Budapest, nagy szerelem, addio
La “Parigi dell’est”, come spesso viene chiamata, vanta anche molti appassionati che finiscono per tornare regolarmente a visitarla solo in virtù del suo fascino un po’ bizzarro: altri ancora, invece, la ritengono una città grigia e polverosa che non vale la pena di vedere nemmeno una volta, insomma “vista e scordata” come disse il mio capo. Io sono molto orgogliosa di trovarmi nel gruppo degli estimatori e spero di poter fare proseliti anche tra di voi.
C’è chi dice che la capitale magiara contenga in sé qualcosa di molte grandi città d’Europa quali Vienna, Praga, Parigi, ed in effetti certi scorci danno una notevole sensazione di deja-vu: c’è perfino una zona, lungo la strada che porta alla collina Gellert, in cui per un attimo mi è sembrato di stare a Roma, nel tratto di via Trionfale che passa sotto Monte Mario! Eppure al tempo stesso Budapest ha qualcosa di unico e struggente che non ho finora trovato da nessuna altra parte, nemmeno nella pur magica e stupenda Praga … peraltro grazie alla modernizzazione ha perso molto del suo smalto originale, vede sempre aumentare traffico, inquinamento, numero di centri commerciali e prezzi (l’inflazione supera ancora il 10% annuo), eppure, parecchio di quel certo non-so-chè ancora resiste. Raggiungere la città dall’aeroporto è semplice e non molto costoso, basta rivolgersi agli appositi banchi dove si può acquistare un biglietto su di un minibus collettivo che lascia i clienti alla meta richiesta: semplice, più divertente ed economico di un taxi. Pure girare in città è molto facile. Infatti Budapest è particolarmente ricca di mezzi pubblici: metro (tre linee), tram, bus e treni vari attraversano ogni angolo della città e della sua periferia, puntuali, poco costosi e con buona segnaletica. Per quel che riguarda i malintenzionati che su tali mezzi spesso “lavorano”, per evitare problemi di solito basta prestare un po’ d’attenzione, facendo conto di trovarsi nella folla di una metropolitana romana. Io trovo, però, che sia particolarmente gradevole attraversare Budapest passeggiando, in quanto ad ogni passo si scoprono scorci interessanti ed imprevisti: una cupola moresca, un parco, una guglia, un architrave decorato di donne e fiori, un’insegna in vetro battuto o una piccola edicola in legno, in una mescolanza di stili che è a sua volta uno stile a sé stante. Ad ogni modo non va dimenticato che si tratta di una città assai estesa, tanto da contenere almeno un quinto di tutti gli ungheresi, vale a dire oltre due milioni di persone. Per intendersi: visitarla per intero a piedi è possibile ma richiede tempo, perseveranza ed un paio di scarpe comode.
La prima volta che andai a Budapest fu a cavallo tra la fine dell’aprile e del maggio 1999, quando con la mia famiglia (mio padre, mia madre, mia sorella e mio nipote) vi organizzammo un week-end, e devo dire che fu qualcosa di veramente positivo sotto tutti i punti di vista. Con i miei trascorremmo tre bellissime giornate in Ungheria, dividendo il nostro tempo tra passeggiate e shopping in stile libero, giri culturali “fai da te” e vere e proprie escursioni turistiche comprate sul posto, già all’epoca relativamente care. Scegliemmo un hotel nella zona di Pest, quella più pianeggiante e moderna per intendersi posta alla sinistra del Danubio: si trattava dell’hotel Mercure Korona che si trova in Kálvin tér, uno scatolone di vetro e cemento forse un po’ troppo moderno, che ad ogni modo era molto funzionale, forniva colazioni eccezionali per quantità, qualità e scelta ed aveva un buon rapporto costo/servizi.
La parte vecchia della città, Buda, si trova invece sulla destra del fiume, è arroccata su una serie di colline più o meno scoscese ed è particolarmente piacevole da visitare: anche se tra bombardamenti, rivoluzioni e distruzioni varie di veramente antico c’è rimasto gran poco.
