Bolivia di semiserio
Aeroporto di Miami. Ho 8 ore (otto !) di attesa per il volo American Airlines Miami-La Paz, da passare in una stanza dove non c’e’ niente se non sedie, e un’ aria condizionata che da sola rinfrescherebbe mezzo Sahara. Inganno il tempo osservando la varieta’ del genere umano. Una signora che fa esercizi di ginnastica usando due bottiglie di plastica come pesi, due coppie che sarebbero la disperazione di qualunque dietologo, e un tipo che somiglia a Reagan, con il cappellino da baseball che probabilmente non toglie dalla nascita. Un ragazzotto si siede di fronte a me. E’ il tipico nerd, e ha un enorme sombrero sulla schiena e la chitarra a tracolla. Mi attacca discorso. Dice che va in Messico, e che vuole confondersi con i locali. Ride soddisfatto della battuta: poverino, probabilmente lo rapineranno gia’ sulla scaletta dell’aereo. Dopo un po’ l’aria condizionata diventa insopportabile, e stiamo tutti con i maglioni addosso, anche se fuori e’ luglio (a parte le due coppie che hanno la copertura di grasso adatta ai climi artici). Negli USA l’aria condizionata invece che a stare meglio serve a stare peggio. E io che mi preoccupo di spegnere la lucina rossa della tv per risparmiare energia !
Arrivo a La Paz che sta albeggiando. Il cielo e’ rosso, e si vedono le sagome delle montagne, mentre in basso e’ ancora tutto nero. L’aeroporto e’ a 4000 metri sull’altopiano, e ha una pista piu’ lunga del normale perche’ con l’aria meno densa dell’alta quota i jet hanno bisogno di piu’ spazio per frenare. Recupero i bagagli e prendo un taxi. Ci sarebbe la tariffa fissa, scritta bella in grande, ma il tipo dice che no, non e’ valida, e insomma non capisco una mazza di quello che mi dice alle 6 di mattina dopo che non dormo da 24 ore, e accetto lo stesso di pagare qualche dollaro in piu’. La strada dall’aeroporto all’improvviso precipita verso il basso, perche’ l’altopiano (che, lo dice la parola, e’ un piano in alto) si apre in una specie di strapiombo sul quale hanno costruito case ovunque: La Paz. Case a perdita d’occhio in ogni angolo del canyon, con l’Illimani sullo sfondo, una cima di 6400 metri, la terza della Bolivia per altezza: una vista che a quest’ora e con questa stanchezza addosso e’ una botta di adrenalina meglio del caffe’. Arrivo all’ Hostal Republica, un albergo da backpackers che mi ero prenotato dall’Italia per e-mail, nonostante potrei farmi rimborsare dal contribuente un albergo di lusso ben maggiore. E pensare che Brunetta all’epoca era ancora soltanto un anonimo nanetto ! La stanza alle 6 e mezzo di mattina ovviamente non e’ pronta, perche’ dentro c’e’ ancora un altro che dorme. Mi invitano a fare colazione e mangio con ingordigia tutto quello che mi propongono.
Vado a fare un giro in attesa che il tipo si svegli e liberi cortesemente quella che sara’ la mia stanza per un paio di settimane. Dopo circa 26 ore di viaggio, catapultato dal livello del mare a quasi 4000 metri, senza avere praticamente dormito, e con addosso 6 ore di jet lag, un giro sulle strade ripidissime di La Paz non e’ propriamente una pratica consigliata. Raggiungo la sede di Tonito Tours, presso la quale, via e-mail, avevo prenotato il mio giro-vacanza in fuoristrada nella parte sud-ovest dell’altopiano, per la fine del mio periodo in Bolivia. Devo dargli i 100 dollari (un prezzo ridicolo per 4 giorni tutto compreso) e soprattutto fargli vedere che esisto realmente. Il tipo e’ un ragazzone americano cresciuto a cheeseburgher e burro di arachidi, che si e’ sposato una boliviana e ha aperto una agenzia di viaggio. Simpatico. Dice sempre “you know, man” ogni tre parole, e anche molti “fuck”. “Hey, you know man, you made a fucking long trip, man, but I tell you, now you’re in a fucking great place, you know man !”. Annuisco sorridendo, evitando di condire la mia risposta con qualche “fuck” che non vorrei finisse fuori posto, e venisse male interpretato.
Prendo la stanza, pulita ma spartana come da copione. Ci sono pero’ due problemucci, peraltro previsti, perche’ descritti minuziosamente dalla Lonely Planet. Il primo e’ che non c’e’ il riscaldamento. Non sarebbe un problema in luglio, ma lo diventa se in luglio si va nell’emisfero sud, magari sulle Ande, e magari anche a 4000 metri sul livello del mare. La temperatura esterna e’ di qualche grado sopra lo zero, nonostante il cielo azzurro e il sole, e dentro la stanza saranno forse… diciamo sui 15 gradi ? Non lo so di preciso, ma sono pochi. Al sole si sta bene, all’ombra meno, e nella stanza dovro’ mettere un rinforzo al mio pigiamino grigio topo. In Bolivia solo gli alberghi al top hanno il riscaldamento. Il mio, ne deduco, non rientra nella categoria. Il secondo problemuccio e’ la doccia. In Bolivia solo gli alberghi al top hanno una doccia come normalmente la si intende. Tutti gli altri, come ad esempio il mio, non hanno l’acqua calda. Pero’, siccome neanche lo strato di grasso dei ciccioni americani dell’aeroporto riuscirebbe a sopportare l’acqua ghiacciata che esce dai rubinetti, i furbi boliviani hanno escogitato un sistema molto particolare, basato su una tecnologia veramente all’avanguardia. Nel telefono della doccia c’e’ un ingegnoso sistema di resistenze elettriche che si attiva al semplice passaggio dell’acqua, e che riscalda il getto che ti arriva in testa. Ovviamente, neanche a dirlo, realizzato nel piu’ totale rispetto delle normative internazionali sugli standard della sicurezza ! Sono solo quei cavi elettrici che escono dal tubo della doccia e che vanno direttamente nella 220 che mi lasciano perplesso, ma vuoi che gli esperti elettricisti boliviani non abbiamo preso le dovute precauzioni ? Vuoi che quei due giri di nastro adesivo gommato non siano perfettamente isolanti ? L’aspetto negativo della doccia (se quello appena descritto non lo si considera abbastanza negativo) e’ che l’acqua che ne esce o e’ freddissima, o e’ un raggio laser ad alta potenza che ti arriva perfettamente collimato sul coppino. Se il flusso e’ troppo alto, e’ ghiacciata, mentre se e’ troppo basso ti ustioni. Esiste solo una posizione del rubinetto che permette una miscelazione accettabile, ma necessita di una regolazione micrometrica. Per la cronaca, siccome dal lavandino esce solo acqua fredda, proveniente direttamente dal ghiacciaio dell’Alpamayo, l’unico luogo dove farsi la barba e’ sempre sotto la doccia, usando il micro getto di acqua calda, a meno che uno non voglia provare nuove esperienze e scorticarsi le guance con la lametta ghiacciata. Tutto questo mentre uno vorrebbe ridurre al minimo la permanenza dentro una simile camera della morte.
Telefono a Saavedra. Il Professor Saavedra. Il mio contatto sul luogo. Il mio uomo all’Havana. Boliviano, ma residente a Torino, dove insegna all’universita’, e’ uno dei massimi esperti di raggi cosmici. Con lui dovremo andare al Laboratorio di Chacaltaya a installare l’esperimento. Telefono al numero che mi ha dato a La Paz ma non risponde nessuno. Senza di lui non so cosa fare, e mi dico che non ci posso fare niente. Vado in giro e faccio il turista. Se vogliono beneficiare delle mie incommensurabili competenze scientifiche si faranno trovare.
Vado in un internet cafe’ per mandare qualche e-mail, e passo 20 minuti a cercare la chiocciola sulla tastiera. O e’ l’effetto dell’alta quota e non la vedo, o non c’e’. Alla fine mi decido a chiedere: “escusos, donde estad sto cazzo de chiocciola por espedir los email ?”. Il tipo mi dice che non c’e’, e bisogna fare “control-alt-46”. “Ah, muchas gracias, in effetti stavo per arrivarci da solo !”. Uno dei principali utilizzi del computer nel mondo e’ quello di mandare e-mail, e in Bolivia nella tastiera non c’e’ la chiocciola, ma l’intuitivo control-alt-46 ! Mi concedo un cheeskake e un caffe’ da Alexander, a guardarmi il passeggio della La Paz bene, e per cena entro nel primo posto che mi ispira: Don Antonio. Fanno la pizza, ma va bene lo stesso. Sono stremato e ho solo voglia di dormire, e mangiare stasera e’ solo una necessita fisiologica. La pizza margherita sulle Ande ha anche i peperoni e le olive, ma tutto sommato si mangia. L’ alta quota mi da un po’ di mal di testa; prendo una aspirina, indosso il pile sopra il pigiama, un orrendo pile blu con tartarughine bianche, che non so come posso aver acquistato, e i calzettoni di lana con i pantaloni infilati dentro (tenuta che, devo ammettere, penalizza leggermente la mia carica erotica) e perdo conoscenza in dieci secondi, avvolto da una temperatura polare.
