Cambogia-Vietnam: il richiamo dell’Oriente
E’ l’inebriante e piacevolmente abitudinaria attesa del viaggio.
Anche quest’anno i compagni di avventura sono degli anonimi nomi elencati in una mail. Le aspettative invece sono ben definite: studiate, sognate, calcolate…con margine di errore però, per lasciare un ampio varco alla sorpresa di sorprendermi e a colore, calore, odori, ardori, colture, culture, empatia, afasia, sorrisi, sognanti – occhi di travolgermi: ecco l’attesa più grande, che fleggo nella lista delle cose da mettere nello zaino. Questo, di indumenti più meno utili/inutili, è già pieno da sé: il kit dei 18 giorni di spensierata concessione ed inelegante comodità.
Visto che i bagagli arriveranno solo dopo una settimana va da sé la fiera dell’originalità nel vestiario che ne seguirà…
La casualità, o la mancanza di alternative possibili, mi hanno portato a designare nuovamente l’Oriente quale meta di esperienza. Conosco buona parte di ciò che mi aspetta: calore appiccicaticcio sedato da improvvisi e temporaneamente cospicui acquazzoni; diffidenti zanzare potenzialmente malariche e in quanto tali ancor più irritanti del noto; noodels fritti, piuttosto che pesce fitto, anziché verdure fritte, casomai pollo fritto…sempre che non mi faccia tentare dalle zuppe… Emm …. Ma l’aurea religiosa, la viva curiosità dei bimbi, la vegetazione avvolgente sono impagabili. A questo avrei aggiunto nuove magiche rovine che raccontano storie incise su loro stesse, volti segnati da un passato da cui si rifugge, a volte si nega, che è una pagina di storia necessariamente voltata. Cambogia – Vietnam: un cammino di cultura impagabile.
E’ con un culturalmente avido patimento che volo attraverso i 6 fusi orari che mi separano da Siem Rep
Cambogia è una sorpresa sotto diversi punti di vista: nei pressi del sito la paura delle mine antiuomo è scansata dalla flotta di genti che invadono gli spazi archeologici; tra l’arretratezza della popolazione fanno capolino negozi in cui: Nivea… C’è, l’Oreal… C’è, Colgate…c’è…c’è anche il liquido per le lenti!!! in sostituzione del mio che nel frattempo è in un bagaglio diretto in Cina. Mutande? No, quelle non c’è proprio verso di trovarle.
Trascorriamo i primi giorni ad Angkor: la magnificenza. Nonostante abbia già visitato altri siti nel passato l’ancestrale splendore assorbito dai mattoni, dalle pietre arenarie e dalla laterite che ergono i templi Khmer, non ha paragoni: meritano più dedizione di quanto il tempo conceda questi libri di pietra in cui simboli religiosi decorano dei ciottoli, alcuni bassorilievi narrano di vita campestre, altri murales magistralmente scolpiti riassumono la ferocia dei guerriglieri, il tutto impreziosito da continui richiami alle divinità indù, a protezione di tutto; nel frattempo Buddah, dall’alto, sembra il narratore e tu non puoi che inchinarti a tanta rappresentazione, e ne sei costretta poiché il salire le gradinate della piramide, così irte , ti costringe ad una genuflessione che, quanto meno involontaria, è d’obbligo ai piedi del maestro che tanta illuminazione ha elargito. D’altra parte non posso fare altrimenti poiché il mio corso di “diventare Buddah in cinque settimane”1,non mi ha ridotta abbastanza Buddana da rendermi pari a colui che ha rinunciato a tanto per propinare ai devoti le “Quattro nobili verità”. Così, dopo aver idolatrato uno dei dieci avataras (forme) in cui si può manifestare il dio protettore dalle quattro braccia; riconoscendo ormai con facilità i linga, rispettando i leoni guardiani, fotografando i gopura, i devata, le danzanti asparas, i nagas… Non manca, in linea con la principale tradizione buddista, l’accensione di un incenso, a Nandi (dietro suggerimento di madre e figlia indiane che ce ne hanno indicato l’utilità) …perchè faccia sopraggiungere un messaggio a Visnu, o Shiva, semmai Brama – non mi è ancora chiaro: “i nostro bagagli grazie, con rispetto, ossequi”.
