Chiusdino di SI
Intro
Diciamo la verità: sulla Toscana, e in special modo sulla provincia di Siena, avevamo quasi messo una pietra sopra. Tutta colpa di prezzi alle stelle che, pur facendo riferimento a sistemazioni a volte molto belle, paiono decisamente esagerati. Se a questo si aggiunge che bisogna pur mangiare e che le varie ed eventuali finiscono per pesare non poco, ecco spiegato come una meta pur tanto amata e frequentata in passato sia potuta scivolare nella categoria ‘mi piacerebbe ma…’.
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Il ‘quasi’ di cui sopra era figlio del mai dire mai e quando ho cominciato, all’inizio dell’anno, a dare un’occhiata alle sistemazioni nel senese è stato più che altro per curiosità, vista la possibilità di partire in una settimana ancora in una stagione relativamente bassa come quella dal 18 al 25 giugno. Invece, con un po’ di fortuna, mi sono imbattuto dopo un breve navigare in Chiusdino e nella Casa Vacanza Montecapino e, pur continuando la ricerca perché non si sa mai, ho pensato subito che fosse l’occasione giusta. Fino a quel momento, l’esistenza del piccolo centro della Val di Merse (dell’intera valle, a essere sinceri) ci era del tutto sconosciuta, ma considerata la posizione e la non eccessiva distanza dalle mete più interessanti oltre che dal mare la scelta è stata presto fatta.
E così eccoci qui, impegnati nella ricerca della nostra destinazione – mancato l’accesso più ovvio, riusciamo ad arrivarci dalla parte opposta grazie ai suggerimenti di un paio di passanti e dopo aver affrontato una rampa da prima fissa. La via smarrita non viene però per nuocere: ci imbattiamo così nella panetteria, posta in posizione periferica in direzione di Ciciano, di cui saremo assidui clienti per tutta la settimana. Non solo per pane e focacce, ma anche per i dolci fra i quali spiccano due squisiti tipi di panforte e degli ottimi ricciarelli (commercializzati con il nome di ‘Profumi di Toscana’ anche su internet). L’unico problema è che Diva entra e pare non uscire più, con l’aggravante che qualche cliente arrivato dopo se ne va prima: riscopriamo così che i ritmi, da queste parti, sono ben diversi dai nostri, con la gente che ha il tempo (e la voglia) di fermarsi a chiacchierare nei negozi, tenendo nel frattempo vivo un senso della comunità che, nel frettoloso Nord, si è andato perdendo.
Paese (mio) che stai sulla collina
Chiusdino è situato in cima a una collina e sta a una quarantina di chilometri da Siena lungo la strada che conduce al mare – direzione Follonica. Posto a quasi seicento metri sul livello del mare, è ben visibile in lontananza e ce ne accorgiamo già all’arrivo, quando, provenendo da Colle Val d’Elsa, lo scorgiamo quando mancano ancora parecchi chilometri per giungere alla meta. Specularmente, il paese è una sorta di balcone da cui si gode un’ottima vista su un’amplissima porzione di circondario – caratterizzato da ondulazioni più modeste e qualche breve tratto pianeggiante – e con il cielo limpido lo sguardo può arrivare fino al capoluogo. Il panorama non è rifinito come quello a volte magico che si stende tra San Gimignano e Volterra, ma questo suo non essere così da cartolina lo rende più reale, libero dal sospetto di un abbellimento turistico troppo pesante.
Questo su tre lati. Il quarto, a occidente, è occupato dalle Colline Metallifere ricoperte di boschi – querce e castagni soprattutto – fra cui spiccano piccoli borghi come la frazione Ciciano o, svettante più lontano e a un’altitudine maggiore, Gerfalco: quando scende l’oscurità, l’illuminazione delle loro vie spicca fra la buia massa della vegetazione.
Nell’osservare tutto questo, siamo favoriti da giornate molto limpide con il cielo e l’aria spazzati da un vento costante proveniente da ovest, cioè dal mare. Gli abitanti ci confermano che Chiusdino è in una posizione ventilata, ma il giorno del nostro arrivo si esagera: le raffiche soffiano impetuose, tanto che negli angoli più esposti risulta difficoltoso camminare o anche – almeno Chiara – stare in piedi, neanche fossimo dalle parti di Trieste in un giorno di bora. Una condizione eccezionale, almeno in estate, ma che ci consiglia di accantonare l’idea di cenare alla festa organizzata nelle vie più antiche del borgo – dette ‘le buche’ – perché la temperatura scende in modo sensibile al crepuscolo. L’uscita culinaria in paese è rinviata così al giorno dopo, in un ristorante però. Considerato che in centro ce ne sono due e uno lo troviamo chiuso, ci fermiamo alla ‘Grotta di Tiburzi’ dopo aver chiesto di poter consultare la lista con i prezzi visto che fuori non c’è. Il locale è molto piccolo ed è ricavato in due vani appena sotto il livello della strada: le antiche mura trasudano storia e umidità, ma ben presto i profumi della cucina, aperta alla vista dei commensali, lo fanno dimenticare e la cena, servita su tavoli di legno disseminati di libri da sfogliare, si rivela ben fatta e gustosa (anche troppo nei pici alle briciole infuocati da un’abbondante dose di peperoncino).
Nella settimana seguente, la circolazione d’aria, pur rimanendo consistente, risulta benefica e non certo fastidiosa, tanto che, malgrado l’altitudine, possiamo godere della piscina annessa all’appartamento che abbiamo affittato – il sole che brilla nel cielo blu riscalda il necessario. Solo l’ultimo giorno, una diversa corrente porta qualche nube e un po’ di appannamento, ma già in serata l’atmosfera si è ripulita.
La parte originaria del paese si stringe idealmente in quella che era l’antica cinta muraria – conservata solo parzialmente mentre in altri tratti è stata integrata con le abitazioni come si può constatare con facilità percorrendo la strada che ne fa il giro. Si è salvata una sola porta, nella parte prospicente la vallata, in pratica sopra all’abbazia di San Galgano (oltre a un’altra, più interna risalente a una cerchia ancora precedente) ma passeggiando per le strette viuzze non si può non pensare che il tempo si sia fermato. E’ vero, qualche ammodernamento c’è – come nell’ottocentesca facciata del Municipio – e qua e là motorini e alcune automobili si infilano a sorpresa, ma l’ambiente è ben conservato con le case che, tutte con facciate in pietre a vista, si fronteggiano a poca distanza le une dalle altre. Come al solito in questi centri di origine medievale, le strade lastricate sono concentriche e collegate fra di loro da scalinate più o meno ripide mentre, nella posizione più elevata, si trovano la chiesa con il piccolo sagrato e il cassero, l’edificio in cui risiedevano il signore locale in visita o il suo luogotenente. Ci sono alcuni punti d’interesse, come ad esempio la casa natale di San Galgano, ma preferiamo girovagare senza una meta precisa abbandonandoci all’atmosfera del luogo. E’ così che finiamo accanto alle ’buche’ e alle signore che stanno preparando i tavoli per la cena, invogliandoci con un menù toscano fatto in casa: in un primo momento pensiamo che, in fondo, lì in mezzo non si sente poi tutta quest’aria…
La ventata che ci accoglie all’uscita dalla zona più antica ci riporta alla realtà. Sul tornante che segna l’inizio della discesa verso Ciciano, il vento, che arriva senza ostacoli dal balcone offerto da un piccolo giardino aperto sulla vallata, è impetuoso, rendendo faticoso anche entrare e uscire dai negozi che si concentrano in questa zona. Malgrado siano più recenti, anche qui le case non si discostano da quelle del centro, anch’esse senza intonaco e perciò di una tonalità calda data dal colore dei mattoni. Lungo questi muri, ritorniamo con fatica sui nostri passi e, lasciata la strada che torna a Siena, deviamo verso un’ampia piazza decorata con una rosa dei venti – di notte i vari punti cardinali si illuminano – e sovrastata da un grande edificio a tre archi che una volta doveva essere il cinema. In esso, un bar dai prezzi sorprendentemente modici è l’ultima tappa prima di affrontare la salita che ci riporta a casa.
