Canada, la terra dei nativi
Riesco a trovare un valido volo, con la British Airways via Londra, che mi porti a Vancouver (il che non è facile vista la stagione).
Sono costretto, però , a partire da Milano che raggiungo da Lecce dopo una notte in treno. Alla fine conteggio, fra treno, voli e soste per le coincidenze, all’incirca 36 ore di viaggio (da Londra sono 9 ore e mezzo per Vancouver).
Nei giorni precedenti la partenza m’informo continuamente su internet delle condizioni climatiche in Canada: siamo a fine agosto e, purtroppo, considerato che siamo a fine estate, tutte le più pessimistiche previsioni si avverano. Infatti, si parla di freddo e pioggia per un bel po’ di giorni. La cosa non mi scoraggia, spero sempre in uno sbaglio delle previsioni: spesso accade e allora…
VANCOUVER, posta sulla costa ovest del Canada, nel British Columbia, con una popolazione di 554.000 abitanti circa (che raggiungono i 2 milioni se si considerano i sobborghi), è da diversi anni considerata la più vivibile città del mondo. Generalmente gode di uno dei climi più miti del Canada ma, come detto prima, la fortuna non è della mia parte e per tre giorni consecutivi una pioggia intensa si abbatte sulla città. La rabbia è tanta, giro in città comunque ma non ho il piacere di gustarmi a fondo la sua bellezza. Spesso mi rifugio nei grandi centri commerciali dove si può passare tranquillamente una mezza giornata girovagando tra gli innumerevoli negozi che li caratterizzano facendo su e giù tra scale mobili, fontane e lunghi corridoi.
In ogni modo Vancouver è formata da gradevoli grattacieli che svettano nello skyline, sullo sfondo montagne da brivido, e che si affacciano nella baia che io ritengo l’unico neo in quanto, al contrario di quanto avviene in altre città, funge solo da porto commerciale: un peccato perché l’orizzonte si presenta gradevole. La città è piena di vita, rilassante veramente a misura d’uomo e offre diverse distrazioni.
Alloggio a Gastown, il centro storico di Vancouver fondato nel 1867, che prende il nome non dal gas, come il nome farebbe intendere, ma da John Deighton detto “gassy Jack” per la sua mania di intrattenere la gente in piedi su una botte parlando per delle ore. A lui, a cui è dato il merito di avere costruito il primo bar della città, è dedicata una statua di bronzo posta nella piazza di questo quartiere. Gastown, nel 1890, divenne il punto di partenza per la corsa all’oro nel Klondike.
L’attrazione principale di questo storico quartiere è costituita dallo “STEAM CLOCK”, un curioso orologio il cui movimento, unico al mondo, è regolato dal vapore che sbuffa ogni 15 minuti. Il vapore è usato anche per riscaldare gli edifici vicini. Numerosi negozi di souvenir e di diversi ristoranti costituiscono le altre attrattive.
Uscendo dal quartiere si trova l’”Harbour centre tower” sicuramente l’edificio + alto di Vancouver (150m). Alla sua sommità si accede tramite un ascensore con le pareti in vetro, dall’alto la vista spazia a 360° . Come struttura la considero, però, abbastanza squallida. Un altro luogo da visitare è il CANADA PLACE, con il VANCOUVER CONVENTION AND EXHIBITION CENTRE, il WORLD TRADE CENTRE e il CN IMAX THEATRE nel quale mi rifugio durante uno dei momenti di pioggia più intensi. Peccato che capito nell’orario in cui trasmettono un film già da me visto, conseguenza logica schiaccio un bel pisolino (almeno sto al riparo dalla pioggia…) Nelle vicinanze si trova l’ufficio del turismo: da visitare. La cordialità è unica ed è, cosa importante, molto efficiente.
Sotto la pioggia insistente vado in giro, alle volte, senza una meta precisa: mi reco in prossimità del grande stadio coperto sede della locale squadra di baseball, della grande biblioteca comunale, visito lo SCIENZE WORLD, con il suo ALCAM OMNIMA THEATRE con filmati che ti coinvolgono a 360°.
Sempre a causa della pioggia rinuncio a visitare CHINATOWN, di cui ho letto buone referenze, ed il DR. SUN YAT-SEN CLASSICAL CHINESE GARDEN, il primo giardino del genere creato fuori della Cina.