Il primo giorno della villeggiatura con i miei lo passammo passeggiando per la città e lessandoci allegramente le estremità inferiori per il gran camminare. Era il week-end del primo maggio e faceva molto caldo, la città era piena di sole, turisti e gente locale in abiti estivi si godevano il sole. Ricordo che la gioventù ci incantò: accanto all’aspetto particolarmente dimesso e povero di molti anziani, che facevano ancora molto stile “cortina di ferro” con i loro vestiti consunti e fuori moda e con i canestri di vimini per la spesa appesi al braccio, i giovani ostentavano una certa aria di modernità. E che giovani! Sia tra le ragazze che tra i ragazzi è molto facile trovare esemplari di notevole bellezza: il gran numero di invasioni subite nel passato ed i numerosi contatti con tutti i popoli d’Europa hanno generato una gioventù ibrida di spilungoni dagli occhi multicolori e dall’aspetto flessuoso, accanto ai quali molti di noi mediterranei scuri e tracagnotti finiscono per fare la figura dei brutti anatroccoli… A Budapest ci sono tantissime cose da vedere: ben sette ponti, il più famoso dei quali è il massiccio ponte delle catene (Széchenyi lánchíd); il Palazzo Reale (Var palota), completamente ricostruito e contenente musei e gallerie; il Parlamento, in uno stile neogotico che è tutto una guglia; tantissime chiese, le più belle delle quali sono quella di Mattias Corvino e la cattedrale di Santo Stefano; il bastione dei pescatori (Halász bastion), che è una specie di gugliato e bizzarro belvedere sulla città; l’isola di Margherita (Margit sziget); tanti bagni termali, ad esempio il celeberrimo Gellert; ed ancora Váci utca, la via più elegante e costosa, i caffè, i ristorantini, le bancarelle che vendono coloratissimi merletti, la pittoresca funicolare che porta dal livello del fiume a Buda ed ancora, ancora, ancora. Arrivammo perfino al parco cittadino, il Varosliget, vasto e piuttosto grazioso, che contiene un laghetto pittoresco su cui si affacciano le riproduzioni di alcuni cupi palazzi transilvani che fanno tanto Conte Dracula, uno dei quali ospita il Museo dell’agricoltura. Quel giorni c’era un concerto all’aperto con tanta gente che stava a sentire, ed intorno altre persone che andavano a spasso, leggevano libri all’ombra degli alberi, giocavano con i propri cani o mangiavano certe curiose ciambelle intrecciate ad otto, sottili ma di grandi dimensioni. Avemmo persino modo di ascoltare un’insolita – ed incomprensibile – versione magiara di “L’Italiano”, di Toto Cutugno: chissà se il nostro italicissimo cantante sa di essere stato copiato laggiù… Per giungere al parco attraversammo anche la scenografica Hösök tere, ovvero la grandiosa Piazza degli eroi, cinta di un colonnato maestoso e con tante statue equestri che rappresentano le antiche tribù magiare. Bella pure la metro che parte dalla Piazza degli Eroi, che se non sbaglio è una delle più antiche d’Europa risalendo alla fine dell’Ottocento.
Per chi volesse saperne di più consiglio un salto sul sito web www.Lonelyplanet.Com, mentre un’occhiata al sito www.Irisz.Hu/webcam_hun.Html consentirà di godere in tempo reale di una bellissima vista della città ripresa dall’alto della collina Gellert, vicino alla statua della libertà. Altamente consigliata la visione all’ora del tramonto, che arriva quasi un’ora prima di quello romano.
Per quel che riguarda i pasti, con i miei ci trovammo molto bene: mangiavamo a poco prezzo nei tanti ristorantini che ci sono in giro, specie lungo il Danubio (o Duna, in ungherese) o a Váci utca, privilegiando i gustosi (ma un po’ pesanti) piatti locali quali il celeberrimo “goulasch”, la “gombaleves” (zuppa di funghi) o le “palacsinta”, ovvero crepes riempite di salsa di noci e guarnite di cioccolato e panna. Buona pure la galuska, una specie di zuppa inglese molto calorica. L’unica piccola disavventura alimentare se la beccò mio padre ordinando come dolce delle sedicenti “tagliatelle alla ricotta”, che si rivelarono essere un piatto colmo di strambi fusili veramente scotti e appena conditi da un po’ di panna acida liquida. Mio padre non dimenticherà mai quel piatto così insipido! I contatti con la gente del posto furono ottimi: trovammo che gli ungheresi erano molto cordiali e non appena capivano di avere a che fare con italiani si sbracciavano in sorrisi e gentilezze, cercando di tirar fuori le poche parole di italiano che molti lassù conoscono. Debbo però ammettere che un insolito numero di ungheresi parla abbastanza bene l’italiano, a differenza di noi italiani che troviamo l’ungherese una lingua veramente tosta, con tutti i suoi “szs”, “ddy”, “éöoö”, “aá”, “llnyössdsc” e via dicendo.
