioni, le carenze, anche le arretratezze, di questi territori non allineati all’efficientismo della modernità sono parte di ciò che di essi tanto amo e mi piace, e si conformano al mia inespressa arcaicità, alla mia recondita diffidenza per l’evoluzione troppo rapida dei tempi e delle cose. Tuttavia non posso non restare perplesso: quando, mi chiedo, dovrebbe essere qui un dottore per i turisti se non in Agosto? Mah.

I tre sopraggiungono in pochi minuti e vengono subito reindirizzati alla prossima stazione, che è Areopoli, solo ventisei chilometri più in là, dove sappiamo con certezza esistere, addirittura, un ospedale.

Io, a questo punto, ritorno da Crsitina ed Anna, che ho lasciato sul posto a custodire le due motociclette, e che nel frattempo chiacchierano e fanno amicizia come le donne sono così brave a fare. Nel giro di due ore i nostri sono di ritorno e scaricano Massimo con il dito ben fasciato e una scatolina contenente la sua reliquia ripulita, ossigenata e sotto ghiaccio. Che, a quanto pare, difficilmente potrà essere ricucita al suo posto, ma suggeriscono di fare un tentativo al più attrezzato ospedale di Sparta.

Massimo, alquanto pallido, ben sceso dal podio, probabilmente rannicchiato ora dentro agli stivali, sembra comunque contento di avere almeno fatto questo tentativo, e con compostezza e calma riprende posizione sul mezzo per spostarsi quindi a Sparta, dove prima della stanza già prenotata cercheranno l’ospedale.

Ci salutiamo e ringraziamo tutti, e Cristina è tutto sommato contenta e leggermente eccitata della nuova conoscenza, con cui resterà in contatto i giorni successivi.

Rientriamo a Kokkala, dove prima del tramonto riusciamo anche a fare un bel bagno nella baia sotto casa, ormai vuota ed in penombra, e per questo ancor più dolce e bella, che ci libera dalla stanchezza dell’inatteso fuori programma e da disturbanti pensieri odorosi di sangue, d’ospedale e d’anestesie.

Ceniamo sul balcone e certamente il discorrere dell’avventura del pomeriggio e’ un buon condimento per farmi digerire serenamente anche questa cena di clausura…

A buio fatto esco, solo, a prendere due caffè freddi alla locanda-macelleria, che trovo in fervente attività e mi svela tutto un mondo locale che sembra mostrarsi solo con il favore delle tenebre e della frescura notturna: la moglie, in un angolo dedicato del patio esterno, è indaffarata a preparare kebab e souvlaki davanti ad un fuoco di carbonella. Si destreggia concitatamente tra la carne da rosolare, la brace da rimestare, la preparazione delle pietanze,  ed il rispondere e dar retta agli avventori che non le risparmiano il piacere di prender parte alle chiacchiere che rimbalzano tra i tavoli. Il marito gironzola con molta calma tra i clienti, e poi parte su uno scooter a consegnare dei pacchetti di cibo. Due belle ragazze poco più che adolescenti, forse le figlie, servono ai tavoli. Una di loro mi prepara il caffé, e impiega non meno di cinque minuti prima di ricomparire dal retrobottega con i miei bicchieri. Ma io amo questi tempi lunghi e volentieri avrei atteso molti altri minuti, godendomi l’aria fresca e frizzante della sera, ed il brulichio ed il chiacchiericcio dell’umanità d’intorno.

E come sono buoni, questi due caffé alla turca, lunghi acquosi e zuccherati, consumati sul balcone! Ora Cristina dorme già, ed io, al tavolino nel balcone scrivo, godendomi la gradevole aria fresca ed il sommesso cicaleccio che proviene dalla strada e dalle abitazioni circostanti. Finalmente, so ora come suona la lingua greca, cosa che mi ero spesso chiesto senza avere mai avuto modo di darmi una risposta: ed è una sonorità molto diversa da come la immaginavo. Per una del tutto ingenua ed ingiustificata analogia con la forma geometrica e spigolosa delle lettere greche in maiuscolo, avevo sempre immaginato che il greco fosse una lingua dal suono spigoloso e duro. Con mia grande sorpresa, essa ha invece una cadenza morbida, strascicata, ed è ricca di suoni sibilati e di “esse”, al punto da ricordarmi lo spagnolo.