Due paia di scarpe non mi bastano: non riesco a farle asciugare e, per la prima volta da che viaggio, quasi mi pento di essere partito da solo; nei momenti peggiori mi sarebbe piaciuto avere qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere.
Si prosegue. Il terzo giorno finalmente la pioggia diminuisce la sua intensità e ciò mi permette di puntare verso lo STANLEY PARK . Questo parco, con i suoi 1000 acri di superficie, con le sue tre spiagge, è considerato dai canadesi “la madre di tutti i parchi” ed è il più largo parco cittadino del nord America ed uno dei più belli del mondo. Il suo perimetro raggiunge la lunghezza di 10 km ed è il luogo favorito per passeggiare (22 km di sentieri) o correre in bici (su piste ciclabili ben segnate). Bella la vista sull’oceano. Nel parco, oltre al TOTEM POLES, una serie di copie di totem indiani (gli originali sono conservati all’interno del museo cittadino), vi è il VANCOUVER AQUARIUM MARINE SCIENCE CENTRE con centinaia di creature marine incluso dei Beluga. Decido di non visitarlo puntando all’acquario di Seattle credendo che questo sia più bello, ma questa è un’altra storia. Altre attrazioni fanno di questo parco uno dei luoghi sicuramente più interessanti di tutta Vancouver ed il posto ideale per rilassarsi. (ne avessimo di parchi cosi in Italia…).
Decido allora di affittare una bicicletta (almeno per un’ora visto il tempo sempre minaccioso…) e percorro in tutta la sua lunghezza, il perimetro del parco ma, come detto all’inizio, non è un momento fortunato: ricomincia a piovere anche se saltuariamente ed arrivo di corsa verso la conclusione del mio giro.
SEATTLE. – La mattina successiva parto con uno dei “mitici” bus della GREYHOUND, alla volta di Seattle: incredibile ma vero un sole splendido mi accompagna lungo questo breve tragitto il che mi fa ben sperare per i giorni seguenti. Sul bus dialogo, o almeno cerco di farlo con il mio inglese stentato, con una ragazza canadese così il tempo passa più velocemente.
Depositato il bagaglio nella stazione dei bus, vado alla ricerca di un alloggio. L’impresa non si presenta inizialmente facile e, dopo vari giri, finalmente trovo alloggio in un hotel posto nelle immediate vicinanze del PIKE PLACE MARKET, uno dei mercati più grandi e famosi d’America. L’albergo è gestito da gente di colore ma non ho remore nei loro confronti;l’accoglienza è buona. Mi sistemano al 7° piano che, onestamente, non sembra ben messo: lavori di restauro in corso sono più che evidenti.
Seattle, città di mezzo milione d’abitanti, la capitale tecnologica degli States, la città di Bill Gates e della sua Microsoft, dei Boing, della Nike ma, soprattutto, la città dove è nato il movimento dei NO GLOBAL: avevo un po’ di timore prima di arrivarci, ma subito comincia a piacermi. Città elegante, pulita e, cosa importante, tranquilla; anche la sera con un ottimo servizio di vigilanza lungo le sue strade. Una città con il fascino degli opposti: da una parte la baia stupenda e le verdi foreste, dall’altra l’inquietante deserto. Quando nel 1805 gli uomini di una spedizione militare si affacciarono oltre il “ Continental Divide”, lasciandosi alle spalle l’Idaho, furono attratti dai fiumi che rotolavano verso il pacifico. Uno di questi, il Clearwater, portava allo Snake che a sua volta era tributario del Columbia. Il vecchio mito del PASSAGGIO A NORD-OVEST resisteva al tempo ancora due secoli dopo l’affannosa ricerca della via delle spezie. I pionieri costruirono le canoe e raggiunsero la pianura fino al mare. Quasi mezzo secolo dopo, esattamente ad Alki Point, nasceva una città alla quale veniva dato curiosamente il nome di NEW YORK e poi di SEATTLE in onore del capo indiano CHIEF SEATTLE della tribù dei “Suquamish”.
