Azerbaijan, mare, monti … e petrolio
In Azerbaijan la presenza turistica è molto limitata, probabilmente per la scarsa notorietà del paese all’estero. Gli elementi interessanti sono, invece, molteplici e la visita piacevole grazie all’ospitalità della gente, molto aperta nei confronti degli stranieri. Il mio soggiorno come viaggiatore indipendente è durato una decina di...
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In Azerbaijan la presenza turistica è molto limitata, probabilmente per la scarsa notorietà del paese all’estero. Gli elementi interessanti sono, invece, molteplici e la visita piacevole grazie all’ospitalità della gente, molto aperta nei confronti degli stranieri. Il mio soggiorno come viaggiatore indipendente è durato una decina di giorni. I ricordi più belli sono legati agli splendidi paesaggi montani del Caucaso, con i suoi villaggi remoti abitati da minoranze etniche. Pernottare a casa della gente costituisce il modo migliore per avvicinare la popolazione e dare un contributo all’economia locale, anche se i soldi vanno ai più ricchi e istruiti dei villaggi. Baku è una città interessante, forse la più bella tra le tre capitali caucasiche, grazie al fascino della città vecchia. Durante la mia visita la parte ottocentesca del primo boom petrolifero era tutta un cantiere mentre nella fascia periferica ovunque erano in costruzione nuovi alti condomini. Il paese è ricchissimo di risorse naturali, gas e petrolio, ma il business è in mano a una ristretta cerchia di politici e faccendieri, anche se qualche ricaduta sulle condizioni generali s’intravede, ad esempio nei trasporti: molte strade sono state migliorate e a Baku è stata appena inaugurata una moderna ed efficiente stazione dei bus. In giro non si vedono mendicanti, così numerosi invece a Tbilisi. Gli effetti devastanti dell’industrializzazione selvaggia durante l’epoca sovietica si avvertono ancora ma le regioni più remote non ne sono state toccate e mantengono intatto il loro fascino. La storia recente del paese è piena di tragedie. Al visitatore la popolazione appare mite e cordiale ma i massacri con gli armeni risalgono solo a pochi anni fa. La visione azera dei fatti del Nagorno Karabakh è indicativa di come vanno le cose a questo mondo: gli armeni sono i cattivi e la regione territorio occupato. Le ragioni dell’altra parte non sono minimamente prese in considerazione, probabilmente anche per effetto di un’informazione unilaterale. Come in India, a Cipro e più recentemente nell’ex Jugoslavia, solo per fare qualche esempio, popolazioni vissute fianco a fianco per secoli si sono massacrate per poi tornare alla “vita normale”. In tutti questi casi è proprio l’incapacità di comprendere il punto di vista “nemico” che ha prodotto il disastro. Ancora una volta mi sembra di poter dire che le ragioni difficilmente sono tutte da una parte e il mondo non si divide in buoni e cattivi (con le dovute eccezioni!). La storia è complessa e solo comprendendola a fondo si può sperare che fornisca un insegnamento. La preparazione del viaggio mi ha posto qualche incertezza per il visto. In teoria si può ottenere all’aeroporto di Baku, ma da qualche mese corre voce che questa possibilità stia per essere soppressa. L’ambasciata azera a Roma sostiene che già da ora non è più possibile mentre sul forum della Lonely Planet sono riportati interventi di persone che hanno appena ottenuto il visto in aeroporto. Per non correre rischi ho preferito farmi inviare una Lettera d’Invito ufficiale dall’agenzia “Azerbaijan 24” (www.Azerbaijan24.Com) e richiedere il visto all’ambasciata in Italia (alla fine ho speso 75 € per la lettera e 60 € per il visto). Una volta in Azerbaijan, il viaggiatore indipendente non ha difficoltà a muoversi per il paese, sfruttando i marshrutka, i minibus tanto popolari nel Caucaso, e i taxi per le destinazioni più remote. Nel caso di Xinaliq e Laza ho preferito prenotare un tour dall’Italia (www.Xinaliq.Com). Il prezzo non è stato economico ma l’organizzazione si è rivelata efficiente. Comunicare con gli azeri non è sempre facile. Tutti parlano russo e nei paesi rimangono sorpresi che uno straniero non faccia altrettanto. L’adozione del nostro alfabeto, tuttavia, ha notevolmente semplificato la vita al viaggiatore occidentale e alla fine sono sempre riuscito a spiegarmi e ottenere ciò che volevo. Ed ora il diario di viaggio. Venerdì 17 luglio: Roma – Istanbul La mia partenza per Baku, via Istanbul con voli Turkish Airlines, è fissata questa sera mentre domani, alle quattro del mattino ora locale, ho appuntamento in aeroporto con il titolare dell’agenzia “Azintourist”, Aydin Agayev, (office@azintourist.Com). La mattina però c’è una sorpresa: Agayev mi avverte per mail che a Baku non è previsto l’arrivo di nessun volo con quell’orario. Collegandomi sul sito della compagnia scopro, infatti, che il volo Istanbul – Baku è stato anticipato ma la mia prenotazione non è stata aggiornata: da Roma arriverei a Istanbul dopo la partenza del volo per Baku! Contatto telefonicamente l’ufficio della Turkish all’aeroporto di Fiumicino. Per fortuna l’impiegata è molto efficiente: sembra allibita per il pasticcio e il fatto che non mi sia arrivata nessuna comunicazione. Alla fine riesce a salvare la situazione spostandomi sul volo Istanbul – Baku previsto per domani mattina. Passerò la notte a Istanbul in albergo a spese della compagnia. Tiro un respiro di sollievo e procedo con il comodissimo check-in on line. Il volo parte alle sei del pomeriggio e in tre ore mi porta a Istanbul. In aeroporto all’hotel desk della Turkish mi trovano una sistemazione per la notte: una navetta mi accompagna all’Hotel Gunes, insieme con altri due passeggeri. Sono le undici e domani mattina alle quattro mi verranno a riprendere. Sabato 18 luglio: Istanbul – Baku All’ora di pranzo locale, sbarco finalmente a Baku (le ore di fuso con l’Italia sono tre). Ho già il visto sul passaporto e quindi sbrigo rapidamente le formalità d’ingresso. All’uscita trovo ad attendermi Aydin. Per la “modica” cifra di 40 dollari ho concordato il transfer in città (in origine doveva essere nel cuore della notte). Mi faccio accompagnare alla stazione ferroviaria, dove vorrei acquistare un biglietto del treno notturno per Shaki. Aydin s’informa alla biglietteria ma purtroppo non ci sono posti né per oggi né per domani. Ci spostiamo nell’ufficio dell’Azintourist, dove mi propone una soluzione alternativa: lunedì all’alba il pullman dell’agenzia parte alla volta del confine georgiano per prelevare un gruppo di turisti svizzeri; lungo il percorso passerà per Shaki e quindi generosamente mi offre un passaggio gratuito (forse per compensarmi dei 40 dollari già sborsati!). Chiariti gli aspetti organizzativi, Aydin mi accompagna all’Altstadt Guesthouse, situata proprio nel cuore della città vecchia. Sono ormai le quattro del pomeriggio e dedico il resto della giornata all’esplorazione di Icari Sahar, la città vecchia racchiusa dalle mura, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Per primo raggiungo il monumento più celebre, la Torre della Vergine (Qiz Qalasi). Secondo una leggenda una giovane donna per sfuggire alle avances del padre gli chiese di costruire una torre dalla quale ammirare i suoi domini; dopo averla fatta innalzare più volte, alla fine si gettò dalla cima. La struttura è massiccia con un curioso contrafforte verso il mare; l’interno si sviluppa in otto piani, ciascuno con un’unica sala, collegati da una scala ricavata nello spessore delle mura. La scala a chiocciola che porta al primo piano, invece, è un’aggiunta moderna poiché in origine c’era solo una scala retrattile. Dalla terrazza si domina la città vecchia. Qua e là spuntano i minareti delle moschee e i cortili dei caravanserragli ma sulle colline, tutto intorno, una fascia quasi continua di edifici multipiano chiude la visuale; ancora più in alto spicca la torre della TV. La visione più bella si ha affacciandosi appena sotto, con le cupole delle moschee, il bazar meidani (piazza del mercato) pieno di lapidi con iscrizioni e i caravanserragli, che ormai ospitano attività commerciali. Dal lato opposto il mar Caspio è racchiuso dalla baia di Baku, mentre le macchine sfrecciano veloci sul lungomare. Dalla torre parte Zeinalli Kucasi, invasa dai venditori di tappeti; le botteghe occupano antichi caravanserragli e madrasse. La Juma Mascid ha un’elaborata facciata in pietra e un antico minareto. All’interno, dalla cupola pende un gigantesco lampadario a gocce. La Mohammed Mascid presenta anch’essa un bel minareto in pietra. Passeggiando tra strette viuzze, raggiungo l’altro polo artistico, il palazzo degli Shirvanshah, la dinastia che governò Baku nel Medioevo. Superate le mura che cingono il complesso, si accede a una prima corte sulla quale si affaccia il palazzo del sultano, i cui interni tuttavia sono troppo restaurati. A sinistra si passa in un secondo cortile; al centro si trova il Divan Xana, un affascinante padiglione ottagonale, nel quale si riuniva la