Giro per la citta’. Di giorno col sole si sta bene, ma se ti fermi all’ombra sono cazzi, come dicono da queste parti. Ancora nessuna traccia di Saavedra. Comincio a preoccuparmi che il numero non sia giusto. Vado all’internet cafe’, e scrivo un e-mail a Saavedra control alt 46 punto bla bla bla punto it. Ripasso nel pomeriggio, nessuna risposta. Telefono di nuovo, nessuna risposta. Decido che me ne fotto, e faccio il turista. Telefono a casa: il posto di telefono pubblico e’ controllato da un poliziotto col mitra in bella mostra. Mi danno la cabina libera, chiamo, parlo, e poi si paga all’uscita, col poliziotto di fianco al cassiere. Deduco che a volte qualcuno tenta di non pagare: pago tutto fino all’ultimo bolivianos.
Finalmente Saavedra mi risponde. Era a passare qualche giorno di vacanza con figli e nipoti nello Yungas, il posto dove si coltiva praticamente tutta la coca che invade il mondo con il vezzoso diminutivo di cocaina. Che oltre ai raggi cosmici abbia anche altri interessi ? Mi dice che per andare al laboratorio di Chacaltaya, che sta a 5300 metri sul livello del mare, devo prima acclimatarmi, perche’ altrimenti si sta male, e che per i prossimi tre giorni sono libero. Fantastico ! Prenoto per il week-end al Lago Titicaca. Il contribuente si tranquillizzi: tutto a mie spese.
Vado in un bar e mi prendo un mate de coca. Il mitico mate de coca. Dicono che fa bene per la quota, e io ho un leggero mal di testa persistente, sicuramente dovuto all’alta quota. E poi voglio vedere che sapore ha questo mitico mate de coca. Mi arriva una tazza con dentro alcune foglie tipo alloro, un po’ piu’ tozze e corte, ma con consistenza simile, e una teiera di acqua bollente. Mi trovo di fronte alle mitiche foglie di coca ! Le guardo con rispetto misto a timore. Butto l’acqua fumante dentro la tazza, immaginando lo sprigionarsi di una reazione chimica accompagnata dall’emissione di vapori mefitici e allucinogeni, e invece non succede niente. L’acqua diventa impercettibilmente verdina e basta. Mescolo le foglie, cerco di spremerle col cucchiaino (ma non c’e’ niente da spremere) e quando la temperatura diventa accettabile, bevo. Fa veramente cagare ! Una acquetta appena amarognola, quasi insapore. Se un occidentale vi dice che il mate de coca e’ buono non credetegli: di sicuro lo dice per darsi un tono, perche’ non si puo’ dire che il “mitico” mate de coca fa cagare ! E’ come ammettere in un cineclub che i film di Tarkowsky sono una abominevole trituratura di maroni. Comunque nel tavolo accanto una famiglia di boliviani con bambini piccoli sorseggia tranquillamente mate de coca. Alla faccia della bevanda allucinogena e proibita ! Magari da queste parti e’ la spuma al cedro a essere una bevanda mitica e maledetta, da bere in clandestinita’. Comunque, sara’ che filtro il mondo attraverso lo scetticismo innato dei fisici, ma oltre a sciacquarti lo stomaco e rovinarti il sapore in bocca, il mate de coca non fa niente di niente, neanche contro l’alta quota. Infatti alla fine per il mal di testa prendo un’altra aspirina.
Fine settimana a Copacabana, sul Lago Titicaca. Copacabana della Bolivia, mi dicono, ha dato il nome alla piu’ famosa Copacabana del Brasile, perche’ ha una montagnozza sopra il paese come il Pan di Zucchero di Rio de Janeiro. Prenoto il bus e l’hotel dall’albergo, l’ Hotel La Cupola, che la Lonely Planet definisce “lovely”, e il preferito dai backpackers. Il bus fa varie fermate uscendo da La Paz, dove salgono locali con scatoloni, verdure miste di stagione, galline, cani e altri generi di prima necessita’. Ad un certo punto l’autista tira il freno a mano e scende, e con calma va a comprarsi il giornale. Riparte, si riferma, nuova tirata di freno a mano, e stavolta si compra un po’ di frutta. Riparte, e poi lungo la strada inchioda di colpo, apre la porta, e si mette a sbracciare verso un tipo al bordo della strada. A giudicare da come si parlano potrebbero essere due compagni di scuola che non si vedono da 40 anni. Baci, abbracci, pacche sulle spalle, e como te pasa, e donde vai, e ancora pacche sulle spalle, e ma guarda te da quanto tiempo ! Dieci minuti cosi’, bus fermo, e tutti che trovano la cosa normale, neanche uno che sbuffa, o che guarda l’orologio con un accenno di impazienza. Alla fine l’amico ritrovato sale, e capisco che l’autista lo accompagna a casa. Fantastico ! Mi immagino l’87 a Bologna, con l’autista che fa salire un amico e gli dice “oh, ma guarda un po’ chi ti vado a incontrare ! Dai che ti do un passaggio. Dove vai ? A Zola Predosa ? Io dovrei andare a Corticella, ma dai, faccio una piccola deviazione di 40 minuti e ti ci porto che tanto nessuno protesta !”. Mi sa che qui il logorio della vita moderna non e’ un problema: vita dura per gli importatori del Cynar.
Il paesaggio dal bus e’ il mio ideale di paesaggio. Deserto, tutto piatto, neanche un albero, neanche una casa, niente, e poi di colpo, prima dell’orizzonte, i ghiacciai delle Ande, sfavillanti sotto il cielo terso. In questa zona le Ande sono larghe una ventina di chilometri, giusto lo spazio di un paio di cime di 6000 metri, e poi dietro, in altri venti chilometri, sei gia’ in Amazzonia. Nonostante sul finestrino batta un sole feroce, me ne sto tutto il tempo incollato al vetro a guardare fuori. Poi sul lato sinistro del bus appare il lago. E’ blu scuro, come il famoso blu oltremare che mi si rompeva sempre la punta alle elementari. Me lo avevano detto, ma non immaginavo un blu cosi’ intenso, probabilmente dovuto al cielo limpido, e alla luce fortemente polarizzata a causa dell’assenza di smog e pulviscolo (ecco la laurea in fisica che viene fuori con prepotenza !). Si attraversa uno stretto col bus caricato su una chiatta, e dopo un po’ siamo arrivati. Vado a piedi in cerca dell’hotel, assaporando la rutilante vita di Copacabana downtown. All’albergo c’e’ un tipo che mi dice che devono ancora fare la stanza, e che non puo’ lasciarmi la chiave (perche ? ne hanno una sola ? vabe’, non indago) e che pero’ posso lasciare la valigia nella stanza, la numero 15, e poi tornare piu’ tardi. Lascio la valigia e vado a zonzo.
Donnoni boliviani con gonnone, treccia e bombetta ovunque, molte con il bambino piccolo legato alle spalle. Faccio un giro nella zona del mercato e poi decido di fare una camminata che costeggia il lago, consigliata dalla Lonely Planet. L’inizio del sentiero passa attraverso una specie di discarica, che non dona propriamente al paesaggio. Comincio a camminare: e’ una sterrata lunga e dritta, e non c’e’ un gran via-vai. Poi comincio a costeggiare il lago: allevamenti di trote, la blasonata trota del Lago Titicaca, acque blu, e cime innevate sullo sfondo. E nessuno in giro. Dopo il mitico Mate de Coca, adesso sono sul mitico Lago Titicaca ! Incontro un bambino di 4 o 5 anni che gioca per terra davanti a quella che presumo sia la sua casa, circondato da maiali e galline, che mi chiede “donde” sto andando. Gli sorrido e gli indico “la” generico, anche perche’ non lo so neanche io dove sto andando. E lui mi fa: “si, ma donde !”. Come a dire, “ho capito che vai “la”, ma che cazzo ci vai a fare “la” che non c’e’ niente !”. Non so cosa rispondere. Come faccio a spiegare a un bambino di 4 anni, che vive qui da sempre e non immagina neanche di poter andare in qualche altro luogo, perche’ non conosce nessun altro luogo oltre a quello, che un coglione di turista ci e’ venuto apposta dall’altra parte del globo, da un posto chiamato Italia, che lui neanche ha mai sentito nominare, per camminare lungo quella sterrata che e’ l’unica cosa che lui ha mai visto in vita sua ? Come faccio a spiegargli che il luogo in cui vive, fra maiali e galline, e’ il mitico Lago Titicaca e che migliaia e migliaia di coglioni occidentali come me sborsano ogni anno fior di dollari per andarlo a vedere ? Mi sento una merda, e non sara’ l’ultima volta in questo viaggio.
Vado a vedere il tramonto sul Pan Di Zucchero de noantri. Mi spolmono per fare in salita i 100 metri di dislivello che portano in cima. Sono ripagato da un tramonto strappacuore, come da copione. In cima una coppia di turisti italiani, i primi che vedo da quando sono qui, con i quali rinfresco la lingua natia dopo quasi una settimana di astinenza. Non appena il sole va giu’ fa un freddo porco, visto che siamo a oltre 4000 metri. Alla base della discesa e’ gia’ notte fonda.