Comincio la visita della città sotto un sole cocente (era ora…) dal già citato Pike Place Market: posto sulla parte alta della città è molto carino con i suoi tre livelli e la sua varietà di negozi e locali da ristoro. In un locale accetto la sfida di una ragazza che mi propone l’assaggio di un tipo di marmellata locale condita con il peperoncino. L’assaggio comincia da quella che ha il meno piccante, io insisto nell’assaggiare il più forte: alla fine rimane terrorizzata quando proponendomi quello che secondo lei era il peggiore, nota che io lo mangio senza alcun problema anzi lamentando la sua pochezza (la poverina non sa che io sono un cultore e, letteralmente, un divoratore di peperoncino…). Vado via lasciandola incredula…
In seguito dirigo la mia attenzione al SEATTLE CENTER dove è stato costruito lo SPACE NEEDLE una struttura alquanto futuristica che svetta nel cielo di Seattle e la cui sommità ricorda un disco volante. Ad un’altezza di 605 piedi vi è il ristorante girevole (a 360°), mentre a 520 piedi vi è “the observation deck”: per raggiungerlo l’ascensore impiega solo “43 secondi”, da qui la vista spazia su tutta Seattle, dal Puget Sound a Downtown, dal Lake Union al Mt. Rainier e dintorni. Da non perdere soprattutto all’imbrunire quando si accendono le luci della città rendendo lo spettacolo veramente suggestivo. Dalla sommità ho, se così si può dire, la fortuna di assistere ad un grave incidente stradale che coinvolge un’auto ed una moto con un pronto intervento dei soccorsi.
Nel Seattle center, effettivamente un grande parco, si trovano anche il MUSEO DELLA MUSICA, il PACIFIC SCIENCE CENTER, l’OPERA HOUSE ed altre attrazioni una delle quali, in particolare, voglio segnalare: una fontana tutta in metallo, dalla forma di una cupola, posta al centro di un incavo nel terreno, la cui caratteristica principale, oltre a permettere alla gente di rinfrescarsi, è quella di emettere, in determinati momenti, gli spruzzi dell’acqua a tempo di musica.
Il giorno seguente mi reco verso la parte bassa di Seattle, quella che costeggia il mare, dove si trovano numerosi e caratteristici negozi di souvenir e, tappa principale, l’acquario.
Più di 400 specie d’animali e piante acquatiche. In parte una delusione che mi fa pensare che, forse, avrei fatto meglio a scegliere l’acquario di Vancouver (ma quella era un’altra storia…).
Ciò che più mi attrae è uno strano animale messo in un contenitore cilindrico al centro di una sala, completamente isolato da tutto: l’aspetto di questo strano essere ricorda, anche nei colori, un ramoscello che galleggia trasportato dalle onde: il suo nome è LEAFY SEA DRAGON e si trova nelle acque australiane.
In seguito la mia attenzione è rivolta a PIONEER SQUARE, il luogo di nascita di Seattle, ricco di storia, charm e attrazioni, negozi vari e gallerie d’arte e antichità, ristoranti e altro ancora. Interessante Pioneer Place con i suoi totem indiani la cui posa risale al 1890 ed un monumento dedicato ai vigili del fuoco; il “Pioneer Building” fu votato, nel 1892, la migliore costruzione ad ovest di Chicago dall’American Institute of Architects.
Nelle immediate vicinanze è la “Smith Tower”, aperta il 4 luglio del 1914 e considerata la più alta costruzione fuori da Manhattan. Altri luoghi da visitare: il “Waterfall Park” ed il “Klondike Gold rush National Park”.
Amante della storia e delle tradizioni dei Pellerossa, m’imbarco su di un battello per un’escursione al TILLICUM VILLAGE, sulla Blake Island, la ricostruzione fedele, negli usi e costumi, di un tipico villaggio indiano del nord-ovest americano. Tillicum deriva dalla tradizione Chinook e significa “Popolo amico”.
Nel prezzo è compreso un delizioso buffet che comprende salmone affumicato alla maniera tradizionale indiana, insalate varie, pane indiano, patate ed un cioccolato un po’ particolare: il tutto da leccarsi i baffi (solo questa cena vale il prezzo pagato: 65$).
Dopo cena bellissima la messa in scena di uno spettacolo “DANCE ON THE WIND” che ripercorre la storia dei pellerossa fin dal loro arrivo in territorio americano con la nascita dei loro miti e delle loro leggende. Musica e abiti molto suggestivi. Dopo lo spettacolo si ha l’opportunità di osservare la costruzione delle maschere di legno e dei totem.