corte. Proseguendo la visita, una scala conduce a una terza area con i resti della moschea Gobad e il mausoleo del “derviscio” dal caratteristico tetto a punta. Una scala ripida porta nella buia saletta con la tomba di Seyid Yahya Bakuvi, astronomo di corte. Nella corte tutto intorno si trovano le pietre di Bayil, provenienti dall’”Alcatraz” di Baku, un’isola più volte sommersa dal Caspio. Si tratta di lunghissime iscrizioni a grandi caratteri cufici con raffigurazioni di animali e personaggi umani (un volto “piatto” indica l’erosione o l’origine mongola del personaggio ritratto!). La visita termina scendendo al livello più basso, con il mausoleo degli Shirvanshah, la moschea di corte e le rovine del grande hammam, con le cupolette e i pavimenti sospesi degli ambienti riscaldati. Lasciato il palazzo, raggiungo le mura che racchiudono la città vecchia. Una piacevole piazzetta, nei pressi dell’ambasciata italiana, è allietata dal grande busto del poeta Vahid. La testa sembra uscire da rami e reca molteplici figure umane, tratte dalle sue opere: uomini in turbante, altri che suonano, donne con un piatto sulla testa. La sera, ceno nel ristorante ospitato in un antico caravanserraglio. La cucina azera fonde elementi dei popoli vicini e così ordino dolmasi, foglie di vite ripiene di carne speziata come in Grecia, e un pakhlava, che differisce dai dolcetti libanesi solo per la “p” al posto della “b” nel nome! Domenica 19 luglio: Baku – Suraxani – Shuvalan – Mardakan – Baku Giornata dedicata alla visita con mezzi locali di alcune località nella penisola Apsheron, che da Baku si protrae nel mar Caspio. La fermata della metro nella città vecchia, Baki Soveti, è chiusa per lavori di ristrutturazione; devo quindi raggiungere la successiva, Sahil, situata nel quartiere sorto durante il boom petrolifero a cavallo tra ottocento e novecento. Percorro il Bulvar, il lungomare di Baku, allietato da giardini con caffè e giostre. Un imponente edificio a vetri è tutto recintato (in vista di una futura inaugurazione o per le ingiurie del tempo?!). Vicino la fermata della metro, una piazza è occupata da un vasto giardino. Fino a qualche anno fa era intitolata ai 26 Commissari di Baku, ma il monumento ai martiri del comunismo oggi è scomparso sostituito da una fontana dorata. In metro raggiungo la fermata Narimanov, dove secondo la Lonely Planet parte il marshrutka numero ottantaquattro, diretto a Suraxani. A Baku e nel resto dell’Azerbaijan non ci sono cartelli con le indicazioni degli autobus, che per fortuna recano il numero della linea sul parabrezza. Nel vasto piazzale i minibus fermano su tutti i lati e il primo problema è individuare il punto giusto. Per queste situazioni mi sono organizzato con un foglietto sul quale scrivo il numero della linea e la destinazione. Chiedendo in giro m’indicano un primo incrocio; aspetto un po’ ma sembrano passare tutte le linee tranne l’ottantaquattro! Chiedo a qualche autista e mi dicono di spostarmi dall’altro lato della strada. Anche qui non ho più fortuna ma mi consola che un ragazzo con le cuffiette aspetti anche lui qualche autobus che non passa mai. Alla fine rompo gli indugi e gli mostro il “famoso” foglietto. Mi guarda incerto, chiede anche lui e mi riaccompagna dove avevo aspettato prima! Comincio a sospettare di non essere nel posto giusto! Finalmente un autista di minibus, più sveglio, mi fa capire che l’ottantaquattro passa a un’altra fermata della metro, il cui nome però mi risulta incomprensibile. Me lo faccio scrivere ma anche la scritta è illeggibile! Mostro il foglietto a un passante che per fortuna me lo legge con una pronuncia più chiara, permettendomi di capire che devo spostarmi alla fermata Azizbayoz. Uscito dalla metro, in una desolata area di periferia vicino a un cavalcavia, individuo subito il capolinea dell’ottantaquattro. Ce l’ho fatta! La corsa termina alla stazione ferroviaria di Suraxani, dalla quale attraversati i binari si raggiunge il Tempio del Fuoco (Ateshgah). Le sue origini sono antichissime, legate a culti zoroastriani, anche se la costruzione attuale è opera di religiosi indù. Al centro del cortile brucia la fiamma eterna, sotto un padiglione quadrangolare di pietra. La sorgente naturale si è esaurita: oggi il gas arriva dalle tubature, ma non si nota! Nelle celle attorno al cortile alcuni manichini illustrano la vita degli asceti che si sottoponevano a forme estreme di mortificazione, come sdraiarsi sui carboni ardenti o trascinare pesanti catene. Altre celle espongono immagini del passato, quando le fiamme bruciavano anche dai quattro “camini” agli angoli del padiglione centrale. Sono citati i racconti di viaggiatori che visitarono il tempio, divenuto un luogo di sosta lungo la via dei commerci: il tedesco Kempher nel 1683 trovò ancora gli asceti indù in preghiera davanti al fuoco. Terminata la visita, mi soffermo ad assaporare la suggestione del luogo e subito una giovane guida ne approfitta per scambiare quattro chiacchiere in inglese. M’illustra la storia del tempio e mi parla dell’Azerbaijan, toccando due temi “caldi” che spesso mi saranno ricordati: i quindici milioni di azeri che vivono nell’Iran settentrionale (più che in Azerbaijan!) e il dramma del Nagorno Karabakh. Il suo amico sul cellulare ha una cartina con il Grande Azerbaijan che include entrambe le regioni; mi chiedono di mostrargli l’ottima guida di Mark Elliott dove per fortuna il Nagorno Karabakh è indicato come territorio occupato dagli armeni! Tornato alla stazione ferroviaria, prendo il minibus settantasette che, dopo avere attraversato tutto il paese di Mardakan, raggiunge Shuvalan. Scendo alla moschea Ziyaratgah, affollata di pellegrini. Entrando nel complesso le donne devono indossare un lungo mantello con cappuccio; una pensilina consente di ripararsi dal sole, seduti sulle panchine, mentre le fontanelle più che per le abluzioni servono per una bella rinfrescata! L’edificio di culto presenta un minareto e due belle cupole (una per il mausoleo, una per la moschea) coperte di maioliche azzurre nello stile dell’Asia Centrale. Il piano terra è riservato alle donne, il primo agli uomini. All’interno, le pareti e il soffitto sono interamente ricoperti da specchietti luccicanti che formano disegni geometrici, molto kitch! Nel grande ambiente sotto la cupola decorata a stalattiti, i fedeli girano intorno all’alta balaustra ottagonale, toccando la grata. Alcuni portano in braccio i figli appena nati per una sorta di benedizione, altri poggiano il capo sulla recinzione assorti in preghiera. Affacciandomi dalla balaustra, al piano di sotto vedo la tomba in pietra verde di Aga Sheyid Ali con le donne che gli girano intorno. Il veneratissimo santone, morto nel 1949, era incredibilmente grasso, tanto da non potersi muovere da una sedia ed essere soprannominato Ataga, “Essere Senza Ossa”. Un’altra corsa del marshrutka settantasette mi riporta a Mardakan. Il Dendro Park non vale l’esoso biglietto d’ingresso di quattro manat. Gli uccelli nelle gabbie mettono tristezza, specie la grande aquila. Tra la lussureggiante vegetazione sono sparse qua e là pompe di petrolio, a ricordo del fatto che mi trovo nell’ex arboreto di un ricco petroliere. Un altro magnate del petrolio, Tagiyev, fu convertito da un mullah che gli fece capire che le ricchezze sono solo transitorie, un dono di Allah. In effetti, nacque povero, divenne ricchissimo grazie al petrolio ma perse tutto all’arrivo dei comunisti; morì all’età di 101 anni alla notizia che la figlia prediletta era fuggita in Persia con il marito (“Il Petrolio e la gloria”, Steve Le Vine). Una passeggiata sotto il sole mi porta alla tomba che il petroliere fece costruire per il mullah, protetta da un bel padiglione con cupola; Tagiyev volle essere sepolto in posizione secondaria di lato. Il suo busto con colbacco guarda per sempre verso il sepolcro del mullah. Nelle vicinanze si trova il sepolcro di Pir Hassan; una donna compie tre giri attorno al sarcofago baciando la mano di Fatima e il Corano. A poche decine di metri dal mausoleo, una vecchietta se ne sta davanti alla balaustra che chiude la collina: benedice i pellegrini lanciando poi una bottiglia di sotto. Il rito è molto popolare tra gli azeri che lo considerano un modo per liberarsi dagli spiriti maligni; anch’io mi sottopongo alla cerimonia. Proseguendo nell’esplorazione di Mardakan, raggiungo un quartiere di basse casette dominate da una torre fortezza che sembra un piccolo castello tratto dal medioevo europeo. Un quadrilatero di mura protegge un’alta torre quadrata con torrette angolari, culminante con grossi merli sorretti da beccatelli. Le possenti mura della torre non recano che qualche strettissima feritoia. Ormai è tempo di tornare a Baku, sfruttando la terza linea di marshrutka della giornata, il trentasei. Lungo il percorso rivedo gli aridi paesaggi della penisola di Apsheron: ovunque si scorgono trivelle per il petrolio e grosse tubature per l’acqua che spesso corrono a fianco delle strade rialzandosi, in corrispondenza delle