Ci vediamo sotto al David
Una storia d’amore non è mai facile, nemmeno quando fila tutto liscio. Figuriamoci quando di mezzo ci sono 600 km, due anni di pandemia e regolari lockdown. Come se non bastasse, viaggiare su e giù per lo stivale cercando di vedersi ogni due weekend ha un costo non indifferente, che rende i viaggi di piacere pura utopia. La soluzione, quindi, per una coppia tanto distante quanto amante dello zaino in spalla, è fare di necessità virtù, e cercare di unire l’utile al dilettevole.
Mi chiamo Luisa, ho 34 anni, vivo a Roma e quella che segue è una delle briciole di improvvisazione a cui ci siamo abituati io e Matteo, che di anni ne ha 35 ed è un Veneto atipico: pensate che ama addirittura viaggiare, e soprattutto a sud del Po!
Una sera mi telefona per la buonanotte, e per dirmi, mesto mesto, che la settimana successiva sarebbe stato a Firenze, con un collega di lavoro: “Come ti invidio! Cos’è questo tono afflitto?” gli dico, perché adoriamo entrambi Firenze e ci siamo stati spesso. Lui è, dicevo, un Veneto atipico, di quelli che mostrano i loro sentimenti. “È che andarci senza di te non è un granché! Mi fa quasi sentire in colpa!” Gli dico di smetterla con questi pensieri ridicoli – e anche un po’ melensi-, e di mandarmi qualche foto, se avrà del tempo libero per girare in centro.
La notte prima della sua partenza mi rigiro nel letto: non capita spesso, di essere “solo” ad un paio d’ore di treno di distanza. È praticamente a mezza via tra il Veneto e il Lazio, e mi sembra davvero un’occasione sprecata. Pazienza. Giunto a Firenze, mi manda qualche messaggio da cui intuisco il suo muso lungo, forzatamente mogio, perché vuole farmi capire che è lì con un collega di lavoro e non a spassarsela, e non devo invidiarlo troppo. Ad un certo punto mi scrive: “Domani in tarda mattinata non ho nulla da fare. Quasi quasi vado a vedermi il David.”
Si è strofinato gli occhi più volte, quando si è ritrovato lì davanti: un po’ per la meraviglia della scultura, un po’ perché convinto di avere un’allucinazione, in quanto accanto al piedistallo del David c’ero proprio io. La notte, prima, rigirandomi nel letto, mi ero detta che si poteva fare. Avevo acceso il pc e alle 4 del mattino avevo preso il primo intercity per Firenze. Matteo è un Veneto atipico, coriaceo e legnoso sì, ma anche caldo e burroso: ha gli occhi guizzanti, quando ci abbracciamo sotto al David, e saltella come un bambino, anche se sembra più un Vichingo dei Fiordi.
“Stupida Scimmia!” mi sussurra, perché capisco che proprio non se l’aspettava. Percorriamo le gallerie dell’accademia con rinnovato interesse, e poi ci rigettiamo nel dedalo del centro fiorentino. Abbiamo le nostre tappe fisse: il panino col lampredotto vicino alla statua del cinghiale, la sosta alla Loggia de’ Lanzi, il gelato seduti sui grandini di Piazza San Firenze (all’angolo con via dei Greci), cercare la faccia di Dante sul ciottolato davanti alla sua dimora, lo spuntino col panino enorme nella solita botteguccia al centro, e circumnavigare Santa Maria del Fiore, dove scattiamo, immancabilmente, ogni volta la stessa identica foto assieme: una specie di rito obbligato.
Si è fatto già buio, quando passeggiamo per il Ponte Vecchio guardando l’orologio: i rispettivi treni ci aspettano, riportando lui a nord, assieme al suo collega, a me a sud, nel caos della capitale.
A Firenze, in tutto, siamo stati assieme poco più di 7 ore. Ma che lusso, una volta tanto, essersi visti una volta in più!