Passeggiando lungo le strade di Seattle ho potuto notare diverse statue, variamente dipinte, rappresentanti dei maiali: il loro significato mi sfugge e non riesco a trovare informazioni varie. L’ultimo giorno scambio qualche parola con una coppia di pellerossa provenienti dall’Alaska e che sono impegnati nella costruzione dei caratteristici DREAM CATCHERS che, successivamente, tenteranno di vendere ai turisti. Noto nelle loro parole un certo orgoglio nel ritenersi gli unici e veri “Americani” rivendicando che sono stati i primi a mettere piede in questo continente.
L’ultima sera, seduto lungo il mare, mi rilasso ammirando un indimenticabile tramonto rosso, di quelli che solo a queste latitudini è possibile ammirare: mai avrei voluto che finisse, mai avrei staccato lo sguardo, mi sembrava di essere in un sogno.
VICTORIA – Il mattino dopo parto, con un catamarano prenotato in anticipo, verso Victoria una cittadina di 326.000 abitanti circa che prende il nome dalla Regina Vittoria. Il suo clima è abbastanza mite, l’arrivo nella sua splendida baia mi fa subito innamorare di questa città. Per secoli, prima dell’arrivo dei capitani Cook e Vancouver, questa fu la terra dei primi nativi la cui ricca e vivace cultura influenza la vita di oggi.
Victoria fu fondata nel 1843 da James Douglas come un forte per la compagnia di pellicce inglese “Hudson Bay”. Alcuni degli edifici storici ricordano quell’epoca. La febbre dell’oro di fine 1800 lasciò la sua impronta quando centinaia di minatori attraversarono Victoria per dirigersi verso la “Fraser Valley” ed il “Klondike” alla ricerca dell’oro. Il tempo, dopo le bellissime giornate precedenti, ritorna incerto. Vado in giro per la città osservando i due edifici più importanti: il FAIRMONT EMPRESS ed il PALAZZO DEL PARLAMENTO che scopro anche essere aperto al pubblico.
Victoria si presenta come una città piacevole, mai caotica, pulita, semplice da visitare.
La sera il Palazzo del Parlamento è illuminato in maniera particolare: tutto il suo perimetro esterno, finestre comprese, è circondato da innumerevoli luci che ricordano i nostri addobbi natalizi. Prenoto, nelle vicinanze del porto, l’escursione per il giorno dopo per andare a vedere le orche nell’oceano: scelgo di farlo con lo “Zodiac”, un gommone, tipo quelli che usano gli albanesi per sbarcare sulle nostre coste, veramente veloce.
Il mattino dopo il tempo è coperto e cresce un la rabbia ma la speranza è quella di un miglioramento. Indossate le tute per proteggersi dal freddo, date in dotazione dall’organizzazione stessa, si parte verso il largo: usciti fuori della baia, la visibilità non supera i 20 – 30 metri una folta nebbia ci circonda e, sinceramente, ci vengono un po’ i brividi. L’alta velocità rende la tuta quasi inefficace almeno per me perchè, sotto, indosso una semplice magliettina di cotone.
Dopo aver evitato in più di un’occasione e all’ultimo momento residui vari galleggianti, durante la nostra corsa udiamo una sirena ed, improvvisamente, vediamo uscire dalla fitta nebbia il catamarano che fa spola con Seattle: ancora brividi. Il nostro conducente ci tranquillizza e ci segnala che stiamo per arrivare nel punto d’avvistamento; ci raccomanda, una volta arrivati in prossimità delle orche di non agitarci e non fare rumore sul gommone in quanto questi animali se disturbati nel loro habitat, possono diventare aggressivi. Per chi non lo sapesse le orche sono gli unici animali che osano attaccare il grande squalo bianco. La cosa non è che faccia stare tranquilli… Innumerevoli varie imbarcazioni, piene d’altri turisti, sono sul posto. Lo spettacolo offerto dalle orche è impressionante, la loro mole è inconfondibile, la loro pinna dorsale svetta fuori dalle acque come un segnale d’avvertimento, fuoriescono dalle acque in tutta la loro grandezza per poi rituffarsi e sparire per qualche minuto nelle profondità marine.
Noi ci si sposta in vari punti per non perdere il contatto con le orche guidati, in questo, da un sonar in dotazione al gommone e tramite contatto radio con altre imbarcazioni. Gruppi di 3 – 5 orche e anche più, padrone incontrastate dell’ambiente. Intorno a noi il silenzio rispettoso verso questi giganti, rotto soltanto da qualche imbarcazione che ogni tanto si sposta per avvicinarsi di più. All’improvviso un’orca emerge dalle acque, per un attimo rimaniamo con il fiato sospeso, un brivido percorre le nostre schiene, i nostri cuori sono in palpitazione, restiamo immobili come consigliatoci dalla guida: possente ed elegante nello stesso tempo, è questa l’impressione che l’orca suscita in tutti noi mentre sfiora la nostra imbarcazione.