Per il giorno successivo, abbiamo in programma di raggiungere Areopoli, dove vorremmo pranzare presso una taverna suggeritaci dai ragazzi di Sparta, per poi spostarci senza fretta a Megali Mantineia, piccolo paese nei pressi di Kalamata, dove pernotteremo due notti presso la Art Farm di Sotiris, per la quale ho un ottimo presentimento e di cui sono molto curioso. Transiteremo per Kardamili, poco prima del quale si trova Kalamitsi, dove abitò Fermor Leigh, noto scrittore di viaggi inglese che dedicò un intero libro al Mani, e non distante da Xohori, dove invece proprio Leigh seppellì le ceneri di un altro, e forse più noto, grande  scrittore di viaggi anglosassone,  Bruce Catwin. Non prevedo però alcun pellegrinaggio, cui non riesco e non voglio dare alcun significato. E, tuttavia, non posso negare che sto in realtà sopprimendo una recondita istintiva tendenza, una qualche attrazione all’idolatrico pellegrinaggio, che intuisco sostituirebbe una necessità di sentimento religioso a cui non ho altro modo di dare sfogo. E che, forse, meriterebbe di essere sfogato anzichè represso. Perchè mai la razionalità, dall’alto di una posizione di superiorità che dò istintivamente per scontata ma che la razionalità stessa mi suggerisce non dovrebbe esserlo,  deve fare violenza ad una necessità di raccoglimento, di senso di devozione o appartenenza mistica, che non fanno in fondo del male nè ad altri uomini nè ad altra creatura alcuna? Mi addormento nell’irrequietezza delle mie deboli convinzioni.

Martedì 14 Agosto – Art Farm

Ci svegliamo presto, e dopo una breve colazione sul terrazzino, scendiamo, poco prima delle otto, alla riva ciottolosa del paese, a circa duecento metri dalla camera in direzione Nord. Dotata di un un piccolo porticciolo, è meno pulita ed attraente della baia a Sud che abbiamo frequentato i giorni precedenti, ma l’acqua è fresca e pulita, e prendiamo un corroborante bagno di primo mattino. Poi sediamo ai tavolini della locanda-macelleria, che in questa parte della giornata svolge il ruolo di bar. I pochi altri clienti sono per lo più coppie di mezza o avanzata età, apparentemente di ceto popolare, che sembrano qui a trascorrere una vacanza di poche pretese in un posto forse vicino a casa, e di cui sono familiari. Il centro paese, in cui facciamo qualche passo, ha una atmosfera dimessa e leggermente decadente, che ricorda i paesi del sud Italia o della Sardegna:  molti edifici versano in cattivo stato o sono non terminati.

Arriviamo ad Areopoli senza soste, e di nuovo a corto di benzina nel serbatoio. Anche qui, come è tipico nel Mani, di cui Aeropoli è essenzialmente la porta d’ingresso, gli edifici sono per lo più in in pietra a vista e di semplice architettura. Più che una città, è un grosso paese, che con sorpresa scopriamo avere un piccolo e grazioso centro storico. Si vede in giro un buon numero di turisti. Con facilità troviamo la taverna macelleria “da Alepio” suggeritaci dai ragazzi di Sparta. Pranziamo qui e, sebbene sembri la banale affermazione di un trito clichè vacanziero, non posso non ammettere che  si tratta di uno di quei posti che inorgogliscono e compiacciono il turista. Souvlaki e pollo cotti su carbonella proprio in fronte a noi, dietro un bancone aperto sulla strada, da un’omone di mezz’età dai grandi baffoni bianchi, sudatissimo e sorridente davanti alle braci. Oltre la strada, i tavolini all’aperto dove ci accomodiamo. Accompagniamo le carni con una saporita salsa fredda a base di melanzana, a mezzo, per chi conosca la cucina rumena o balcanica, tra una zacusca ed una salsa di vinete, con fette di pane abbrustolito sulla stessa griglia della carne e condito con olio ed origano, e con del vino rosso sfuso tutto sommato gradevole. Il tutto, a voler restare nei panni del turista totemico lusingato da ogni indizio che possa contirbuire ad aggiungere un sentore di avventura ed unicità al proprio itinerario,  reso ancor più sapido dal fatto che cuoco e cameriera mostrano di non capire una parola di inglese. Senza dubbio, ad ora, il miglior pranzo della vacanza.