laterali. A Baku scendo nei pressi della stazione ferroviaria, dove faccio un altro inutile tentativo per vedere se si è liberato qualche posto sul treno per Shaki. La mente corre al racconto di Charles Marvin in “The Land of eternal fire”, che nell’ottocento arrivo a Baku in treno da Londra. Sul lungomare raggiungo il Dom, mastodontico edificio dell’epoca stalinista. La città ottocentesca è tutta un cantiere; le belle piazze sono inaccessibili, chiuse da palizzate. La strada pedonale dello shopping, Nizami Kucasi, mi porta in Fountain Square, centro dell’animazione cittadina. Vicino a Mc Donald sorge l’antica chiesa armena, ormai priva della sua comunità fuggita ai tempi della guerra. Il museo della letteratura è un simbolo della città, con la sua facciata decorata dalle statue di scrittori azeri. Nel giardino di fronte si erge una grande statua di Nizami, il poeta nazionale vissuto nel XII secolo; rappresentato con i capelli lunghi, ricorda le nostre immagini di Gesù. Sull’altro lato della piazza corrono le mura della città vecchia, con la Porta Doppia. Proseguo la mia passeggiata lungo Istyglayat Kucasi che segue dall’esterno il percorso delle mura ed è piena di edifici del primo boom petrolifero. Il palazzo Ismailiya è ispirato all’edilizia di Venezia; il portone di un condominio reca numerose targhe di persone morte nel 1938, vittime delle purghe staliniane. In una traversa, il palazzo dei Matrimoni è considerato uno dei più belli ma le impalcature dei lavori lasciano vedere in alto solo la statua del cavaliere con lo spadone. Superata l’ambasciata iraniana, raggiungo l’imponente Municipio; nella piazza a fianco la fermata della metro Baki Soveti è protetta da una piramide di vetro che ricorda quelle del Louvre. La Filarmonica, un bell’edificio tinteggiato di giallo e bianco, è ispirata al casino di Montecarlo mentre il massiccio palazzo sull’altro lato della strada ospita gli uffici del presidente. Superata la galleria nazionale, raggiungo la trafficata piazza Azneft, affacciata sul Caspio; su un lato si erge la mole dell’edificio sede della compagnia petrolifera nazionale. Dopo tanto camminare mi riposo seduto su una panchina nei giardini davanti alle mura. Lunedì 20 luglio: Baku – Shaki Per raggiungere Shaki mi sono accordato per sfruttare un passaggio con il bus dell’Azintourist diretto al confine georgiano. L’appuntamento è alle quattro e mezzo del mattino in piazza Azneft. Si presenta Nahid, giovane collaboratore del boss. In attesa dell’arrivo del bus, chiacchieriamo seduti su una panchina: rimane molto sorpreso per le mie escursioni di ieri con i marshrutka e del fatto che non desidero visitare le spiagge nelle vicinanze di Baku. La sua visione del turismo è tutta legata ai viaggi organizzati. Finalmente alle cinque e un quarto compare il bus. Sono l’unico straniero sul grosso veicolo, in compagnia dell’autista, della guida (istrionica ma simpatica), di un altro signore e di Nahid. Contrariamente alle mie attese ci dirigiamo verso sud seguendo la costa. Nel buio della notte passiamo davanti alla moschea Bibi Heybat e proseguiamo fin oltre Gobustan, piegando poi all’interno. Seguiamo la statale M1, diretta verso Ganca, seconda città del paese. Siamo nella parte centrale dell’Azerbaijan, caratterizzata da paesaggi piatti e desolati. Alle otto e un quarto lasciamo la M1, raggiungendo dopo venti minuti Goychay. Attraversiamo alcuni paesi, tutti con il ritratto dell’ex presidente Alijev. Alla nove e un quarto ci fermiamo ad Aldan per una pausa che si protrae per quasi un’ora: seduti ai tavolini, chiacchieriamo sorseggiando tè. Ripartiti, puntiamo verso una striscia di basse e aride montagne che avvicinandosi si rivelano brulle colline di terra. Alle undici finalmente raggiungiamo la stazione ferroviaria di Shaki, situata a una ventina di chilometri dalla città. La strada per il confine georgiano non passa per la città; salutati i miei accompagnatori, per l’ultimo tratto devo quindi affidarmi a un taxi. A Shaki l’hotel ospitato nell’antico caravanserraglio è pieno e devo ripiegare sulla Panorama Guesthouse, situata in cima a una collina. La camera, senza bagno, è graziosa e il posto non tradisce il suo nome: bellissima la vista sulla cittadina con le casette coperte da tetti di tegole e le montagne verdeggianti, tutto intorno. Ridisceso in paese, raggiungo la piazza centrale movimentata da fontane mentre i vecchi seduti ai tavoli delle chaikhana (tea house) giocano al nart, una sorta di backgammon, molto popolare in Azerbaijan. Proseguo fino all’animatissimo Taza Bazar. Nel settore dei macellai le teste dei montoni sono ammucchiate una sopra l’altra mentre la carne è appesa ai ganci. I banchi ortofrutticoli sono il regno del colore grazie anche alle vesti delle donne. Colgo l’occasione per assaggiare l’halva, il dolce tipico locale, preparato in una grande forma circolare dalla quale sono tagliate le fette, bagnate poi con uno sciroppo. Il sapore assomiglia al backlava ma è ancora più dolce, decisamente stucchevole. Dal bazar parte la corriera numero 15 per il villaggio di Kish, un decrepito bus con i sedili disposti a salottino, affollato di donne e bambini che tornano a casa dopo la spesa in città. Kish si trova a qualche chilometro da Shaki, risalendo la valle; le strade sono acciottolate, le case di pietra hanno tetti di tegole collocate sopra lamiere. L’attrattiva del paese è costituita dalla chiesa albanese. L’Albania caucasica fu una delle prime nazioni a convertirsi al cristianesimo e occupava buona parte dell’attuale Azerbaijan settentrionale; gli azeri tengono a sottolineare che la sua chiesa era distinta da quella armena e furono solo gli zar nell’ottocento a imporre che si unisse agli armeni. La questione ha la sua rilevanza per le dispute legate al Nagorno Karabakh, le cui chiese secondo gli azeri sono albanesi e non armene. La chiesa, restaurata di recente, appare immacolata e colpisce il contrasto tra la pietra bianca e il tetto di tegole. Senza dirlo agli azeri, mi ricorda le chiese armene con la cupola interna che si trasforma in un tamburo cilindrico all’esterno, culminante con un tetto a punta coperto di tegole. Intorno alla chiesa, sotto protezioni trasparenti, si possono osservare varie sepolture. La storia del sito è molto più antica dell’era cristiana, come testimoniano i vasi del II-I millennio a.C. E la sepoltura animale nell’abside, culto dell’età del bronzo. L’interno della chiesa in pietra chiara è luminoso, con un’unica navata corta con cupola, due finestre laterali e un’abside con finestra centrale. Ospita un piccolo museo; un cartello riporta la teoria dell’archeologo norvegese Thor Heyerdhal sulle origini azere dei vichinghi, confortate dai petroglifi di Gobustan. Per tornare a Shaki, questa volta prendo un taxi. Mi faccio lasciare alla fortezza, entro le cui possenti mura sorgono, in mezzo ad ampie distese erbose, alcuni musei e il palazzo del khan. Nel museo di storia e cultura locale un plastico permette di farsi un’idea della città, ricostruita nell’attuale posizione con il nome di Nukha dopo una devastante alluvione. Tra gli oggetti esposti, le shabaka, vetrate colorate su intelaiatura di legno, tipiche dell’artigianato locale. Il palazzo del khan, Xan Sarayi, è il gioiello della cittadella fortificata. Nel recinto che lo racchiude, si ergono due enormi platani del 1530. La facciata del palazzo è magnifica. Le finestre di legno sono lavorate con intarsi che ospitano vetri colorati e formano fitti intrecci. I due balconi erano destinati uno al sultano, l’altro alla moglie; sono coronati da volte a stalattiti coperte di specchi. Completano l’insieme motivi geometrici colorati. L’interno si articola su due piani. La sala centrale al primo lascia abbagliati. Le finestre della facciata all’interno mostrano magnifiche shabaka; le pareti sono interamente affrescate con vasi che traboccano di fiori colorati e uccelli appollaiati (in una nicchia è raffigurato un albero di melograno). Il soffitto di legno dorato presenta motivi geometrici che formano stelle e un grande specchio sopra la fontanella al centro della sala. Al piano superiore anche le camere delle donne hanno vetrate colorate e pareti interamente affrescate con vasi di fiori. La sala centrale ripete quella al piano inferiore, arricchita da una fascia continua con scene di guerra: cavalieri che imbracciano lance con le teste dei nemici uccisi, la cavalleria che avanza compatta con gli stendardi al vento; nella fitta mischia di una battaglia volano le teste mozzate dalle spade a mezzaluna. L’appartamento degli uomini propone scene di caccia: un leone addenta un cervo mentre in una raffigurazione naif un cerbiatto è inseguito dai cani. All’interno della cittadella fortificata si trova anche un laboratorio artigianale di shabaka. Un ragazzo m’illustra come si montano: si tratta di un vero e proprio puzzle, un gioco d’incastri di vetri e pezzetti di legno. Il risultato è incredibilmente robusto. Terminata la visita della fortezza, scendo verso la città