Le note degli strumenti suonati dai musicanti mutilati dalle mine, in cerca di supporto economico, è tanto mesto da vedere, quanto una colonna sonora avvolgente e desiderata.
Su tutti questi preziosi ruderi che i Khmer Rossi hanno lasciato in balia degli eventi, troppo impegnati a sostenere le “urla nel silenzio”2, imponente e divoratrice la giungla ha avuto il sopravvento o forse, a modo suo, ha valuto salvare il possibile, raccogliendo e rinchiudendo tra le proprie poderose radici le dimore degli dei: da qui Tha Prohm, uno spettacolo innaturale della natura.
Al solito la contemplazione è spesso interrotta da bimbi festanti che, da miglior costume, dopo una piccola esercitazione di inglese, lesson number one – “What’s your name? Have you got brothers?” propinano braccialettini, sciarpe, guide in inglese..figuriamoci, il primo giorno…: da miglior costumanza non resisto e la prima borsa, al probabile estinto bagaglio, si è già aggiunta. “One dollar” sarà l’altra colonna sonora delle nostre vacanze cambogiane.
Lasciate le rovine, ci regaliamo una mattinata a spiare la vita nei villaggi sorti attorno al Tonlè Lake, dove impartiamo ai piccoli scolari della zona una breve lezione di italiano, con tanto di maestro che prende appunti. La scuola è une palafitta naturalmente
Un lungo viaggio con autobus di linea ci porta a Phnom Pehn: sarà il cielo plumbeo, o la visita che ci aspetta, ma un velo di tristezza accoglie il nostro entrare in città. Un tempo una scuola, echeggiante di risate di bimbi dagli occhi profondamente scuri: era stata spogliata di tanta spensieratezza poichè tutti furono trasferiti nelle campagne, per lavorare per il bene della comunità e ripartire dall’anno zero, in cui il Paese sarebbe rinato sotto il segno dell’eguaglianza; sempre che tu non fossi un professore, un intellettuale, o portassi gli occhiali tipici di chi ha letto e si è fatto una cultura e in quanto tale probabile sovvertitore – nelle zone rurali non saresti mai riuscito ad arrivare. A nulla sarebbero valse le lacrime: piangere era un chiaro segno di infelicità e quindi di non approvazione al regime, il risultato era il medesimo. Oggi museo: in ricordo delle persone scomparse per mano del Fratello numero 1 e dei suoi seguaci, incapaci di uscire da un circolo di sospetti, spesso indotti dalle predizioni di astrologi, che hanno portato ad uccidere i propri fratelli, parenti, amici con torture i cui disegni, piuttosto che effettivi resti, sono raccolti in queste stanze dove gli occhi impotenti delle vittime osservano la tua reazione, da quelle foto che riempiono, tante sono, le pareti. All’epoca, in un’altra situazione, qualcuno si chiese “se questo è un uomo”; ora alcuni risultati sono evidenti: volti deturpati, anziché corpi privi di qualche arto, pelli rovinate da acidi, mendicano alle porte del museo. Toccante ma obbligatorio. “I fantasmi”3 di Tiziano sono protagonisti inevitabili di un percorso cambogiano.
Ne è segue una visita al palazzo reale, prezioso ma nulla a che vedere con quello di Bangkok, ad esempio.
Arriva il tempo di lasciare le terre Cambogiane che tanto ancora ci incuriosiscono e prendiamo un’imbarcazione che lungo il Mekong ci condurrà al confine con il Vietnam: solo nominarlo non crea già un’area di avventura elettrizzante? Meee-kong.
