Borneo, il cuore sperduto dell’Asia
È stato, quindi, con un pizzico di orgoglio mescolato a nostalgia per i tempi in cui ogni luogo del mappamondo era un sogno, che sono atterrato, lo scorso agosto, nel minuscolo scalo di Tarakan, nella Provincia Orientale del Borneo Indonesiano, nei pressi del confine con la parte malese dell’isola.
Insieme a me, nell’umidità della notte equatoriale, i pesanti zaini usurati dai tanti viaggi sulle spalle, alle prese con uno pseudo-tassista che non parla una parola d’inglese, c’è ancora una volta Tonia. La sua tolleranza verso gli slanci che mi portano a proporre mete così particolari è seconda solo alla spontanea curiosità con cui si abbandona all’esperienza che viviamo. Per incontrare Francesco, prezioso socio storico nelle spedizioni tropicali, arrivato dalla Cina in mattinata, dobbiamo seguire il filo di Arianna dei messaggi che ci ha lasciato, che ci porta da un hotel ad un alberghetto fino all’affittacamere dove si è sistemato. Non abbiamo reputato, infatti, i cellulari strumenti adatti all’avventura che abbiamo scelto di vivere.
E di avventura si è trattato anche questa volta. Il Borneo è la terza isola più grande della Terra, grande circa due volte e mezzo l’Italia, suddivisa tra l’Indonesia, la Malaysia ed il Sultanato del Brunei. Si tratta di uno dei luoghi più selvaggi del mondo, ricoperta da una fitta giungla che ne fa uno dei grandi polmoni del pianeta e la sua più importante riserva di biodiversità, una terra in cui ogni anno vengono scoperte specie di piante ed animali sconosciute. Noi abbiamo scelto di visitare una delle regioni più remote e meno conosciute, il Kalimantan orientale indonesiano. Il nostro obiettivo è essere testimoni della realtà genuina di quest’antica terra, mantenendoci il più possibile lontani dalle mete maggiormente accessibili ai turisti.
Non avendo pianificato nulla abbiamo trascorso una giornata tra il porto e l’aeroporto di Tarakan, a cercare un modo per inoltrarci nella foresta. Sembra che laggiù non ci sia nulla di certo. I Cesna per i parchi nazionali non hanno alcuna regolarità, ma partono quando riescono a riempirsi. I tempi di percorrenza delle vie fluviali per una stessa meta variano inspiegabilmente tra le otto e le venti ore, e ci sono diverse scuole di pensiero persino sui punti da cui le canoe partono per i vari villaggi. Tutta questa confusione non è certo smorzata dal fatto che quasi nessuno parla una sola parola d’inglese, circostanza che ci obbliga a ingegnosi esercizi mimici che mettono a dura prova la straordinaria pazienza degli indonesiani. L’unica cosa su cui concordano tutti è la quasi totale assenza di strade al di fuori della fascia costiera.
Arriviamo a Tanjug Selor, un piccolo centro situato al limitare di un fiordo che si insinua nelle paludi. Durante le ore del giorno il sole è crudele sulle nostre pelli bianche mentre i locali, con la loro carnagione resa olivastra da secoli di adattamento, sembrano non accorgersene. La sera l’umidità può toglierti il respiro, e solo l’energetico succo dei tanti cocchi che si vendono per strada offre un po’ di sollievo. In paese abbiamo modo di apprezzare la pacifica convivenza delle comunità cattolica, minoritaria, e musulmana, che vivono a stretto contatto. Al tramonto, mentre ci troviamo in una chiesa, impegnati in una difficoltosa conversazione con una famiglia orgogliosissima della propria fede cristiana, ascoltiamo il canto del muezzin proveniente dalla moschea situata dall’altra parte della strada principale.
Riusciamo a contattare Wahab, sedicente guida, che ci raggiunge da Tarakan per accompagnarci in una spedizione di quattro giorni nella giungla. Wahab è un uomo dall’età indefinibile che sembra conoscere tutti, dai modi aperti e sempre di buon umore.