La sera innanzi, nel terrazzino a Kokkala, beatamente solo ed avvoltolato nella ovattata frescura notturna, cercai sul web qualche informazione sul dove mangiare ad Areopoli. Tripadvisor mi proponeva una decina di nomi, ma Alepio non compariva. Lo trovai su Restaurant Guru ma con un commento tutt’altro che lusinghiero. Così, mi convinco ancor più che le informazioni prese dal web contino spesso come il due di picche: meglio non perderci tempo e lasciar perdere. Con gli anni, sto finalmente imparando ad ascoltarmi e a mentirmi un poco di meno: scegliere i posti ove pranzare o cenare tra quelli indicati da guide turistiche o siti, per quanto si rivelino validi, mi lascia sempre una insoddisfazione latente in fondo al cuore. Perchè sono, sì, una mia scelta (tra un’offerta comunque preselezionata), ma non una mia conquista, non una mia scoperta. Psicologicamente, l’effetto è simile a quando da bambino desideravo che un evento, per me piacevole, atteso, sperato, accadesse con naturalità, nel normale fluire degli accadimenti e delle persone intorno a me, ed invece ciò non avveniva. Ed ero allora io che dovevo mettere il broncio, e cambiarmi ad un rabbioso malumore con cui volevo, senza dirlo a chiare parole, segnalare a chi mi stava intorno che ciò che stava succedendo non era ciò che avrebbe dovuto succedere, con il risultato che costui o costoro si prodigassero quindi a fare qualcosa per compiacermi, piuttosto che per una loro naturale necessità, volontà, o desiderio. Così, accadeva talvolta che i miei genitori non intuissero affatto il mio profondo desiderio di andare in qualche luogo, e, una volta intuito od appreso questo a seguito delle mie rimostranze o dei miei capricci, si volgessero infine a portarmici, inducendo in me, anzichè gratitudine, un profondo senso di insoddisfazione e rabbia perchè quell’accadimento non era “naturale” ed essi avrebbero ben volentieri utilizzato altrimenti il tempo. Desideravo lo facessero per loro e con me, non per me e con loro.

Volete mettere il gusto e la soddisfazione di scegliere da sè? Magari anche a casaccio, trovandosi a pranzare forse in un posto che non è per nulla come lo avremmo desiderato o immaginato. Ma è la nostra scelta, farina del nostro sacco, la nostra esperienza, non mediata e suggerita da altri che inevitabilmente inducono aspettative e giudizi preconfezionati, pronti all’uso, uguali per ogni lettore della guida, o fruitore del sito. E’ la nostra scoperta, la nostra strada, il nostro errore, il nostro incidente, il nostro successo. E’ così che dovrebbe funzionare un viaggio, una gita, la vita intera: un uomo ha bisogno di vivere innanzitutto le proprie esperienze, non  quelle suggerite da altri.

Ben gratificate le budella e l’autostima, attraversiamo Kalamitsi e Kardamili ma non facciamo nessuna sosta; incrociamo sulla destra le indicazioni per Xohori, ma ancora tiro dritto, ignorando forzatamente la tentazione della sosta idolatrica.

Farò, invece, una breve deviazione e sosta sulla sinistra ad Agios Nikolaos, che ha un bel lungomare sassoso su cui corre la strada e si affacciano alcune taverne ed un porticciolo. Pittoresco e grazioso, ma ancora una volta mi sembra una forzatura parlare di porticciolo di pescatori, come si legge in qualunque guida o sito turistici.

La strada si fa via via più ampia ed urbanizzata; ai bordi compaiono a tratti guardrails e canalizzazioni. I tornanti sono ampi, e corre, talvolta più internamente talvolta meno, lungo il profilo frastagliato di una costa fatta di montagne che si tuffano bruscamente in acqua, offrendo viste spettacolari sul mare a sinistra, e su arroccati borghi a destra.

Incontriamo un piccolo cartello sbiadito e rugginoso che indica a dieci chilometri la distanza dalla Art Farm. Ne incrociamo un altro in condizioni non migliori a sette, e, poco dopo, l’indicazione di una svolta a sinistra su una piccola strada che in circa 2 chilometri, dirigendosi verso la costa pur restando in quota, porta all’ingresso della Farm. E’ curioso che si tratti della strada che conduce al piccolo paese di Megali Mantineia, ma questo non fosse indicato.