Dopo aver ottenuti i visti presso una dogana lagunare proseguiamo la nostra crociera, con improbabile imbarcadero: bufali alla ricerca di refrigerio, attorniati da bimbi all’ora del bagnetto, serpenti acquatici non propriamente applauditi ed un verde brillante, non sotto i raggi del sole però, poichè sbarchiamo a Chau Dòc accompagnati da un temporale che temevamo ci rendesse naufraghi.
Saigon allora, Ho Chi Min city oggi: un’altra tappa tra le pagine di un libro di storia che non avevo mai studiato.
Piacevole ma non imperdibile il mercato acquatico, cosi come ancor meno lo è il Bwhn Thahn Market; raccomandabili le lezioni di ballo serali al Tao Dan Park ma obbligatoriamente il vero allenamento è lo schivare l’ondata di motorini che ti travolgono, ti assordano, ti clacsano, sempre che tu trovi il coraggio di attraversare la strada: non temete, non si fermeranno ma magistralmente vi schiveranno… Quanto meno te lo auguri fino all’ultimo giorno. Ogni semaforo rosso sembra la partenza di una gara motociclistica…
Interessanti i tunnel di Cu Chi: nessuno di noi è tanto esile da riuscire a infilarsi in questi buchi e appositamente hanno allargato molte delle gallerie per permettere la visita agli stranieri; d’altra parte questa è stata anche la loro salvezza dai soldati americani, al tempo, semmai li avessero scovati. Claustrofobico: come abbiano resistito così a lungo in quella città sotterranea è ammirevole quanto assurdo. La rigogliosa foresta è spesso deturpata dalle voragini lasciate dalle bombe e in diversi angoli sono stati creati dei mini musei all’aria aperta dimostranti le trappole o la vita dei soldati, con buona partecipazione del popolo femminile, distinguibile anche attraverso le divise nere da quello maschile, poichè le loro erano verdi. Solo al ritorno a casa farò mio quanto la storia si ripeti in ogni angolo del mondo: tanto erano coraggiose le donne soldato nel difendere il proprio territorio, quanto era la violenza sessuale il metodo per indurle a fare la spia, a tradire i compagni, una volta catturate e quando la risposta era un diniego, la morte poteva arrivare anche con un mini razzo infilato nelle parti intime e lasciato bruciare4… Quelle farfalle sul Mekong…5
E’ una visita molto riflessiva: così mentre gli adulti del gruppo annoverano come i telegiornali all’epoca narrassero l’entrata delle truppe a Saigon, i più giovani menzionano Forrest Gump, rimuginando però su quanto ne sappiamo poco di una guerra non molto lontana, dal punto di vista temporale.
Una corsa oltre i limiti di velocità (ben 50 km orari), condotta dal nostro coraggioso e intraprendente autista, ci permette di arrivare in tempo a Thay Ninh, nella cui chiesa caodaista si sta per celebrare una delle quattro cerimonie giornaliere a cui devono partecipare i fedeli Cao-Dao. Fuori dal tempio, confusamente allineate, decine tra scarpe, ciabatte, sandali suggeriscono una cospicua presenza di turisti, così come la buffa distesa dei tipici capellini di paglia a forma di cono schiacciato testimoniano quella dei fedeli. Non vorrei sembrare blasfema, indotta dal mio essere atea: un’ allegorico teatro, in cui una cerimonia colorata e sonora scandisce insistenti inchini di un clero gerarchicamente distinguibile dai colori delle vesti e dalle posizione occupata, più o meno di fronte all’altare; in fondo alla navata i novizi con dei copricapo incertamente interpretabili. Apprezzabile la presenza delle donne anche ai ranghi di cardinale. Variopinti serpenti si attorcigliano ad altrettanto screziate colonne; cariche di giallo le pareti sono impreziosite da decorazioni floreali rosa; invece un cielo carico di puerili nuvolette bianche dipinge la volta che conduce lo sguardo all’inquietante onniveggenza, tipica dell’Illuminato, dell’occhio dentro la piramide. Ci lascia molto perplessi la rivelazione che Dio ha fatto a Ngo Van Chieu imponendoli di fondare una religione basata sul sincretismo delle altre: originale la presenza di Victor Hugo tra i santi, seguito da Giovanna D’Arco, Mosè, Laozi… E molto altri; discutibile che l’intercessione con gli spiriti guida avvenga attraverso dei medium; imbarazzante l’idea che siano dotati di una milizia militare.