Archiviata la nostra giornata di Budapest “on the road” comprammo alla reception un giro classico in bus verso le città nell’ansa del Danubio, vale a dire Szentendre, Visegrad ed Esztergom, famose per essere, rispettivamente, la città degli artisti, la città con la fortezza e quella con una grossa basilica cristiana. Anche questo giro pur molto turistico ci entusiasmò, complice pure un bellissimo sole che faceva splendere come smeraldo tutto il verde che c’era lungo il Danubio ed illuminava le famiglie che facevano pic-nic nei prati erbosi o bagni nelle tante piscine. Per completare l’opera il nostro ritorno da Szentendre avvenne via fiume, usando uno dei traghetti un po’ dimessi che per la prima volta nell’anno (era il primo maggio) tornavano a solcare il Danubio e che ci riportò pian piano nel cuore della città costeggiando piccole case di campagna, l’isola Margherita e lo spettacolare Parlamento. Abbiamo ancora nel cuore la nostra guida, un’anziana e dolcissima signora dai capelli grigi a caschetto di nome Maria, che parlava un buon italiano e che ci trattò con grande entusiasmo, preferendoci agli altri turisti anglosassoni: ci additava con enorme soddisfazione ogni minima vestigia romana, frequenti soprattutto nella zona a nord della città (Obuda) e spesso rappresentate da sassi informi ed appena riconoscibili come rovine antiche. In un impeto ci simpatia ci confessò che i turisti italiani non si perdevano mai, mentre gli sprovveduti che bisognava più facilmente andare a ripescare in giro erano gli americani. Cara signora Maria, cordiale ed ospitale come tanti altri suoi connazionali … Su consiglio proprio della signora Maria l’ultima giornata la trascorremmo visitando Gödöllö, un paesino non molto lontano da Budapest che raggiungemmo grazie agli efficientissimi mezzi pubblici locali, ovvero metro e treno, e che all’epoca era ancora un po’ fuori dagli itinerari turistici classici. Il viaggio fu comodo e trovammo molte persone gentili che ci diedero informazioni esatte sugli orari dei treni e sulle stazioni in cui scendere: ricordo anche un’anziana signora dagli occhi chiari e con l’immancabile canestro al braccio che ci guardava con cordiale curiosità e cercava di interrogarci in un ungherese stretto che superava di molto le mie più che scarse conoscenze della lingua locale, che non vanno poi molto più in là di “Köszönöm” (grazie), “Jó napot kivánok” (buon giorno) e “Ném ertek magyarul” (non capisco l’ungherese).
A Gödöllö trovammo un’elegante palazzo in stile barocco che sembra venisse a volte utilizzato dalla Principessa Sissi come residenza estiva, e che all’epoca in cui lo visitammo era appena stato ripulito ed adibito a museo. Il parco, invece era ancora abbandonato per mancanza di fondi, ma la sua aria selvaggia e scapigliata non faceva altro che aggiungere ulteriore fascino all’elegante dimora. Anche a Gödöllö avemmo due piccoli e memorabili incontri umani: l’anziano e distinto signore che davanti alla cassa ci sentì parlare tra noi, ci chiese “Olasz?” (Italiani) ed alla nostra risposta affermativa (“Ighen!”) iniziò a declamare con aria beata una poesia imparata a scuola “Silvia rimembri ancor quel tempo…” con una dizione assai simile a quella degli stranieri che in un film di Verdone prendono faticosamente ripetizioni di italiano. L’altro fu l’allampanato e buffo giapponese tutto occhialoni, capelli ed inossidabile sorriso ingessato che, seguendo chissà quali misteriosi percorsi, avevamo incrociato in tutti i posti che avevamo visitato e che finimmo per incontrare, con nostra grande ilarità, pure nella piccola e sperduta cittadina di provincia.