Everywhere I lay my hat
Per forza di cose, Chiusdino è un paese tranquillo, isolato com’è (‘d’inverno è una tristezza’, ci confessa la benzinaia) ma, facendo comune, è dotato di tutti i servizi necessari. La nostra sistemazione è a cinque minuti a piedi dal centro, e questo è uno dei suoi innumerevoli pregi: molti agriturismi in Toscana sono ricavati da poderi e fattorie situati nel mezzo della campagna, magari alla fine di una strada bianca. Una soluzione che ha il suo fascino, ma la comodità di non doversi mettere in macchina per qualsiasi esigenza ha, almeno a nostro giudizio la prevalenza.
La Casa Vacanza Montecapino, in cui, al primo piano, si trova il nostro appartamento, è situata su un’altura appena sollevata rispetto al centro, consentendo così di poter ammirare lo stesso sullo sfondo della campagna circostante. Troviamo la nostra sistemazione grande e caratterizzata soprattutto da un vasto soggiorno pavimentato in un caldissimo cotto. Le stanze sono ombreggiate – a volte anche troppo – dai grandi alberi che fronteggiano la facciata e proteggono dai raggi del sole anche la sottostante zona barbecue. Nei primi giorni è tutto uno stormir di fronde, ma il disturbo maggiore sono gli uccelli che abitano fra i rami e al mattino, non appena spunta l’alba, prendono a cantare felici svegliando l’incauto che ha deciso di dormire, malgrado la temperatura, con i vetri aperti: tra di essi, spicca un cuculo, sonoro oltre ogni immaginazione, il cui verso ci accompagna per tutta la settimana.
L’unica finestra che fa eccezione è quella che illumina il più ampio dei due bagni e, sovrastando la piscina, consente di ammirare il panorama sino a laggiù, dove si scorge Siena. Come già detto, sfruttiamo il piccolo specchio d’acqua più di quanto ci potessimo aspettare, anche visto che le prime sere dormiamo riscaldati da pigiami e coperte: la posizione fa sì che i raggi del sole ne riscaldino i bordi dalla mattina alla sera e, pur non essendo l’acqua caldissima, un tuffo è sempre ben accolto dopo una giornata passata a girovagare per il circondario.
Attorno alla casa ce ne sono numerose altre, quasi tutte immerse nel verde. Passeggiando tra di esse, si può salire ancora più in alto, scoprendo nuovi scorci di paesaggio sia per quanto riguarda il borgo, sia spaziando sulle alture (fra le quali, sbuffi di fumo bianco segnalano anche in lontanaza la presenza di soffioni caldi provenienti dal sottosuolo) sia sulla campagna circostante.
The bends
Il titolo può essere scontato, ma l’argomento è inevitabile: tra i protagonisti di una vacanza in Toscana ci sono le curve, presenti in una quantità tale da fornire nuovi significati al termine tortuoso. La zona della Val di Merse rivela poi una particolare allergia ai rettilinei, facendo sembrare quasi autostrade tratti in precedenza ritenuti faticosi.
Il primo assaggio lo abbiamo subito quando, provenienti da Colle Val d’Elsa, ci immettiamo sulla strada proveniente da Siena. C’è da scavalcare una piccola collinetta chiamata Montebello e, per farlo, la strada si fa via via più storta, infila un paio di tornanti e, soprattutto, una serpentina costituita da sei curve consecutive. Sul momento sembra chissà che, invece il bello deve ancora venire, a partire dall’attraversamento che ci conduce da Monticiano a Petriolo e oltre per non parlare del ritorno con una leggera variante.
La strada provinciale si chiama ‘delle Foreste’ e mantiene fede al suo nome. In un’ombra tagliata solo a tratti dalla luce del sole che filtra fra i rami, il nastro d’asfalto va su e giù fra le ondulazioni delle colline toscane, lasciando pochi attimi di requie alla guida soprattutto in corrispondenza di piccoli centri abitati come Iesa. Almeno la sede stradale è adeguata – in tutta la settimana, non ci troviamo mai in imbarazzanti strettoie come in Liguria – ma le stesse piante che riparano dal sole del mezzogiorno in cui viaggiamo non consentono di ammirare il benché minimo paesaggio e la mancanza di distrazioni alla lunga si fa sentire. Quando, oltre Petriolo, arriviamo in provincia di Grosseto, la vegetazione si fa meno fitta e possiamo godere dell’estrema luminosità della giornata, ma il percorso di ritorno – solo parzialmente alternativo dopo un breve tratto sulla superstrada Grosseto-Siena – ripropone problemi analoghi: nel primo pomeriggio, il contrasto fra luci ed ombre è, se possibile, più accentuato che in precedenza così da rendere la guida ancora meno riposante.
Al confronto, risulta ben più semplice il giro all’interno delle Colline Metallifere che ci riserviamo per l’ultimo giorno. Non è secondario il fatto che il chilometraggio sia nettamente inferiore, ma , una volta superata la nervosa discesa verso Ciciano e alcuni chilometri di risalita verso Montieri, il percorso inizia ad aprirsi sempre di più. Oramai siamo a settecento metri di quota e il panorama presenta caratteristiche montane che si vanno accentuando quando ci avviamo in direzione di Gerfalco: il volante è sempre in azione, ma i cambi di direzione sono più dolci.
Se il collegamento fra piccoli paesi è difficoltoso, il trasferimento da Chiusdino a Siena non è da meno. Una volta sperimentatolo, non possiamo che concordare con la testimonianza – sempre raccolta facendo rifornimento – riguardante il desiderio dei ragazzi chiusdinesi di finire presto le superiori: un’ora per andare e una per ritornare con il pullman che amplifica le curve e frequenti soste per liberare lo stomaco (anche in gruppo). Ripassato il Montebello di cui sopra nonché l’incrocio per Colle Val d’Elsa, la strada si infila per alcuni chilometri in una gola abbastanza stretta e immersa nel verde – il comprensorio è ricco di riserve naturali e zone protette. Si costeggia sinuosamente la montagna con al fianco il torrente che, circa a metà percorso, è scavalcato – sulla destra per chi va verso il capoluogo – anche da un vecchio ponte romano in pietra ancora agibile, a patto di trovare un posto dove mettere la macchina, di non farsi travolgere dagli altri automobilisti e di non mettere il piede in fallo nell’attraversamento, visto che l’antica struttura è senza barriere. Solo una volta giunti a Rosia ci si può un po’ rilassare: la strada corre relativamente dritta fra campi coltivati, anche se continuano i su e giù e ci sono molti chilometri segnati da un incomprensibile limite di sessanta all’ora. Le curve riprendono nell’ultimissimo tratto, ma meno fitte, tanto che le difficoltà sono date più che altro da alcuni piccoli centri abitati le cui case delimitano la sede stradale originando insidiose strettoie.
