Chicago my kind of city

Una settimana alla scoperta della città di Al Capone, degli Intoccabili guidati da Elliott Ness, del Proibizionismo, di Barack Obama, del 4 Luglio festeggiato in loco, con i fuochi d'artificio più vissuti d'America e i profumi e i sapori del Taste of Chicago sullo sfondo. Ah, qui sorge anche la Route 66!
Scritto da: Ferrari Lara
chicago my kind of city
Partenza il: 01/07/2010
Ritorno il: 08/07/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
Una duchessa vestita d’acciaio che balla il Blues. Tu questo sei per me, dal primo momento che ti ho posato gli occhi addosso, era l’estate del 2008, con la mente ingenua e offuscata dal rock’n’roll, le mille luci seducenti del Loop, la grinta del business dietro l’aspetto del salotto borghese. Ho capito chi fossi, veramente. I’ve Got you under my skin. E ti ho abbracciato e ti ho sentita mia, forte, in quel momento, accogliente, madre classica e moderna. Non che io una madre non l’avessi già, ma randagia e nomade come sono stata fino ad allora, ne avevo trovata una putativa, e non di carne e ossa, ma di acciaio, vetro, asfalto, cemento, ferro, vento, e che vento!, acqua lacustre e luce solare. Una mamma dura come la roccia, ex terra di bovini e maialari rivestiti a festa, ex zona di gangster, ex ragazza del Boss… gambe lunghe che sferragliano sui binari e ti portano a destinazione, a due passi dall’acqua più blu dei sogni più grandi e impossibili. Mi realizzo con te, anche solo per un istante. Oh mia Chicago. E mi sento dentro casa, nel mio cuore. Sarà anche per l’arrivo rocambolesco, una mattina di luglio, pochi giorni prima del 4, Festa nazionale, “You know what I mean”, direbbero loro, dopo un viaggio burrascoso che ci aveva sballottato da un ufficio all’altro dell’aeroporto, alla ricerca dei bagagli perduti, ma ti abbiamo vissuta intensamente, dall’inizio alla fine. Dopo un atterraggio così movimentato, dove era difficile mantenere la concentrazione sul qui e ora, ovvio che la vacanza dovesse essere una rivelazione, una danza sui tavoli scatenata e gioiosa. Eravamo nella città giusta. Mi ricordavo vagamente dei sotterranei di O’Hare, dipinti con le scenette del Jazz, le Big band e i loro eroi, da Miles Davis a Bill Evans versione piastrella colorata ad accompagnarci verso la metro, in direzione Loop. Mi abbandono stremata sullo schienale mentre da East Chicago entriamo lentamente in città e il paesaggio muta radicalmente. Ecco Grand, poi Clinton, Goodman Theatre, che preannuncia l’ingresso nell’intricato quanto seducente distretto teatrale, quindi Washington Street, Adam Street, Montgomery, Monroe, ogni fermata è un sussulto felice, perché so che ad ogni isolato c’è qualcosa di interessante da vedere. Mi ricordo ad esempio della statua di Picasso nella Daley Plaza o del James R. Thompson Center, un centro congressi su tre livelli sferici, interamente di vetro, simbolo postmodernista che aveva scatenato delle accese polemiche tra gli amministratori per il costo eccessivo delle strutture, che in realtà ospitano degli uffici dello Stato dell’Illinois, quindi bando agli sprechi. E invece Chicago è un po’ così, una capufficio severa e intransigente all’esterno, ma con i conti che non tornano del tutto. Però la ripulita borghese dagli anni ’50 in poi se la è data e bene, se è vero che la “Second City”, per usare uno dei soprannomi più in voga, è famosa per avere fatto da banco di prova a numerosi architetti diventati delle star. Io e Marco infatti decidiamo di prendere la “Crociera dell’architettura”, bellissima, tutta sullo Chicago River. Il fiume cambia spesso colore, lo vediamo sfumare dal verde smeraldo al blu notte, un punto di vista che piacerebbe a Manet. Iniziamo il percorso dal lato nord, sfilano sotto ai nostri occhi la torre di Donald Trump, il Municipio, il grattacielo gotico del Chicago Tribune, che contiene incredibili cimeli legati ai Cubs, l’osannata squadra di baseball locale, la radio della Nbc, poi i magazzini della conserva di pomodoro, una spianata di mattone rosso ultimo baluardo della Chicago ottocentesca che cede il passo alla meravigliosa, tecnologica Chicago del presente e del futuro, che lei da primadonna quale è aveva già saputo anticipare richiamando una quantità di artisti di grido a disegnarne i palazzi. Ho poi scoperto che il primo grattacielo è nato qui, e non a New York, come tutti pensano e che la città si è conquistata l’appellativo della Firenze americana per la bellezza raffinata di certe piazze e per lo splendore estetico di certi edifici neoclassici. Poco distante c’è Oak Park e il mito di Frank Lloyd Wright, vale a