Due immagini in particolare mi sono rimaste nel cuore di quei giorni: le donne e le ragazze venute dalla campagna che, in occasione della festa della mamma (che in Ungheria si festeggia una settimana prima della nostra) se ne stavano nelle stazioni della metro vendendo per pochi forint mazzi di fiori selvatici, soprattutto mughetti: e poi il decollo del nostro aeroplano, che con un ritardo di quasi quattro ore ci riportava in Italia e che sorvolò Budapest al crepuscolo, quando la città, il suo fiume ed i suoi ponti erano poco più di una macchia indistinta di rosa, grigio e tante piccole luci bianche. Tornerò, mi dissi, col cuore già allora gonfio di nostalgia.
Sono tornata a Budapest per lavoro, a metà del gennaio 2002, approfittando di una riunione a cui ho partecipato con il mio capoufficio. In soli tre anni molte cose erano cambiate: alzati i prezzi, cresciuto il traffico, meno librerie e più negozi di articoli sportivi di marca, tanto freddo, niente sole, poca gente in giro: ma la poesia della città era sempre quella. Anche se forse non è niente di speciale Budapest è sempre lì, nel mio cuore, non so bene perché.
Con il mio capo alloggiammo nell’hotel Budapest, posto nella zona nord di Buda: una sorta di Torre di Pisa verticale ed in stile moderno che dall’aspetto non era eccezionale, ma che in compenso offriva una vista mozzafiato della città e dei suoi quartieri circostanti, più antichi e meno alterati dal cemento e dal neon della modernità. Gli organizzatori del convegno, con gentilezza tutta ungherese, avevano piazzato noi congressisti al quattordicesimo piano, in modo che potessimo godere a volontà del panorama. E peggio per chi soffrisse di vertigini! Stavolta il tempo libero non era poi molto ed i miei margini di manovra assai ridotti, ma ne approfittai comunque per vedere – o rivedere – qualche angolo della città.
Il sabato portai il mio capo a pranzo in un centro commerciale vicino all’hotel, il Mammut, dove ci recammo in un ristorantino ungherese – Toldi – consigliatomi da un simpatico tizio alla reception: e lì consumammo un eccellente ma pesantissimo pranzo ungherese (goulash, stufato e palacsinta) che deliziò le mie papille gustative ma che – per chissà quale misteriosa reazione fermentativa – nel giro di poche ore fece lievitare lo stomaco del mio malcapitato capo finché non gli arrivarono più né camicia né giacca! Forse io avevo già gli anticorpi per il cibo ungherese, ad ogni modo a me non successe niente, tanto che la sera – mentre il mio capo stomacato praticamente digiunava – mi sorbii un nuovo ottimo goulash in una simpatica birreria (sörözó). Da notare come in un angolo esterno del Mammut si trovi un pittoresco mercatino alimentare, dai banchi colorati ma dall’igiene quanto mai approssimativa: inoltre uno dei palazzi vicini conserva ancora una facciata tutta bucherellata e rosa dai proiettili, sparati probabilmente durante la sanguinosa rivoluzione ungherese del 1956 che, insieme all’odio viscerale per il passato regime comunista, nessuno lì sembra aver dimenticato La domenica riuscii a convincere tre altri italiani (il mio capo e due colleghi che lavorano all’Eurostat in Lussemburgo) a fare una bella passeggiata panoramica per la città, partendo da Buda, costeggiando il Danubio, arrivando a Pest e tornando poi indietro in metro fino a Moszkva tér. La temperatura quel giorno non credo sia mai salita sopra a -5, il cielo era nuvoloso e quasi subito iniziò una lievissima nevicata: tantissimi piccoli fiocchi gelati che si posavano sui mucchi di neve ghiacciata della precedente nevicata e che in poche ore diedero alla città un aspetto da fiaba, ricoprendola di un lieve velo da sposa. Ma faceva un freddo becco… nonostante ricorressimo ogni tanto alle cure dei numerosi ed accoglienti caffè, nel giro di un paio di giorni ci ammalammo tutti e quattro, chi raffreddore, chi influenza, io presi la tosse (ed ancora dopo due settimane ce l’ho). Però ne è valsa la pena, almeno credo.