raggiungendo il Karavansaray. L’antico caravanserraglio presenta un grande porticato a due piani attorno a un cortile sul quale si aprono le camere dell’attuale albergo. Poco oltre un altro caravanserraglio, ancora più grande, giace in parte diroccato. Sull’edificio della scuola di scacchi si trovano placche con bassorilievi in metallo sul tema. Proseguendo per la strada che costeggia il fiume, raggiungo la piazza centrale. La moschea è sorvegliata da un alto minareto di mattoni. Al suo interno mi accompagna Abel (si chiama proprio come il figlio di Adamo) che mi spiega che Islam non significa terrore. Il grande ambiente moderno ha un imponente soffitto di legno a volta dal quale pendono enormi lampadari a gocce. La sera, la cena al ristorante del caravanserraglio è una fregatura: si mangia nel giardino posteriore senza ammirare l’antica architettura e la scelta è molto limitata. Il piti, piatto tradizionale di Shaki, non è disponibile e devo ripiegare sul solito kebab. Rimane un mistero dove siano gli ospiti che riempiono tutte le camere dell’albergo, visto che a cena non c’è quasi nessuno. Più tardi a un tavolo arriva una “portata sospetta”: forse il piti non me l’hanno voluto preparare perche sono da solo! Martedì 21 luglio: Shaki – Ismayilli – Lahic Nei trasferimenti in bus preferisco sempre muovermi presto, per sfruttare il fresco e prevenire eventuali contrattempi. Alle sei sono già alla stazione dei bus di Shaki e comincio a chiedere in giro un marshrutka per Ismayilli. I tassisti, come il solito, cercano di convincermi che non ce ne sono ma il proprietario delle guesthouse mi ha detto che i mezzi per Baku dovrebbero fare al mio caso, come mi conferma un autista. Prima della partenza fissata alle sei e mezzo, c’è tempo per un tè. Contrariamente a quanto mi aspettavo il minibus segue la stessa strada dell’andata, evitando le montagne; mi sorge quindi il dubbio se transiterà veramente per Ismayilli, come riportato sulla Lonely Planet. Nel bus nessuno parla, fatto strano poiché gli azeri sono molto ciarlieri. Attraversate Agdash e Goychay, la strada prosegue tra i monotoni pascoli di basse colline gialle e qualche coltivazione. Alle nove arriviamo a Qara Marayam, dove il bus prosegue per Shamaxi. La fermata è a una rotatoria e l’autista mi fa scendere indicandomi un taxi per raggiungere Ismayilli. La spesa è modica, solo tre manat, anche perché a bordo siamo quattro passeggeri. A Ismayilli, i bus per Lahic partono dalla rotatoria appena fuori il paese, ma dovrei aspettare fino alle undici secondo gli orari riportati sulle guide per cui preferisco prendere un taxi. Mi chiedono trenta manat ma poi un tassista scende a quindici e parto con lui. Durante il tragitto cercherà di farmi parlare al cellulare con una signora che mastica un po’ d’inglese; forse pensano di piazzarmi a casa di qualcuno per la notte. Lasciata la statale per Shamaxi, prendiamo la strada per Lahic, una sterrata in alcuni tratti molto rovinata. Ci addentriamo in una valle, nel primo tratto circondata da verdi montagne ma poi ristretta in un impressionante canyon roccioso percorso da un ruscello sassoso. Poco prima del paese pareti verticali di roccia formano uno scenario magnifico. A Lahic raggiungo subito l’interessante museo storico, ospitato in una vecchia moschea. Di fianco sorge l’ufficio turistico, dove mi accoglie il direttore, Dadash Aliyev. E’ l’insegnante del villaggio e parla un ottimo inglese. Gli spiego che vorrei pernottare in una casa privata e mi propone di ospitarmi a casa sua, per la modica cifra di venticinque manat, inclusa cena e prima colazione. La casa di Dadash si trova in fondo al paese, in posizione panoramica. Scaricato il compatto bagaglio, uno zainetto, chiacchieriamo sorseggiando il tè. Si è laureato in lingue slave a Baku; il suo stipendio d’insegnate è molto basso e lo costringe ad arrangiarsi. Mi sembra che riponga molte speranze nel figlio più grande che studia come ingegnere informatico in Turchia all’università di Ankara. Rispetto all’epoca comunista apprezza la libertà ma teme la mancanza di certezze: chi può dire cosa accadrà domani, anche la mia venuta oggi non era prevista! Il turismo si sta sviluppando ma ancora non è sufficiente, anche se è stato inaugurato un albergo da settanta manat per notte. Curiosamente, mi chiede dove vanno in vacanza gli italiani ricchi, visto che in Azerbaijan non si vedono! Ormai è tempo di esplorare Lahic. Una cornice di montagne avvolge il paese; i tetti delle case spuntano qua e là in mezzo agli alberi. Lahic è incantevole; il turismo non ha ancora intaccato la sua autenticità. La gente parla un dialetto farsi, derivato dal persiano, ed è molto socievole. Incrociando gli adulti, scambio un salam, mentre i bambini sono ben felici di fare un po’ di conversazione in inglese. L’Islam integralista è lontano anni luce: un anziano prima di entrare in moschea chiede lui stesso di essere fotografato e poi vuole essere ripreso anche a fianco del minbar. Le botteghe degli artigiani non sono più numerose come una volta ma lungo la via principale si lavorano ancora il ferro e il rame, naturalmente tutto a mano con incudine e martello. Una cooperativa di donne espone tappeti tessuti a mano; una signora con i capelli stranamente colorati mi spiega che il disegno che sto ammirando è tipico di Tabriz, cioè dei fratelli azeri che vivono in Iran. Un ragazzo m’invita ad entrare a casa sua, un antico palazzo; nel cortile si aprivano decine di stanze oggi ridotte a un ammasso di rovine, con un vecchio televisore collocato in una finestra! Passeggiando per Lahic non si soffre la sete, per la presenza di numerose fontane in pietra, spesso accompagnate da scritte in arabo. Le donne vi si recano ancora a raccogliere l’acqua ma usano dei banali recipienti di plastica invece che i tradizionali jujum di rame. Le numerose moschee hanno il tetto tradizionalmente rivestito di metallo. Decido di fare una passeggiata lungo la strada già percorsa in taxi, per rivedere con calma i meravigliosi scenari. Il canyon si restringe, le montagne si allungano una dietro l’altra, mentre un gruppo di mucche si abbevera in basso nella distesa ghiaiosa del fiume. La montagna è crollata ed enormi costoni di roccia giacciono nel canyon costringendo le acque a serpeggiargli intorno. Più avanti l’erosione ha messo in luce gli strati che hanno formato la parete. La mia passeggiata termina nel punto in cui il canyon è limitato sul lato dove mi trovo da un’imponente parete di roccia. La strada è ridotta a un solco e le Lada di passaggio sembrano schiacciate dal peso della montagna. La sera, ceno in compagnia di Dadash; sua moglie mi prepara dolmasi di cavolo e un piatto con interiora che assomiglia alla coratella romana, ma non siede al tavolo con noi. Compare anche il figlio più giovane con un portatile mentre Dadash m’informa che il suo gli è costato ben 700 euro (evidentemente riesce ad arrotondare bene lo stipendio!). Ne sembra orgoglioso e durante la cena mi mostra un bel documentario russo sulla natura. Mercoledì 22 luglio: Lahic – Baku Il pratico minibus per Baku parte puntuale alle otto del mattino, dalla piazzetta di Lahic. Lungo la sterrata nella valle procede molto lentamente, consentendomi di ammirare il paesaggio meglio di ieri, quando il tassista correva come un indemoniato. Rivedo le pareti a strapiombo, la gola strettissima zigzagare tra maestosi pinnacoli di roccia. Superato un gazebo belvedere, un ponte sospeso scavalca il fiume; non sembra per nulla rassicurante! Lungo la strada continuano a salire passeggeri. Un vecchio con la barba si accomoda nell’abitacolo, togliendosi la scoppola nera sotto la quale porta uno zuccotto dello stesso colore; indossa un completo scuro a righe ma nonostante l’abbigliamento non sembra soffrire il caldo. Alle nove raggiungiamo la statale, fermandoci a fare benzina; un litro costa 0,55 manat mentre il diesel addirittura 0,45! Conversando con un azero nei prossimi giorni, si lamenterà perché in Iran è molto più economica! Il viaggio prosegue attraverso un paesaggio premontano, con la vasta pianura dell’Azerbaijan centrale a destra e le montagne a sinistra. Alle dieci facciamo una sosta alle porte di Shamaxi ma lo sportello del bus non si apre e l’autista deve intervenire con un cacciavite per sbloccare il meccanismo, smontando il pannello interno. Terminato il lavoro, si fuma l’ennesima sigaretta: gli azeri si considerano turchi e quindi si può dire tranquillamente che fuma come un turco! Ripreso il viaggio, è d’obbligo una sosta per un’offerta Pirsaat Piri, un santuario a fianco della strada. Solo pochi passeggeri scendono, mentre l’autista in segno di rispetto spegne l’autoradio. Il paesaggio prima appena ondulato e coperto di erba secca per via dell’estate, diventa collinare ed aridissimo. Fervono i lavori di rifacimento della strada con grande profusione di mezzi meccanici. Superata Maraza, siamo ormai in un deserto e la strada è ridotta a una pista trafficata; il vento alza una tempesta di terra che