Nelle foreste del Borneo ci si può muovere esclusivamente via fiume. Le imbarcazioni utilizzate oggi cambiano poco da quelle che per secoli hanno solcato le centinaia di corsi d’acqua che dai picchi delle Apokayan Mountains scorrono fino ai mari interni dell’arcipelago indonesiano. Si tratta di strette e basse canoe di legno, estremamente stabili, lunghe ed eleganti. Un vero tormento per le nostre gambe e le nostre ginocchia, più adatte alle poltrone degli uffici che alle spigolosità di queste imbarcazioni. A condurre la nostra canoa c’è Ibao, che presto diventerà “Ibao il grande”, un uomo saggio e gentile, dalle capacità apparentemente sconfinate, imprigionato in un corpo minuscolo, tutto muscoli e cuore.
Vaghiamo nei fiumi del Borneo, galleggiando sugli specchi d’acqua marrone che scorrono tra distese sterminate di alberi ad alto fusto, intricate piante e fitte mangrovie. Sopra di noi un cielo basso, infuocato dal sole e a tratti animato da enormi nuvoloni pregni di pioggia. Incrociamo rare imbarcazioni di famiglie indigene, impegnate in spostamenti all’interno della foresta il cui senso ci sfugge totalmente e ci affascina al tempo stesso. Quasi fosse una moderna ed efficiente rete stradale, il fiume si biforca spesso in due o tre articolazioni e a volte incrocia altri fiumi che scorrono perpendicolarmente, ma nonostante l’apparente mancanza di alcun punto di riferimenti Ibao si orienta perfettamente nel dedalo di corsi d’acqua, conducendoci sempre più verso l’interno, mentre le rive si avvicinano e la giornata volge al termine.
Il capo del villaggio Dayak di Patak ci aspetta in piedi su una piccola spiaggia di ciottoli al bordo del fiume, il machete legato alla cintura che ci inquieta leggermente. I bambini del villaggio sguazzano eccitati nel fiume mentre scendiamo dalla canoa.
I Dayak sono le popolazioni indigene che hanno popolato il Borneo per centinaia d’anni. Suddivisi in una miriadi di piccoli sottogruppi, fino al secolo scorso sono spesso stati contrapposti da violente rivalità che sfociavano in sanguinose guerre. L’appellativo di “tagliatori di teste” attribuito loro dagli esploratori olandesi, oggi rimane solo un lugubre monito di ciò di cui queste genti fiere e leggendarie erano capaci di fare.
Oggi i Dayak continuano ad abitare la loro terra d’origine, resistendo all’immigrazione massiccia degli indonesiani delle altre isole e professando la religione cristiana. È gente meravigliosamente accogliente, come abbiamo la fortuna di accorgerci durante la splendida serata che trascorriamo a Potak. Dopo esserci lavati nel fiume – le docce non appartengono a questi luoghi – ci sistemiamo nella long house, l’enorme capanna di legno e paglia che ancora oggi accoglie fino a venti – trenta persone contemporaneamente. Presto scopriamo, infatti, che questi villaggi funzionano come delle piccole comunità in cui il concetto di proprietà ed appartenenza individuale è molto più sfumato rispetto a quanto lo è nella nostra società. I bambini, per esempio, stanno sempre tra di loro, vanno e vengono dalle varie capanne tutti insieme. Anche le donne stanno sempre tra di loro e si occupano di tutto quello che serve nel villaggio. La long house è un po’ la casa di tutti, una sorta di piazza coperta e disponibile per l’intera comunità. Ed è stata anche la nostra casa, almeno per quella notte. Una notte molto movimentata, per la verità. Dormire sulle assi di legno può avere il suo fascino, ma andateglielo a dire alla vostra schiena e al vostro collo. I bambini, poi, continuano ad andare e venire, spesso ridendo e schiamazzando, in un gioco libero dai rigidi schemi a cui siamo abituati noi.