Per cena vado in un ristorante taverna nel centro di Copacabana. Che se fosse stato nella periferia sarebbe stato solo 200 metri piu’ in la. Siamo io e quattro boliviani in un altro tavolo. Ordino trota del (mitico) Lago Titicaca alla griglia, e cerveza. Dopo 45 minuti non e’ arrivato neanche da bere, niente posate, niente, ne a me ne a quelli dell’altro tavolo. In compenso il cameriere e’ frenetico. Entra e esce dal locale con vassoi, bottiglie, scatoloni, casse di pomodori. Che serva in tutti i ristoranti della zona ? Dopo un ora arriva la trota, pero’ non ci sono ancora le posate, e il cameriere scappa di nuovo fuori dal locale. Ho la salivazione fuori controllo. Riesco finalmente a bloccarlo mentre rientra con due damigiane e gli spiego a gesti che non ho le posate. La trota e’ buonissima, cotta alla griglia, e enorme: un salmone trotato, piu’ che una trota salmonata. Trangugio voracemente, come ogni giorno da quando sono qui: sara’ il metabolismo dell’alta quota. Esco dal locale verso le 10 di sera e mi incammino verso l’hotel, che e’ un po’ fuori del paese. La vita notturna di Copacabana lascia a desiderare, e per fortuna e’ sabato sera ! Ad un certo punto, in una zona buia, alzo gli occhi e vedo il paradiso: a 4000 metri di quota, senza un filo di smog, in cielo c’e’ una via lattea pazzesca ! C’e’ il centro della galassia, verso il Sagittario, pieno zeppo di stelle, molto in alto qui all’emisfero sud, non come da noi che e’ sempre vicino all’orizzonte. E poi la Nebulosa Trifida, l’ammasso globulare del Centauro e le Nubi di Magellano. Si vedono tutti a occhio nudo, tanto l’aria e’ tersa. Sembra il cielo di un cartone animato. Le stelle sono talmente tante che non riesco neanche a individuare le costellazioni che conosco. E poi la vedo, li, isolata, in mezzo alla Via Lattea, impossibile da confondere: la Croce del Sud ! E come un cretino mi commuovo. Trenta anni di passione per l’astronomia, e adesso vedo per davvero la Croce del Sud, la “mitica” croce del Sud, dopo il mitico mate de coca e il mitico Lago Titicaca ! E allora faccio una cosa che se mi vedesse qualcuno penserebbe che sono pronto per il reparto neuropsichiatrico: mi sdraio sull’erba, a pancia all’aria, per guardare il cielo. Nonostante il freddo che mi fa tremare sto li a guardare le stelle, consapevole di essere di fronte a una delle cose piu’ belle che abbia mai visto.
Arrivo all’hotel, che e’ completamente avvolto nel buio. Neanche una luce, un’ insegna, niente. Busso timoroso, ma non si muove una paglia. Ribusso piu’ forte e sento un po’ di trambusto all’interno. Mi apre uno che stava chiaramente dormendo (c’e’ una branda all’ingresso). Gli spiego nel mio spagnolo inesistente che ho la camera 15 e che devo prendere la chiave. Il tipo cade chiaramente dalle nuvole, ma poi tira fuori un mazzo di chiavi da fare invidia a San Pietro, e mi dice di seguirlo. Si mette a provare le chiavi davanti alla porta della stanza 15, al buio completo, ma nessuna chiave apre. Quando comincio a disperare (se non sono numerate facciamo l’alba), trova finalmente quella giusta e mi fa entrare. Mi chiedo che razza di albergo ho prenotato. Che sia tutta una messa in scena ? Una candid camera ? Ci dormo sopra.
La mattina l’albergo ha subito una trasformazione totale. Camerieri in giro, colazione a buffet sulla terrazza, tavolini apparecchiati, turisti. Dove stavano tutti quanti la sera prima ? Noleggio una bici e vado a fare un giro sul lungolago, che e’ poi una sterrata di qualche chilometro. Avra’ pure dato il nome alla Copacabana del Brasile, ma manca un ingrediente fondamentale: le brasiliane. Le boliviane del luogo, con le brasiliane dell’omonimo luogo, sembrano avere in comune solo la rima. Che poi in realta’ io a Copacabana del Brasile non ci sono mai stato, e magari e’ tutta una diceria questa storia delle brasiliane, e Copacabana del Brasile e’ il regno della cellulite. Torno in centro, e davanti alla chiesa principale c’e’ la benedizione delle automobili: un prete, cattolico, benedice le automobili portate dai fedeli. Solo che non e’ che impartisce una benedizione generica, che poi dopo magari ci pensa il Padreterno, nella sua infinita bonta’, a indirizzarla sullo spinterogeno, o su qualche altro pezzo del motore particolarmente bisognoso. No, i proprietari delle auto proprio gli aprono il cofano e gli indicano cosa benedire. “Padre, mi benedica la marmitta, per favore, che ha gia’ 120 mila chilometri, e poi anche un’ avemaria per la cinghia che ultimamente mi slitta un po’”. Faccio un po’ di foto e vado a prendere il pulman che mi riporta a La Paz.
Partenza per il laboratorio di Raggi Cosmici di Cerro Chacaltaya, 5300 metri sul livello del mare. Saavedra mi dice di farmi trovare alle 8 e 30 di mattina alla colonna (una piazza di La Paz) e una jeep dell’universita’ passera’ a prendermi. Alle 9 e 30 ancora non si vede nessuno. Visto che io non ho mai visto Saavedra e lui non ha mai visto me, la cosa un po’ mi preoccupa. Il luogo e’ probabilmente l’incrocio piu’ rumoroso e trafficato al mondo, (cosa che, gia’ da sola, non facilita l’incontro di due persone che non si sono mai viste prima) e al centro c’e’ un vigile che in teoria dovrebbe dirigere il traffico, ma che, suppongo, e’ stato messo li come cavia per studiare come l’autostima di un essere umano possa scendere a zero quando chi ti sta attorno ti ignora completamente. Finalmente arriva la jeep. C’e’ Saavedra, 3 tecnici dell’universita’ di La Paz, e due studenti di PhD giapponesi. Veloci presentazioni, e partiamo: sembrano tutti molto simpatici. Per la cronaca il nostro compito e’ installare un esperimento per lo studio dei raggi cosmici, che consiste nel posizionare, in un sottotetto di una struttura del laboratorio, delle lastre di piombo alternate con lastre di un materiale plastico capace di vedere certe particelle particolari, che, casomai dovessero esistere, si chiamerebbero monopoli magnetici. Per fare questo, imparo mentre sono nella jeep, bisogna prima passare da un falegname per comprare le tavole di legno per costruire il sottotetto. La falegnameria e’ enorme, praticamente l’Ikea di La Paz, solo un po’ piu’ carente nella presentazione al pubblico, visto che e’ tutto all’aperto e il pavimento e’ di terra. Comunque a questo punto il problema serio e’ che io, da piu’ di due ore al freddo, fra un po’ me la faccio addosso, e non c’e’ un bagno in giro. Saavedra e i tecnici sono intenti a scegliere i legni piu’ pregiati, e mi scoccia interrompere la loro discussione tecnica con un prosaico “scusate se vi interrompo, ma dove sta il cesso ?”. Ancora non ho sufficiente confidenza, e quindi mi inoltro con fare indifferente facendo finta di curiosare fra i soggiorni alla ricerca di un luogo lontano da sguardi indiscreti, sperando di non dover mai incontrare quello che comprera’ il como’ da me prescelto.
Ripartiamo per Chacaltaya. Lungo la strada ci fermiamo a El Alto, il sobborgo di La Paz da un milione di abitanti sull’altopiano vero e proprio, per far salire Marta, la cuoca, un donnone tipico boliviano con trecciona nera e un faccione cotto dal sole che ispira simpatia solo a guardarlo. Sale con tre buste di verdure, 24 uova, e due polli (morti). Che ci sia un pranzo di matrimonio oggi a Cerro Chacaltaya ?
La strada per arrivare e una sterrata a tornanti pazzesca. Mi dicono che per portare su i computer hanno dovuto staccare gli hard-disk, per non rovinarli con gli scossoni delle buche. Il paesaggio in compenso e’ fantastico. Terra marrone-rossa, senza alberi, qualche lago dai colori strani, a causa delle alghe che ci sono, e ghiacciai li a due passi, che sembra di poterli toccare. Proprio di fianco al Cerro Chacaltaya c’e’ lo Huayna Potosi, un 6000 metri che dicono essere relativamente facile dal punto di vista alpinistico. Il suo campo base e’ a 2 ore di jeep da La Paz. In giro ci sono lama, vigogne, guanachi e alpaca. A parte i lama, che sono piu’ grossi e con l’espressione particolarmente stupida, gli altri mi sembrano tutti uguali.