avvolge la fila di camion, una visione spettrale. Finalmente appare Baku. Il minibus ci scarica nel piazzale davanti alla nuova stazione dei bus, dove subisco l’assedio dei tassisti, le prime persone aggressive incontrate in Azerbaijan. Per risparmiare tempo non voglio passare in albergo; mi faccio portare direttamente alla fermata Ganclik della metro, dove parte l’autobus quarantasette per Yanar Dag. Naturalmente mi guardo bene dal comunicare le mie intenzioni al tassista, per evitare che voglia portarmi direttamente a destinazione, spillandomi una bella somma. Questa volta è molto semplice individuare l’autobus; contrariamente al passato Yanar Dag non è più una destinazione sconosciuta e a bordo mi confermano che sono sul mezzo giusto. La corsa termina in mezzo al nulla, a un chilometro dal sito, ma basta proseguire lungo la strada, come indicato persino da un cartello turistico. A Yanar Dag, la “Montagna di Fuoco”, in compenso non c’è anima viva, a parte il bigliettaio e una guardia che se ne sta tutto il tempo chino sul cellulare. Una chaikhana sembra abbandonata e cade a pezzi. Dietro, sul fianco di una collinetta di terra, dagli anni cinquanta si levano le fiamme prodotte da un gas che fuoriesce dal sottosuolo. Spira un vento fortissimo e la visione è suggestiva ma non così impressionante. Forse si apprezza meglio la notte ma, contrariamente al parere di Elliott, il tempio di Suraxani rimane il mio sito preferito nella penisola di Apsheron. Mi siedo ai tavolini abbandonati della chaikhana ad ammirare lo spettacolo. Si avverte un certo calore; le lingue di fuoco si estendono per un fronte di qualche metro, alzandosi e abbassandosi, sospinte dal vento. Tornato a Baku, scopro che la camera già pagata all’Altstadt Guesthouse è stata data a qualcun altro. Poco male: mi sistemano nel vicino Boyukala Hotel, di categoria superiore, in una grande camera matrimoniale. Giovedì 23 luglio: Baku – Quba – Xinaliq Alle sei del mattino sono già all’autogavzal. La nuova stazione dei bus è stata inaugurata solo da pochi mesi. Nel piazzale i tassisti cercano di convincermi che non ci sono bus per Quba. Li ignoro ed entro nell’edificio, l’autostazione più grande di tutto il Caucaso, come sottolineato pomposamente dai politici locali! A quest’ora i negozi sono tutti chiusi ma sembra di essere in un moderno centro commerciale. All’ultimo piano si trovano le banchine degli autobus e i capolinea dei marshrutka, ciascuno con l’indicazione delle destinazioni. Tutto appare ordinato, organizzato ed efficiente. Alle sette e mezzo finalmente partiamo; il minibus per Quba è al completo. Lasciamo Baku, dirigendoci verso Sumqayit, aggirata dalla strada a scorrimento veloce. La città era un grande polo industriale ai tempi dell’Unione Sovietica ed è una delle zone più inquinate al mondo. Oggi gran parte delle fabbriche hanno chiuso e dalla statale si possono vedere gli edifici abbandonati che cadono in rovina. Proseguiamo verso nord, paralleli alla costa, lungo un’ottima strada con due corsie per senso di marcia; una vera pacchia dopo l’esperienza di ieri! Sulla sinistra la pianura costiera è limitata da aride montagne di terra. All’improvviso appare una cresta rocciosa, Besh Barmaq, la “Montagna delle Cinque Dita” irta di pinnacoli. Il luogo è considerato sacro dagli azeri, sede di un culto animistico ricondotto nell’Islam, come testimonia la moderna moschea a fianco della strada. Tutto intorno, i numerosi caffè offrono ristoro ai viaggiatori; ne approfittiamo per una sosta. Alle nove siamo a Siyazan. Nella piazza centrale la solita statua di Nizami che assomiglia a Gesù, a fianco un cartellone con l’ex presidente. La musica soft e la strada asfaltata continuano a rendere confortevole il viaggio. La pianura è diventata più fertile; compaiono coltivazioni di girasoli. Finalmente lasciamo la litoranea che prosegue verso Nabran e il Dagestan russo; pieghiamo all’interno in un paesaggio ormai molto più verde, allietato persino dagli alberi! Alle dieci e venti arriviamo a destinazione a Quba. Per i prossimi tre giorni ho prenotato un tour a Xinaliq e Laza, prendendo contatto via e-mail con Xeyraddin Gabbarov (www.Xinaliq.Com), consigliato dalla Lonely Planet. I suoi prezzi non sono certamente economici ma l’organizzazione si rivelerà puntuale ed efficiente; d’altra parte nei paesi nessuno parla inglese e Xeyraddin, senza mai comparire in prima persona, riuscirà a pilotare tutto tramite cellulare. Per prima cosa ho appuntamento davanti alla Tecnika Bank e dopo qualche minuto compare un ragazzo, Murat, inviato dal “boss”. Nell’attesa del driver prendiamo un chay all’hotel Oskar. In Azerbaijan ogni occasione è buona per un tè e alcuni giorni finirò per consumarne anche cinque! Murat parla inglese e mi spiega che la strada Baku-Quba è stata appena risistemata; l’anno scorso era un disastro. Per raggiungere Xinaliq da Quba fino a qualche anno fa era necessario un fuoristrada ma nel 2006 la strada è stata asfaltata. Le sue condizioni sono buone, affrontabili con una macchina ordinaria. A tal proposito la Lonely Planet non è per nulla chiara nelle sue spiegazioni! Raggiungerò Xinaliq a bordo della “lussuosa” Lada di Assad. Non parla inglese ma è simpaticissimo ed ha imparato tutte le parole che servono per intrattenere il passeggero durante il tragitto. Lasciata Quba, attraversiamo una fittissima foresta, una vera novità dopo gli aridi deserti della regione di Baku, risalendo la valle del Qudial Chay. Il verde dei boschi e le alte montagne rocciose formano un bel paesaggio ma le sorprese devono ancora venire. La valle si trasforma in un canyon strettissimo chiuso da alte pareti rocciose, largo appena una decina di metri, giusto lo spazio per il fiume e la strada. Una meraviglia! Saliamo rapidamente e dall’alto la vista lascia senza fiato: il torrente Xinaliq ha scavato un profondo canyon laterale, prima di gettarsi nel fiume. Salendo ancora, il paesaggio ricorda il Gran Canyon: l’erosione ha modellato montagne dalle forme particolari simili a quelle che in America hanno meritato nomi di templi orientali. Anche in questo caso le pareti verticali rossastre, in alto sono coperte da prati erbosi, mentre giù in basso il fiume scorre nel canyon. Superato il villaggio di Cek, proseguiamo fino a raggiungere Xinaliq, una visione fiabesca di case in pietra scura. Da Quba fino al villaggio più alto dell’Azerbaijan, oltre quota 2300 metri, abbiamo percorso una sessantina di chilometri. Assad mi accompagna in una casa bianca nella parte bassa del paese, lungo la pista per Laza; ospita una piccola guesthouse, dove mi accoglie Faik. Conosce solo qualche parola d’inglese e non è facile comunicare. Domani è prevista una giornata di trekking per raggiungere Laza; esistono due percorsi alternativi, uno più breve decisamente impervio che consente di ammirare un ateshgah e uno più lungo ma meno scosceso. Faik mi fa capire che per le condizioni del tempo seguirò il percorso più lungo e se voglio visitare l’ateshgah devo farlo oggi. Una telefonata a Xeyraddin chiarisce tutti gli aspetti: mi accordo per fare subito l’escursione all’ateshgah, accompagnato dalla guida alla quale elargirò una mancia per compensare l’extra. Nel frattempo un chay è d’obbligo; compare la guida, Geo fratello di Faik. Con lui mi avvio lungo la pista per Laza, seguendo un ruscello in una verde vallata. Subito dopo Xinaliq un posto di controllo è presidiato da due soldati giovanissimi. Due locali con un camion cercano disperatamente di ottenere il permesso di passare ma non c’è niente da fare. I soldati comunicano via radio i dati del mio passaporto e del visto; passa un po’ di tempo e arriva l’ok per passare. Dal posto di controllo camminiamo per più di un’ora, prima lungo la pista, poi deviando a destra per un’estenuante ascesa in mezzo a un magnifico tappeto di fiori selvatici. Ogni tanto facciamo qualche incontro: un pastore con il suo gregge, un cavaliere solitario, una signora che raccoglie l’erba e controlla un gruppo di arnie. Raggiunto l’ateshgah mi siedo davanti al fuoco insieme al silenzioso accompagnatore per godermi il fascino solitario del luogo. Il mucchio di sassi sembra un focolare ma la fiamma è naturale. Le nuvole ci hanno avvolto da un pezzo e la visuale limitata accresce la solitudine selvaggia. In basso si odono le acque di un ruscello, accompagnate solo dal crepitio della fiamma. Tornato a Xinaliq, ringrazio Geo con dieci manat e mi dirigo verso il villaggio per visitarlo. Incrocio un gruppo di turisti iraniani che rimangono molto sorpresi per la mia escursione: a loro i soldati non hanno concesso il passaggio, forse perché erano senza guida locale. Gli consiglio di chiamare Xeyraddin a Quba; si segnano nome e telefono in un alfabeto incomprensibile, scrivendo da destra a sinistra. Sono di Teheran e mi consegnano i loro biglietti da visita. Non si sa mai! Xinaliq è un villaggio incredibile, un gruppo di case grigie in pietra sopra una collina circondata da verdi montagne. La giornata di pioggia impedisce di