Dopo aver visto, due anni prima, le balene nel Golfo del S. Lorenzo, nel Quebec, un altro stupefacente spettacolo della natura si sta svolgendo sotto i miei occhi; sono soddisfatto, estasiato, l’adrenalina è alle stelle, non c’è nulla di più che io desideri e non fa niente se la videocamera e la macchina fotografica vanno in tilt per l’alto grado d’umidità. La prima recupera quasi subito, la seconda subisce un guasto al sensore della messa a fuoco automatica, un danno non da poco.
E’ arrivato il momento di tornare indietro, un’ultima occhiata e, mestamente, diamo l’addio a quel luogo che ci ha dato tanta soddisfazione.
All’arrivo in città il clima è completamente diverso, uno splendido sole rende il tutto più piacevole, come a continuare il filo della mattinata appena trascorsa. Incontro una coppia d’italiani con i quali rimango d’accordo per rivedersi per l’ora di cena. Nell’attesa trascorro il pomeriggio passeggiando lungo la baia, mangiando delle grosse more trovate in alcuni cespugli e rilassandomi stendendomi per qualche minuto sotto il sole.
La sera, dopo aver cenato in un localino tipico lungo il porto, insieme ai due ragazzi italiani che avevano affittato un’auto nei giorni precedenti, mi reco a visitare il CRAIGDARROCH CASTLE, un castello fatto costruire dal barone “Robert Dunsmuir” uno dei più influenti uomini del British Columbia di fine 1800. Il barone morì nel 1889, qualche mese prima che fosse completata la costruzione del castello, lasciò tutti i suoi averi a sua moglie Joan che risedette nel castello sino alla sua morte avvenuta nel 1908. Il castello consta di 4 piani e 39 stanze; dalla torre del castello, a cui si arriva dopo aver percorso 87 gradini, si ha una bellissima veduta su Victoria, lo stretto di “Juan de Fuca” e “the Olympic Mountains”.
Il mattino parto con il solito bus con direzione PORT HARDY, la punta + settentrionale della Vancouver Island. Il viaggio è lunghissimo, circa 7 ore, arriverò sul posto in tarda serata prenoto, per questo motivo, una stanza in un B&B. Lungo il cammino il bus attraversa diversi paesini che si affacciano sul mare e dall’aspetto piacevole: NANAIMO, QUALICUM BEACH, CAMPBELL RIVER e altri. Tutto ciò mi fa ancora una volta rammaricare del fatto di viaggiare da solo e, quindi, di non poter affittare un’auto per andare dove si vuole e vedere le cose in maniera diversa. Ad un certo punto il bus ferma la sua corsa in una stazione di servizio completamente immersa nel verde della foresta, è quasi sera e siamo rimasti in pochi; nell’aria un intenso profumo di vegetazione inebria i nostri sensi, una sensazione di piacevole benessere come raramente ho avuto modo di provare. All’arrivo a Port Hardy il proprietario del B&B, nonostante l’ora tarda(23,30 circa), viene a prendermi con la propria auto dal terminal dei bus. Arrivati a casa mi è offerta una piccola cena durante la quale scambiamo qualche parola. Persone veramente cordialissime e disponibilissime che mi preparano una colazione, da portare via il mattino dopo, a base di frutta. Chiedo se in paese c’è qualcosa da vedere, ma mi consigliano di ripartire l’indomani. Mi prenotano il taxi per andare al porto (l’imbarco è alle 7.00), fatta una doccia si va a letto. Nel frattempo arriva ospite una ragazza canadese che riparte con me il mattino dopo. L’obiettivo è quello di prendere il traghetto ed affrontare quello che i canadesi chiamano INSIDE PASSAGE, un viaggio che conduce a PRINCE RUPERT un paesino a pochi km dalla linea di confine con l’Alaska attraverso una serie di fiordi e isolette che caratterizzano quel tratto di costa canadese, facendo tappa anche qui in alcuni paesini dal nome, alle volte, curioso tipo BELLA BELLA, BELLA COOLA. Il mattino si presenta alquanto piovoso (ecco ritorna l’incubo della pioggia dei primi giorni…) e sia io che Karen (questo è il nome della ragazza canadese) prendiamo il taxi che ci porta al punto d’imbarco dove incontriamo molta gente in attesa. Notiamo sulla cima di un albero un’imponente aquila reale che sembra vigilare su quello che sta avvenendo.