Per il trasferimento a San Gimignano decidiamo così per la strada più comoda, che poi altro non è che quella che abbiamo percorso all’arrivo una volta lasciata la superstrada Firenze-Siena in quel di Colle Val d’Elsa. Rispetto al primo giorno ci sembra il massimo della comodità con i suoi rettilinei che assommano a qualche chilometro, ma al ritorno decidiamo di cambiare per non abituarci troppo bene. Già decidiamo di abbandonare il paese delle torri da una parte diversa rispetto a quella da cui siamo arrivati percorrendo una bella strada che, attorniata dal verde e caratterizzata da miti saliscendi, conduce fino a Castel San Gimignano dove sbocchiamo sulla provinciale proveniente da Volterra: lungo tutti i suoi dieci chilometri, strade bianche laterali conducono in agriturismi che, vista la zona, possiamo supporre chiedano prezzi proibitivi. Passato l’incrocio, facciamo un tratto in direzione opposta rispetto alla cittadina di origini etrusche – discesa e poi salita, tanto per cambiare – per poi svoltare a destra in direzione di Casole d’Elsa. Dopo un breve tratto di pianura, il percorso risale fino a lambire quest’ultimo paese, arroccato anch’esso in cima a una collina, poi perde di nuovo quota per riacquistarla in direzione di Radicondoli: di nuovo giù verso Montalcinello (anche se al bivio per poco non sbagliamo e rischiamo di finire a Montieri) già in comune di Chiusdino, e l’ultima salita fino alla nostra base di partenza. Nel complesso, una cinquantina di chilometri molto vari, con un solo tratto un po’ noioso coincidente con l’attraversamento di una zona boscosa vicino a Radicondoli: per il resto, passiamo dalle tranquille ondulazioni iniziali – i campi coltivati si alternano alle zone boschive, le strade bianche affiancate dai cipressi salgono a serpentina i pendii – al paesaggio meno addomesticato che troviamo più a sud, punteggiato qua e là da soffioni caldi uscenti dal terreno e sfruttati da piccole centrali geotermiche – di quando in quando, la brezza ci porta l’inconfondibile odore di uova marce.
Il premio come tratto peggiore se lo aggiudicano però, e in maniera indiscutibile, i dieci chilometri che da Prata conducono a Massa Marittima. Non che fino a Prata siano tutte rose e fiori, tra la discesa via Ciciano – molto meglio l’accesso a Chiusdino dalla parte di Siena – e il pezzo di provinciale Massetana che serpeggia fin oltre il confine con il grossetano attraversando un bosco abbastanza rado. Proprio quando un rettilineo e un viadotto – separati da una stretta doppia curva al cui interno sta, abbastanza in congruamente, una casa – illudono l’automobilista, inizia un lungo toboga tra gli alberi senza un attimo di respiro e con una sede stradale più stretta del solito. La liberazione è annunciata dalla rotonda che gestisce l’incrocio con la strada che proviene da Volterra: da lì fino a Follonica, almeno è quasi tutta diritta (e in corso di ulteriore raddrizzamento).
Tutto questo girovagare ha, se non altro, il pregio di faci conoscere nomi di paesi (o anche semplici località) quantomeno insoliti. Tra i più curiosi, quelli che spostando l’accento, diventano terze persone plurali: se Boccheggiano fa solo pensare a una mancanza di ossigeno – strana per un posto in collina – Malignano dà un impressione non proprio positiva dei suoi abitanti.
Ubi maior…
Siena
Una città, anche se non grande, può essere impegnativa se affrontata all’inizio dell’estate. Inoltre sappiamo che, per quanto cerchiamo di tenere ritmi non elevati, la nostra vacanza accumulerà fatica a fatica. Due motivi che ci spingono a visitare Siena subito il secondo giorno, anche contando sul fatto che il vento continui a farsi sentire e sia ancora abbastanza fresco.
La previsione si rivela azzeccata. Arriviamo in città dopo un’oretta di viaggio prudente e, anche se il sole già scalda malgrado siano le dieci, l’aria contribuisce a dare non poco sollievo e così sarà fino alla partenza a meno che non andiamo finire in qualche angolo particolarmente schiacciato dai muri. Lasciamo l’auto al parcheggio sotterraneo ‘Duomo’, posto accanto a Porta San Marco, per un prezzo che non pare eccessivo – poco più di un euro e mezzo all’ora. Mentre stiamo per uscire, Chiara viene tradita da un piccolo gradino posto accanto alle casse automatiche – una trappola in diagonale in cui, nel pomeriggio, vedremo rischiare di cadere altri turisti – sbucciandosi le ginocchia, in special modo il sinistro. La tranquilla risalita verso il centro viene così rallentata da qualche lamentela e da una caccia al medicinale che si risolve in due tappe: prima l’acquisto di acqua ossigenata lungo il percorso e poi di mercurocromo e cerotti nella farmacia di Piazza del Campo mettono almeno per il momento una toppa alla questione.
L’ora non ancora tarda e la posizione periferica ci regalano una sensazione di calma che inizia a sfumare all’altezza di Palazzo Chigi-Saracini: quando usciamo dal portone dopo aver ammirato le decorazioni del piccolo cortile interno alla sede dell’Accademia Musicale e ci inoltriamo lungo la Via di Città, abbiamo l’impressione che i turisti siano arrivati tutti assieme. L’impegno per evitare i piccoli gruppi e le numerose gite organizzate non ci impedisce di notare come la maggior parte delle persone venga dall’estero, mentre il numero di connazionali risulta essere davvero limitato.
Dopo aver salutato la nostra padrona di casa nel bar dove lavora – Giulia la scorge dalla vetrina seguendo il suggerimento che lei stessa (la padrona, non Giulia…) ci ha dato il giorno precedente mentre sguazzavamo in piscina – arriviamo a Piazza del Campo, le cui dimensioni ne preservano in un certo senso la bellezza: si notano meno infatti gli assembramenti dei turisti nonché le molteplici bancarelle di cianfrusaglie e i dehors di bar e ristoranti lì apposta per sfruttarli. Facciamo le foto di rito sotto un sole abbacinante e ci spostiamo dalla parte del Palazzo Comunale, prima di tutto perché c’è ombra e poi perché abbiamo deciso di visitarlo.