Arriviamo ai laboratori dopo poco piu’ di un’ora di jeep. Per inciso Chacaltaya e’ una gita in giornata molto comune da La Paz, organizzabile presso qualunque agenzia di viaggio. Il luogo infatti si vanta di essere la stazione sciistica piu’ alta al mondo. Detto questo, chi viene qui per sciare e’ un pazzo. A parte che non ci sono piste, perche’ il ghiacciaio si e’ sciolto del tutto in questi ultimi anni, l’impianto e’ un vecchio skilift donato dal Sestriere alla fine degli anni 60. Il top della tecnologia, quindi. Io non ho visto nessuno sciatore, e solo qualcuno che si buttava giu’ per un nevaio su un sacco della spazzatura (che poi a ritornare su sono cazzi, visto che lo skilift e’ spento). E comunque, nonostante siamo a 5300 metri, non c’e’ praticamente neve, se non a chiazze. Ci accoglie un cane, Canito, arrabbiatissimo, nonostante sia un bastardino alto 30 cm. Mi dicono che con gli estranei e’ un po’ rompicoglioni, e lo chiudono nella cuccia, mettendoci davanti un asse di legno come sbarramento. Lui tiene fuori il muso e annusa sospettoso l’odore del nuovo estraneo.
Comincio a fare le mie misure. Ho dei contatori per misurare le interazioni dei neutroni prodotte dai raggi cosmici. Il laboratorio definirlo artigianale e’ un complimento. Non c’e’ acqua corrente e non c’e’ riscaldamento, e fa quindi un freddo porco, dentro piu’ che fuori, perche’ almeno fuori c’e’ il sole. In compenso c’e’ almeno la corrente elettrica, visto che i computer a pedali ancora non li hanno inventati. Alle 11 e 30 suona la campana, e tutti smettono di lavorare e come bambini a ricreazione corrono in cucina emettendo gridolini di giubilo: Marta ha preparato da mangiare. Hamburgher, pomodori, insalata, pane e, a scelta, te o mate de coca. Scelgo il te, mentre mi chiedo che fine hanno fatto i 2 polli e le 24 uova.
Riprendiamo il lavoro. Dopo poco piu’ di un’ora altra scampanellata, altri gridolini di giubilo e altra corsa in cucina. Ecco dove erano finiti i polli ! Imparo che i boliviani devono fare una merenda a meta’ mattina per fermare lo stomaco, a base di hamburger, tanto per fare un esempio, perche’ altrimenti sragionano, e non riescono ad arrivare alle 13 e 30, quando c’e’ il vero pranzo. In questo caso zuppa con verdure, frittata e pollo. Chissa’ se poi hanno da contratto, obbligatoria, anche una pennica di due ore. Condisco tutto con una salsa mostruosamente piccante ai peperoni, che, mi dico, se non uccide me almeno uccidera’ qualche eventuale microbo vagante. I due studenti giapponesi, temprati a wasabi fin dalle prime pappe, non fanno una piega e versano colate di salsa infiammabile su tutto quanto. Mangio di gusto, chiacchierando con Marta e i tecnici nel mio fluente spagnolo, che e’ poi italiano con la esse finale. Sara’ l’effetto lisergico dell’alta quota che toglie le inibizioni, ma mi sento quasi un madrelingua.
Verso le 16 si torna a La Paz. Meno male perche’ cominciavo a avere un discreto mal di testa, per l’alta quota. I giapponesi invece restano per la notte. Non li invidio, ma d’altra parte uno che riesce a mangiare il wasabi puo’ sopportare praticamente tutto, figuriamoci una notte a 5300 metri senza riscaldamento.
Per cena ordino gaspacho cileno. Una zuppa che rende la salsa piccante di Marta un omogeneizzato per lo svezzamento. Buonissima pero’. C’e’ dentro di tutto, da pezzi di carne a uovo, a verdure di ogni tipo. La prendero’ tutte le sere che potro’, eleggendola a prelibatezza locale. E per tutte le sere la accompagnero’ con pane intinto in una salsa rossa al gusto di fuego dell’infierno. In effetti una analisi a tavolino della mia dieta ultrapiccante di questi ultimi giorni potrebbe indurre a ipotizzare ripercussioni nefaste sulle fasi finali del processo digestivo, ma inspiegabilmente non succede niente di tutto questo. Forse sto diventando immortale. Per secondo filetto al gorgonzola locale, il tutto per 10 dollari, in un ristorante che per i lapazziani, o lapazzesi, deve essere di lusso, perche’ e’ frequentato da uomini d’affari e sorvegliato dalla solita guardia col mitra. Una presenza un po’ inquietante, ma dopo un po’ ci si abitua. Vado al mercato de las brujas, il mercato delle streghe, dove c’e’ di tutto per riti voodoo e altri ameni passatempi del genere. Una coppia di olandesi contratta l’acquisto di un feto di lama essiccato. Forse in olanda va molto il feto di lama sul como’. O magari e’ per un regalo, chissa’.
Allestimento delle lastre di piombo nel laboratorio. Una fatica bestia, a 5300 metri. I tecnici boliviani sono abituati, ma anche loro ogni tanto sbuffano. Ad un certo punto uno si ferma per riprendere fiato, e un altro gli dice: “Vamos, pugnettaro !”. Rifletto su come questa pratica ancestrale accumuni popolazioni e etnie le piu’ diverse nei vari angoli del globo. Per non essere da meno sollevo anche io lastre di piombo e la porto su per la scala, perpetuando cosi’ la millenaria sfida fra l’uomo e l’ernia.
Dopo pranzo (il secondo pranzo) si gioca a biliardino. Solo che non capisco le regole del biliardino boliviano. Quando una pallina va a finire in un qualche punto dove non si riesce a piu’ a colpire, invece di prenderla e rilanciarla, i boliviani buttano un’altra pallina. Quindi dopo un po’ va a finire che ci sono 3 o 4 palline che girano, un gran troiaio, e la partita che va in vacca. Tutti si divertono lo stesso e mi diverto pure io, frullando senza sosta in barba alle normative internazionali, che proibiscono tassativamente la frullata. Un tecnico boliviano, sul 4 a 4, pallina decisiva, mi chiede di spedirgli dall’Italia un numero di Playboy perche’, dice, la versione europea e’ meglio di quella sudamericana. Mi fido del parere autorevole.
Mi prendo mezz’ora (abbondante…) per salire sulla cima del Cerro Chacaltaya, 5450 metri. Una vera cima andina ! Si sale su una cresta, all’inizio senza neve, e poi innevata, ma con neve non dura. Solo alla fine e’ un po’ ripido, e sarebbe auspicabile non scivolare. Un ultimo sforzo e sono in cima. Ho mal di testa, anche perche’ sono salito in fretta. Panorama fantastico, pero’. Scatto foto, una anche a me stesso, tenendo la macchina con il braccio teso. Non saprei dove appoggiare la macchina per l’autoscatto perche’ sulla cima aguzza c’e’ posto a malapena per me seduto. Vengo malissimo, ma che cavolo ! Sono a 5450 metri su una cima delle Ande ! Forse che Compagnoni e Lacedelli sono venuti bene sulla cima del K2 ?
Di sera passeggio lungo la via principale di La Paz. C’e’ una donna che vive per strada, con una bambina che avra’ quattro anni. L’eta’ di mia figlia. E’ sporca, ha la gonnetta cenciosa, ma ha i movimenti di mia figlia, e di tutti i bambini di quattro anni. La guardo mentre saltella sul marciapiede e mi intenerisco.
Di nuovo a Chacaltaya. Oggi c’e’ con noi l’ingegner Pedro Miranda ! Un tipo che somiglia vagamente all’ispettore Clouseau, faccia stretta e lunga coi baffoni, e che e’ interessato a tutto quello che mi riguarda. Vuole sapere del Cern, degli acceleratori, della fisica di particelle, e mi fa un turbinio di domande. Io perdo ogni inibizione e mi butto in una lezione sullo scibile della fisica delle particelle degli ultimi anni, nel mio spagnolo da urlo. Forse complici gli effetti allucinogeni dell’alta quota, o del peperoncino, parlo a ruota libera, mescolando tutte le lingue del mondo. Sembro Salvatore del Nome della Rosa. Ad un certo punto mi ascolto mentre dico “e’ muy importante el posizionamiento del revelador por los adrones !” e mi dico che no, c’e’ un limite a tutto ! Pero’ Pedro capisce, e non finge, perche’ mi fa anche domande intelligenti. Forse crede che le parole che invento siano italiano, e non un tentativo patetico di parlare la sua lingua. Andiamo avanti per un po’, fino a che ho un improvviso crollo ipoglicemico e mi spengo come un motore senza benzina. Con questa conversazione ho smaltito tutti i doppi pranzi di questi giorni. Per tornare a La Paz l’ingegner Miranda ci fa fare una deviazione che conosce lui, e incontriamo greggi di alpaca, o vigogne, o altre bestie simili (avrei potuto dire altri “camelidi”, per stupire il lettore), allo stato brado. Perche’ il lama e’ una variante del cammello, come anche la giraffa. Come la Prinz e la Duna sono una variante della Lamborghini. Mi faccio fare una foto, ma, nonostante l’autofocus, viene sfuocata.