Purtroppo tutta l’attraversata, in totale 15 ore circa, è caratterizzata dalla pioggia incessante che rende il tutto più tedioso privandoci della possibilità di ammirare quello che sicuramente, in condizioni climatiche migliori, sarebbe stato un panorama alquanto attraente (anche se a chi come me ha già visto i fiordi norvegesi questi sembrano poca cosa). Sul traghetto, oltre a Karen, mi tengono compagnia altre due persone: Anna, una ragazza austriaca molto giovane, ed Helen, una signora di Parigi, entrambe viaggiatrici solitarie come me. Con loro, senza le quali il viaggio sarebbe stato veramente di una noia incredibile, si ride e si scherza, si ascolta musica, si mangia. Una canzone in particolare, molto gradevole, suonata al piano bar, mi rimane impressa: AIN’T NO SUNSHINE, un brano famoso di cui ignoro l’autore.
Nella pioggia, in lontananza, abbiamo la fortuna di notare un’enorme balena.
Arrivati a Prince Rupert, l’unico a non avere un alloggio sono io ed allora Helen mi propone di andare a dormire con lei chiedendo all’albergo di poter cambiare la sua stanza singola in una doppia. Il gruppo in questo momento si sfalda e di questo siamo un po’ rammaricati.
Il mattino dopo mi alzo presto e, salutato Helen, prendo il mio bagaglio e mi dirigo verso il terminal della Greyhound da dove parto per un lungo viaggio in direzione di JASPER sulle ROCKY MOUNTAINS. Anche oggi il tempo è nuvoloso ma non piove. Il viaggio è molto lungo, si devono percorrere circa 1.100 km, ma il paesaggio tutto intorno è bellissimo.
Arrivo nelle prime ore del mattino seguente e, forse con un po’ d’incoscienza, visto l’orario (7.00 circa), comincio a telefonare in qualche B&B per trovare una stanza. Sembra esserci il pienone ed essendo fine settimana la cosa non mi sorprende. Ma ciò che più mi turba il quel momento è che, improvvisamente, la carta di credito non ne vuol sapere più di funzionare: non ho una spiegazione logica per questo anche se ad un certo punto mi viene il dubbio di aver esaurito il credito disponibile cosa che, con un successivo ed attento calcolo, si rivela infondata, spero allora che il problema si risolva in breve tempo, penso ad una momentanea interruzione della linea. Ho pochi soldi contanti che mi bastano solo per tornare a Vancouver, ma manca ancora un’altra settimana… Più tardi vado in giro per il paese e, finalmente, trovo una stanza libera. Nel momento in cui vado a pagare in anticipo la C.C. Continua a non funzionare, inutilmente cerco di spiegare alla padrona di casa che sino alla sera precedente tutto era OK. Chiedo alla sig.Ra di andare via quando, fortunatamente, all’improvviso, viene in mio soccorso una vicina di casa che si rileva essere un’italiana d’origine calabrese emigrata in Canada: è la mia salvezza perché mi fa da garante. Resto impegnandomi a risolvere la questione. Ma come detto è sabato, le banche sono chiuse, così come il lunedì successivo per una festa locale…Il tutto sembra giocare a mio sfavore, in più ci si mette il tempo: riprende a diluviare con intensità bloccandomi letteralmente nella mia stanza.
JASPER – Dopo secoli di sporadiche visite da parte dei popoli nativi, nel 1811 David Thompson segnò l’Athabasca Pass sulla mappa e Jasper divenne subito un punto importante per il commercio delle pelli. Gli esploratori che seguirono scoprirono ben presto le bellezze della valle. I turisti accorsero ad ammirare la sua aspra bellezza: esplorarono le remote regioni dell’Athabasca e seguirono i sentieri indiani sino alle rive del “Maligne Lake”.
Nel 1907 il governo istituì lo JASPER PARKS ACT e nel 1911 il primo treno della “Grand Trunk Pacific” arrivò nella stazione di Jasper. Nel 1913 fu costruita la prima abitazione del soprintendente al parco. Negli anni venti la popolazione continuò a crescere, ma la valle era raggiungibile solo a cavallo o con il treno. Nel 1930 il National Parks Act era superato e Jasper divenne ufficialmente parco nazionale. Una volta costruita la strada fu più facile per la popolazione raggiungere e godere la maestosità delle montagne.