La camminata fra le grandi sale affrescate si svolge con grande comodità perché, mentre alla biglietteria per la salita alla Torre del Mangia c’è una lunga fila, l’entrata al Museo è quasi deserta quando sborsiamo i venticinque euro del biglietto famiglia. Possiamo così muoverci con comodità fra le alte sale affrescate con la compagnia di quello che parrebbe un gruppo di statunitensi più alcuni giapponesi sparsi (becchiamo una figlia del Sol Levante intenta a fotografare il cartello delle disposizioni di sicurezza in una stanza sottoposta a parziale restauro…). A naso in su, ammiriamo tranquilli la Maestà di Simone Martini, Guidoriccio, il Buon Governo e quel che resta del Cattivo: infine saliamo – a turno, perché c’è da far compagnia a Chiara che si rifiuta – la ripida scalinata che conduce al loggiato affacciato sulla Piazza del Mercato, con vista sui tetti della città e sul panorama circostante.
Proprio in Piazza del Mercato, su una panchina ombreggiata dalla copertura del mercato medesimo, mettiamo qualcosa nello stomaco prima di dirigerci verso il Duomo. Saliamo i gradini che, sul lato sinistro del Battistero, raggiungono quella che sarebbe dovuta essere la porta laterale del Duomo Nuovo e ci ritroviamo all’interno del medesimo in una luce accecante che abbaglia riflettendosi sui marmi bianchi della chiesa attuale. La piazza è brulicante di persone e, acquistato il biglietto dopo una breve fila – c’è tutta una serie di combinazioni tra Duomo, Battistero, Duomo Nuovo, Museo dell’Opera, ma noi ci limitiamo al primo spendendo dieci euro – affrontiamo un nuovo incolonnamento di pochi minuti per entrare. La signora che controlla le coperture delle pudenda ci parla in inglese – forse conseguenza del sole che picchia, ma anche ulteriore conferma che di Italiani non ce ne sono molti – e poi possiamo entrare. Se tra piazza e gradinata c’è una discreta folla, sotto le grandi arcate gotiche che richiamano la facciata nella bicromia dei rivestimenti si muove una moltitudine di persone ancor più impressionante: malgrado i continui inviti al silenzio, il brusio è insistente mentre spesso lampeggiano dei flash che sarebbero in teoria vietati. Ci fermiamo un attimo ad ammirare il meraviglioso pulpito decorato in bassorilievo realizzato dalla bottega di Nicola Pisano alla fine del Duecento e poi proseguiamo seguendo i percorsi obbligati che evitano il danno che migliaia di piedi potrebbero apportare al prezioso pavimento marmoreo completamente lavorato.
Per riempire lo stomaco torniamo sui nostri passi e, ripresa la direzione verso Porta San Marco, non appena ci lasciamo alle spalle la zona più centrale troviamo, in una traversa a sinistra andando verso la periferia, la trattoria “Da Dino” che, con prezzi ragionevoli e dosi abbondanti (basta tranquillamente una sola portata) ci rifocilla con una cucina casalinga ma ben fatta. Quando riprendiamo la nostra strada sono ormai le due passate e ci avviamo pigramente lungo Via di Città e via Banchi di Sopra ammirando gli antichi palazzi – come ad esempio Palazzo Salimbeni posto nella piccola e bella piazza sul lato destro – e occhieggiando pure qualche vetrina.
Giungiamo quasi senza accorgercene ai limiti della zona pedonale, di fronte all’imponente fianco destro della chiesa di San Domenico. Entriamo ad ammirare l’ampia e altissima struttura – molto luminosa, risulta appesantita solo in misura lieve dai tardi rimaneggiamenti seguiti a incendi e terremoti – e poi ci fermiamo qualche attimo ad ammirare lo splendido panorama della città che si può godere dal piccolo giardino che rinfresca il lato destro dell’edificio.
E’ ormai tempo di iniziare la manovra di rientro, anche perché, per giungere al parcheggio, dobbiamo attraversare la città. Scendiamo quindi in direzione della casa si Santa Caterina, dove visitiamo gli spazi esterni del santuario anche per goderne il fresco mentre osserviamo la strana tonalità di luce che filtra dall’alto, e poi risaliamo verso Via di Città percorrendo Via di Beccheria sovrastata dagli archi che collegano le facciate delle case poste sui due lati della strada. Il percorso risulta abbastanza secondario da consentirci di passeggiare per una manciata di minuti in santa pace prima di rientrare nella calca della via principale. Dopo la pausa del primo pomeriggio, il viavai è tornato a essere intenso e anche nella periferica Via San Marco troviamo il folto gruppo di una gita organizzata che occupa quasi tutto lo spazio a disposizione mentre è fermo ad ascoltare la guida davanti alla Chiesa della Chiocciola – edificio di culto della contrada omonima, alla confluenza con Via della Diana, che riporta sulla facciata una curiosa, piccola targa con scritto ‘Casa del cavallo’.
San Gimignano
Sam Gimignano condivide con Siena il problema di frotte di turisti attirate dalla rinomanza internazionale, ma ne patisce ancor di più, non avendo, come il capoluogo, spazi e attrazioni sparse qua e là in cui le moltitudini possano in qualche modo disperdersi. Tutti finiscono per ammucchiarsi nel percorso che ha come estremi le porte poste al termine di Via San Matteo e Via San Giovanni, confermando nel sottoscritto l’impressione – oramai abbondantemente maggiorenne – che il borgo sia un luogo delizioso e magico, ma dalle sei di sera in avanti, quando cioè il turismo mordi e fuggi l’ha oramai abbandonato.
Arriviamo poco dopo le dieci e già i primi due parcheggi sono completi. Proseguiamo così il periplo delle mura in senso orario e troviamo posto solo nel terzo, chiamato Bagnaia, e, quando risaliamo verso il centro del paese passiamo accanto all’ospedale di Santa Fina e ci ritroviamo molto vicini alla chiesa di Sant’Agostino. La piazza è ancora tranquilla – i due ristorantini che vi si affacciano stanno ancora effettuando le pulizie mattutine – e la struttura in pietra viva, alleggerita solo da quattro alte finestre sul fianco sinistro che possiamo ammirare, si innalza sopra i cinque gradini che ne sollevano il sagrato e ancora non ospitano il riposo di qualche turista affaticato da un sole che già si annuncia pulito e assai caldo.
Visitiamo con calma l’interno – soprattutto ammirando gli affreschi di Benozzo Gozzoli che decorano con colori brillanti la cappella del coro illustrando la vita di sant’Agostino – e poi sostiamo nel bel chiostro quattrocentesco alleggerito da colonne sottili e dal tanto verde che fa da corona al pozzo centrale. Anche se non lo sappiamo, è l’ultimo istante di tranquillità, perché una volta usciti raggiungiamo l’inizio di Via San Matteo e il grosso dei turisti.
Benchè lungo il percorso si affaccino d’ogni tanto le facciate di vecchie case patrizie che – quale più, quale meno – mantengono intatte le loro caratteristiche medievali, la vera attrazione di San Gimignano sono le torri che, spostandosi verso il centro, si mostrano in numero sempre maggiore e con angolazioni diverse specie una volta passato l’arco della cancelleria, una volta porta della cerchia di mura più antica. Verrebbe naturale stare con il naso per aria, ad ammirare i torrioni che si innalzano contro il cielo azzurro mentre la pietra chiara con cui sono costruiti rimanda la luce limpida del mezzogiorno che si avvicina, ma non è facile e non a causa del sole che abbiamo momentaneamente contro: il rischio è di andare a sbattere contro qualche turista altrettanto, e forse più, distratto.