Giorno libero. Vado a visitare Tihuanaco, antico sito pre-incaico. Organizzo il giro tramite l’agenzia che ho in albergo. Il viaggio in pulman dura circa un’ora, sull’altopiano. Sul pulman c’e’ una coppia di italiani di mezza eta’. Lui e’ di quelli che “nella vita ho visto cose che voi umani”. Lei e’ la moglie di quello che nella vita ha visto cose che voi umani. Mi chiedo perche’ gli italiani all’estero appaiono spesso cosi’ insopportabili. Mi chiedo se anche io appaio cosi’ insopportabile, all’estero, per gli altri italiani. Mi raccontano tutti i loro viaggi: “pensi che mentre ero in Tanzania e stavo tenendo a bada un gruppo di leonesse con un fucile caricato a salve, e’ arrivato dritto verso di me un leopardo inseguito da una mandria di rinoceronti, e mi dico adesso cosa faccio, perche’ a destra avevo i coccodrilli gia’ con la bocca spalancata, a sinistra il baratro della cascata…”. Io ascolto e annuisco con l’espressione della mucca. Ad un certo punto la moglie, che finora aveva approvato tutto quello che diceva il marito con ampi movimenti del capo, come quei cani che si mettevano sul pianale della 850, se ne esce con un vero capolavoro: “… e poi, adesso che e’ qui, lei (cioe’ io) dovrebbe assolutamente andare all’Isola di Pasqua che da qui e’ vicinissima !”. E certo, e’ qui a due passi ! Sono solo quattromila chilometri in linea d’aria ! Come dire “adesso che sei a Sasso Marconi non vuoi andare a vedere il Monte Ararat, che si va e si torna per cena ?”.
Visita alle rovine del sito archeologico, molto affascinanti, se solo non si presta attenzione a quello che dice la guida locale, che ci informa che nella zona c’e’ un campo magnetico cosi’ intenso che addirittura modifica i colori delle pietre, che se uno le porta fuori dal sito hanno un colore diverso. Non faccio neanche lo sforzo di fare la prova: basta la laurea in fisica a dirmi che e’ una stronzata. I due italiani invece annuiscono convinti. Vorrei dirgli “e allora le carte di credito ?”, ma lascio perdere l’inutile polemica. Dice anche che spesso sopra la Porta del Sole appaiono gli extraterrestri (l’italiano li avra’ gia’ visti di sicuro in qualche suo viaggio). Mi chiedo se questi extraterrestri non si sono rotti i coglioni di fare tutte le volte qualche centinaio di anni luce di viaggio, quando va bene, per delle toccata e fuga in posti del genere, e poi magari, a coronamento del viaggio, manifestarsi con un vedo-non-vedo a tosatori di alpaca, amministratori di condominio, guardie giurate, cassintegrati, precari delle poste… Oddio, non e’ che’ se scegliessero persone piu’ in alto nella scala sociale cascherebbero per forza meglio. Mettiamo che, per studiare gli abitanti del nostro pianeta, gli capiti per caso di scegliere, che so, Alberoni, il sociologo, e la moglie. Che figura ci faremmo noi come genere umano ? Che idea distorta si potrebbero fare dell’homo sapiens, da raccontare di ritorno al loro pianeta ? L’Onu dovrebbe predisporre le dovute precauzioni per evitare una simile evenienza. In realta’ il clou della visita a Tihuanaco consiste nel pranzo in un ristorante del paese, il cui proprietario e’ di sicuro in combutta con la nostra guida. Come quelle gite di un giorno a Venezia, che stai mezz’ora in piazza San Marco ma il grosso del tempo lo passi a vedere una dimostrazione di pentole e poi al ristorante. Io, non avendo pagato per il pranzo, mi mangio a morsi un cacciatorino portato dall’Italia, e vado in giro per il paese assieme a tre ragazzi inglesi, un ragazzo e due ragazze, che sono in giro per il Sudamerica da sei mesi. Le ragazze sono molto carine. Moderata invidia da parte mia nei confronti del maschio.
Il lavoro all’esperimento e’ praticamente finito. Parto per il giro di 4 giorni nel sud ovest del deserto boliviano. Da La Paz con un pulman vado a Oruro. Check-in come sull’aereo, con etichette sui bagagli. Viaggio perfetto, puntualissimo, con lo sguardo incollato al finestrino: vedo il vulcano Sajama, sulla cui cima, pochi giorni prima, hanno giocato la partita di calcio piu’ alta del mondo, approvata dal Guinnes dei Primati: 6500 metri di quota. Non invidio i raccattapalle. Mi immagino litigate furiose del tipo “no, tu l’hai mandata di sotto, tu adesso la vai a prendere !”. Alla stazione di Oruro incontro un gruppo di francesi e fantastico mentalmente di fargli ripetere OruroOruroOruro veloce tutto di seguito, per assistere a un soffocamento di gruppo. Vado alla stazione, dove ho prenotato il treno per Uyuni. Il treno poi continua fino a Tupiza, il luogo dove sono stati uccisi i mitici fuorilegge Butch Cassidy and Sundance Kid. Dopo il mitico mate de coca, il mitico Lago Titicaca, e la mitica Croce del Sud, ancora qualcosa di mitico ! Mai viste tante cose mitiche una dietro l’altra come in questo viaggio. A questo punto potrei perfino imbattermi nel mitico Jim Morrison, fintosi morto in una camera d’albergo di Parigi per scappare dalla notorieta’ e dare finalmente libero sfogo alla sua vera passione: aprire un allevamento di vigogne da queste parti.
Il treno parte puntualissimo. Sembra un Santa Fe di quelli americani, tutto d’argento. Ho il biglietto di prima classe (la Tonito Tours lo consigliava, e anche la Lonely Planet). C’e’ il televisore con il VHS e addirittura si possono girare i sedili per orientarli verso la direzione di viaggio, e il bagaglio viene messo in un vagone apposito. Ci sono tutti i presupposti per un viaggio comodissimo. Ma ci sono due problemucci. Il primo e’ che il binario, unico, pur essendo drittissimo, non sopporta velocita’ superiori ai 50 Km orari. Quindi il viaggio e’ di una lentezza esasperante. Il secondo problema e’ che dopo 10 minuti di viaggio il treno e’ pieno di polvere che entra da non so quali spifferi e si nebulizza nell’aria. C’e’ un dito di polvere ovunque, narici secche, occhi secchi, gente con i fazzoletti sulla bocca e sul naso. Sei ore cosi’. Arrivo alle 10 di sera sfatto. Recupero lo zaino, che e’ irriconoscibile dalla polvere, e attraverso Uyuni per andare all’albergo. Uyuni by night non e’ proprio Rimini, diciamo: fa un freddo suino e non c’e’ nessuno in giro. Prendo la stanza, faccio la doccia con l’elettroshock, e vado a letto.
A colazione ci sono due ragazze americane, carine e simpatiche. Le faccio un po’ ridere dicendo qualche idiozia, e spero che siano nel mio gruppo per il tour che sta per iniziare. Mannaggia, sono con Colque Tour ! Lo dicevano che Colque Tour era l’agenzia migliore! Vado alla sede di Uyuni della Tonito Tour: il gruppo per il giro di 4 giorni e 3 notti e’ composto, oltre che da me, da una coppia di olandesi sui 25 anni, e da una famiglia di israeliani, padre, madre, e due figli di 14 e 16 anni. Quello di 16 anni ha la febbre, la tosse e il mal di gola: se mi attacca qualcosa scateno l’intifada. Poi c’e’ l’autista, che naturalmente si chiama Pedro, come quasi tutti da queste parti, e la cuoca, Teresa. Fuoristrada strapieno. Partiamo per il Salar de Uyuni: una distesa di sale bianchissima e accecante larga piu’ di 200 km, circondata da vulcani. Siccome la stagione delle piogge e’ stata abbondante, sul sale in certi punti ci sono 20 cm di acqua, che riflettono il cielo. Paesaggio irreale, mai visto niente di simile. La jeep solleva scie di acqua salata, finche’ arriviamo all’ Isla del Pescado, scoglio di pietre e cactus nel centro del salar. Vado in esplorazione. L’alba o il tramonto qui devono essere uno spettacolo. Mi inoltro nel bianco, fino a dove riesco a camminare senza affondare nell’acqua. Pedro ci chiama all’ordine, bisogna tornare. Troppo poco tempo. Tutto il giro sara’ troppo di fretta per luoghi cosi incredibili. Alla fine lo diro’ all’agenzia: questi tour, tipicamente di quattro giorni e tre notti, dovrebbero durare almeno un paio di giorni di piu’.
Bisogna lavare la macchina per togliere il sale da sotto, e poi si riparte. Durante il percorso la jeep si ferma un paio di volte. Pedro apre il cofano, smanetta nel motore, e si riparte. Sono sospettoso, mentre i miei compagni di viaggio sonnecchiano incoscienti. La Lonely Planet infatti racconta di gente rimasta all’addiaccio con venti sotto zero a causa di rotture del motore. Speriamo bene. Arriviamo in una specie di locanda, l’unica nel raggio di non so quante decine di chilometri, dove ci sistemano in uno stanzone tutto sommato abbastanza nuovo e ben messo. Non c’e’ neanche bisogno del sacco a pelo perche’ hanno i letti puliti. Cena by Teresa e a letto. L’israeliano tossisce tutta notte spargendo germi.