Prima di riprendere il viaggio sostiamo in un “autogrill”, ben felice di saziare i nostri appetiti: suggerimento dell’improbabile chef involtini di carne e verdura fresca, così fresca che deve essere stata appena colta dal canale. Un cespuglio di erba non ben identificate sostituisce dunque il centro tavola. Penso allora alle cavie peruviane della mia vicina: stesso pranzo probabilmente.
La meta è Nha Trang , dove un treno ci accoglierà nelle sue lontanamente profumate cuccette per un tragitto notturno fino a Da Nang. Fortunatamente la stanchezza sarà tale che lesti ci addormenteremo avvolti nei sacco a pelo, per i fortunati, coperti dalle rinnovate lenzuola accessorie per i meno equipaggiati. Il viaggio che ci porta a testare l’efficienza delle ferrovie vietnamite però è così lungo che abbiamo deciso di alleviarlo con una sosta a Mui Ne dove, dopo aver scelto il pesce da pescare per cena, ci regaliamo l’indomani una sana sosta al mare. Il sole albeggia così presto che alcuni di noi sono già in spiaggia quando non sono ancora le 06.00, per godere di caldi raggi e ricercare le sfumature turchesi del Mar Cinese. Una lunga passeggiata ci regala momenti di pesca e di condivisione del bottino (più o meno, un furbo allestisce la “ratta delle … sardine”): buona parte ottenuto con le reti trascinate dalla collettività, altro cacciato direttamente dalle loro buffe imbarcazioni di vimini intrecciati, degli enormi cestoni. Immancabili, anche durante questa attività, i caschi in testa: devono essere così preziosi, poiché tutti hanno praticamente il motorino, che non li tolgono mai. Lo indossano mentre vendono al mercato, quando ritirano le reti della pesca, li vedremo poi anche fare il bagno in mare con in testa la loro assicurazione.
Con tutta la pigrizia che la sdraio sotto l’ombrellone infligge, ripartiamo alla volta della stazione dei treni. Estenuanti le ore di macchina ma fortunatamente le strade vietnamite sono in grado di sorprenderci: ecco passare un motorino che trasporta oche, vive, dentro dei cestoni; eccone un altro con due maialoni rosa, vivi, zampette agitate all’aria, legati sul portapacchi; qualcun altro deve avere affari nell’edilizia tanti sono i mattoni che trasporta; qui abbiamo la famiglia al completo che si stringe sulle due ruote, comunque tutti con il casco
Un’altra è anche la costante dei nostri spostamenti: un nubifragio al giorno leva il brutto tempo di torno. Secchiate e secchiate d’acqua, fortunatamente sempre durante i nostri ritiri nel van.