Quando mettiamo piede in Piazza del Duomo, giungiamo alla conclusione che forse non abbiamo proprio scelto la giornata migliore: c’è il mercato. L’affollarsi di bancarelle costringe a spericolate inquadrature per immortalare la chiesa, il Palazzo Comunale e, saliti i gradini che conducono alla Collegiata, il Palazzo Vecchio del Podestà che sta proprio di fronte – per fortuna che la necessità di cambiare la macchina fotografica ci ha indirizzato verso una dotata di un buon grandangolo… Comunque, l’affollarsi di bancarelle fa sì che nella piazza non giri un filo d’aria e siamo costretti a cercare un attimo di respiro prima nella piccola piazzetta sul lato destro del duomo e poi sul ballatoio con parapetto che, sul lato sinistro del Palazzo Comunale, può essere raggiunto da una breve scala che parte da un cortile interno del medesimo palazzo. Il posto, benché consenta di ammirare alcuni begli squarci di verde e vecchi muri, è stranamente poco frequentato, anche se i graffiti sui muri testimoniano decenni, se non secoli, di maleducazione.
Ripreso il cammino, rinunciamo a Piazza della Cisterna resa invedibile dal mercato e scendiamo lungo Via San Giovanni intontiti un po’ dal caldo e parecchio dalla continua confusione. Tutto questo, unito al desiderio di trovare un posto dove mangiare in tranquillità, ci fa decidere di allontanarci un poco dal centro cittadino. Prima di tutto, bisogna però tornare sui nostri passi e raggiungere la macchina che, a questo punto, si trova dall’altra parte del paese. Decidiamo di cambiare strada e di seguire il percorso che segue il tracciato della cinta muraria sulla nostra destra: ne ricaviamo prima il passaggio lungo un balcone panoramico con ampia vista della campagna circostante (peccato solo per il controsole) e poi l’attraversamento di quartieri comunque antichi in cui regna però una grande e inattesa calma.
Resta da risolvere solo il problema del pranzo, cercando di non farsi spellare. Allontanandoci da San Gimignano speriamo di trovare più miti consigli riguardo i prezzi, ma sia in un ristorante-pizzeria non molto lontano e con splendida vista, sia in un altro locale a Castel San Gimignano di fronte a crostini con i fegatini a ben otto euro dobbiamo arrenderci. La nostra costanza viene infine premiata quando – ormai sono quasi le due – raggiungiamo il ristorante ‘Al monte’ nell’omonima località fra San Gimignano e Colle val d’Elsa: posto sulla destra della strada che collega i due centri, offre prezzi onesti e un’ottima cucina di mare e di terra servita, nella stagione estiva, in un ampio spazio all’aperto. Visti i chilometri che ci aspettano, noi ci limitiamo – i crostini sono comunque i migliori della settimana – ma altri commensali che, attorno a noi, ordinano un’abbondante pasta allo scoglio o una fiorentina con l’osso alta tre dita, si dichiarano più che soddisfatti.
Massa Marittima
Se Siena e San Gimignano sono due ritorni – seppur dopo lungo tempo – Massa Marittima è una novità. Avremmo dovuto visitarla durante una delle nostre due vacanze nella poco lontana San Vincenzo, ma la pigrizia da spiaggia e le bambine allora piccole ci avevano fatto desistere e allora eccoci qui solo ora, provati da un viaggio di trenta chilometri che sono sembrati più del doppio.
Troviamo abbondante posto in un parcheggio a pagamento che si allarga poco sotto al centro storico: quest’ultimo è raggiungibile seguendo un comodo percorso pedonale che evita con un sottopasso l’attraversamento della strada che gira attorno alla cittadina – l’unico inconveniente di poco conto è la leggera salita.
Entriamo nelle mura dalla Porta al Salnitro e, evitando le auto che scendono dal senso unico, arriviamo ben presto nella splendida Piazza del Duomo sulla quale domina, innalzata da una scalinata, la romanica Cattedrale di San Cerbone. La chiesa si fa ammirare sia dall’esterno, con le sue forme agili malgrado l’imponenza e la pietra chiara delle mura, sia all’interno, una basilica a tre navate in cui si conserva, fra l’altro, una madonna con bambino di Duccio e sulle cui pareti gli interventi di restauro hanno recuperato grandi squarci degli affreschi che le decoravano in origine.
Seduti sui gradini davanti alla facciata, spaziamo sull’intera piazza a forma di stella dominata, alla nostra sinistra, dal Palazzo del Podestà e da quello Comunale intervallati dal più piccolo detto dei conti di Biserno. Le architetture sono in progressione temporale: dalle forme severe del primo, risalente al Duecento, a quelle sempre squadrate ma ingentilite da una serie di bifore del secondo, edificato nel secolo successivo. Sul lato opposto, l’altrettanto quasi millenario Palazzo Malfatti poggia su un ampio loggiato sotto al quale trova posto un bar dall’aspetto un po’ retrò la cui ombra regala un po’ di frescura e riposo agli occhi affaticati dalla giornata luminosa: alla fine del nostro giro, con la scusa dell’aperitivo ci fermiamo anche noi a riposare.
La bellezza della piazza è tale da mettere un po’ in ombra il resto della cittadina, che rimane medioevale nelle immediate vicinanze – da una parte la Fonte dell’Abbondanza, dall’altra le case all’inizio di Via della Libertà – e poi si fa sempre più rimaneggiata e moderna. Il centro è sempre caratterizzato dia vie strette che si arrotolano su se stesse, ma in modo meno arroccato e in tinte più chiare, come se la vicinanza del mare facesse sentire la sua influenza anche sull’abitato. Una di queste strade ignora però l’andamento circolare e sale dritta alla Fortezza Senese: la percorriamo solo io e Giulia, perché Chiara si rifiuta categoricamente di fare un ulteriore sforzo e Diva è costretta a farle compagnia. Superato il dislivello, ci ritroviamo sulla piazza sovrastata da possenti mura passando sotto un’ampia arcata aperta nelle medesime: comprato il biglietto, ci sarebbero ancora da salire gli scalini che portano al cammino di guardia che offre il panorama della vasta piana ai piedi di Massa e del Tirreno là sullo sfondo, ma ormai è ora di pranzo e, soprattutto, abbiamo promesso di passare il pomeriggio in spiaggia. Raggiungiamo così il resto della truppa per l’aperitivo sopra descritto, un veloce pranzo al sacco su un tavolino abbastanza ombreggiato appena sopra al parcheggio e la vestizione dei costumi da bagno: ignorata gli altri giorni, l’aria condizionata dell’auto aiuta parecchio nei venti chilometri che ci portano a Follonica.
… minor non cessat
Abbazia di San Galgano
Tra campi di grano biondi di spighe ormai mature e doppi filari di cipressi ai lati delle strade, arriviamo all’Abbazia di San Galgano. Chiusdino osserva dall’alto, siamo ancora nel territorio comunale, mentre sistemiamo la macchina nell’ampio e deserto – è ancora abbastanza presto – parcheggio a pagamento. Ci avviciamo a piedi lungo i due viali perpendicolari che è necessario percorrere: la mole della chiesa si innalza imponente nei confronti della campagna circostante, contrastando con il colore chiaro o ocra (dove oramai è andata perduta anche la copertura e si vedono i mattoni nudi, come in buona parte della facciata) il verde sfondo delle colline.
