Bom dia, Brasil!
Il Brasile è pericoloso. Per mesi ci è stato ripetuto come un mantra. Risultato: senza accorgercene, io e lui, freschi sposi, abbiamo incamerato quest’idea, ridotto al massimo l’itinerario e pensato solo “a stare tranquilli”. Rio, Salvador e ritorno. Niente cascate di Iguaçu, settembre non è proprio consigliato, i voli interni chissà...
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Il Brasile è pericoloso. Per mesi ci è stato ripetuto come un mantra. Risultato: senza accorgercene, io e lui, freschi sposi, abbiamo incamerato quest’idea, ridotto al massimo l’itinerario e pensato solo “a stare tranquilli”. Rio, Salvador e ritorno. Niente cascate di Iguaçu, settembre non è proprio consigliato, i voli interni chissà come sono… Arriviamo a Rio, passiamo in taxi lungo le favelas e mi accorgo che nessuno mi ha veramente preparata a quello che sto vedendo. Non è solo pericoloso, non è solo povertà quella che vedo dai vetri scuri della fiat Siena Roma (ma che modello è?). È un altro mondo. C’è tanta gente, che si riversa sulle strade con sacchi di cose da vendere ai semafori. Ci sono tanti cartelli elettorali e terreni per giocare a calcio. Ovunque. I nostri cinque giorni a Rio sono attraversati da una sottile ansia, da una sensazione di violenza latente. Mi immagino come un enorme portafoglione ambulante… Ma piano piano cominciamo ad accorgerci anche di altre cose. Dell’estrema civiltà di gente che non urla mai. Che fa la fila ordinata per salire sull’autobus. Che alza il pollice, sorride e dice tudo bem, sempre. Se lasci 2 R$ di mancia, se entri in un negozio e non compri niente, se prendi una coca in due al bar… Passano sette giorni all’ombra delle palme di Copacabana e aumenta sempre più la sensazione che il Terzo Mondo sia quello da cui veniamo, non qui. Qui dove la gente fa sport in qualunque momento, usando gli attrezzi costruiti sulla spiaggia. Dove le macchine vanno ad alcool, carburante estratto dalla canna da zucchero… Poi partiamo per Salvador, lasciamo Copacabana e Lapa e troviamo Pelurinho, Barra e Bonfim. Altri nomi da cercare sui pannelli degli autobus e di nuovo la sensazione che nessuno prima ci ha mai raccontato le cose giuste da sapere sul Brasile. Non i nostri amici capoeristi, i brasiliani che vivono in Europa, neppure chi è appena tornato da un viaggio negli stessi posti. Obrigado vuol dire grazie, è stata la nostra preparazione linguistica. Il Pelurinho porta addosso le tracce delle frustate degli schiavi. La gente qui è scura, è africana ma non sa cosa significa. Sono palesemente africane le venditrici di acarajé , polpette fritte a base di fagioli agli angoli delle strade di Bahia, vestite di merletto bianco con turbante. Ma lo sono tutti, o lo erano, prima di venie dolorosamente estirpati. I bahiani non sembrano però odiare nessuno, solo se dici la parola “portoghese”, allora il sorriso s’incrina e scuotono le teste… A questo punto siamo contenti della nostra vacanza. Il Brasile ci ha dato molto, noi abbiamo dato abbastanza, potevamo muoverci di più, affittare una macchina, ma pazienza, sarà per la prossima volta. Ma poi lui dice ”ma non c’è una bella isola, lontano da questa città?” e allora mi viene in mente che prima di partire, mi hanno parlato in tanti di Morro de Sao Paulo, ma che da quando siamo a Bahia lo avevo dimenticato. E allora ci andiamo, giusto un paio di giorni, e poi gli ultimi quattro li passiamo sulla costa, abbiamo ancora tanto da vedere… Planiamo al porto con l’Elevador Lacerda. Aspettiamo il catamarà che in due ore ci porterà all’isola, bevendo succo di maracujà. E arriviamo. Appena messo il piede sulla passerella del porto lui dice” è la più bella isola che abbia mai visto”. Sparisce la sensazione di violenza, siamo al sicuro. Saliamo la salita bagnata dal sole. Non abbiamo valige, siamo qui per un paio di giorni. Le guide non ci avvicinano, prendono i bagagli delle persone dietro di noi e le caricano sulle carriole su cui c’è scritto taxi, spingendole