Una nuova alba ci attende, avendoci stazionati il treno alle prime ore del mattino, cosa che ci permette di visitare il sito archeologico di My Son valorizzato dalla fresca luce della giornata e la quiete di un luogo turistico in cui noi siamo praticamente gli unici visitatori. Così accertiamo che non ci deificheremo mai poiché nulla abbiamo da spartire con la maestà delle divinità e veniamo quindi condotti nel girone della goduria femminile e dello sperpero maschile. Non fraintendete: quello che la malizia vi suggerisce è un altro capitolo tristemente vero e affermato in Vietnam, facilmente accertabile ogni qual volta in albergo chiedono se vuoi prenotare un massaggio, o afferrabile nei locali adibiti, solitamente e vergognosamente frequentato da stranieri. Parlo di altro. Siamo ad Hoian! Si può acquistare ogni capo d’abbigliamento fatto su misura, in una giornata, per pochi dong. Le vie della seta, più o meno originale. Neppure nei tempi di massimo shopping ho passato una giornata intera a negozi ma siamo travolti tutti da una dipendenza incurabile da capo sartoriale al momento e a tua scelta, che non si conteranno più le valigie che caricheremo sull’areo del ritorno. Così mentre le ragazze vedono la luce, e testano con portafoglio che il paradiso esiste, i maschietti non rinunciano a usarci come modelle per fare qualche regalino alle fidanzate a casa. Qualcuno si è fatto confezionare pure il vestito per la laurea… La città, patrimonio dell’Unesco, è molto graziosa ma in una giornata avrete solo occhi di seta…
Altro giorno altra partenza: non abbiamo rinunciato ad una levataccia per essere nuovamente in spiaggia con i primi raggi del sole, dopo un altro atteso itinerario cultuale e ore di strada per la futura tappa. Così a China Beach scopriamo piacevolmente come i vietnamiti siano mattinieri: un bagno prima di andare a lavorare, una partita a racchettoni o a pallavolo, e la giornata ha un risveglio carismatico. Il pensare a come non vadano a picco con quei pesantissimo caschi in testa, pure in acqua, ci rallegra la stanca sveglia. Ngu Hanh Son prevede Confucio che ti accoglie all’entrata prima che tu possa visitare il Budda nella roccia e la pagoda.
Il paesaggio fino a Huè è molto bello. Qui la cittadella imperiale accoglie i visitatori con la sventolante bandiera rossa, marchiata dalla stella impressa al centro. Anche ora ogni stanza racconta una storia e immagini il re e i suoi consiglieri, con gli abiti dalle ampie maniche, aggirarsi tra quegli edifici decorati, in attesa che gli indovini predicano la mossa futura.
Navigando lungo il fiume dei profumi visitiamo diverse pagode e tombe imperiali; spiamo la vita dei giovani monaci e riflettiamo di fronte all’auto da cui il Venerabile Thich Ouang Duc scese nel 1963, una volta giunto a Saigon, per darsi fuoco a protestare contro il regime di oppressione nei confronti del Buddismo, esercitato dal Vietnam del Sud. Non manchiamo di rifocillarci con un abbondante pranzo in barca, gambe incrociate sulle stuoie. Il piatto più apprezzato, sul finire della seconda settimana di vacanza, è oramai l’immancabile e abbondante riso bianco: alcuni stomaci danno forti cenni di cedimento.
Questa volta un aereo è il mezzo per proseguire la nostra scoperta di un paese troppo ricco per essere visitato con tanta fretta.
Hanoi: fortuna non calcolata vuole che siano in essere i festeggiamenti per l’anniversario della dichiarazione di indipendenza: il 2 Settembre del 1945, Ho Chi Minh lesse l’atto che riconosceva la Repubblica Democratica del Vietnam. Tra bandierine festanti, d’obbligo è la foto al Mausoleo di Ho a Ba Dinh Square. La sera stessa cedo sotto la pressione degli amici, mai tollerato in una vacanza all’estero: ristorante italiano per tutti. Mi dispiace il tradimento alla cultura culinaria del Paese ospitante ma sento in diretta il mio stomaco applaudire e ringraziare dopo le ore trascorse a ricordare i sapori delle verdure, del formaggio, della pizza, degli spaghetti italiani alla Luna D’autunno. Durante la passeggiata di ritorno verso l’albergo godiamo della vivacità della città e osserviamo come la cena dei residenti non sia poi così diversa dalla nostra: gli spaghetti ci sono, che poi siano immersi in una brodaglia e raccolti con le bacchettine sono delle minuzie. Alcuni ragazzi si preparano alla discoteca, altri tornano dallo spettacolo in centro, in molti rimangono a chiacchierare con gli amici in quelli che noi interpretiamo come pub, seduti su quei minuscoli seggiolini di plastica attorno a dei tavolini altrettanto ridotti, dimensione di quelli che si trovano nei nostri asili: così faceto.