dire il pellegrinaggio obbligato per gli aspiranti ingegneri e architetti. “Chicago è una città molto accogliente” – commenta Marco mentre l’attraversiamo sul battello sotto il sole alto – e old style”. Esatto, che poi io traduco old fashion, eh. La crociera ci permette di attraversare il fiume e vederlo confluire nel favoloso Lago, uno dei grandi vanti dei Chicagoans. Questo enorme specchio d’acqua e’ una citta’ anch’essa, riflessa nella prima, una dolce promessa per I navigatori che sognano viaggi all’altro capo del mondo, o un approdo sicuro dopo un bagno al largo, un ritorno ai comfort cittadini. Il Lakefront, infatti, e’ un panorama di incomparabile bellezza, una ondeggiante camminata che si estende per oltre venti chilometri da Chicago town a nord e sud, verso I distretti extraurbani a creare la grande Chicagoland. La terra dov’e’ nato Barack Obama, e prima ancora Abramo Lincoln, come ricordano la statua nella Old Town e il bellissimo Lincoln Park Zoo, da non perdere anche perche’ e’ uno dei pochi rimasti a ingresso gratuito pur con la varieta’ incredibile di fauna di cui dispone, ‘ nota anche per il distretto teatrale, tanto diversificato quanto largo poco piu’ di un fazzoletto. Qui al Chicago Theatre, quello dell’insegna verticale a lampioncini rossi, ci ha mosso I primi passi Frank Sinatra, insieme all’amico Sammy Davis Jr. Lo fotografo soltanto per il valore simbolico che ricopre e mi soffermo a pensare, in un angolo di marciapiede, quanta America sto guardando anche solo in quel quadratino dell’insegna. Oltre all’entertainment, qui tengono moltissimo allo sport. Ma una sorpresa che nessuno si aspettava all’inizio e’ la vittoria nell’hockey della Stanley Cup, da parte dei Blackhawks di Chicago. Vediamo il Navy Pier addobbato a festa per il 4 Luglio. Manca davvero poco e siamo in fibrillazione, come i quattro milioni di abitanti che vivono qui. Anche se non siamo americani, e’ impossibile non rimanere contagiati da un’atmosfera cosi’ coinvolgente, che racconta da sola il carattere americano molto piu’ dei libri di storia. Prima di partire per gli Stati Uniti, qui se ne stavano gia’ occupando: in piena crisi il sindaco Richard M. Daley aveva comunque garantito I Fuochi d’artificio in ogni angolo della citta’, a cominciare dai piu’ magnificenti, sul Lago. Tutta la citta’ li aspetta e tutta la nazione pure, visto che Chicago e’ un centro strategico per la politica e il potere. Lo sapevamo. E ogni minuto che passa e’ un avvicinarsi febbrile e inesorabile. Sapevamo anche questo. Per prepararci meglio all’evento, andiamo al Grant Park, quello famoso per aver ospitato il discorso di ringraziamento di Obama alla nazione che lo aveva eletto. Che emozioni indescrivibili a percorrerlo. Non potrebbe essere decisione migliore: sotto la grande ragnatela all’aperto che copre l’Auditorium, una meraviglia architettonica anch’essa, si tiene il concerto della Young Orchestra of Illinois. Intonano la Sinfonia del Nuovo Mondo di Dvorak. E’ la mattina del 3 Luglio 2010 e vi confesso, non ho potuto trattenere le lacrime. Il traffico e’ in tilt, giusto il tempo di percorrere la stupenda North Michigan Avenue, altrimenti detta Magnificent Mile, il salotto dei Chicagoans, per un salto veloce da Macy’s ad acquistare un orologio: e’ buono per il conto alla rovescia! La commessa simpaticissima e dallo slang inafferrabile ci sorride e ci parla in spagnolo – chissa’ perche’ pensano a noi in spagnolo, osserva Marco – ma soprattutto, ci regala utili consigli per non arrivare all’ultimo minuto allo show di quella sera. Lo stato d’allerta e’ al massimo, con grande spiegamento di forze dell’ordine.Il caldo e’ asfissiante e ci si mettono anche i mosquitos. Prendiamo posto in un cantuccio di prato sulla Northwestern Street, sul Lungolago. Scoccano le nove della sera ed eccoli i fuochi d’artificio piu’ grandi d’America, quelli che non badano a spese. Adulti e bambini gridacchiano, e anche noi. Sono veramente belli e scenografici, adeguati a una simile ricorrenza. Come una festa nella festa, il giorno dopo ci imbattiamo nel “Taste of Chicago”, una fiera gastronomica rinomata in tutto il Paese e oltre. Clima da bollino nero, mitigato dalla brezza del Lago, attraversiamo orde di visitatori che assaggiano di tutto e di qualsivoglia sapore, salato e dolce. Bocche che masticano salsicce piccanti, tacos, cibi thai, cucina peruviana, profumi della Camargue, fagiolini messicani e gelati italiani. Ma anche tanta verdura e frutta e quelle si’, signori, sono da assaggiare immantinente. Nettare di ananas e di arancia che ti esplode in gola e nel naso, cinque sensi