Una volta giunti su quello che era il sagrato, colpiscono ancor di più le dimensioni e i danni inferti dal tempo: l’abbazia cistercense, nata nella seconda metà del Duecento perché l’Eremo di Montesiepi era ormai troppo piccolo, fu abbandonata a partire da due secoli dopo e lasciata definitivamente a se stessa sul finire del diciottesimo secolo. Oltre a, ovviamente, qualsiasi decorazione o arredo, se n’è così andato il tetto e cieche sono diventate le alte finestre gotiche, a eccezione di una che, sul lato sinistro, mette ancora in mostra l’agile colonnina che la bipartiva sovrastata da un delicato rosoncino. Pure vuoti i rosoni che danno luce a abside e transetti, anche qui con la parziale differenza di quello di sinistra, in cui resiste la decorazione in muratura.
Pochissimo è rimasto poi di un convento che doveva essere imponente: sul lato sinistro della chiesa, rimangono uno spezzone di chiostro e le sale dello Scriptorium e del Capitolo, entrambe restaurate e utilizzate un po’ come negozio e punto d’informazione e un po’ per tenervi concerti e spettacoli durante la stagione estiva. Entrambe sono vaste ma non molto alte, con colonne centrali che sostengono le volte a vela, mentre la luce entra da larghe bifore poste su entrambi i lati. Il percorso suggerito inizia da qui, dove alcuni computer raccontano un po’ di storia, mostrano come si suppone fossero abbazia e area circostante nel momento del loro massimo splendore – fioriva la lavorazione dei metalli, analogamente a tutta la zona circostante – e indicano alcune gite alternative nei dintorni (prendiamo anche nota, ma non se ne farà nulla).
Ed eccoci, passando da un’entrata laterale, nelle tre ampie navate, di cui quella centrale è completamente scoperchiata e in piena luce mentre le laterali sono più ombreggiate. La separazione tra l’una e le altre è data da una serie di archi separati da colonne e richiamati da altrettante aperture sovrastanti. Vista la nostra esperienza scozzese, non siamo nuovi a chiese senza copertura, ma il cielo azzurro che ci sovrasta sopra le alte mura spoglie fa ancora la sua impressione, come pure il pavimento ormai ridotto a terra battuta. Percorriamo l’edificio in su e in giù alla ricerca degli angoli migliori per fotografare e ci fermiamo poi nella zona absidale, ricca di chiaroscuri e che rivela in alcuni punti le basi dei sostegni alle antiche volte.
Usciamo dalla parte opposta e, lasciata alla nostra destra una tozza costruzione quadrangolare che si penserebbe fosse un capanno per gli attrezzi o simili e invece era la cappella del cimitero, ci incamminiamo attraverso i campi verso Montesiepi. La salita sulla piccola collina è in linea retta e sotto il sole, ma è anche abbastanza breve: cinque minuti e ci troviamo in un bosco dalla pendenza più dolce e subito siamo nel piazzale su cui si affaccia l’arco a tutto sesto che introduce alla Cappella. Quest’ultima è di forma circolare e fu costruita alla fine del dodicesimo secolo attorno alla ‘Spada nella Roccia’, il luogo dove Galgano Guidotti infisse la propria arma nella pietra che segnava la cima dell’altura per significare l’abbandono delle cose terrene. La spada c’è ancora, protetta da una teca di vetro, ma gli aspetti più interessanti sono il soffitto, che riprende la bicromia dell’esterno con un curioso effetto optical, e la piccola cappellina aggiunta decorata da Ambrogio Lorenzetti con affreschi salvati parzialmente da un provvidenziale restauro appena prima che fossero perduti per sempre.
Mentre scendiamo lungo la più comoda strada, decidiamo che dobbiamo tornare qualche sera, in considerazione della tranquilla bellezza del posto unita alla possibilità di vedere la chiesa in rovina sotto il nuovo punto di vista dell’illuminazione notturna. Quando mettiamo in atto il proposito, troviamo la tranquillità e la bellezza, ma le luci poste nel pavimento della navata principale restano ostinatamente spente, malgrado i gestori dell’agriturismo lì accanto ci assicurino di aver già segnalato più volte il guasto a chi di dovere (Comune ed Enel). In compenso, l’agriturismo stesso ha un ristorante denominato l’Antico Tempio e l’ultima sera abbiamo così la possibilità di cenare sulla piccola veranda con vista sull’abbazia e sui cipressi che accompagnano il viale che vi conduce. A parte un servizio fin troppo sollecito – e inusuale per questi posti – la cucina si rivela all’altezza e i prezzi sono onesti: sia i pici all’aglione (olio, pomodoro, aglio e peperoncino), sia la coppa – chiamata però in altro modo – di maiale arrosto sono gustosi e appaganti.
Monticiano
Non molto lontano da San Galgano, giungiamo a questo piccolo paese posto lungo la strada che conduce nel grossetano. Posto su una collina non molto alta, è stato rimaneggiato in modo più pesante rispetto ad altri centri più isolati, specie nella parte da cui arriviamo noi.
Ci accoglie però una bella piazza di forma semicircolare su cui sono affacciati alcuni bar in cui gli avventori si stanno godendo l’aperitivo della domenica mattina e, più rilevante, la semplice facciata romanica della chiesa di Sant’Agostino. In pietra chiara, come la scalinata su cui si eleva, mostra semplicemente la decorazione ad arco che sovrasta il portone e un rosone altrettanto lineare. La chiesa non si può visitare, a differenza del chiostro posto sul lato, piccolo e ombreggiato anche se, ancora una volta, gli abbellimenti sono ridotti al minimo, tra colonne a sezione rettangolare e muri spogli.
L’accesso al centro vero e proprio avviene su una larga strada che sale lentamente. Passata una larga piazza con monumento ai caduti – da queste parti la Resistenza fu molto attiva e tedeschi e fascisti si vendicarono con cattiveria – e qualche incongrua modernità, giungiamo davanti alla chiesa parrocchiale, che, chiusa anch’essa, richiama nelle linee quella dedicata al vescovo di Ippona, ma è costruita con le stesse pietre scure che si possono notare nelle facciate delle case. Peccato solo che sulla piazza antistante sia consentito parcheggiare e che le macchine rovinino – anche andando e venendo – il colpo d’occhio. Da qui inizia però la parte più antica del borgo, declinante fino alla ben conservata Porta Maremmana che si apre in un tratto di mura ancora conservato: tutt’intorno si diparte la solita ragnatela di viuzze fra le quali, a parte qualche scomoda auto, si possono udire i rumori che escono dalle finestre e i profumi della cucina visto che è ormai passato mezzogiorno. Notiamo anche qualche cartello con la scritta ‘vendesi’, specialmente vecchie case da riadattare, una costante che sarà presente in tutti i piccoli centri a cui facciamo visita.