Partenza senza troppa fretta, e siamo di nuovo nel deserto dell’altopiano. Terra rossa e marrone scuro, vulcani con cime striate di bianco, rocce dalle forme strane, e cielo blu. Gli altri dormono nella jeep (ma si sono presi i posti davanti !). Io sono relegato nell’angolo in fondo, strettissimo, ma non mi perdo un centimetro di paesaggio. La strada e’ orrenda: guadi, buche, pietroni, e ovviamente non ci sono indicazioni di alcun tipo, ma il nostro autista ha il GPS in testa. Nessuna traccia di esseri umani, a parte gli altri fuoristrada delle altre agenzie. Ad un certo punto il motore fa un rantolo strano e la macchina si ferma. Pedro apre il cofano, smanetta un po’, come aveva fatto il giorno prima, ma stavolta la macchina non riparte. Perfetto, penso, ho una nuova storia da inviare alla Lonely Planet per la prossima edizione del volume sulla Bolivia ! Si fermano altre auto di altre agenzie. Grande consulto al vertice degli autisti. Un po’ cazzeggiano, in realta’, e un po’ provano a riparare la macchina. Vedo che alla fine creano un accrocco di fili elettrici e fil di ferro, che in confronto il dispositivo della doccia e’ a norma CE, e lo montano. Giro di chiave e la macchina riparte. Grandi pacche sulle spalle, dammi cinco, vamos amigos, e siamo di nuovo on the road. Da totale incompetente di motori mi illudo che il problema sia stato risolto.
Il padre degli israeliani e’ un giornalista, lettore di telegiornale della tv, e altri israeliani di altri gruppi lo riconoscono e lo salutano. E’ un tipo simpatico, e ci parlo un po’ della situazione della Palestina. Mi dice che sia i palestinesi che gli israeliani non ne possono piu’, e che la gente, quella vera, non chiede altro che la pace, ma dall’alto non c’e’ questa volonta’ da nessuna delle due parti, perche’, dice lui, ai capi la pace non fa comodo. I figli invece, soprattutto quello malato, sono simpatici come il tipico gatto attaccato ai maroni. Non proferiscono parola, se non a bassissima voce, e solo con la madre, e quando c’e’ da scendere per una sosta il ragazzotto piu’ grande, che siede sempre davanti a me, non si muove di un millimetro. Il risultato e’ che io, che siedo sempre dietro, non riesco a scendere se lui non si sposta, e devo fare assurdi contorsionismi per uscire. A lui non viene in mente, nella sua testolina di cazzo, che se siede su un sedile che si solleva, e dietro non c’e’ lo sportello per scendere, se non alza le chiappe quello dietro rimane bloccato come un deficiente nella macchina. In una delle soste, mentre scendo, gli do una gomitata secca nel collo, sotto l’orecchio. “Oh, scusa, non ci ho fatto apposta, ti ho fatto male ? Mi dispiace !”. E ringrazia che di nome non faccio Ahmed o Jamal. Attraversiamo un luogo con rocce particolarmente strane, e chiedo di fermarci per una foto. Scendiamo (lo stronzetto israeliano no, naturalmente), e quando risaliamo la macchina non riparte. Cazzo ! Pedro apre il cofano, guarda dentro, tocca qualcosa, e scuote la testa. Pero’ sembra tranquillo. Nessuna traccia di altri esseri umani o di qualche tipo di manufatto fino all’orizzonte, che e’ un bel po’ in la. Gli chiedo timidamente “Que sucede ?” con una vocina timida timida che mi si strozza in gola. E lui: “niente, tiene un problema de elettricitad !”. “Ah, meno male ! Pfffiuuuu, chissa’ cosa mi credevo, e invece tiene solo un problema de elettricitad ! Tanto c’e’ l’elettrauto qui a due passi, giusto dietro quel vulcano che si vede all’ orizzonte !”. Come tiene un problema de elettricitad ! E me lo dici cosi ? Come se il problema fosse che so, uno stop fulminato, o un tergicristallo con la gomma consumata, che lascia una righina fastidiosa proprio davanti all’autista ! E adesso che cazzo facciamo qui, in mezzo al nulla, con la macchina che non parte perche’ tiene un problema de elettricitad ? Tutto questo lo penso, ma non dico niente, perche’ mi mancano le forze. Pedro pero’ non si scompone, e solleva il sedile di dietro (facendo finalmente alzare il culo all’israeliano odioso) e tira fuori una cassetta con ogni tipo di ferraglia. E fra tutta questa ferraglia tira fuori un cilindro di ferro di una trentina di centimetri: una bobina di ricambio ! Maledetto Pedro figliodiputtana ! Mi hai fatto prendere un colpo col problema de elettricitad ! In 10 minuti sostituisce la bobina e la macchina risorge. E pure io risorgo e perfino l’israeliano odioso adesso mi sembra piu’ simpatico. Si riparte, e stavolta sara’ definitivo.
Sosta per pranzo alla prima laguna: Laguna Heidonda. Le lagune sono laghi di alta quota, con alghe e minerali che danno loro colori strani. In mezzo ci sono i fenicotteri. Colori fantastici. Mangio di corsa e vado in giro a fare foto. Passiamo accanto a altre lagune; mi fermerei ogni 10 metri tanto e’ fantastico il paesaggio. Mai visto niente di simile. Colori pazzeschi, vulcani, deserto, spazi immensi, rocce strane, cielo blu intenso, cime innevate, montagne nere come la pece o rosse color sangue. Scolliniamo una specie di passo di montagna (siamo a 4500 metri di quota) e davanti a noi si apre la Laguna Colorada, uno dei posti piu’ belli di questo giro dei salar, e probabilmente uno dei posti piu’ belli della terra. Un lago largo una decina di chilometri, profondo al massimo 80 cm, con sali e alghe che lo fanno cambiare di colore a seconda del vento e di come cade la luce. Adesso ha zone viola, altre zone bianche, e altre rosso cupo. La mattina dopo, verso mezzogiorno, sara’ arancione come una Fanta. In mezzo i fenicotteri, e dietro i vulcani. Lascio il sacco a pelo sulla branda per la notte, e scappo in esplorazione lungo le spiagge del lago. Quei deficienti dei miei compagni di viaggio invece si sdraiano per riposare. Abbiamo qualche ora soltanto per vedere uno dei posti piu’ belli della terra, e loro si sdraiano per riposare ! Consumo rullini di Velvia. Purtroppo le ore di sole disponibili sono solo un paio, e alle sei di sera e’ gia’ buio, con la temperatura che scende a meno 15. I dieci giorni di su e giu’ da La Paz a Chacaltaya mi hanno acclimatato meglio di uno yeti, e ormai la quota mi fa un baffo. Dormo beato nel caldo del sacco a pelo, nel loculo del resort dove ci troviamo, nel quale non sono previsti acqua corrente, elettricita’ e riscaldamento. Quello che ho visto basta e avanza a ripagarmi.
La mattina dopo sveglia alle 4 per andare a vedere una zona di geyser e fumarole. Si chiama Sol de Magnana, e sono una zona geotermica attiva la mattina presto. Metto al lavoro le mie conoscenze di fisico per spiegarmi perche’ e’ attiva principalmente la mattina. Suppongo che sia per la maggiore differenza di temperatura fra l’aria e il sottosuolo, che e’ massima la mattina presto, quando la temperatura dell’aria ha il suo minimo. E anche perche’, molto piu’ prosaicamente, di notte non si vedrebbe comunque una mazza. Ci aggiriamo fra i fumi e i miasmi, e sto in occhio a non sprofondare in qualche fango bollente. Per colazione andiamo a un lago che Pedro dice si chiama Laguna Calma. Non e’ vero, si chiama Laguna Chalviri ma e’ lo stesso. Il nome “Calma” cascherebbe comunque a pennello. Papere e fenicotteri, acqua senza increspature (anche perche’ in molti punti e’ ghiacciata), cielo blu notte, e i colori incredibili dell’alba. C’e’ una zona dove esce acqua calda, sui 30 gradi, e nonostante fuori sia ampiamente sotto zero, un gruppo di tedeschi si mette in costume e si butta. Sembra un girone dantesco, con le teste che escono dall’acqua fumante, se non fosse per gli schiamazzi in tedesco, che non credo Dante abbia sentito nel la sua scampagnata nell’ Ade. Scatto una foto, che sara’ la piu’ bella delle mie foto boliviane. Colazione sul cofano della jeep.