Il colpo d’occhio suscita curiosità già prima di varcare l’ingresso. Sulla destra, nella vallata che degrada al mare, risaltano, incastonati nel verde della vegetazione bassa, un piccolo anfiteatro piastrellato in listoni di pietra bianca e grigia alternati, ed un’ampio caseggiato in pietra sormontato da un grande terrazzo. Un viottolo cementato conduce ad un piccolo parcheggio, in cui mi colpisce vedere due auto solamente, e quindi alla struttura. Ci accoglie Giorgina, una ragazza paffuta, bassa e castana. Ci conduce al terrazzo, che domina la vallata con una spettacolare vista sulla vasta baia di Kalamata, e gentilmente ci prepara una fresca limonata. Siamo soli. Oltre il terrazzo, dietro alle finestre che danno sulla cucina, intravedo un uomo dai folti capelli bianchi, indaffarato. La Farm si sviluppa su vari terrazzamenti a più livelli. Sul più alto, all’altezza della strada, un appezzamento coltivato ad ortaggi copre la parte posteriore e laterale del vasto caseggiato, che si sviluppa su due piani: il superiore, che è un primo piano dal lato della strada ed un secondo da quello, opposto, rivolto verso il mare, è adibito a cucine, include un ampio salone per avvenimenti vari, e per metà è occupato da questo grande, spettacolare, terrazzo. L’inferiore, che si sviluppa sotto il terrazzo e le cucine, consta di un piccolo negozio per la vendita di qualche prodotto locale, e probabilmente di altre stanze ad uso abitativo o tecnico.

Ma la parte del leone la fa la spettacolare cucina all’aperto allestita alla destra del caseggiato, nella striscia di terra rettangolare affossata tra la parete della casa ed il terrapieno che sorregge il viottolo di ingresso, sotto una ampia copertura in legno esile e molto alta, probabilmente oltre i 4 metri. L’altezza della tettoia sostenuta da esili pali lignei e priva di vere e proprie pareti, conferisce allo spazio un senso di rustica alterità, come nelle severe e spoglie navate delle cattedrali gotiche le colonne svettanti al cielo predispongo i sensi e l’animo all’altezza del sacro e del divino. Sul fondo troneggia un grande forno a cupola, affiancato da un’altro minore di forma squadrata. Ampi tavoli e banchi in marmo sono disposti lateralmente e  davanti ai forni, fino alla zona anteriore, aperta sul giardino, dove un grande bancone in pietra ospita una zona fuochi attrezzata con fornelloni a gas; altri due fornelloni sono piazzati dirimpetto al bancone, in un’apposita isola in pietra sistemata nel mezzo, dimodoché, senza spostarsi, si possano gestire le pignatte da un lato e, voltandosi di centottanta gradi, dall’altro. Tutt’intorno, appese alle pareti, pendono grandi padelle e casseruole e tutta la varia costellazione degli strumenti da cucina, più o meno comuni, ma sempre di dimensioni alquanto ipertrofiche. Insomma, una suggestiva cucina da campo di campagna, rustica e funzionale.

Scendendo rivolti verso il mare, oltre la cucina e sotto al terrapieno, due piccoli caseggiati in pietra ospitano dei bagni ed alcune camere, e alla destra, in un’area verde di olivi e bassa vegetazione, disseminate tra e sugli alberi vi sono le piccole capanne e casucce in legno che costituiscono una delle peculiarità del sito, le cosidette tree houses. Nei vialetti che si dipanano tra esse sono presenti varie fontanelle in pietra, e molte piante, piccole e ben curate, di basilico, salvia, menta. Sparsi qua e là, abbondano sedie e tavolini circolari in legno ricavati da grandi anime di bobine di cavo elettrico utilizzate per lavori di installazione civile, un’esempio di riciclaggio simile a quello, più comune, dei pallet. E, finalmente, al termine della zona verde delle tree houses, si presenta l’anfiteatro, dotato di un bel palco e di illuminazione di scena, e contornato da vari muretti e piccole isole in pietra di forma irregolare, panchette, gradini e nicchie, che donano all’ambiente una pienezza flessuosa e morbida. E li immagino, sotto un cielo notturno puntato di stelle, come dei nuclei di cristallizzazione in cui uomini e donne, a coppie o in piccoli gruppi, si seggano, si nascondano a parlare e discorrere, e qualcuno poi improvvisamente si rialzi e si sposti a quello successivo, e così tutti in modo casuale e vario, come in una soluzione sovrassatura i floculi di precipitato si muovono vorticosamente prima di rallentare il proprio moto, a poco a poco, sotto l’inerzia del loro peso crescente, cullandosi lentamente verso la quiete, nell’avanzare della profonda notte arcadica.