Il giorno dopo proseguiamo la navigazione, effettuando delle soste qui e lì per visitare cimiteri e villaggi un modo per scoprire questa terra affascinante. Affascinante e ricca di contraddizioni. Molte volte si pensa a questi posti come a paradisi incontaminati in cui la natura regna incontrastata, regalando pace e benessere a chi ha la fortuna di andarci. Bè, la realtà, quella vera, racconta un altro film. Lontani dal mondo rarefatto dei villaggi turistici o da quello edulcorato dei Parchi Naturali nazionali, dove tutto è bello e tutto è curato, ci si scontra con un ambiente duro e aggressivo. La foresta è rumorosa, inospitale, umida, insidiosa e asfissiante. Non è uno scherzo, bisogno averne rispetto. È difficile, a tratti pericoloso, muoversi al suo interno, ed esige tutta la concentrazione e l’adattabilità di cui si dispone. E poi c’è l’uomo, che nel corso del tempo, in particolare negli ultimi decenni, ha lottato per piegare questo ambiente infido alle sue necessità. In Borneo non abbiamo visto tanti animali, a parte le farfalle, qualche pappagallo ed un paio di serpenti. I Dayak ci hanno spiegato con pazienza che se volevamo gli Orangutan, la specie di primati autoctoni per cui il Borneo è celebre, dovevamo andare al sud, in strutture in cui si seguono programmi di riabilitazione e di assistenza e si accolgono i turisti. Non è la cattività, ma il passo è breve. A parte questi casi, ci dice Wahab, i primati e i grandi felini del Borneo, difficilmente si fanno avvistare. Si ritirano sempre più verso le zone interne e montuose per sfuggire alla caccia che li ha sterminati dei decenni passati. È con un misto di imbarazzo e spontaneità che Wahab ci informa di come sia normale per la gente del posto sparare a scimmie o altri animali, per procurarsi cibo o per eliminare pericoli. Nella loro cultura tradizionale, quelli che noi consideriamo animale magnifici e rari, da tutelare in ogni modo, sono soli concorrenti nella lotta per la sopravvivenza. Ed anche la natura è un ostacolo, un nemico, un impedimento allo sviluppo. Abbiamo visto tagliare enormi rami di banano solo per procurarci una superficie dove stendere il cibo… abbiamo assistito con orrore al processo di smaltimento dei mille rifiuti inquinanti che arrivano fin nei più piccoli villaggi: qualsiasi genere di pattumiera è tranquillamente abbandonata per terra, senza alcun tipo di riguardo; la gente si lava nel fiume con i bagno schiuma, e sempre nel fiume lava i panni con i detersivi; ci sono tratti di fiume in cui l’acqua ribolle di inquinamento proveniente da una qualche fabbrichetta illegale posta più a monte. Tutto questo, se è inconcepibile per la nostra coscienza ecologista, è assolutamente normale per chi non ha alternativa, per chi vive circondato da una natura ingombrante che tutto avvolge e tutto risucchia in se stessa. Finiamo per caso dentro una piantagione di palme da olio. Un indigeno che si è unito a noi, anche lui di nome Ibao, ha una casa li vicino, nel villaggio Tempurau, abitato dalla tribù Kepatan Kenyah. Mentre stiamo camminando, sentiamo un rumore che si fa sempre più vicino e che presto riconosciamo come quello di seghe elettriche intervallate da alberi che cadono. Finiamo in un vero e proprio cimitero di enormi alberi abbattuti. Tre uomini continuano il loro spietato lavoro sotto un sole opprimente finché non ci avviciniamo troppo con le nostre reflex e si fermano, allontanandosi nel bosco. Il gestore della piantagione – così si definisce – si avvicina a noi mentre riposiamo sotto un porticato. Segue una conversazione dai toni non troppo distesi con Wahab, il quale gli mostra i suoi documenti e gli spiega chi siamo e da dove veniamo. Fortunatamente alla parola “Italia”, un sorrise aperto e cordiale si dipinge sul volto del gestore e degli uomini che lo accompagnano. Ci spiega che erano in attesa di un reporter tedesco e che, comunque, l’accesso alla piantagione è proibito in quanto proprietà privata della sua compagnia. Ci scusiamo e tutto finisce bene, tanto che il tizio ci dona un bel casco di banane nane a testa e ci spiega come funziona la piantagione e quali vantaggi porterà all’economia della zona. Siamo capitati nei terreni di una compagnia legale, ma Wahab ci spiega che ce ne sono anche tante illegali in zona.