apprezzare il panorama ma rappresenta il clima tipico del luogo, aggiungendo un’aurea di mistero. Mi aggiro per le stradine in terra, fino ad arrivare in cima. Le case tradizionali hanno il tetto piatto che spesso funge da spiazzo per un’altra casa. Le mura sono formate da file alternate di pietre disposte di taglio e squadrate più grosse, tenute insieme dalla malta. Il paese appare quasi spopolato ma a valle è in corso una festa di matrimonio e forse sono tutti lì. Certo che molte case sono abbandonate, con le mura diroccate. Gli incontri sono tutti piacevoli; i bambini mi salutano e gli adulti mi stringono la mano. Il museo è chiuso ma poco importa; sbuca un’anziana con un coltello in mano e subito mi chiede di fotografarla insieme alla nipotina. Mi vuole offrire un chay ma per oggi ne ho già bevuto abbastanza! Una famigliola nello spiazzo davanti casa nutre le galline. Mamma e figlia indossano vesti colorate e naturalmente sono ben felici di farsi fotografare insieme per rivedersi nel display. Il papà mi stringe la mano. Dal 2006 l’isolamento di Xinaliq è rotto, grazie alla nuova strada; speriamo che ciò determini un maggiore benessere ma senza stravolgere le tradizioni locali. La sera, sono l’unico ospite della guesthouse. Faik mi prepara uno spezzatino con patate ma la carne per la verità è un po’ duretta. Per sciogliere il ghiaccio ci mostriamo le foto di famiglia sui rispettivi cellulari. Dopo cena il tempo è migliorato, le nuvole si sono diradate, rimanendo isolate come batuffoli bloccati dalle verdi montagne. Xinaliq appare finalmente libero alla visuale; il suo aspetto dal basso evoca un villaggio medievale, con la pietra scura delle case addossate le une alle altre. Strabone nella sua “Geografia” parla delle ventisei tribù dell’Albania caucasica. La gente di Xinaliq discenderebbe da una di queste tribù e secondo una leggenda parlerebbe la lingua di Noè. In realtà studi effettuati affermano che nel 3000 a.C. In tutto il Caucaso si parlava lo stesso linguaggio, sopravissuto solo in questa regione. La complessità della lingua di Xinaliq ne sarebbe una prova. Venerdì 24 luglio: Xinaliq – Laza Giornata dedicata al lungo trekking tra i paesi di Xinaliq e Laza. Partiamo alle sette; mi fa da guida sempre Geo ma questa volta abbiamo anche un cavallo e non devo fare nemmeno la fatica di portare lo zainetto. La giornata è nuvolosa ma migliore di ieri. Al posto di controllo mi perquisiscono, ispezionando il bagaglio. Frugare tra le mie cose sembra essere un diversivo per rompere la monotonia della giornata: il giovane soldato quando scopre che ho due cellulari mi chiede di lasciargliene uno ma si capisce che scherza. Gli offro invece il mio orologio con il cinturino rotto, comprato a Roma per tre euro; prima sembra gradirlo ma poi me lo restituisce ridendo. Proseguiamo lungo la pista di ieri, ben oltre la deviazione per l’ateshgah, risalendo la verdissima valle dello Xinaliq, coperta da fiori selvatici. Poco prima delle nove la valle si chiude, il torrente proviene dalla parete di una montagna, e noi pieghiamo a destra iniziando a salire più decisamente. Giungiamo in vista di un accampamento, tenendoci alla larga perché i cani sono molto aggressivi. Siamo passati in un’altra valle, molto più brulla e caratterizzata da pietre scure. Alle 9:45 raggiungiamo il passo; stiamo salendo da quando siamo partiti, chissà a che quota saremo? La vista si apre su un nuovo scenario: in lontananza si scorge un grande fiume. Finora abbiamo percorso una pista, incrociando anche qualche jeep, ma alle dieci pieghiamo a destra in mezzo ai prati. Non c’è un vero e proprio sentiero: si segue la nuova valle, fiancheggiata a sinistra, sul lato opposto a quello dove ci troviamo, da un’alta e magnifica montagna di roccia rosa. Si tratta dello Shahdag, il “re delle montagne”, la cima più alta dell’Azerbaijan con i suoi 4243 metri. Oggi però le nuvole ne nascondono la vetta. Nella valle scorre lo Shahnabad Chay (scopro che chay in azero vuol dire sia tè che fiume) e i prati erbosi attirano qualche accampamento di pastori. Procediamo sempre con una certa cautela per via dei cani. Un gruppo di uccelli neri fa un gran baccano al nostro passaggio. Riprendiamo a salire; il fiume scorre ormai molto più in basso, in un canyon stretto e profondo che ne nasconde la vista. Alle undici e mezzo affrontiamo una discesa sassosa, ripida e insidiosa (per me!). La visuale cambia di nuovo: la valle si allarga tra montagne verdeggianti. Il tempo è nettamente migliorato quando a mezzogiorno ci fermiamo per il pranzo: pane, formaggio e cetrioli. Spunta il sole e volgendo lo sguardo all’indietro vedo sbucare tra le nuvole la cima appuntita dello Shahdag; una visione affascinante! Ripresa la marcia, continuiamo a scendere lungo la valle, fino a poche decine di metri sopra il fiume che scorre impetuoso e grigio, formando numerose rapide. Sulle guide la durata del trekking è indicata in 10-12 ore e non ho idea di quanto manchi all’arrivo, quando improvvisamente ecco spuntare un gruppo di edifici davanti ai quali è persino parcheggiata un’auto: è il Survar Resort, sono le 13:50 e siamo “tornati alla civiltà”! Abbiamo raggiunto una pista e subito incrociamo alcune jeep di turisti azeri. Dopo una ventina di minuti compare Laza. Il trekking è durato poco più di sette ore. Geo, che ha percorso vari tratti a cavallo, mi ha fatto trottare, in modo da avere il tempo di tornare a Xinaliq in giornata. Prima di raggiungere il paese ammiro due alte cascate gemelle. Laza appare molto più moderna di Xinaliq. Sono alloggiato a casa della famiglia che gestisce l’unico negozio del paese. L’edificio è tinteggiato di celeste mentre il negozio annesso, con la grande insegna “LAZA”, rosa pastello. Mi accolgono un ragazzo, Ramit, e suo nonno, Dadash, che seduto sul divano con il cappello in testa guarda il calcio alla TV satellitare. La padrona di casa dagli occhi azzurri subito si prodiga per me, allestendomi un pranzo non richiesto. Laza è un mucchio di casette addossate intorno alla moschea con il tetto di lamiera argentata e la torre sormontata dalla mezzaluna che si staglia sullo sfondo delle montagne. Una curiosa formazione rocciosa si erge solitaria proprio in mezzo alle case. Un ponticello poco rassicurante, due tronchi coperti di terra, scavalca il ruscello verso la parte più moderna del paese. Al contrario di Xinaliq, si trova in basso, in una conca circondata di montagne coperte da verdi prati e culminati in rocciose pareti verticali. E’ il primo posto dove non prende il cellulare. Una passeggiata di pochi minuti permette di raggiungere un punto panoramico nella direzione opposta a quella da cui sono arrivato: un baratro profondo presenta curiose lame di roccia color sabbia, scavate dall’erosione dell’acqua una parallela all’altra e sottilissime. In paese accanto al pinnacolo di roccia qualcuno si è costruito una casa; una cascata s’infila con più salti tra due montagne. Molte case hanno a fianco l’orto, altre le cassette delle arnie. In mezzo al verde delle montagne c’è un “buco”: alti pinnacoli di roccia color sabbia sembrano un gruppo di fantasmi serrati uno accanto all’altro. Raggiungo il grande spiazzo a un incrocio; i bambini giocano a nascondino. Il mio arrivo è accolto con grande entusiasmo e una foto di gruppo li rende felici di rivedersi nel display. Mi siedo su un sasso per assistere al loro gioco. La sera, la cena non arriva mai. Guardo la televisione con il nonno per un’oretta; mi scrive anche il suo indirizzo in cirillico poiché non ha mai imparato il nostro alfabeto, introdotto solo dopo l’indipendenza. Stanco per il lungo trekking me ne vado a letto e mi addormento quando alle dieci e mezzo mi chiamano per la cena. Il piatto forte è una saporita zuppa ricca di verdure. Alle undici arriva il capofamiglia e intuisco finalmente il motivo del ritardo nella cena. Si chiama Khalid ed è l’insegnante del paese. Parla un po’ d’inglese e mi mostra con orgoglio che la sua famiglia, Azizov, è citata nella Lonely Planet e il suo nome compare nel libro di Mark Elliott che due anni fa è stato suo ospite. Scrivo un saluto sul quaderno dei visitatori; l’ultima presenza risale alla settimana scorsa. Sono passati viaggiatori da tutto il mondo, Sud Africa, Iran, Germania, Scozia, Svizzera. Khalid con i suoi denti d’oro mi spiega che la gente di Laza appartiene ai lesghi, una popolazione che vive in questa regione da molto tempo. Approfitto delle quattro parole citate da Elliott per fare un po’ di complimenti nella loro lingua: ne sono molto contenti. Khalid sostiene di averle trascritte proprio lui a Elliott. Rinuncio alla vodka che mi offre, preferendo una birra. A mezzanotte finalmente sono a letto. Dormo su un materasso per terra, molto comodo anche grazie ai tappeti, nella camera del nonno. Russa rumorosamente ma non disturberà più di tanto il mio sonno. Sabato 25 luglio: Laza – Qusar – Quba La mattina ritrovo il nonno davanti alla televisione; sembra un tipico anziano italiano che trascorre gran parte della sua