Pari
Arriviamo a Pari per puro caso. Lasciata Monticiano imbocchiamo la provinciale ‘delle Foreste’ con l’intenzione di cercarci un posto dove pranzare (al sacco) dalle parti di Bagni di Petriolo. Mentre percorriamo l’ultima discesa che ci porta nell’alveo del torrente Farma, iniziano però a concretizzarsi alcuni sospetti: è domenica e l’affluenza alla sorgente termale – l’acqua sgorga calda dalla roccia e forma delle piscine nell’alveo del piccolo fiume consentendo di alternare bagni freddi e tiepidi – può ricordare quella di certi tratti del Trebbia in luglio e agosto. Possibilità di parcheggiare non ce ne sono, a parte nella zona riservata allo stabilimento termale a pagamento, e le auto sono sistemate sul bordo stradale già a una notevole distanza dalla ‘spiaggia libera’. Scorriamo lentamente la fila di macchine perché lo spazio residuo non è tantissimo e, quando arriviamo al punto più affollato, vediamo che il greto è affollato di conseguenza, tanto che alcune famiglie pranzano tra un parafango e l’altro. Decidiamo di proseguire, tralasciando la visita ai resti delle vecchie terme fortificate e spostando il bagno in piscina (peccato solo per il baracchino che vende il lampredotto): passato uno stretto ponte, la strada riprende a salire sul versante opposto e, dopo un aver girovagato un altro po’, finalmente ci infiliamo nella stradina demaniale che arriva a Pari.
Il piccolo borgo, in comune di Civitella Paganico, è situato sulla cima di un colle che raggiunge i seicento metri di altezza nel suo punto più alto e risulta ancora ottimamente conservato nella sua struttura medioevale. Prima di addentrarci, però, decidiamo di riempire lo stomaco, e alla bisogna soccorre una piccola area picnic ai piedi della zona più antica: il tavolo a cui ci sistemiamo è ombreggiato da alcuni ulivi e rinfrescato dalla brezza, peccato solo che l’erba un po’ alta testimoni una certa mancanza di assiduità nella cura del verde.
Quando entriamo nelle strade che, come al solito, sono disposte in cerchio lungo la struttura dell’altura, è il primo pomeriggio e un cielo di un blu intenso fa da contrasto con le pietre chiare delle abitazioni. Il centro era in origine una rocca e, anche se ora le mura sono state inglobate nelle abitazioni, mantiene un aspetto raccolto e difensivo: ciò fa sì che molti siano gli scorci suggestivi in chiaroscuro creati da piccole vie trasversali e scalinate ora ripide, ora più ampie. Dal punto più alto, si gode uno splendido panorama della valle sottostante: peccato solo che un cantiere non consenta di arrivare in uno dei punti più scenografici posto dietro il palazzo che sovrasta il paese. Proseguiamo così verso la piazza della chiesa, completamente ricostruita con linee semplici nell’Ottocento, e quindi concludiamo la visita occhieggiando i molti angoli in cui piante e fiori sfruttano ogni veranda o balconcino per ombreggiare le case addossate l’una all’altra.
Dalla visita ricaviamo un’impressione di serena bellezza, forse con un eccesso di tranquillità: una locanda con alloggio e un bar sono gli unici esercizi pubblici che incontriamo, facendoci pensare che Pari sia soprattutto un centro di seconde case, peraltro restaurate con grande cura.
Ciciano
Piccola frazione di Chiusdino adagiata sul fianco della montagna, Ciciano è più che altro nato come agglomerato di case attorno al bivio che conduce da una parte verso Massa Marittima e dall’altra alle miniere di Montieri. Tanto piccolo da essere stato dotato di una chiesa solo nel diciassettesimo secolo, il paese è costituito da una piccola piazza, dalla strada che scende dal capoluogo e da alcune vie laterali. La visita alla chiesa di Santa Maria Assunta non è indispensabile, come niente di speciale si rivela la passeggiata per le vie più vecchie: il borgo, però, non ancora toccato dalle ristrutturazioni in stile, comunica un’aria di simpatia, tra il vasto bar (con pergolato) del circolo ARCI e il suo gloriarsi di essere il paese della ‘palla eh!’. Trattasi di un antico progenitore del tennis, giocato per strada con bracciali di cuoio e diffuso in questo scorcio di Toscana: in piazza c’è l’albo d’oro in piccole piastrelle di ceramica attaccate al muro, ma, curiosamente, tutto si ferma al 2007.
In merito ai giochi tradizionali, una piccola digressione. Su una televisione locale, mi capita di vedere la finale del torneo di Calcio Storico fiorentino, che scopro trattarsi di un curiosissimo sport. Intanto, con il calcio non c’entra nulla mentre le somiglianze con il rugby sono evidenti: ventisette energumeni tatuati, la maggior parte a torso nudo, si sfidano su Piazza Santa Croce, ricoperta di un paio di spanne di sabbia e circondata di tribune gremite, in un tempo unico di cinquanta minuti. Per almeno mezzora non succede nulla, perché gli omoni sono in gran parte intenti a fare la lotta a coppie (consentito, sono vietate solo le ammucchiate) mentre i pochi in piedi fanno girare palla in orizzontale. Nel finale, quando le forze sono al lumicino e cinque o sei giocatori (detti ‘calcianti’) se ne sono usciti in barella, si comincia a cercare seriamente di andare a segno. In questo, i blu di Santa Croce si rivelano migliori dei troppo attendisti bianchi di Santo Spirito e vincono in rimonta di mezza ‘caccia’, un ‘gol’ che può essere segnato lungo tutto il lato corto del campo e che, se viene sbagliato con una conclusione alta, regala mezzo punto agli avversari. L’unico gesto calcistico – in senso moderno – lo fa uno dei quattro portieri blu quando si tuffa all’ultimo secondo per deviare il punto del sorpasso in ‘fallo laterale’.
Montieri
Sotto alla cima del Poggio che ne porta il nome, Montieri si stende fra i boschi in posizione soleggiata cercando di consolidare la sua nuova vita di stazione di montagna, trovandosi a settecento metri di altezza, dopo secoli passati a vivere sulle attività estrattive.
Arriviamo in giorno di mercato e, occupato dalle bancarelle il più comodo parcheggio appena fuori dal centro, piazziamo l’auto in uno più centrale raggiungibile con una ripida stradina in discesa e a senso unico alternato (per fortuna, evitiamo incroci sia in entrata, sia in uscita e gli unici brividi sono dati da un paio di muri che si protendono verso la sede stradale).
Risaliti, diamo un’occhiata ai resti dell’antica fonte di sotto e al Palazzo Comunale costruito a inizio Novecento in stile medievale, poi ci inoltriamo nei i vicoli stretti fra case in pietra più grigia di quella utilizzata in altri paesi della Toscana, a partire da Chiusdino. Superato un arco, finiamo quasi subito nella piccola piazza antistante la Pieve dei Santi Paolo e Michele, chiesa parrocchiale di origini trecentesche con interno pesantemente rimaneggiato in periodo barocco e torre squadrata che probabilmente in origine aveva funzione civica. Proseguiamo quindi sempre in salita, lungo strade su cui si affacciano qua e là antiche case-torre di famiglie un tempo potenti che ancora conservano più o meno spiccati elementi medievali, mentre una lunga serie di bassi archi, alcuni dei quali danno ancora su fondaci bui, trovano spiegazione nel nome della ‘Via delle fonderie’.