Tutto è però privo di segni di vita o d’uso recente; quello che, ricavato su uno di questi muretti, si intuisce essere stato un chiosco degnamente atto a prodigare gli avventori delle dovute libagioni, è vuoto, gli sgabelli disordinatamente ammucchiati in una parte, non v’è traccia di bevande o vetreria. L’anfiteatro ci accoglie mestamente, come un vecchio attore elegante ormai fuori scena, dimesso e perso a sé stesso, rassegnato, ma le cui fattezze tradiscano un passato fiero, orgoglioso. Forse impazzito e solo, forse dimentico affatto dei fasti di un tempo ormai concluso. Intorno non v’è nessuno; ripenso ai malmessi cartelli di indicazione incrociati per strada, alle due auto in parcheggio, ed intuisco che la Farm, per motivi che non sappiamo, ha  vissuto periodi migliori. O diversi. Un secondo palco, più piccolo, è appena sotto all’edificio principale, vicino agli orti.

La gestione della Farm è familiare. Il comandante è il Sig. Sotiris, che, uscito dalle cucine,  si presenta con fare affabile, giocoso, sincero. E’ un uomo sulla sessantina, , curato, di bell’aspetto e con una folta chioma di capelli bianchi e ricci. Ha fare istrionico ed in breve capiremo e sapremo molto di lui.

Dopo avere preso possesso della nostra tree house, ci fermiamo un poco sulla terrazza dove Giorgina, che scopriamo essere la figlia di Sotiris, si esercita al violino con un’amica che suona la fisarmonica. Scambiamo qualche parola; suonano musica tradizionale greca, che ha tutto sommato una sonorità assai simile alla musica tradizionale a me più familiare, italica o franco-britannica. Si preparano per un concerto che terranno ad Aeropoli tra qualche giorno. Fa piacere, soprattutto a Cristina, che conoscano bene la esplosiva band di folk rumena dei Taraf de Haidouks.

Nel pomeriggio perlustriamo i dintorni. Proseguendo per la strada da cui siamo arrivati, attraversiamo il minuscolo paesino di Megali Mantineia, un piccolo agglomerato di poiché vecchie case che, nella calura pomeridiana, è silenziosissimo e sembra inabitato, e, in pochi chilometri, raggiungiamo la spiaggia di Sadova, ciottolosa. Il mare è pulito ma il fondale sabbioso non permette all’acqua di essere cristallina; una spiaggia discreta, ma senza particolari attrattive.

Al rientro, sul tardo pomeriggio, incontriamo Sotiris che ci offre la possibiltà di preparare  qualcosa per cena; accettiamo entusiasti e ci prepara di sua mano una abbondante insalata greca che consumiamo con due birre e dei souvlaki che abbiamo portato con noi da Alepio. Sotiris prepara anche delle patate fritte che ci offre e si siede a mangiare con noi al tavolo, in terrazza, con nostra grande soddisfazione. Ci racconta con trasporto le grandi tappe della sua vita. Ha studiato ingegneria ad Atene e fatto vari lavori; a Kalamata, dove di fatto vive, ha aperto e gestito un teatro più grande, dice, di quelli già esistenti, ma politicamente avversato dalle autorità, non ci spiega bene perchè. Si intuisce che il teatro è stata la sua grande passione, cui ha dedicato il fiore dei propri anni e delle proprie forze. Costretto a chiudere, ha trascorso circa un anno in prigione. Poi, ci sembra di capire, poco più di dieci anni fa ha messo in piedi, poco a poco, la struttura della Art Farm, nata come luogo di spettacoli e concerti. Questo, racconta, è il primo anno in cui limita l’attività all’alloggio, senza eventi. Ed è purtroppo evidente un certo stato di dismissione della struttura, a cominciare dalla desolazione dei palchi dismessi, per continuare con una presenza di avventori insolitamente bassa: oltre a noi, scopriremo questa sera, vi è solamente un’altra coppia, e sembra di capire che il numero di persone mediamente presenti, questa stagione, si possa contare sulle dita delle mani. La struttura ospita adesso una piccola esposizione di scultura, e, ci racconta, organizza e richiesta brevi dimostrazioni di cucina tradizionale e vita in campagna. Una famiglia americana è attesa nei giorni a venire. Sfogliando il guest book, l’indomani, leggerò di qualcuno che si è fermate per settimane costruendo con Sotiris le case sugli alberi. Questo dà la misura di come, qui, non si sia in una struttura ricettiva mirata alla mera vendita di un servizio turistico. Sotiris stesso ci racconta, con semplicità e trasporto, che ha creato questo luogo per vivere e proporre agli avventori un modo di vivere naturale. Tutto piuttosto semplice, concetti apparentemente abusati oggigiorno, mi si percepiscono un trasporto ed una sincerità, una passione, che conferiscono una forte umanità al personaggio ed alla sua storia.

