Beat me if you can di l’ombra dell’occidente

Lungo percorso alla ricerca del nuovo mondo, della generazione beat. Tra Stati Uniti ed Europa dell'est
Scritto da: nicolebrd
beat me if you can di l'ombra dell'occidente
Partenza il: 02/04/2010
Ritorno il: 18/08/2010
Viaggiatori: 1 o 2
Spesa: 4000 €
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Venezia. Il rombo delle ruote e poi il vuoto, quella sensazione di sospensione, di distacco. Ondeggiamo sorvolando le cupole, i campanili, l’intrico infinito di viuzze, canali, scale e portici racchiusi dentro un piccolo corpicino. Attorno, schematicamente ordinati scintillano regolari edifici, filiformi tubi da cui fuoriesce il fumo torbido di un incerto progresso. Verde, e basse distese di campi di colori tenui. Acqua. Amsterdam. Tra le masse di teste mi addentro sicura, scannerizzata, timbrata. Nuovamente in volo, verso un nuovo mondo. Il nuovo mondo. L’America. Più precisamente Chicago, capitale dell’ Illinois. Prima di partire ogni giorno sembrava essere quasi una sfida alla partenza: preoccupazioni, paure, pigrizia forse. Già al primo aereo sentivo intorno a me una certa sensazione di libertà, e pian piano continuava a crescere. L’arrivo, il caldo improbabile, la stanchezza spossante; eppure qualcosa cominciava a muoversi lentamente. Come i tanti piccoli frammenti di realtà irreale quasi perché fino a quel momento erano solo ed esclusivamente parti di immagini, da film o tv, sempre lì sotto gli occhi, ma senza tridimensionalità e soprattutto senza tempo. Ora tutto è qui ed è ora. Per capirlo davvero questo nuovo vecchio mondo, prima o poi bisogna andarci. Ma ormai che finalmente ho fatto planare qui i miei piedi, come il fantomatico tempo atmosferico cicaghese, anche le mie certezze “televisive” sono rapidamente state fatte cadere dal soffio costante che permea questa americana windy-city.

– CONSUPTION.

La gente qui mangia, sempre e comunque. Scelta ampia, multiculturale, multisfaccettata, multiporzione. Big size but low fat. Oggi osservavo una donna davanti a me in metropolitana, una indoamericana che sarà stata un metro e una banana e lentamente sgranocchiava la sua buona frutta secca. Era veramente obesa, più larga che alta. Accanto a lei un giovane cicciotto angloamericano dalle guanciotte arrossate dal freddo, stringeva il suo bibitone da mezzo litro di coca cola. Walgreen è un catena di cosiddette “pharmacy”. In effetti c’è la farmacia. Poi ci sono i generi di consumo, prodotti per l’igiene, per la casa, cosmetici, cibo, vestiti, elettronica, tabacchi.

LOW FAT

Qui ti spacciano tutto per light, o per “fresh” o per “home made”, o per “healty”. Ma che cazzo significa? Le sigarette costano troppo. In effetti non ho ancora toccato una sigaretta. Tantissimi fanno jogging per strada. Stile occidentale, stile americano, healty way of living. Omologazione.

SKYSCRAPER

I grattacieli. Tanti. Belli e sfarzosi. Da lontano si vedono solo quelli, è come il lifting sulla faccia di una vecchia: tiri indietro la robaccia e lasci davanti una pelle bella liscia. All’entrata di ognuno di questi c’è sempre un gentil servo ad accoglierti ed aprirti la porta. Amenities, viste sul lago, viste sulla città sfavillante nella sua veste notturna, appartamenti con ogni comfort: due mega forni (ma a che servono poi), un mega frigo (vuoto), una megafiga casa che non usi perchè passi tutto il tuo giorno in un altro grattacielo sfavillante a lavorare. Il weekend tutto finisce. E allora le piccole formiche stanche del loro lavoro si ritirano da un formicaio all’altro protette dal mondo esterno.

SUBURBS

Piccole casette fatte di legno. Infinite strade parallele o che si incrociano, costituite da queste casette messe l’una accanto all’altra, di colori diversi o no. Dall’aereo il paesaggio di casette, prato e strade sembra esattamente una scheda madre di un computer con le sue ordinate file di microchips in panetti di silicio. E ovviamente come in tutti i sobborghi il colore della pelle è sempre più scuro di quello della downtown, anche se in downtown il riflesso delle finestre a specchio dei grattacieli dovrebbe migliorare l’abbronzatura, qui di bianchi ce ne sono davvero pochi e comunque non si vedono per strada. Un attimo, i giorni passano e continuo a chiedermi una cosa. Non era qui, almeno tra queste terre che le migliori menti del secolo morirono di pazzia? Non era qui che improvvisamente una nuova generazione iniziò a parlare, a fraseggiare deliberatamente?

New York. Io e Monica siamo state ospitate in una casa newyorchese. Dunque loft a Manhattan gratis. Tra little italy e soho, quasi china town…insomma vicino vicino a dove il signorino Scorsese ha passato la sua infanzia. Dall’aeroporto sulla strada verso la grande mela, già iniziavo a capire quanta abissale differenza c’è tra Chicago e la città che non dorme mai. Sarà sporca New York, ma c’è vita. E la gente non è come la banale marmaglia del midwest. A parte grattacieli e monumenti vari…sembra sempre di stare in un film. In realtà New York è la città che tutti conosciamo. Mentre ti fermi in un parco di midtown a Manhattan pensi a Woody e alle sue passeggiate. Alla National Library pensi ai Ghostbusters. A Coney Island, nel luna park, c’è la famosa Grand Ma che prediceva il futuro al bimbo che si trasforma in Tom Hanks. Che figo.