L’episodio è occasione di un acceso dibattito tra di noi. Quel genere di attività distrugge un ecosistema unico e fondamentale per la vita stessa del pianeta. L’Indonesia, insieme all’Africa equatoriale e all’Amazzonia, è uno dei polmoni della terra, e la distruzione sistematica della giungla perseguita da coltivatori di palme e commercianti di legname mette a rischio la sopravvivenza stessa di un ambiente tanto importante. D’altro canto, come afferma candidamente Wahab, la foresta è improduttiva, e la gente del posto ha la necessità, ed anche il diritto, di lavorare e di progredire. Quello scempio potrà anche disturbare la nostra sensibilità, ma abbiamo il diritto, con le nostre comodità, i nostri agi, le mille opportunità che la nostra ricca società ci offre, di negare ad altri quella possibilità di sviluppo in nome della quale non abbiamo saputo preservare a casa nostra quello che chiediamo ad altri di tutelare in nostra vece? La grande contraddizione del Borneo è tutta qui: quello che per noi è un ambiente unico e affascinante, per i locali è spesso un ostacolo che nulla ha di romantico.
Proseguiamo il viaggio sotto una pioggia battente che ci costringere a svuotare continuamente la canoa dell’acqua che si accumula. I tratti di fiume diventano sempre più stretti e l’acqua bassa. Spesso dobbiamo scendere per spingere la canoa incagliata sul fondale. Grossi rami e grumi di radici e foglie intralciano ulteriormente la navigazione. Dobbiamo anche attraversare delle piccole gole, completamente sdraiati sul fondo della barca. Inutile nascondere che, se non fosse stato per la grande padronanza di Wahab e dei due Ibao, la situazione sarebbe stata preoccupante.
Ci fermiamo presso una capanna isolata, evidentemente utilizzata come ricovero dagli indigeni. Intorno a noi solo alberi alti e fitta vegetazione. All’equatore la notte scende rapida, e ci presto ci ritroviamo nel buio più pesto, con solamente delle candele e i lampi in lontananza a farci luce. L’atmosfera è magnifica: consumiamo in maniera frugale una cena a base di riso, verdure e uova. Wahab esagera col piccante e comincia a sudare copiosamente. Per qualche minuto temiamo che stia per sentirsi male, ma le sue consuete risate ci rassicurano. Una minuscola donna venuta da chissà dove, dopo aver cucinato per noi, balla con Tonia una curiosa danza tradizionale nella piccola stanza che condividiamo tutti. Fuori dalla porta ci accorgiamo di un fucile ad aria compressa, ma non indaghiamo sulla motivazione della sua presenza. Non c’è alcun posto dove andare, niente da fare, e nulla intorno a noi, ma siamo così pieni di stupore, di curiosità e di suggestioni che tiriamo tardi a parlare e ad ammirare la misteriosa notte della giungla. Non c’era alcun altro posto al mondo dove avremmo voluto essere, quella notte.
Il giorno dopo ci dedichiamo ad un impegnativo trekking all’interno della foresta, che ci consente di vivere in pieno l’ambiente circostante. Gli alberi sembrano impegnati in una rincorsa alla luce e spesso raggiungono altezze impressionanti per svettare al di sopra del folto indistinto. Tanti piccoli corsi d’acqua tagliano la foresta come i solchi di un’impronta digitale. Il terreno è fradicio di fango e foglie, infestato di sanguisughe, e procedere richiede impegno e attenzione costante. Arriviamo a delle piccole cascate che sgorgano dalla vegetazione. Immergersi nella pozza creata dalle cascate e mangiare il pesce che arrostiamo al momento è semplicemente magnifico.
Nel pomeriggio tardi siamo di nuovo sulla canoa, diretti al villaggio di Teras Nawang, dove vive Ibao. Il percorso è lungo e difficoltoso e la sera ci sorprende ancora a metà del viaggio. Quello che è avvenuto in quelle ore si potrebbe definire in tanti modi: magari navigare in una piccola canoa di notte, in mezzo a fiumi stretti pieni di tronchi, rami e pietre, col cielo squarciato dai lampi, non è il massimo della sicurezza. Ma a noi piace ricordare la disinvoltura con cui Ibao condusse la canoa nel buio, col solo supporto di una piccola torcia, l’armonia che univa il cielo ed il fiume in un quadro scuro punteggiato da mille lucciole che sembravano volerci accompagnare a destinazione, le ombre delle mangrovie dissolte dai fiotti d’acqua prodotti dal nostro passaggio, la sensazione di essere parte di una natura possente ma armonica, spietata e attraente al tempo stesso. Quella sera ci siamo affidati alla saggezza dayak di Ibao, abbiamo avuto paura, abbiamo ammirato la natura, abbiamo contemplato i suoi misteri. Insomma, abbiamo vissuto.
Abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando finalmente si sono delineati in lontananza i moli in legno dell’isola di Derawan. Abbiamo abbandonato Wahab, Ibao e la giungla diretti in una piccola isola sperduta nel Mar di Celebes. Dopo un terrificante viaggio stipati in otto in un camioncino su quelle che solo con tanta fantasia si possono definire strade, dalla cittadina di Tanjung Palu abbiamo preso un motoscafo che ci ha portati nell’isola di Derawan.
Derawan è un luogo incantevole: bagnata da un mare caraibico e abitata da gente aperta, cordiale e felice, sembra essere rimasta intrappolata in uno spazio senza tempo. La vita si svolge con semplicità, seguendo i ritmi scanditi dal sole. Il villaggio si sviluppa su una metà dell’isola – che è molto piccola, tanto da poter essere percorsa per l’intera circonferenza in meno di un’ora – dalla costa verso l’interno. Non esistono automobili e le strade sono dei sentieri in pietrisco. Case in legno dai mille colori pastello spuntano in mezzo alle palme. Lungo la strada che taglia l’isola, protetti dai venti che soffiano dal mare, un paio di grandi spiazzi offrono un punto di ritrovo ai tantissimi bambini che popolano il villaggio. Ben presto ci troviamo coinvolti nell’inevitabile confronto calcistico, che vede i bambini lottare tra di loro per il diritto di parare i rigori calciati dagli occidentali.
Le giornate trascorrono lentamente, a Derawan. Il turismo lambisce l’isola, ma si tratta di un turismo rispettoso e maturo, anche perché il posto è fortunatamente rimasto genuino e, di conseguenza, spartano. Ci si ritrova quasi tutti da Desi, una dolcissima ragazza di Berau che ha aperto un ristorantino di pesce e che probabilmente è l’unica sull’isola a parlare inglese. Desi compra il pesce fresco dai bambini che portano in giro quanto pescato dai padri la mattina, si siede a parlare con noi, ci chiede di insegnarle qualche parola di italiano, ci parla dei suoi problemi di cuore, ci rende partecipi del suo sogno di insegnare l’inglese ai bambini del posto – così potranno fare strada nella vita, così dice – e riesce persino a procuraci qualche birra la sera.
Il mare davanti a noi è immacolato, basso per decine e decine di metri e nessuno vi si bagna per via delle razze velenose che lo infestano – fortunatamente, o sfortunatamente, a seconda dei punti di vista, abbiamo scoperto per puro caso questo dettaglio solo dopo esserci goduti quella meraviglia per i primi giorni. Per fare snorkeling bisogna entrare in mare da un molo che si allunga in profondità, oppure farsi trasportare sulle isole vicine, veri e propri paradisi naturalistici.
Al tramonto passeggiamo lungo la spiaggia deserta. Anche qui i contrasti del Borneo: la spiaggia è ricoperta di pattumiera di ogni tipo, portata a riva dalle correnti e non smaltita da gente che non vive di turismo e che probabilmente è talmente abituata a quei paesaggi da non dare peso a ciò che li può rovinare. I pescatori tornano a terra e sistemano le barche. Un bambino porta via lungo la spiaggia una rete da pesca. Un altro aiuta il padre a sistemare delle reti in mare. Dopo aver mangiato da Desi torniamo in spiaggia. È buio, ma non c’è nulla da temere: i topolini che ogni tanto emergono dalla boscaglia sono innocui; il vento che ogni sera sferza l’isola, impetuoso, non è freddo; conosciamo i percorsi con cui si evita di passare sotto le ampie fronde delle palme da cocco, da cui potrebbero cadere le noci come dei proiettili mortali. Veniamo attirati da una fioca luce vicino ad una baracca disabitata, che risalta in mezzo all’oscurità. L’uomo fa cenno di avvicinarsi e ci mostra quello che sta osservando. Ci uniamo con grande gioia a lui nell’ammirare lo spettacolo delle piccole tartarughe che schiudono le uova, riemergono dalla sabbia e si dirigono tentennanti verso il mare, acquistando fiducia una volta entrate nel loro ambiente naturale. Credo non ci sia modo migliore di salutare una terra in cui la lotta per la vita assume le caratteristiche più affascinanti che si possano immaginare.