Chiacchierando, racconto brevemente a Sotiris, che mi chiede cosa faccio in Italia, che sono (ancora) un ingranaggio del sistema, nel ruolo di chimico responsabile di produzione nell’industria farmaceutica, e che capisco bene cosa intenda quando spiega di avere ad un certo punto sentito l’esigenza di staccarsi dal mondo tecnico produttivo per tentare l’esperienza teatrale prima, e della Farm poi.

Non so come, chiacchierando Sotiris cita la Macedonia, e subito si corregge chiamandola, io lo aiuto a ricordare la dicitura esatta, FYROM, giacché, sottolinea, la Macedonia non è una nazione, ma una parte della Grecia…sorridiamo calorosamente a questo sprazzo di nazionalismo, che peraltro non so quanto sia storicamente giustificato, e quasi mai i nazionalismi lo sono.

A chiacchiere avanzate, sopraggiunge e si unisce al tavolo l’altra coppia di ospiti,  due ragazzi di Napoli che trascorrono alla Farm l’ultima di tre notti e si dicono, come  già noi siamo, entusiasti.

E’ stupefacente, ed anomalo, come questo luogo susciti entusiasmo nonostante sia tutto sommato cosi vuoto, e si respiri quasi un’aria da smobilitazione. Si tratta di un’esempio, bello, di come la forza, la presenza emotiva, la dignità e l’orgoglio, in questo caso di Sotiris e dei suoi familiari, si trasferiscano e riflettano nell’ambiente circostante, permeando esso stesso della stessa pienezza e positività di sentimenti.

Mercoledì 15 Agosto – Ferragosto obbligatorio

Anche in Grecia è d’obbligo trascorrere il Ferragosto fuori casa, ed è questo infatti l’unico giorno in cui troviamo diffusamente traffico in strada e assembramento in spiaggia. Si tratta tuttavia di quello che in Italia è normalità in una qualunque Domenica d’alta stagione. Percorriamo a ritroso la strada costiera in direzione sud, e, una dopo l’altra, attraversiamo senza fermarci le principali località balneari, oggi davvero troppo affollate: una bella baia appena prima di Kardamili vecchia; quest’ultima, da cui scappiamo dopo una brevissima passeggiata; Kalogria, nota, leggo da qualche parte, per essere il luogo dove l’autore di Zorba il Greco, Nicos Kazantzakis, visse e lavorò per oltre un anno con l’uomo che gli ispirò il personaggio di Zorba, ma ahimé maggiormente nota per essere stata nominata una delle migliori spiaggie di tutta la Grecia, con  il risultato d’essere presa d’assalto, e  non certo da studiosi di letteratura del novecento alle prese con ricerce sul campo… Infine, dopo pochi minuti sulla affollatissima spiaggia di Stoupa, altra località balneare ascesa alla ribalta turistica nell’ultimo decennio, troviamo finalmente riposo, di nuovo, sul lungomare di Agios Nikolaos. Questo paesino quieto, un pò insignificante, nella semplicità provinciale delle sue case basse e modeste, che mi ricordano certi sonnolenti paesini della bassa padana, è in qualche modo persino romantico, ed il posto ideale per trascorrere mollemente il pomeriggio di Ferragosto.