E poi c’è l’Oceano Atlantico, giusto lì.

A Brooklyn la sera la zona di Williamsburg è la nuova opzione cool. Perché Manhattan è troppo anni 90 ormai, così dicono. E infatti ci sono dei locali di concetto, stile vintage, che sia anni 20, o anni 50, anche la gente si veste in altro modo. Molto dandy, però un po’ se la tirano va. Perlomeno non ci sono quei dannati bar da angloamericani medi, pieni di wide screens con qualche sport a caso, abitati da ragazzi rumorosi con la birra in mano che sfoggiano la loro solita camicia a quadri. A Brooklyn si beve vino. Costa parecchio però. A Nolita però, che è a Manhattan giusto accanto a Soho, al Sushi ti puoi portare le bottiglie di vino da casa. E te lo versano pure nei bicchieri loro.

PUM!

Venezia. Trieste. Trieste e Venezia. Eccoti catapultata improvvisamente nel tuo vecchio mondo. Soliti, solite, solitamente di solito. Treni che vagano tra pianure infinite, che solcano fiumi, che approdano in città, calde e umide. Uno spritz, una sigaretta, una vecchia amica sempre uguale, tanti vecchi amici, e tutto confortantemente uguale. Strade ferrate su acque torbide, e in lontananza vedi fantasmi di impalcature, di edifici tutti uguali e grigi. Caldo, caldissimo, umidissimo tra i canali e le frotte di gente, che parla ogni volta qualche lingua diversa. Infine eccoti in una casa, quasi sotterranea, tra vecchi amici, vecchi artisti. Sabbia, mare, vino e pesce, e fuoco e vodka. Risate, gente nuda e canti a squarciagola. La stanchezza diventa la tua amica inseparabile, ma ancora c’è vita, la solita vecchia vita. Rassicurante, sempre pronta ad aspettarti. La smania però non mi abbandona. E capito casualmente in una gita verso l’opposto dell’ovest oltreoceanico. Belgrado. Cos’è? È la nuova capitale dell’est. La balcanica città ricordata da mille e più mille foto di edifici diroccati. La città dei serbi, quelli che in “No man’s land” combattevano, sanguinosamente per un motivo di sangue, contro i bosniaci. Quella di Milosevic, quella di Tito, quella comunista e quella dei dittatori genocidi. Io e mio fratello su un autobus in spola tra gente di cui non conosco la lingua. Acqua e panini. Siamo qui. Ma non ci sono i segni dei conflitti? Mah..C’è dello smog. C’è vita. La famiglia di amici ci accoglie la mattina presto con una bella tazza di caffè turco e una rakija.

La domenica, nel cortile ci lasciamo allietare dalle voci, e il suono balcanico della chitarra. Pazzesco ma qui le persone, nonostante le età, sanno sempre perché stanno facendo una cosa. E allora penso all’ America, alla sua sublime apparenza, e al suo reale vuoto infinito. Un buco nero, che si riflette nei costumi, nel modo di vivere, nello spreco infinito, nella disconoscenza, piuttosto che ignoranza, estesa. Mille scelte, mille possibilità, eppure ti pare sempre di fare delle cose senza avere un vero motivo. Perché non hai tempo, non hai il tuo momento per pensare. Devi andare veloce, devi correre per non rimanere indietro. Qui a Belgrado no, qui dicono una cosa, si prendono il loro tempo e poi la fanno davvero. Qui sono infastiditi dalla televisione, dagli show inutili, dall’ America. Sì. Anch’io lo sono. Il Moloch, il mostro decantato dalla poesia beat di Ginsberg, non è ancora arrivato qui. Anche se alla periferia di Novi Beograd iniziano ad essere costruiti in mezzo ai blocchi degli edifici comunisti, centri commerciali e altri templi del consumismo. Gli zingari se ne sono andati e hanno lasciato spazio agli ammassi di robaccia venduta dai cinesi. Ma qui, come in tutta la nostra cara vecchia Europa, ci sono ancora le testimonianze del passato. Di un lungo passato. Fatto di religioni diverse, con archittetture diverse. Gli archi ogivali ottomani della Kalemegdan, la rocca che si staglia sulla confluenza della Sava nel Danubio. E le architetture regolari di fine ottocento e primi novecento, il liberty della dominazione austroungarica. I volti della gente, la stessa gente, che si sente serba, dice che in fondo sono tutti turchi, loro.

Ridono, scherzano, bevono, lavorano. Vivono insomma.

E’ questa la differenza, l’animo beat che l’America ha perso. La coscienza delle proprie origini, che ormai oltreoceano ha lasciato spazio ad un incomprensibile tensione al successo, al consumo, al succedersi repentino di azioni inconcludenti. Forse non ho capito abbastanza, ma credo, che anche le menti migliori non possano difendersi da un morbo collettivo. Meglio starne alla larga, facciamo tutti attenzione. Perché ho paura del futuro, anche del nostro. Viaggiare inconsapevolmente collezionando foto e città non ci serve. Viviamo, impariamo a comprende ogni luogo e proviamo ad imparare da questi. Non riesco a pensare a quando, tempo fa, ero convinta di sapere dove sarei andata. Ora davvero non so, non ha importanza, non mi interessa. Devo ancora capire e chissenefrega se dovrò ancora cambiare, cambiare e cambiare. Tutto questo non mi spaventa più. Profeticamente il mio nuovo mondo l’ho trovato, ma non negli Stati Uniti, in me.



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