Oggi il parco nazionale di Jasper è il più grande delle Rocky Mountains canadesi con una superficie di 10.878 kmq e una delle più larghe aree naturali del Nord America: brillanti ghiacciai, abbondante vita selvaggia, laghi cristallini, cascate tuonanti, profondi canyon e foreste sempreverdi. La cittadina di Jasper, che sorge ad un’altezza di 1.064 m slm, ha una popolazione di circa 5.400 abitanti ed è visitata, mediamente, da 3 milioni di persone l’anno.
Il primo giorno trascorre, tra un diluvio e l’altro, in una noia infinita.
Il mattino seguente il tempo sembra essere migliore, facendo leva su questo mi dirigo verso il locale ufficio del turismo e chiedo cosa può fare un viaggiatore solitario che, come me, non ha un’auto per girare liberamente o non è in compagnia (perché alcuni tour operator locali garantiscono le escursioni solo a chi viaggia in coppia…): mi dicono che ci sono possibili escursioni da fare con dei mezzi locale, tipo taxi collettivi, che portano a destinazione facendo pagare una certa somma in base alla distanza del luogo da visitare.
Decido allora di andare verso il MALIGNE LAKE. Situato nella maestosa “Maligne Valley”, questo splendido lago è il più grande e il più profondo (97 m) delle montagne rocciose canadesi ed il secondo più largo del mondo alimentato da un ghiacciaio che si estende per 22 km. Rinomata per i suoi scenari e la pesca, quest’area offre eccezionali opportunità per gli scalatori. E’ impossibile campeggiare o soggiornare all’interno del parco, ma si possono fare escursioni sul lago, affittare barche, percorrere sentieri ed usufruire di un servizio ristorante.
Il tempo migliora ma l’aria rimane frizzante, bisogna perciò indossare una giacca per coprirsi.
Tutto intorno il paesaggio è stupendo: imponenti montagne ricoperte da rigogliose ed intricate foreste circondano il lago, decido di incamminarmi lungo le sue sponde incontrando poca gente che ha deciso di seguire lo stesso itinerario, forse la maggioranza preferisce la gita in battello. Ogni tanto mi addentro nella foresta senza però mai perdere di vista il sentiero principale: non vorrei perdermi. L’acqua del lago è di un azzurro intenso, le cime più alte delle montagne sono ricoperte di neve, in lontana si può osservare il ghiacciaio; sul lago alcuni pescatori, con le loro caratteristiche canoe e i loro copricapo, fanno venire in mente le immagini tante volte viste nei film. Dopo aver fatto un bel po’ di strada sempre più solingo, decido, anche per motivi di tempo, di tornare indietro per dirigermi verso quello che una cartina presa sul posto indica con il nome di MOOSE LAKE. Già il nome mi fa intuire e sperare in qualcosa (moose = alce).
M’incammino in un piccolo sentiero che si addentra sempre più nella foresta, all’inizio di questo un cartello indica di non allontanarsi dalla via principale per evitare il contatto con gli alci che, se disturbati nel loro ambiente, possono essere molto pericolosi considerata anche la loro mole. Lungo il cammino incontro una sola persona, una ragazza, che mi dice che il lago dista ancora una 15 di minuti, poi nessun altro. Intorno a me un silenzio irreale interrotto solo dallo scricchiolare degli alberi che crea un’atmosfera da brivido: più di una volta mi fermo per guardare verso il luogo da dove sembrano provenire i rumori per scoprire l’eventuale presenza di animali. Arrivo finalmente al Moose Lake: meraviglia! Sul posto due ragazzi in assoluto silenzio contemplano un alce che, immerso nell’acqua, tranquillamente si occupa del suo pranzo. Mi avvicino lentamente per non creare disturbo e rimango in contemplazione. Quando ho deciso di partire per il Canada, ho sognato di poter osservare la natura selvaggia: ed ecco che il sogno è diventato realtà, dopo le orche nell’oceano, un alce nella foresta. A questo punto potevo anche considerare il viaggio terminato, niente poteva più meravigliarmi.