Per cena Sotiris, su nostra timida richiesta, ci propone un piatto di pasta preparato, dice, alla maniera locale, e una sempre gustosa insalata greca, che consumiamo, soli, sul terrazzo al tramonto,  splendido sulla baia di Kalamata indorata dal lucore dell’ultimo sole. Soli: non so smettere di chiedermi perché, per quanto proprio questo accentui il senso di arcadica quiete del posto. La pasta è un piatto abbondantissimo di tagliatelle in bianco condite con poco olio sopra cui è adagiato un  uovo all’occhio barzotto, il tutto cosparso di saporoso formaggio di pecora. Una versione schietta e rustica, forse l’archetipo, della carbonara. Dobbiamo forse anch’essa alla civiltà greca? Il fresco vino bianco non riesce a distrarre il mio pensiero: perchè soli? Il luogo e la vista che si possono godere da qui sono superlativi, il cibo ottimo, la compagnia di Sotiris deliziosa, il prezzo della cena persino più basso che in una qualunque taverna, quello dell’alloggio altrettanto modesto; ed il solo fatto di dormire in una casetta di legno costruita sopra un  albero (peraltro dotata anche di servizio privato) sarebbe sufficiente a giustificare un prezzo superiore alla media. Del resto, il clan della famiglia Sotiris è una presenza forte, intensamente empatica, capace di colmare con naturalezza la rarefatta presenza antropica.

Oggi, a colazione, e poi durante la giornata, abbiamo chiacchierato con Angelo, figlio di Sotiris e fratello di Giorgina. Anch’egli basso e un po’ tarchiato, come la sorella, è però più spigliato e  chiacchierone di questa. Parla un ottimo inglese, e con una conversazione dai modi gentili e delicati, ci racconta che vive a Berlino dove, dice, fa l’attore. A poco a poco ogni componente della famiglia è entrato in scena raccontandoci, non solo a parole, qualcosa di sè o di qualcun altro del gruppo, e davvero sembra, ogni azione e parola d’ognuno, la recita senza copione d’una compagnia teatrale tutta in famiglia, i cui componenti sfilino l’un dopo l’altro sul palco a dare la propria versione di sè e degli altri: non necessariamente tutte concordi, come si conviene ad un copione che si rispetti e sappia solleticare la curiosità degli astanti. Mi sembrano, essi tutti, calpestare il palcoscenico quotidiano della vita con la stessa convinzione, dirittura, direi lo stesso portamento dignitoso e fiero, indipendentemente da che la platea sia gremita, composta di qualche passante occasionale come crediamo d’essere noi in questi giorni, o affatto vuota. Ed intuiamo venire a parte, della storia, non più che di pochi frammenti, di qualche tratto, però ben pennellato a dare un’idea verosimile del quadro.

Ieri sera, dopocena, Sotiris ci raccontò anche che sua moglie vive ad Atene, dove lavora come direttrice e produttrice di spettacoli teatrali, e si vedono solo ogni tanto. Oggi, dopo il rientro nel tardo pomeriggio, troviamo una elegante signora attempata, ma snella ed agile, intenta a prender cura delle piante sparse nei vialetti. Scambiamo affabilmente qualche parola e ci racconta, con nostra sorpresa, di essere la ex moglie di Sotiris.

<<Siamo ancora buoni amici però>>, sottolinea, << ed il mio compito presso la Art Farm è di curarne il verde>>. Suscita tenerezza, quindi, la discordanza delle due versioni, giacchè Sotiris si guardò bene dal definirla “ex”. Si nota, quando lo sentiamo rivolgersi in greco ai figli o alla moglie, come egli sembri dirigere e comandare tutti con piglio imperativo, autoritario; e pensiamo che, in privato, sappia probabilmente essere un grande rompiscatole, un carattere difficile. Del resto, una certa rudezza espressione di maschia virilità è una caratteristica piuttosto comune nel capofamiglia delle società mediterranee meridionali.

Probabilmente, Sotiris è un buon frutto, forse un reduce, dell’humus controculturale alternativo degli anni settanta, e ci piace pensare che abbia saputo crescere bene i figli, in quella che sembra proprio essere una Art Family, e ci piace l’atmosfera di sincero amore per l’arte che percepiamo, vissuta come parte integrante della quotidianità e non come accessorio occasionale.

Il mattino seguente incroceremo un timido ragazzino appena giunto, italiano, che trascorrerà tre settimane come volontario, coinvolto nella costruzione e nel mantenimento delle tree houses. E’ abbastanza sorprendente, vista l’esiguità dell’afflusso turistico… ma esistono forse, celati dietro le quinte, meccanismi di cui non siamo consapevoli.

Giovedì 16 Agosto – Canneti melanconici

Consumata, sempre soli come da copione, la abbondante colazione sul terrazzo, salutiamo Sotiris calorosamente, baciandoci sulle guance.

Il viaggio di rientro fino a Patrasso, dove ci imbarcheremo a sera sul traghetto per Venezia, si svolge senza soste di rilievo, in autostrada fino a Skala, poi su una strada costiera facentesi sempre più piatta ed anonima mano a mano che proseguiamo verso Nord; ampi tratti piani fitti ai bordi di giunchi e canneti la fanno somigliare alle litoranee della pianura padana.