Sopra al paese, si trova il Cassero senese, edificio in origine destinato, oltre che a residenza del luogotenente dei signori del luogo, anche a carcere: la sua storia è millenaria e la sua struttura si è stratificata nei secoli. Accanto al Cassero, inizia la breve salita che, decorata dalle stazioni della Via Crucis, raggiunge la piccola chiesa di San Giacomo. Posta sul limitare del bosco di castagni che sovrasta il paese, le linee semplicissime ne testimoniano la fondazione risalente all’Undicesimo secolo. La porta è però sbarrata: raggiungere il piccolo sagrato non è comunque inutile, visto che vi si gode un bel panorama dei tetti del paese e delle colline circostanti.
Scendiamo lungo un percorso differente e abbastanza presto ci ritroviamo sulla strada principale, perché il centro più vecchio è abbastanza piccolo. Visto che anche la chiesa di San Francesco non è accessibile – neppure il portico che ne decora la facciata – facciamo un veloce salto al mercato per soddisfare le pressanti richieste di Chiara e ripartiamo in direzione di Gerfalco.
Gerfalco
Essendo situato in posizione molto defilata, Gerfalco si trova circondato dalla natura. Il paese è tutto stretto su un piccolo colle ed è veramente poco lo sviluppo che ha avuto all’infuori delle antiche mura (come in altri paesi, le abitazioni le hanno inglobate): sulla sinistra appena prima di entrare in paese, però, si fa notare una bella casa a tre piani la cui facciata è ingentilita dalle finestre a bifora.
Attorno al borgo ci sono grandi boschi di castagni mentre una pineta ombreggia la sommità e i contorni dell’altura su cui poggia il piccolo centro. Sembrerebbe proprio di stare in montagna – siamo un centinaio di metri più in alto di Montieri – se proprio di fronte non ci fosse un vasto campo di grano che dev’essere impegnativo non poco da lavorare vista la notevole pendenza. Sorvegliano il tutto le Cornate che, con i loro poco più di mille metri d’altezza, sono il punto più elevato delle Colline Metallifere.
Al nostro arrivo, il paese pare deserto, tanto che per lungo tempo saranno più i gatti da noi incontrati che gli esseri umani (pochi, in ogni caso). Così non abbiamo problemi a sistemare l’auto in uno dei cinque posti nei pressi dell’ufficio postale che sono l’unico parcheggio che ci riesce di scorgere. Entriamo quindi da Porta Senese, affiancata da un torrione e conservata come la Fiorentina, e iniziamo ad aggirarci per le vie, tra salite e discese spesso facilitate da scalinate. Particolarmente ripida è quella che sale alla chiesa di San Biagio, rifacimento cinquecentesco del tempio originale. Troviamo anche qui la porta chiusa e dobbiamo limitarci a dare un’occhiata alle lapidi – caduti in guerra e benefattori locali – piazzate nel piccolo portico che la precede.
La differenza che più si nota a Gerfalco rispetto agli altri paesi che abbiamo visitato è data dalle facciate in gran parte intonacate che tendono a dare un uniforme tonalità grigia al tutto. Le eccezioni sono poche, come la casa con le bifore di cui sopra o un’altra, dall’aspetto vetusto, di fianco a una scalinata all’estremità dell’abitato. In ogni caso, nella maggior parte sembra non ci sia nessuno – solo da una ogni tanto escono gli odori e i rumori del pranzo – ma il fatto che siano ben tenute fa pensare che anche qui si tratti in molti casi di seconde case, magari abitazioni lasciate dagli avi per andare in cerca di fortuna e ora recuperate dai nipoti.
Voglio andare al mare
Il titolo riflette il desiderio di Chiara e anche l’indispensabile merce di scambio per l’andare su e giù, in auto e a piedi, per le colline toscane senza troppe polemiche.
La scelta di Follonica è inevitabile: è il posto più vicino e il tempo è poco, che si tratti del pomeriggio dopo la visita a Massa Marittima o del mattino prima del ritorno a casa. Per lo stesso motivo, non stiamo tanto a cercare: entriamo dritti fino a dove ce lo consente la strada proveniente dalle colline, troviamo posto nel polveroso parcheggio dell’area ex-ILVA (senza difficoltà la prima volta, per pura fortuna l’ultimo giorno) e proseguiamo in linea retta attraverso l’area pedonale fino alla costa. Arriviamo così dove un pontile si protende per una decina di metri in mare e poi si allarga nell’albergo-ristorante ‘Piccolo Mondo’ – bella vista per la clientela, ma un pugno nell’occhio per tutti gli altri. Alla sinistra del pontile, l’arenile è ridotto a una striscia mentre a destra c’è un buon tratto di spiaggia libera che, in questa seconda metà di giugno non è ancora troppo affollata.
La brezza che soffia dal mare rende la permanenza piacevole malgrado il sole brilli pulito. L’aria tersa ci consente di ammirare il profilo dell’Isola d’Elba proprio in fronte a noi mentre sulla nostra sinistra la costa boscosa si innalza prima di protendersi verso il mare quasi a indicare un’isola più lontana (basandoci sui nostri ricordi, supponiamo essere quella del Giglio, ma una successiva occhiata alla cartina parrebbe escluderlo). A destra invece, il litorale si mantiene pianeggiante e lo sguardo può spaziare fino… alla centrale termoelettrica di Piombino.
Dopo tanti anni di Croazia, la sabbia, che per molti è un valore aggiunto, ci sembra sempre un’inutile e appiccicosa rottura di scatole, così ridimensioniamo il problema passando molto tempo in mare. Appena passato il bagnasciuga la profondità è bassissima e così resta per un buon tratto, tanto che occorre una discreta passeggiata prima di arrivare a bagnarsi il costume: a un certo punto capita di pensare che si tratti di un modo alternativo per raggiungere l’Elba. L’acqua è però molto pulita e limpida malgrado il fondo sabbioso – Follonica è bandiera blu – e così stiamo a mollo, oziando o saltabeccando dietro a una palla, fin che possiamo. Disturba solo il trovarsi a osservare le costruzioni immediatamente alle spalle della spiaggia, tristi casermoni da periferia milanese e un incongruo grattacielo di una trentina di piani.
Oltre alla sabbia, a Follonica ritroviamo i turisti italiani e, almeno nel bar vicino a dove ci siamo sistemati, prezzi non certo popolari. Ce ne andiamo il sabato dopo mezzogiorno, quando i raggi picchiamo con intensità e l’affollamento di ombrelloni comincia a farsi eccessivo: un pranzo al sacco su una panchina dell’area verde presente all’interno dell’ex ILVA e poi imbocchiamo l’Aurelia in direzione nord. Ben presto ci accorgiamo che, mentre noi rientriamo, molti altri stanno arrivando: la coda alla barriera di Rosignano è lunga sette o otto chilometri e anche l’immissione dall’Autostrada della Cisa sulla Genova-Livorno incolonna un bel numero di automobili.