su per la salita a petto in avanti e sedere all’infuori. Dopo la salita inizia l’unica stradina sabbiosa che si snoda per le varie spiagge dell’isola. Non ci sono macchine. Arriviamo alla segunda praia e chiediamo a varie pousadas se hanno posto. Un ragazzo alto ci suggerisce Chez Max. È nella terceira praia, ora mangiata dall’alta marea. Pochi metri ed ecco Chez Max, bungalow veri, col tetto spiovente di filamenti di palma intorno ad un giardino tropicale, curato dal suo ideatore, Manu il giardiniere. Ed ecco Luca e Lucia, fortissimi italiani. Fanno la pizza a colazione e il buffet del café de manha Chez Max non ha paragoni con nessun Hotel di Rio e Salvador. È un’altra cosa. La sera stessa mangiamo nel loro ristorantino. E poi usciamo a prendere una caipirinha in uno dei chioschetti disposti a ferro di cavallo sulla spiaggia, che espongono frutti sempre sognati, cacao, papaya (che in portoghese è mamao!)come fossero mele e pere! Non è estate e non immaginiamo come possa essere nera di gente, ora ci sembra una spiaggia dolce e fresca, con gente tranquilla e divertita. Conosciamo tante persone, che i nostri nuovi amici ci presentano. Tanti italiani, che hanno lasciato il Bel Paese per un Magnifico Paese e tanti bahiani che hanno sono venuti a vivere qui perché “non c’è violenza”, come chiunque si sente ripetere durante il soggiorno sull’isola. Inutile dire che decidiamo in un istante di restare qui tutti i giorni che mancano al nostro ritorno. Il giorno dopo conosciamo Mattheus, la guida che ci accompagna all’interno dell’isola a piedi. Durante la strada, ci indica tutti i nomi degli alberi. Arrivati a Gamboa, il villaggio dove abitano i nativi, ci porta a casa sua, a conoscere la sua famiglia. Una bella moglie giovane, con una bimba ricciola. Beviamo un’agua de coco proveniente dal suo giardino. Poi scendiamo alla praia linda, che è linda davvero, dove mangiamo peixe e batata frita. La guida ci affida ad un vecchio pescatore e alla sua barca che ci porta a punta do coral, una striscia di sabbia bianchissima e deserta da cui assistiamo al tramonto perfetto. Torniamo a Gamboa e la nostra guida sale senza una parola a prua con suo nipote. Per bilanciare questo guscio di noce che fiancheggiando la costa ci riporta a Morro Sao Paulo (l’isola tutta si chiama in realtà Tinharé), seguendo un codice prestabilito, che è in realtà solo buon senso e spirito di collaborazione. A Gamboa si arriva anche a piedi, quando c’è la bassa marea. Il giorno dopo ci incamminiamo, fermandoci a fare un bagno di argilla rosa. Ma quando arriviamo, la marea si sta alzando… Ecco che incontriamo alcuni nuovi amici, tra cui Tatiana, una bahiana che, dopo aver lavorato in Italia si è stabilita qui con sua madre ed ha aperto un locale. Ci uniamo a loro, ci offrono una cerveja in un chioschetto sulla spiaggia e poi torniamo tutti insieme su una barca a ritmo di musica. È già buio e si vede un cielo stellato impressionante… Ultimo giorno: il più bello. Fa caldo, come d’estate, approfittiamo per prendere il sole al limite tra la segunda e la terceira praia: un grappolo di palme, oceano limpidissimo e placido, un gruppo di ragazzi che si allena. Ultimo pastel de frango, ultimo guaranà. Andiamo a salutare tutti i “nostri posti”. Il faro bianco, il forte diroccato… Ultima notte passata nel giardino tropicale della pousada a chiacchierare con ragazzi e ragazze incontrati lì, aspettando l’alba, con nessuna sensazione di saudade (allora). Arrivati a Salvador, già l’impressione di aver finito la vacanza nella vacanza e tornare a ritmi metropolitani. Giusto il tempo di recuperare le valigie e fiondarci in aeroporto. E lì ancora un regalo brasiliano: il nostro volo è stato cancellato, siamo ospiti della compagnia aerea in un Resort Hotel. Possiamo imbucare le cartoline con calma, possiamo cambiarci e soprattutto: passare ancora una notte in Brasile. Adesso credo che avessero ragione tutti: c’è solo una parola da imparare prima di partire: obrigado!