Tornato indietro al punto di partenza, aspetto il taxi e mi faccio condurre verso il MALIGNE CANYON. Questo canyon è formato dal “Maligne River” che si tuffa in una profondità di 23 m in una gola di pietra calcarea. Un sentiero ben indicato e 6 ponti, provvedono a far godere una spettacolare veduta sul canyon.
La serata a Jasper scorre tranquilla ospite della famiglia di italiani conosciuta il giorno prima in occasione del mio arrivo al B&B.
Ultimo giorno: diluvia nuovamente, non ne posso più! Tutta la mattinata scorre inutile tra un’imprecazione e l’altra. Finalmente il pomeriggio un po’ di sole fa capolino dietro le nubi, ciò mi permette, anche se è un po’ tardi, di prendere un altro taxi e andare verso il PYRAMID LAKE. Niente a che vedere con il lago visto il giorno precedente, rimano deluso e, considerate anche le non buone condizioni climatiche, decido di tornare quasi subito indietro. Poco prima di arrivare a Jasper, l’autista mi fa notare un cumulo di gente a bordo strada e poi, nella radura antistante, un enorme alce dalle corna poderose, intento nel suo pasto. Chiedo all’autista di fermarsi per scattare qualche foto. Scendo dall’auto ma mi comporto un po’ maldestramente: mi addentro, infatti, per qualche metro nella radura facendo un po’ di rumore e provocando la reazione dell’alce. Un attimo di silenzio, l’alce annusa l’aria, si osserva intorno, e, improvvisamente, sembra dirigersi verso di noi. Corriamo per metterci al riparo quando notiamo che l’alce, per nostra fortuna, prende un’altra direzione. Qualche altra foto e via verso Jasper. La sera ripenso ancora a tutto quello che mi è capitato.
Parto all’una e trenta di notte, ancora con il bus, che risulta essere sempre il mezzo più economico, in direzione di Vancouver, ( 1200 km circa da percorrere) ma, oramai, sono al capolinea di questo lungo e, alle volte, estenuante viaggio. Finalmente ho la possibilità di vedere questa città sotto un sole meraviglioso. Giro per il centro, ne approfitto per comprare qualche souvenir (ma che prezzi!), faccio il giro del perimetro dello Stanley Park (ricordo 10 km): lo scenario è incantevole, posso godermi un po’ di relax. L’ultima fatica che mi concedo è di andare a vedere il CAPILANO SUSPENSION BRIDGE, a dieci muti dalla città, il più grande ponte sospeso del mondo, lungo 137 m con un’altezza sul “Capilano River Canyon” di 70 m. E’ stato più di un secolo fa che George Grant Mackay scoprì il luogo dove oggi sorge il ponte. Impressionato dalla bellezza del luogo costruì una casetta per se e sua moglie. In seguito, con l’aiuto degli indiani, pose le prime assi di legno per la costruzione del futuro ponte. Nel 1930 furono posti nelle vicinanze alcuni totem indiani che sono, ancora oggi, nella stessa posizione di allora. Il nome attuale fu dato in onore di “Mary Capilano” un’indiana che usava vestirsi in abiti tipici dei bianchi della west-coast. La costruzione attuale risale al 1956. Intorno al ponte si può osservare una bellissima foresta pluviale con alberi secolari, un elegante giardino pieno di fiori e assistere a danze tipiche indiane alla “Big House Native Carving Centre”.
L’ultimo giorno il tempo ritorna a farsi minaccioso, è il 6 settembre 2001, fa freddo, ma ormai non ha più importanza. Vado all’aeroporto e aspetto il volo che mi riporterà a casa.
Un viaggio, a ripensarci, molto intenso fisicamente (ho fatto un giro di circa 5.000 km) che mentalmente (a causa delle cattive condizioni climatiche spesso incontrate: 8 gg. Di pioggia su 16), ma, nello stesso tempo ricco di soddisfazioni che hanno toccato il culmine, come già detto, durante l’avvistamento delle orche e dell’alce. Potessi tornare indietro cambierei qualcosa, soprattutto la scelta del periodo: fine agosto non è certo l’ideale per recarvisi . Tralascerei anche alcune cose come l’Inside Passage, molto deludente, le montagne rocciose sono meravigliose, da lasciarti a bocca aperta, avrei fatto meglio a scegliere di visitare qualche località in Alaska. Comunque lo consiglio a tutti, l’ideale per una vacanza all’insegna del relax. Buon viaggio.