Campagna di appoggio umano
Esco dall’aeroporto insieme ai nostri amici africani che ci erano venuti a prendere, prendiamo un taxi e mi ritrovo in una città quasi completamente buia. Le uniche luci sono le lampade a gas delle bancarelle dislocate lungo le strade e i fari delle macchine.
La mattina seguente vedo il vero volto dell’Africa: strade sterrate, bancarelle ovunque dove si vende di tutto, bambini con grandi occhi sorridenti che al nostro passare (dei bianchi) intonavano una canzoncina: “yovo, yovo, comment ça va? ça va bien merci”, che strillavano sempre più se non gli rispondevi “merci” (bianco, bianco, come stai? stai bene grazie).
Si presenta il momento di prendere un taxi, ed è diverso dall’affittarlo: prendere un taxi vuol dire che altre persone già sono sopra e altre ne saliranno fino ad arrivare a 6/7. Come funziona? Semplice il taxista si accosta in continuazione al bordo della strada e suona il clacson per chiedere alle persone se devono salire. Affittare il taxi vuol dire fermarlo, chiedere quanto vuole per andare in un posto preciso, e contrattare.
Ma la cosa più faticosa ancora è quando si deve partire per un villaggio: sul bordo della strada aspetti un pulmino di massimo 10 posti dove però salgono il triplo delle persone. Stesso metodo l’autista si avvicina al bordo e suona il clacson per far salire la gente. Si parte per il villaggio “Kpele Atime” che si trova a circa 20 minuti di strada da Kpalime (seconda città del Togo per numero di abitanti). Siamo partiti da circa 10 minuti e il pulmino si ferma, l’autista scende e apparentemente non si riesce a capire perché, ma parlando con uno dei nostri amici africani capiamo. L’autista è andato da un militare, che se ne sta tranquillo sotto un albero, e gli da 1000 fcfa (1,5 € circa), allora io domando perché, e il mio amico mi dice che è per evitare di pagare di più se quel militare gli facesse i controlli. Anche se è tutto in regola il militare, sicuramente, troverebbe qualcosa che non va e gli farebbe la multa.
Facciamo altri 20 minuti di strada e incontriamo dei tronchi d’albero che bloccano il passaggio, il pulmino si ferma noi scendiamo perché il pulmino deve passare vuoto, e noi percorriamo quella stessa strada a piedi, è un posto di blocco.
Di questi posti di blocco ne troveremo vari lungo la strada per il villaggio.
Finalmente arriviamo al villaggio sono circa le 17.30 sta facendo buio e già sappiamo che non avremmo la luce. Ci sistemiamo nella casa che ci hanno gentilmente prestato, ci facciamo una doccia, con acqua di pozzo, e ci andiamo a fare una passeggiata nel villaggio.
Era un’atmosfera fiabesca, il cielo non del tutto buio e pieno di stelle, in lontananza casette di mattoni, appena, appena illuminate da qualche lampada a petrolio e tante lucciole che ci seguivano accendendosi e spegnendosi.
E’ un mondo totalmente diverso dal nostro, soprattutto quando arrivi nel villaggio, sembra che sei entrato nella macchina del tempo e sei andato indietro di quasi un secolo. Sono tante le emozioni che si provano, quando stai lì e vivi tutti i giorni insieme a loro. Ti indigni quando vedi le donne ancora piegate in due a lavare a mano i panni o a spazzare, ti indigni quando vedi che una madre mette a dormire suo figlio perché non sa cosa dargli da mangiare. Ti emozioni quando vedi gente che non ha nulla (in senso di benessere materiale) ed è molto più allegra e disponibile di noi. Ti emozioni, quando vedi che con poco creano molto. Nonostante la loro situazione, lì sono ancora molto vivi valori come la solidarietà e la fratellanza.
Ho scelto di andare in Africa perché credo che ci sia bisogno di aiutarli a uscir fuori da quella situazione. E credo che non basti solo andare lì e portargli qualcosa, questo può aiutare sì, ma poche persone e per poco tempo… E continuerebbe a creare dipendenza. Credo invece che sia importante aiutarli ad autorganizzarsi a costruire un loro futuro che non sia dipendente dall’Occidente.