giornata in questo modo. Khalid mi vorrebbe portare in città, a Qusar, nel pomeriggio. Gli dico di chiamare Xeyraddin che gli spiega che invece voglio partire la mattina. Alle dieci, salutata la famiglia, lascio quindi Laza con Khalid alla guida della sua Zighuli. Percorriamo una pista sassosa e polverosa, lungo la valle del Qusar Chay. Dopo un’ora raggiungiamo Qusar, la “capitale” dei lesghi. In tutto sono circa seicentomila suddivisi tra l’Azerbaijan settentrionale e il Dagestan russo; seguono il credo sunnita diversamente dagli azeri sciiti. Abbiamo appuntamento con Murat, il ragazzo del primo giorno; salutato Khalid, Murat mi accompagna con la sua auto all’Hotel Oskar di Quba. E’ venuto il momento di saldare il tour e sorge qualche discussione sul prezzo. Per fortuna ho portato con me una copia dell’e-mail del boss. Murat lo chiama al telefono e alla fine riesco a spuntare gli sconti concordati: la spesa totale è pari a 215 euro per il tour e 25 per l’albergo. Le ultime discussioni riguardano il cambio euro dollaro. A titolo indicativo ho visto Murat consegnare a Khalid 50 manat, per cui il margine del boss mi sembra largo nonostante gli sconti! Dedico il resto della giornata alla visita di Quba. La piazza centrale presenta un giardino con rigogliosi alberi d’ibiscus e una fontana; in fondo si erge la curiosa prospettiva della moschea Juma, a pianta ottagonale con le pareti tinte di granata, la grande cupola metallica culminante in un puntale e dietro il sottilissimo minareto. Su un altro lato della piazza un’antica casa ha una veranda di legno tutta lavorata e sembra risalire ai tempi dello zar quando Quba, dopo essere stata la capitale di un canato indipendente, divenne una tranquilla cittadina di provincia nell’immenso impero russo. Avvicinandomi alla moschea il minareto isolato sembra un missile prossimo al lancio verso lo spazio. L’interno è un piccolo pantheon con la grande cupola che copre tutto lo spazio; per terra bei tappeti, in alto un lampadario a gocce. Proseguo nell’esplorazione della città, ricca di moschee. La Saxima Xanun ha un interno piacevole, tutto colorato dai tappeti, gli affreschi della cupola e gli stendardi alle pareti. M’infilo in un laboratorio di tappeti, Qadim Quba. Il lavoro delle donne richiede pazienza e precisione: si compone una fila alla volta passando nella trama prima un colore, poi il successivo, con lo schema del disegno sempre davanti. Completata la fila, si tagliano le sporgenze dei fili. Nel grande cimitero tra le tombe moderne si trovano anche antichi mausolei reali in mattoni. Su alcuni alberi sono appesi fazzoletti colorati come nel buddismo tibetano (ma la tradizione è osservata anche nella Cipro cristiana!). Cercando di comunicare con i locali, il mio “inshallah” è molto gradito. Proseguendo nella passeggiata raggiungo l’antico hammam in mattoni, con due “nidi d’ape” di diverse dimensioni. Il parco Nizami appare un po’ malmesso; una grande scalinata con statue di atleti sopravvissute all’era sovietica porta verso il fiume, ma prima mi fermo a un chiosco per mangiare uno shashlik, seduto all’ombra. Il giovane che mi serve, quando gli dico che sono italiano, mi mostra orgoglioso la maglia della nazionale con il numero dieci di Del Piero. Attraversato il Qudial Chay sul ponte pedonale, raggiungo il quartiere ebraico di Krasnaya Sloboda, “villaggio rosso”. L’origine di questa comunità risalirebbe a una delle tribù perdute di Israele, oppure più probabilmente a profughi fuggiti da una persecuzione dello shah di Persia. E’ proprio strano incrociare uomini con la papalina in testa che mi salutano con “shalom” invece che con “salam”! Alcune abitazioni lussuose con colonnati e porticati sono il frutto dei soldi degli emigrati in Israele. Un’antica sinagoga di mattoni è abbastanza malmessa, a testimonianza delle persecuzioni dell’era sovietica; negli oculi sopra la finestra è riprodotta la stella di Davide mentre la torretta è completamente arrugginita. M’incammino verso il fiume; la torretta metallica di un’altra sinagoga, sormontata dalla stella di Davide, contrasta con la cupola e il minareto della moschea del Venerdì sull’altra sponda. La grande sinagoga è stata ricostruita: il tetto metallico presenta guglie e cipolle in stile ortodosso russo sormontate dalla stella. In giro non si vede quasi anima viva. Tornato sulla sponda musulmana, visito il museo ospitato nella casa dello storico Bakikhanov, vissuto nell’ottocento. La signora che mi accompagna per le sale è molto dispiaciuta che nessuno parli inglese, nemmeno la figlia che pure dovrebbe studiarlo a scuola; cerca comunque di illustrarmi l’eterogenea esposizione in russo. Terminato il giro, mi porta nell’ufficio, telefona a un tizio che parla un po’ d’inglese e me lo passa per verificare che sia tutto a posto! Mi riempie anche di regali: un CD multimediale sull’Azerbaijan, guide e cartoline di Baku! L’ultima moschea della giornata, Ardebil, un tempo era una chiesa. L’interno è semplice con il soffitto piatto di bianche travi di legno. Tornato nella piazza centrale, un signore che siede solitario al tavolino del caffè m’invita a unirmi a lui. Non posso rifiutare e così mi tocca un altro chay. E’ di Baku e si trova a Quba per lavoro; sul tavolino sfoggia ben quattro cellulari. Al ristorante dell’hotel Oskar, ordino un kebab e una birra. Dopo mezzora m’insospettisco: tutti bevono birra e nessuno mangia. Chiedo lumi e, infatti, il kebab è sfumato. Mi sposto verso il centro al Chinar Cafè, citato da Elliott (la Lonely Planet è deficitaria completamente e non solo in questo caso!). Domenica 26 luglio: Quba – Baku L’hotel Oskar si trova a due passi dall’autogavzal e alle 6:45 sono già in partenza per Baku. Il tragitto è lo stesso dell’andata, con sosta d’obbligo a Besh Barmaq, dopo un’ora di viaggio. Alle nove raggiungiamo la nuova stazione dei bus della capitale, dove, come la volta scorsa, devo far fronte all’assalto dei tassisti. Uscito dal parcheggio, ne scelgo uno più mite, spuntando una tariffa di sei manat, dai dieci di partenza. A Baku è una giornata soleggiata ma ventilata; passeggio nella città vecchia, rivedendo i monumenti con la luce del mattino. Sul Bulvar, a fianco della Torre della Vergine, sorge un esuberante palazzo del 1912, Haijinski Mansion, in stile eclettico con torrette, gargouille e faccioni. Una targa ricorda il soggiorno nel 1944 di Charles de Gaulle, proveniente da Teheran e diretto a Mosca per incontrare Stalin. Proseguendo sempre sul lungomare raggiungo il museo del tappeto, ospitato in un edificio dall’imponente colonnato. La collezione è suddivisa tra le varie regioni del paese, incluso il Nagorno Karabah e l’Iran settentrionale. I disegni dei tappeti seguono decine di schemi codificati. Tra i tanti mi colpisce il sumakh di Quba, nel quale è rappresentato un grande personaggio stilizzato con braccia e gambe aperte a formare una “X”; nel gazakh compaiono curiosi cammelli stilizzati mentre i tappeti di Tabriz hanno fino a diecimila nodi ogni dieci centimetri quadrati. Durante la visita ho modo di notare come nelle mappe l’Armenia sia indicata come Armenistan. La mostra termina con un grande tappeto che riproduce la cartina dell’Azerbaijan: accanto ad ogni città è rappresentato lo schema del suo tappeto tipico, inclusa la regione azera dell’Iran. Terminata la visita, ripercorro il Bulvar in direzione del centro e, superata piazza Azneft, raggiungo la funicolare che conduce sopra una collina. Tutta l’area è dedicata ai tristi ricordi di un secolo di guerre. Per prima mi accoglie una moschea in stile turco, recentemente costruita. Un mausoleo ricorda i caduti ottomani nell’avanzata verso Baku della prima guerra mondiale; i nomi sono riportati su targhette d’ottone sotto una piccola mezzaluna. L’arrivo dei turchi fu accolto con favore dai “fratelli” azeri e per questo la lapide dedicata ai caduti inglesi, accorsi invano dopo il crollo russo per fermare l’avanzata degli ottomani, è stata accompagnata da molte polemiche. La storia più recente non è meno tragica. Nel 1990 l’armata rossa massacrò i dimostranti nelle vie di Baku; le loro tombe si allineano oggi lungo la Via dei Martiri, fino allo slanciato mausoleo nel piazzale affacciato sul mare. Purtroppo non è finita: le tombe dei caduti nella guerra del 1992 contro l’Armenia per il possesso del Nagorno Karabakh sono altrettanto tristi. Molti oggi sarebbero più giovani di me e invece sono morti da diciassette anni! Ancora una volta davanti a questi monumenti, non mi prende il retorico pensiero che ogni nazione ha bisogno dei suoi martiri, ma il senso dell’inutilità di tutte le guerre. Dalla collina si gode un magnifico panorama sulla città; se non fosse per l’assenza del Vesuvio, potrebbe sembrare Napoli. Baku forma un arco sul mare con la striscia verde del Bulvar, le basse case della città vecchia tra le quali spiccano la Torre della Vergine e il Palazzo del Khan; tutto intorno, una distesa di alti palazzi che da quassù non sembrano brutti. Ridisceso al Bulvar, raggiungo in