Dopo le perplessità iniziali chiudiamo davvero magicamente il nostro capitolo Vietnamita: Ha Long Bay sarà la cornice dei due giorni di crociera previsti. Passate le prime ore circumnavigando i faraglioni echeggianti di canti di uccelli, perplessi e irritati dall’inquinamento che comincia ad avanzare sulle acque, con buona colpa dei gitanti, temiamo in un proseguo di noia ma fortunatamente ci facciamo convincere a fare i turisti e noleggiare le canoe. Remare al tramonto del sole da un lato, e sotto i chiarori della luna piena dall’altro, mentre i riflessi di entrambi ci fanno strada nelle baie, immersi in un silenzio surreale, è una conclusione onirica e insperata.
La sera la baia sembra un po’ un angolo della Sardegna in cui si fermano tutte le imbarcazioni per trascorrere la nottata, spesso a suon di musica e Karaoke, cosa che rende difficile il nostro tentativo di pesca con la canna. Le cuccette della barca è molto confortevole, d’ altra parte di classe sono anche i pranzi e le cene, ma la lotta tra un’aria condizionata raggelante, e un caldo soffocante, crea parecchia stanchezza.
Uno scalo a Bankok, con visita della città, è stata l’ultima giornata insieme: al Cairo ci siamo separati e ognuno, a proprio modo, ha portato questo viaggio a casa con sé…certo distribuito in moltiplicate valigie, borse, nuovi zaini.
Mi ha dato molta soddisfazione assaggiare questi territori, a cui bisognava regalare molto più tempo: sono certa di essermi persa molti angoli interessanti, atmosfere non rinnovabili, incontri importanti, scatti fotografici immortali. E’ un viaggio a cui bisogna arrivare preparati, per poter leggere l’iconografia celata dietro ogni angolo dei due Paesi: in quelle case tutte alla stessa altezza, in quelle terrazze di alberghi dove i giornalisti hanno scritto pezzi di storia, in quei negozietti dove fanno sadicamente mostra le medagliette militari di scomparsi soldati, piuttosto che accendini con la celebre frase: “quando morirò andrò in paradiso perchè all’inferno ci sono già stato”. Ho portato con me a lungo le emozioni raccolte: ho protratto la frustrazione di non aver spiato i popoli del nord, attraversando le loro montagne; ho serbato buona parte della curiosità per gli aneddoti mancati; non ho smesso di voler conoscere e capire come non esistano buoni e cattivi ma solo menti pure e impure, come ci ha ripetuto il nostro mentore buddista in quelle due settimane.
E ho fatto mio un nuovo modo di vivere i viaggi: “ Quando qualcuno cerca allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori di quello che cerca, e che egli non riesca a trovare nulla, non possa assorbir nulla, in sé, perchè pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perchè ha uno scopo, perchè è posseduto dal suo scopo. Ma trovare significa: essere libero, restare aperto, non avere scopo. Tu, vulnerabile, sei forse di fatto uno che cerca poichè, perseguendo il tuo scopo, non vedi tante cose che ti stanno davanti agli occhi.” 6
IO vorrò ricordarmi di vedere.
1Giulio Cesare Giacobbe: “Come diventare un Buddah in cinque settimane”, edizione Ponte alle Grazie (2005).
2Roland Joffè: “Urla nel silenzio (The Killing Fields)”, film drammatico del 1984.
3Tiziano Terzani: “Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia”, casa editrice Longanesi (2008).
4 Terry Wallace: “La faccia nera del Vietnam”, casa editrice Piemme (2005).
5Corrado Ruggeri: “Farfalle sul Mekong”, casa editrice Feltrinelli (1994).
6Herman Hesse: “Siddartha”, casa editrice Einaudi (1994).