in tripudio. A proposito di “Taste”, qui una vera istituzione e’ la Dish Pizza, quella da cinque cm di strato. Intendiamoci, e’ tutta un’altra cosa rispetto alla napoletana, anche se I nomi dei titolari, Gino’s e Giordano’s, sono partenopei. Buona si’, molto “tomatosa”, ma devi avere tanta fame. Risalendo il “Mag Mile” troviamo in una traversa il Drake Hotel, che ha ospitato Marilyn Monroe, oltre ad essere usato come set per “Mission Impossible”, quello con Jon Voight. Una patita di cinema come me non poteva scordarselo. Altro mio “patimento”, croce e delizia, e’ il cioccolato, e qui sfondiamo una porta aperta perche’ questa e’ la citta’ di Hershey, massimo produttore di tavolette. Gnam. Molte cose portano il nome di alimentari, come il Bean, la scultura di acciaio trasparente a forma di fagiolone, splendida calamita per l’album delle fotografie. Se avete il pollice verde o semplicemente vi piace la natura, inoltratevi nell’orto botanico nel cuore dell’immenso parco cittadino, un’eruzione di forme, profumi e colori esotici, fino alla “Crown Fountain” di Jaime Plensa, la lastra verticale che proietta l’immagine di teste coronate mentre la gente con nonchalanche ci fa la doccia sotto. Questo posto espande il suo mito oltre confine, se pensiamo che da qui si diparte la Route 66 e che residenti, uomini d’affari in viaggio domestico, commercianti e ristoratori hanno scoperto una nuova, autorevolissima moda da sfoggiare: Obama e l’orgoglio. Ci concediamo un pomeriggio in solitaria: io parto in infradito e lenti a contatto alla scoperta della parte Ovest. Marc prende un taxi verso nord, fuori dal centro abitato, alla ricerca di una tastiera. Sara’ una scoperta vicendevole molto importante. Di isolato in isolato, sempre tenendo La Salle Avenue, io scopriro’ quartieri residenziali semi – deserti, in prossimita’ di United Center, il tempio dei Chicago Bulls. Marc si trovera’ al cospetto di un’altra Chicago, piu’ spartana, semplice, intrigante, che dal portiere in uniforme nell’atrio sfuma nel cane sul pratino sintetico. Il punto di ritrovo e’ l’Art Institute of Chicago, lo splendido Museo famoso in tutto il mondo: costoditi all’interno ci sono collezioni di Surrealisti, Fiamminghi e un’ala contemporanea da perdere la testa. Alcuni indimenticabili Goya e Durer li ho visti qui dentro. Procediamo per la Sears Tower, la torre di avvistamento piu’ alta del Paese, per un po’ la piu’ alta del mondo. Beh, se volete vedere l’Illinois, il lago Michigan nella sua strepitosa ampiezza, Springfield e un pezzo del Wisconsin correteci subito. A me non bisognava ripeterlo due volte. E’ la prima cosa che cerco quando viaggio: un punto di vista che me ne apra altri mille. Uno dei rammarichi più grandi, proprio da mordersi le mani, e’ stato il mancato concerto degli U2 alla Soldier Field arena, causa caduta sulla schiena di Bono e annullamento totale del tour. Se ci penso. Avevamo I biglietti!!! Cosi’, per lenire un po’ la ferita, ma anche no, perche’ comunque ne vale la pena, siamo andati una sera nel club di Buddy Guy, che si trova dietro l’Hilton, location del film “Il Fuggitivo” di Andrew Davis, con Harrison Ford e Tommy Lee Jones. Era gia’ buio pesto e il quartiere non esattamente dei piu’ sicuri, tuttavia ci siamo guardati le spalle ed eccoci al “Legend’s”: una serata per dilettanti che si sfidano in jam session di mezzora ciascuna, alcuni notevolissimi e altri trascurabili. Ma il biglietto lo vale tutto, se ripensiamo alla gente che abbiamo incrociato. Donne in boa di struzzo, voci alla Aretha Franklin, o la loro copia sbiadita, e tipacci con sigaro e ghette, come Al Capone. Perche’ si’, signori, questa e’ la sua patria e quella degli Intoccabili. E allora, potevo rinunciare a una foto ritratto sulla celebre scalinata di Union Station? Eccomi qua. Ma dove sono Kevin Costner e la carrozzina che scivola sulle scale? Il souvenir che ho tenuto per ultimo e’ una mia perversione e si chiama American Girl Place. Apro il portone del palazzo che da’ su un isolato del Mag Mile e piombo in un altro mondo, ludico, fatato, caramelloso, parallelo, dove le bambine a stelle e strisce vivono in simbiosi e crescono assieme alle proprie bambole, assumendone i connotati e viceversa. Giuro che non ho mai visto niente di simile, e’ un fenomeno di massa che scatena il delirio organizzato di milioni di famiglie negli Usa. Sai quando entri, ma non sai quando e in quali condizioni uscirai. E con quante bambole e accessori nelle sporte. Perche’ non c’e’ niente da fare: gli americani ne sanno sempre una piu’ del diavolo.
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