Attraversiamo una zona che si chiama Deserto di Salvator Dali’. Rocce stranissime che escono dalla sabbia, e pietroni enormi appoggiati sul suolo piatto e liscio, che ti chiedi come ci sono finiti li in mezzo, e colori assurdi sulle cime dei vulcani. Secondo me il padreterno era fatto di brutto quando ha progettato questa zona. Vorrei fermarmi e stare semplicemente a guardarmi attorno, perche’ e’ un posto pazzesco, di una bellezza incredibile, ma non c’e’ tempo. Porcaputtana non c’e’ tempo ! Scolliniamo di nuovo, e se pensavo di avere visto gia’ tutto mi sbagliavo. Due laghi enormi ci appaiono davanti. Uno color argento a sinistra, e uno color smeraldo a destra, separati da un istmo di sabbia bianca. Terra rosso scuro tutto attorno, e dietro un vulcano a cono perfetto, scuro, quasi nero, enorme, imponente, striato di bianco sulla cima, inquietante come solo certi vulcani sanno esserlo. E’ la Laguna Verde, un lago che diventa verde smeraldo quando si solleva il vento, e la luce si riflette in modo speciale sull’acqua ricca di minerali. E di vento ce n’e’ un bel po’, un vento teso che fa rumore sulla giacca a vento. E il freddo e’ pungente, almeno dieci gradi sotto zero. Sono veramente stravolto da tanta bellezza, ma soprattutto percepisco, come mai mi era accaduto prima, che noi esseri umani contiamo meno che zero, e che quando vuole e’ la natura a decidere le regole. Se mai dovessimo fare qualcosa da distruggere un luogo simile sarebbe un crimine contro l’umanita’, come distruggere la Gioconda o la maschera di Tutankamon. Come per la vista della Croce del Sud, mi commuovo di nuovo di fronte a questo incredibile capolavoro della natura. Il vulcano di fronte a me si chiama Licancabur. Di qualche metro sotto i 6000 metri, gli Incas ci facevano i sacrifici umani: portavano su la gente e li facevano morire di freddo sulla cima. Ci hanno trovato dei resti. Nonostante il freddo e il vento che non danno tregua rimango paralizzato a guardarmi intorno estasiato, ma quei deficienti dei miei compagni di viaggio hanno freddo, e non scendono neanche dalla jeep, e hanno fretta di ripartire ! Ma cazzo, ma siamo in uno dei posti piu’ grandiosi della terra, dove chissa se e quando torneremo, e questi non scendono dalla jeep perche’ hanno freddo ! Ma andate in vacanza a Igea Marina, vaffanculo ! Sto dieci minuti in giro, scatto foto, cerco di memorizzare tutto quello che vedo, e rientro in macchina con la voglia di compiere una strage.
Mi siedo accanto a Pedro, che mi dice che ogni volta che fa uno di questi giri c’e’ un qualche inconveniente alla macchina, ma che in tanti anni non gli e’ mai successo di non portare a termine il giro. Poi mi chiede quanto costa la mia Nikon con il corredo di obiettivi. Sono in imbarazzo. Con quei soldi lui ci camperebbe per qualche anno, lui e la sua famiglia. Gli dico che costa 300 dollari, che sono molti di meno del costo reale. “Madre de Dios !” e’ la sua reazione. Se sapesse quanto costa in realta’ di sicuro non capirebbe. Non potrebbe capire. E per la seconda volta in terra boliviana mi sento una merda.
Sosta per pranzo su una roccia con vista sulla Laguna Colorada, che da qui, oggi, e’ in versione rosa confetto. Siamo circondati da dei toponi simpatici tipo cincilla’, che si chiamano viscacha, che escono dalle rocce e vogliono un po’ di pane. Ci fermiamo per la notte in un paesetto sperduto. Quattro case e una chiesa in mezzo al nulla. Gioco a pallone con dei bambini, che si divertono come matti con lo straniero. C’e’ un lama che urla come un forsennato, mentre lo stanno tirando con le corde. Dopo una mezz’ora vedo una pelle di lama per terra. Sul momento penso che lo abbiano tosato, ma poi realizzo che normalmente nella tosatura la pelle rimano “addosso” al lama. Ne deduco che non era una semplice tosatura. Per quello gridava cosi, il ragazzo ! Hanno l’aria stupida ma certe cose le capiscono anche loro. La mattina dopo, prima di arrivare alla sede dell’agenzia a Uyuni, Pedro e Teresa si spartiscono le provviste avanzate e le scaricano alle loro case. Mi sembra giusto.
Stazione di Uyuni, Il treno, puntualissimo all’andata, al ritorno ha appena 6 ore di ritardo. Problema: cosa fare 6 ore a Uyuni, che e’ grande quanto un paio di campi di calcio, e non c’e’ niente se non qualche alberghetto e un po’ di agenzie di viaggio? Telefono all’hotel di La Paz dicendo che arrivero’ tardi, e che mi tengano la stanza. Speriamo che abbiano capito, perche il tipo al telefono mi sembra un po’ svagato. Piccola anticipazione sugli eventi futuri: non avevano capito. Inganno il tempo fra caffe’, cheesecake, pranzo, giri a vuoto, e finalmente arriva la tradotta per Oruro, bellissima da fuori, ma gia’ un’apoteosi di polvere all’interno. Arrivo a La Paz all’ una di notte e prendo al volo l’ultimo taxi disponibile. Il tassista ha tutti e quattro i finestrini spalancati. Siamo in luglio, e sarebbe normale, se fuori non fosse sottozero. Sul cruscotto ha una busta tipo supermercato che trabocca di foglie di coca, da cui pesca a manazza e se le schiaffa in bocca con gesto voluttuoso. Sembra Braccio di Ferro quando mangia gli spinaci. Gliene chiederei una manciata, se solo servissero a evitarmi il congelamento. Arrivo all’ Hostal Republica che sono quasi le due e non vedo l’ora di toccare il letto. L’albergo e’ nel buio totale. Suono, e mi apre un tipo che stava dormendo. Gli dico della prenotazione e lui cade dalle nuvole perche’ l’albergo e’ completo. Non avevano capito che arrivavo tardi e hanno dato via la mia stanza. Mi dice che c’e’ un albergo li vicino che forse ha una stanza. Telefona: ce l’hanno, costa dieci dollari. Va benissimo. Alle due di notte a La Paz dopo aver girovagato 6 ore per Uyuni, avere fatto 6 ore di treno avvolto nella polvere, e altre 3 ore di bus, va bene tutto. Il tipo mi porta in un albergo li vicino. Soffitti altissimi e luci colorate nell’ingresso, mi ricorda la scenografia di Suspiria. Alla reception sono addirittura in tre, svegli come grilli. Mi danno la stanza e uno mi porta a vederla. E’ una camerata enorme con 4 letti matrimoniali. Sono cosi’ stravolto che sul momento penso che ci sia altra gente che sta dormendo, in tutti quei letti. Poi mi rendo conto che la stanza e’ vuota, tutta per me. Il tipo mi dice che posso scegliere il letto che voglio. Mi impigiamo in dieci secondi, e apro le coperte del primo letto a caso: c’e’ la sacra sindone disegnata sulle lenzuola. Passo al secondo letto: anche qui c’e’ la sindone. Controllo per scrupolo un terzo letto, anche questo miracolosamente impresso dall’immagine del Salvatore, e senza controllare il quarto tiro fuori il materassino autogonfiabile, il sacco a pelo, e mi sdraio per terra. Mi addormento in dieci secondi, chiedendomi se anche queste sindoni andine abbiano le stesse misteriose caratteristiche di quella di Torino.
Vado all’istituto di fisica di La Paz con Saavedra. L’istituto si trova nella zona bassa di la Paz, che e’ la zona bene. Contrariamente al resto del mondo, qui i poveracci stanno sui colli, e i ricchi in basso. Oddio, non che l’istituto di fisica sia roba da ricchi. E’ praticamente una casa in costruzione. Mi dice Saavedra che in Bolivia, come in tutto il terzo mondo, appena un edificio diventa abitabile, smettono di costruire. Che stai a sprecare soldi a fare le rifiniture, l’intonaco, lo stucco, l’impermeabilizzazione, quando c’e’ gia’ tutto quello che serve per abitarci ! Saliamo due o tre piani su una scala senza parapetto, alla faccia della 626, e entriamo in un portone che si apre su un muro grezzo. L’istituto di fisica dell’atmosfera all’interno e’ un altro mondo. Messo su da un italiano del CNR, all’interno e’ fatto di uffici moderni, puliti, con computer e strumenti all’avanguardia. Merito dell’italiano, mi dice Saavedra. L’ istituto di fisica dei raggi cosmici e’ molto piu’ sgarrupato. C’e’ un solo PC che deve servire per tutti, ma comunque il collegamento alla rete non funziona. Per fare le fotocopie e’ un problema. Hanno pochi fogli di carta, e bisogna chiedere a una segretaria. Anche la Gelmini boliviana non scherza, insomma. Saavedra ha voglia di parlare, e mi racconta un po’ di gossip e di retroscena sull’osservazione dei neutrini della supernova dell’87. Interessante, imparo un sacco di cose che non sapevo. Imparo anche che a Chacaltaya e’ stato scoperto il pione carico, e che i loro scopritori, Occhialini e Powell, premiati con il Nobel, a Chacaltaya non ci hanno mai messo piede. Sempre a Chacaltaya sono stati scoperti anche i misteriosi “eventi centauro”, sciami di raggi cosmici con componente neutra quasi nulla. E qui mi rendo conto che l’interesse del lettore sta scendendo oltre il limite di guardia per cui non vado oltre. Mi invita a pranzo, e da bere mi consiglia uno “zumo de tumbo”. Mi dice “provalo, vedrai che ti piace !”. Zumo de tumbo con latte: lo assaggio e vedo la luce. Buonissimo. Non so cosa sia il tumbo, non so che forma abbia, e neanche se si scrive cosi’, ma e’ il succo di frutta piu’ buono che abbia mai bevuto. Da adesso diventera’ un must ogni volta che berro’ qualcosa, per tutto il resto del tempo che passero’ in Bolivia. Purtroppo restano ormai pochi giorni.