Lungo il Danubio, che era come un’immensa autostrada grigia, passavano dei lastroni di ghiaccio simili a piccoli iceberg piatti: e su uno di questi, stagliati contro la selva di guglie del Parlamento, vidi tre gabbiani che si lasciano trasportare pigramente, quasi come fossero su un comodo traghetto.
Alla Vörösmarty tér vedemmo il grande gruppo statuario che sta al centro della piazza tutto curiosamente legato ed incellofanato, sicuramente per proteggere il suo marmo dai danni da gelo: e lì di fronte entrammo nell’elegantissimo caffè Gerbaud, uno dei più antichi della città, dove avemmo varie sorprese: non c’erano bagni per gli avventori (nonostante il freddo intenso stimolasse non poco le facoltà escretorie), caffè e dolci dovevano essere presi da sé al banco in una sorta di self-service, dove delle signore lentissime, annoiate ed un po’ snob acchiappavano i dolci con le mani senza tanti riguardi. Amazing Budapest! La cattedrale di santo Stefano era spettacolare e maestosa ma con il sagrato ricoperto di insidiose mattonelle umide e scivolosissime, la via Váci utca e le sue belle vetrine erano praticamente deserte, pochissime pure le bancarelle, peraltro assediate a tratti dai nugoli degli immancabili giapponesi.
Pranzammo di nuovo al Toldi, dove però ci tenemmo più sul leggero, senza riscontrare poi alcuno degli inconvenienti gassosi che il giorno prima avevano così crudelmente amareggiato la digestione del mio capo.
Ho percorso il bastione dei Pescatori che era quasi sepolto nella neve. Stavolta niente turisti né bancarelle, né suonatori degli strambi ed antichi violini locali, né biglietti da pagare all’Unesco (?!?) per salire sugli spalti: c’erano giusto un paio di tizi dall’aria tzigana che si ostinavano ad esporre brutte stampe e che passeggiavano lottando allegramente contro il gelo. E di lassù lo spettacolo di Pest che si estendeva verso la prateria, la puszta, era sempre grandioso, neve o non neve: ampio, arioso, pur se un po’ grigio e triste per colpa dell’inverno. “Budapest nagyon szép vagy”, Budapest sei bellissima.
Peccato che i due giorni successivi li abbia dovuti trascorrere sempre chiusa nell’albergo per seguire quel famoso convegno – peraltro interessantissimo e pieno di tanti simpatici colleghi provenienti da ogni parte d’Europa – senza poter più poter neanche mettere il naso fuori se non quando ho ripreso il taxi collettivo per l’aeroporto.
La mia ultima mattina a Budapest mi sono svegliata presto e non sono riuscita più a dormire: probabilmente sentivo già una grande nostalgia. Sono rimasta così davanti alla finestra, aspettando dall’alto l’arrivo di un’alba color madreperla che ha lentamente trasformato le colline di Buda da un tappeto scuro ricamato di mille piccole luci ad un panorama quasi da sogno, con tante case dai tetti elegantemente smussati, gli alberi spogli dei parchi velati di neve, la gente che correva incontro alla sua vita quotidiana, le macchine che sfrecciavano via. Il tutto dietro un vetro freddo.
Colline innevate di Buda, vi ho abbracciate tutte con lo sguardo e vi ho portato via con me, nel ricordo: insieme a quello di un certo paio d’occhi verdi, di un modesto appartamentino, di un soggiorno con il parquet e di una vetrata con una bella vista sulla città vecchia… Ed ecco ancora una volta la malinconia: per il peso di tante parole non dette, la consapevolezza dell’inutile bene che ti ho voluto, il dolore di averti perduto senza averti avuto mai. Per il rimpianto lontano di una storia mai nata, dolce ed amaro ad un tempo.
Budapest, nagy szerelem, addio. Anzi, viszontlátásra: arrivederci. A presto, prestissimo. Perché il cuore ha ragioni che la ragione non conosce.