Una pioggia abbondante nel tratto autostradale contribuisce ad un’atmosfera vagamente mesta e  silenziosa che ben si addice all’ultimo giorno di viaggio. Assaporo e godo dell’acqua e della tenue malinconia.

Facciamo tappa a Pyrgos, piccolo centro moderno e trafficato che non sembra offrire nulla di specificatamente interessante. E tuttavia restiamo colpiti dalla gentilezza e affabilità del gestore di un piccolo bar in cui ci sediamo per prendere solo due caffè. Ci offre abbondante acqua fresca, ci chiede se siamo in moto, e insomma scambiamo qualche chiacchiera disinteressata la cui naturalezza ed umanità mi rinfrancano.

 

Postfazione

Ho iniziato la scrittura di questo breve racconto nel Dicembre 2018, durante il primo Natale successivo al viaggio, nella camera della piccola casa di campagna della Nonna di Cristina, in un minuscolo paesino della Transilvania rumena. Per una circostanza inattesa che movimentò non poco la nostra vita nei due anni successivi, lo termino solo tre anni dopo, a ridosso del Natale 2021, accoccolato di fonte al computer  in un angolo della cucina dell’appartamentino dove ora viviamo.

Adesso abitiamo a Reykjavik, dove continuo ad essere un ingranaggio della grande macchina industriale farmaceutica. Prima di spostarci, non disponendo di un posto tutto nostro, ci siamo liberati di tante delle nostre cose, anche di tante che sembravano indispensabili, ma che la vita ha poi saputo mostrarci, in pochi giorni, quanto in realtà non lo fossero. Tante altre le abbiamo sparpagliate di qua e di là, molte parcheggiate per mesi dentro l’automobile lasciata in Italia. Poi, pochi mesi fa, abbiamo ricomposto il tutto in un appartamento acquistato in centro Italia e che sarà, nei nostri piani, la nostra base italiana. E’ stato un esercizio istruttivo e benefico di ridefinizione del valore delle cose. Poche cose sono rimaste, filtrate nel corso di tre anni dalle maglie via via più fitte di successivi setacci, basati di volta in volta sui criteri differenti che le circostanze e le opportunità imponevano: l’ingombro, il valore economico, quello affettivo, l’utilità, la bellezza, il peso, la qualità. E’ difficile citare un motivo oggettivamente valido per cui un vecchio paio di stivaletti di nessun valore dovesse avere diritto ad occupare uno spazio pari all’incirca a quello del cofanetto completo della Recherche, gli uni di fianco all’altro nascosti e protetti nel doppiofondo del bagagliaio dell’auto, parcheggiata per mesi su una strada laterale di Milano.

Adesso Proust ha riconquistato il dovuto spazio di prestigio nella libreria, e gli stivaletti il loro umile angolo nel pavimento polveroso del garage. La motocicletta del viaggio, invece, ha trovato nuovi proprietari. A fare ombra agli stivaletti è rimasta la sorella anziana, un mezzo dello stesso costruttore e di esattamente vent’anni più vecchio, ormai prossimo ai quaranta. E’ significativo come, con il passare del tempo, tenda inconsapevolmente ad aumentare la forbice temporale tra la mia età e quella delle cose che, in qualche modo, assumono per me una qualche importanza o significato di rilievo. Queste non sono necessariamente le cose che servono. Sono quelle che valgono, sulla base di criteri non sempre facili da individuare, definire, o giustificare. Il tempo, l’anzianità delle cose, sembrano essere, se non propriamente un criterio, quanto meno una condizione, un parametro di peso. Conferisce, l’anzianità, un senso di conservazione e continuità delle cose e degli accadimenti di cui esse sono parte e testimoni, ne permette una percezione di florida contemporaneità piuttosto che di esile ed orfana sequenzialità. E così il tempo attuale si dilata ad includere quello passato e quello prossimo, e si intravede, si percepisce talvolta per sparuti istanti quel senso di unità spaziale e temporale che sono il tutto, l’indistinto, qui ed ora ed ovunque e sempre.

E’ anche grazie a degli stivaletti di nessun valore, che qualcuno di questi istanti ho vagamente colto.

 

Reykjavik (Islanda), 18  Dicembre 2021

 

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