Vado in visita alla Valle della Luna, una serie di formazioni rocciose a pinnacolo alla periferia di La Paz. In mezzo alle rocce strane un tipo mi chiede di fargli una foto. E’ italiano, e addirittura di Ancona, la citta’ dove sono nato e ho vissuto per 20 anni. Chiacchieriamo sul bus mentre torniamo a La Paz. Lui si fara’ 6 mesi nel Pando, a seguito di una associazione no profit di cooperazione internazionale. Il Pando e’ una zona nell’Amazzonia tra le piu’ povere al mondo. Dice che non sta neanche a fare l’antimalarica, perche’ tanto in sei mesi se la becca di sicuro. Gli auguro in bocca al lupo di cuore.
Ultimo giorno a Chacaltaya. Dobbiamo raccogliere un po’ di lastre di piombo e plastica, da riportare in Italia, perche’ devono essere analizzate. Le metteremo in valigia, un po’ io e un po’ Saavedra. Oggi pero’ e’ anche la festa della Pachamama, la madre terra, una divinita’ venerata dagli Inca, e a Chacaltaya ci sara’ una sciamana a fare riti speciali. Con noi c’e’ una antropologa dell’universita’ di Torino, che e’ arrivata “fresca fresca”, la mattina stessa, dalla “selva”, come dice lei. Dalla giungla Amazzonica, intende dire, dove passa sei mesi all’anno assieme a non so quale popolazione. E’ entusiasta di vedere la sciamana all’opera per la festa della Pachamama. Breve descrizione dell’antropologa: sui 40 anni, o forse piu’, vestito molto casual (nella selva ha sporcato tutti i tailleurs che quindi ha dovuto portare in lavanderia), non vede una trousse di trucchi da un po’, e neanche un parrucchiere. Somiglia un po’ a Diane Fossey, quella dei gorilla, e non posso fare a meno di immaginarmela circondata da indigeni nudi e sorridenti, con l’astuccio penico tirato a lucido per la foto di gruppo. Parla a ruota libera, ride a ogni cosa che dico, e secondo me ci prova anche. Pero’ non sa, poverina, che passare di colpo dalla “selva”, che e’ al livello del mare, a quota 5300 metri, puo’ avere qualche spiacevole effetto collaterale.
La sciamana e’ un donnone tipico boliviano. Ci sediamo in cerchio, e un tipo distribuisce manciate di foglie di coca a gogo’. Il donnone ne ha un sacco davanti, solo per lei. Decido che voglio provare gli effetti di queste mitiche foglie di coca, e ne prendo una manciata grande come un cavolfiore, e comincio a cacciarmele in bocca. Dopo 10 minuti ho prodotto una palla amarissima , ingestibile, impossibile da deglutire. Mangio altre foglie sperando che si sblocchi la situazione e succeda qualcosa. Magari gli effetti della droga, mi dico, consentiranno di mandare giu’ questo mostro. Dopo 20 minuti la palla non sta piu’ in bocca, e mi impongo di deglutire a tutti i costi. Mi sa che mi manca la tecnica. Comunque di effetti vagamente allucinogeni neanche l’ombra. Il risultato finale e’ che avrei bisogno di una passata di anatra WC sulle gengive e di un gargarismo col dopobarba per rifarmi del sapore fetido. La sciamana intanto solleva quadratini di zucchero colorato, smuove pupazzetti e altri giocattolini, scopre carte, lancia dadi, chiude gli occhi salmodiando cose incomprensibili mentre ingolla foglie di coca. Ad un tratto mi giro a guardare l’antropologa, che ha improvvisamente assunto il colore dello stoccafisso, e sembra Nino La Rocca all’angolo del ring dopo la sesta ripresa contro Curry . Approfittando di un momentaneo calo del pathos creato dalla sciamana, la sento proferire con un filo di voce: “se qualcuno di voi va giu’ prima io prenderei un passaggio…” .
Vado a zonzo per La Paz, quando un tipo mi apostrofa concitato: “senor, senor !” indicando il mio pile con le tartarughine bianche in campo blu. Vorra’ sapere dove l’ho comprato ? Sara’ rimasto ammaliato dalla bellezza della trama del tessuto ? Invece mi mostra una vistosa macchia di ketchup che ho su un fianco, offrendosi di pulirla. Eh, non sono mica un pollo ! Qualche suo complice mi avra’ spruzzato del ketchup a mia insaputa, e adesso con la scusa di pulirmi cerchera’ di sfilarmi il portafogli stipato di preziosi bolivianos. Da smaliziato turista quale sono, dico che non importa, nonostante le sue insistenze, e mi allontano altezzoso con le tartarughine sfregiate dal ketchup, circondato da un disgustoso alone di puzza: la criminalita’ boliviana ha provato a sfidarmi, ma ha avuto la peggio !
Saavedra mi vuole a tutti i costi accompagnare all’aeroporto, la mattina alle 4. Io prenderei il taxi, con le mie due valige al piombo, ma lui insiste, e quindi mi tocca aspettarlo a notte fonda e con un freddo polare all’angolo di una piazza del centro. Il mio albergo di notte ha la reception chiusa, e non potrei chiamare il taxi per andare all’incrocio fatidico (a piedi con le valigie piombate non se ne parla neanche), per cui devo cambiare albergo. C’e’ un albergo proprio vicino a dove devo farmi trovare, ma e’ uno dei migliori di La Paz: una singola costa 70 dollari. Niente di che da noi, ma in Bolivia 70 dollari sono una fortuna. Almeno un mese di stipendio per una bella fetta della popolazione, che vive con il fatidico dollaro al giorno, la triste unita’ di misura di tutto il terzo mondo. Pero’ io sono in qualche modo obbligato a spostarmi in quell’albergo, o mi convinco di esserlo, anche perche’, lo ammetto, prima di affrontare il viaggio di ritorno ho voglia di una doccia degna di questo nome e di un letto caldo, da dormirci dentro senza infagottarmi come l’omino Michelin. Lascio il mio hotel da figlio dei fiori per l’ultima notte a La Paz, e prendo un taxi per l’hotel El Rey. Il tassista non sa dov’e’. Strano, penso, e’ in centro, ed e’ uno degli alberghi piu belli di La Paz. Lo guido io fino all’albergo nel traffico caotico della sera. Davanti all’hotel una mummia in livrea mi apre la portiera. Il tassista mi guarda e sembra non credere ai suoi occhi: questo sfigato con la maglia a tartarughine bianche in campo blu che puzza di ketchup stantio va in un albergo simile ? Io vorrei scomparire: vorrei dirgli che giuro che non lo sapevo che era cosi’, che io non ci vado mai in questi alberghi da ricchi schifosi, men che meno in un paese dove la maggior parte della gente fatica a sopravvivere. Gli chiedo quant’e’ la corsa. Lui ci pensa un attimo, e poi mi spara una cifra che per un boliviano e’ una follia per una corsa in taxi. Lo fa quasi con disprezzo. Come dire “vai in questo albergo ? Hai cosi’ tanti soldi ? Allora io ti chiedo una cifra folle per una corsa in taxi, perche se puoi permetterti questo albergo allora puoi permetterti anche di pagarmi questa cifra che non oserei chiedere a nessuno per 10 minuti di taxi”. Solo che quella cifra, per lui esagerata, per me, ricco occidentale che gioca a fare il backpacker, e’ una sciocchezza: meno di 10 dollari. Lui non lo sa, poveretto, ma io l’ho umiliato due volte. La prima facendomi portare da lui in un albergo dove per una notte si spende quello che lui guadagna in un mese, e la seconda perche’ non e’ neanche riuscito a chiedermi una cifra sufficientemente alta da mettermi in difficolta’. E prima che il gallo canti mi sento una merda per la terza volta.
Ultima sera a La Paz. Vado a mangiare una pizza veloce in piedi, e passeggio per il centro. Compro un po’ di confezioni di mate de coca (il mitico, disgustoso mate de coca) da regalare in giro, visto che lo vendono in confezioni tipo te in bustine, e compro una manciata di foglie di coca, anche quelle mitiche e disgustose, sempre da regalare in giro. Speriamo di non incontrare qualche cane antidroga troppo zelante all’aeroporto di Bologna. Vedo ananas grandi come cocomeri e altra frutta sconosciuta. Forse li in mezzo c’e’ anche il tumbo, chissa’. Passo davanti alla bambina che mi ricorda mia figlia, che e’ sempre li, con la madre. Non chiede l’elemosina, semplicemente e’ li. La madre vende qualche cianfrusaglia su uno sgabello, e lei vive li. Gioca, dorme, mangia, ride e si annoia, tutto li. Le lascio tutti i soldi boliviani che mi sono rimasti, e 3 stecche di parmigiano sotto vuoto che stupidamente mi ero portato dall’Italia, credendo di dover fare la fame qui in Bolivia. Glieli lascio davanti, per terra, e mi allontano veloce prima che loro possano incrociare il mio sguardo. Le vedo guardare incredule i soldi, l’equivalente di circa 10 dollari, per loro probabilmente una cifra mai vista tutta in una volta, e chiedersi cosa siano quelle barrette bianche che ho dato loro. In bocca al lupo, piccola, a te e alla tua mamma.
Taxi all’aeroporto di Bologna: il tassista apre il cofano, e mi prende la valigia con scioltezza, per poi bloccarsi di colpo: “soccia ma cos’ha qua dentro, il piombo ?”. E’ bello essere di nuovo a casa.