autobus un giardino, dove si trova il monumento dedicato a Sorge. La spia comunista, dal Giappone, per anni riuscì ad inviare a Stalin i piani di guerra della Germania nazista, ma alla fine fu scoperto. Una lastra scura reca incisi due grandi occhi, inquietante simbolismo della vita di una spia, come anche i fori che richiamano la sua triste fine sotto i proiettili. Nessuna iscrizione fa riferimento a Sorge, nativo dell’Azerbaijan anche se di origine tedesca, e il monumento sembra destinato ad avere vita breve com’è successo a tanti altri dell’era comunista. Poco lontano il “monolite” è un grande condominio “sovietico” ma ha perso la stella rossa sopra il puntale. Un’altra corsa in autobus mi porta in una grande piazza, dove si erge il monumento all’ex presidente Alijev, significativamente rivolto verso il grattacielo di una banca. I suoi cartelloni si trovano ovunque nel paese; Alijev negli anni ottanta fu l’unico membro del politburo di lingua turca ma fu messo da parte da Gorbaciov. Dopo l’indipendenza è riuscito a riciclarsi e farsi eleggere presidente. Oggi il potere è nelle mani di suo figlio e la sua controversa figura è presentata come una sorta di Atartuk azero, fondatore del moderno Azerbaijan. Nel Taaza Bazar per l’ora calda regna un certo torpore; molti dormono, uno spaparanzato in poltrona, altri si rilassano giocando al nart. I banchi della frutta secca sono i più ricchi. Nei pressi della metro Nizami una statua ritrae una donna che si toglie il velo; ironicamente il grattacielo subito dietro appartiene a una banca iraniana. La stazione della metro è decorata con bei mosaici colorati dedicati alle opere di Nizami. La sera dopo cena mi siedo nelle panchine davanti al museo della letteratura ad osservare lo struscio e i monumenti illuminati. Lunedì 27 luglio: Baku – Gobustan – Baku Giornata dedicata alla gita a Gobustan, situata a una sessantina di chilometri a sud di Baku e comodamente raggiungibile con il bus centocinque (80 centesimi il biglietto!). Il capolinea si trova sul lungomare, oltre l’Idman Sarayi. Procediamo lungo la costa verso sud; alla periferia di Baku una vasta area sul mare è conosciuta come “James Bond Oil Fields”, poiché è stata immortalata in un film del celebre agente segreto. Un tempo le pompe per estrarre il petrolio erano fittissime ma oggi molte sono state smantellate. Subito dopo, la strada passa davanti alla moschea Bibi Heyat, ricostruita dopo l’indipendenza. Raggiunta Gobustan, scendo dal bus proprio davanti al cartello con l’indicazione per la riserva dei petroglifi. Subito mi aggancia una tassista che mi spara trenta manat per l’escursione completa: “Musee, Vulkanlar, Romans”. Ci accordiamo per venti e partiamo subito alla volta dei vulcani di fango. Una sterrata, tra filari di tralicci elettrici, attraversa il paesaggio desertico. Di fianco corre il condotto del grande oleodotto BTC (Baku-Tblisi-Ceyhan) inaugurato nel 2006 per portare il petrolio azero in Turchia, nel Mediterraneo, senza passare per la Russia. Superata una sella, pieghiamo a sinistra e saliamo un po’; in cima una serie di mini coni disposti a forma di cratere, ribollono di fango. Il posto è affascinante: da un lato il mar Caspio, blu e costellato da una miriade d’installazioni petrolifere, dall’altra aride montagne prive di qualsiasi vegetazione. Le pozze di fango ribollono, borbottando a intervalli di pochi secondi; qualcuna tace più a lungo per poi scatenare un getto più grande. Il brontolio sembra quello di un uomo maleducato dopo pranzo! Tornati verso Gobustan, deviamo per la riserva dei petroglifi. Nel piccolo museo, le incisioni nelle foto appaiono più evidenti perché sono state riempite con dentifricio. Il santuario si sviluppa tra i massi di una collina e comprende 3500 graffiti, alcuni dei quali risalenti al XIII secolo a.C. Il percorso praticabile tuttavia è piuttosto breve (alcune parti sembrano chiuse per il pericolo dei serpenti). Un tempo la regione non era desertica ma rigogliosa, come testimoniano i graffiti di animali. Colpisce in particolare la rappresentazione di tre guerrieri con archi e frecce, sotto una lunga barca arcuata con un sole sulla prua. Qualcuno ha ipotizzato un collegamento con i vichinghi, che sarebbero originari dell’Azerbaijan. Una roccia più in alto presenta un gruppo di uomini ritratti frontalmente con le gambe larghe. Qua e là si notano mucche dalle lunghe corna, ritratte di profilo spesso con vitellini. Il tassista mi ha accompagnato nel giro e mi mostra una roccia che percossa con un sasso risuona come un tamburo. Ripresa la macchina, un’altra deviazione, ci consente di raggiungere un’iscrizione latina, la più orientale mai trovata. Una grande roccia, protetta da un recinto, reca una profonda incisione opera di Giulio Massimo, centurione romano della XII legione sotto l’imperatore Domiziano. Terminate le escursioni, è tempo di tornare a Baku. Lungo la statale non bisogna lasciarsi impressionare dai minibus con il cartello “Baku” che sfrecciano senza fermarsi. Sono pieni e provengono da destinazioni più lontane. Dopo un po’ compare il “fedele” centocinque: questa volta si tratta proprio di un autobus urbano. Rivedo i paesaggi dell’andata: grosse industrie colorate, le piattaforme nel Caspio raggiunte da strade su palafitte e il deserto che incombe su tutto. Decido di fermarmi alle spiagge di Shikov, poco prima della capitale. Per accedere al mare devo pagare tre manat ma non voglio rinunciare a un bagno nel Caspio. Le acque sono calmissime e non sembrano inquinate, anche se la visione delle piattaforme al largo è inquietante. Un breve tratto con il bus numero venti mi porta alla moschea di Bibi Heybat. Era una delle più antiche dell’Azerbaijan ma negli anni trenta fu abbattuta dai comunisti con la scusa di allargare la strada. Ricostruita dopo l’indipendenza, oggi si staglia con tre cupole e due minareti su un piazzale affacciato sui cantieri navali, una selva di gru e grandi navi ormeggiate. Dietro la piatta distesa dei James Bond Oil Fields. All’interno, sotto la grande cupola centrale, si trovano i sepolcri, protetti da una grata argentata; i fedeli compiono tre giri intorno, una donna prega inginocchiata con la testa poggiata sulla grata. Le pareti e la cupola sono rivestite di piastrelle verde smeraldo, tutto è luccicante. Un’altra corsa con il venti mi riporta in centro sul Bulvar. Per cena scelgo il Kohna Shahar, uno dei pochi ristoranti della città vecchia. Il locale dall’aspetto lussuoso è vuoto; sono l’unico cliente forse perché è ancora presto. In un’ultima passeggiata sul Bulvar mi unisco allo struscio degli azeri, sedendomi poi su una panchina in piazza Azneft. E’ tempo di tornare in albergo, poiché domani mi aspetta una levataccia. Martedì 28 luglio: Baku – Istanbul – Roma Alle quattro e mezzo del mattino scopro che il taxi prenotato per l’aeroporto è la macchina del proprietario della guesthouse che mi accompagna personalmente (20 manat la spesa). Il volo parte alle sette ma, grazie alle due ore di fuso rispetto alla Turchia, alle otto sono già a Istanbul. La fase di atterraggio è spettacolare: sorvoliamo il Bosforo e il Corno d’Oro dove sono chiaramente visibili Santa Sofia e la Moschea Blu. Approfitto della mattinata a disposizione per un giro in centro, comodamente raggiungibile con la metro e un tram fino a Sultanhamet. La giornata è splendida; la piazza che ripete il tracciato dell’antico Ippodromo è magnifica, anche se le frotte di turisti, molti dei quali in gruppo con accompagnatore, per me sono uno shock dopo l’esperienza azera. Al centro della piazza sorgono alcuni celebri monumenti. La cosiddetta fontana dell’Imperatore Guglielmo fu donata nel 1901 dal sovrano tedesco in occasione della sua visita al sultano. Segue poi l’obelisco di Teodosio, in granito, scolpito in Egitto intorno al 1500 a.C.; l’imperatore lo fece erigere nel 390 d.C. Sopra un piedistallo di marmo, decorato da bassorilievi che lo ritraggono circondato da famigliari e dignitari di corte. La Colonna Serpentina si trovava in origine nel tempio di Apollo a Delfi, dove era stata eretta in memoria della vittoria dei Greci sui Persiani nella battaglia di Platea; la spirale è formata da tre serpenti che s’intrecciano, ma le teste e il treppiede che reggevano sono scomparsi. La Colonna di Costantino è un obelisco formato da blocchi di pietra grossolanamente squadrati. Passo quindi alla visita della Moschea Blu. Dall’ingresso nel cortile la visione della selva di cupole sovrapposte costituisce una delle immagini classiche di Istanbul. La grande sala interna è rischiarata da centinaia di finestrelle. La moschea, costruita nel XVII secolo, vanta ben sei minareti, superata in questo solo dalla moschea della Mecca, che ne ha sette. Nonostante i possenti pilastri, la cupola è comunque più bassa di quella di Santa Sofia. Uno dei monumenti più affascinati di Istanbul è la Yerebatan Sarnici, la grande cisterna costruita sotto il regno Giustiniano. L’enorme spazio sotterraneo presenta una selva di colonne disposte in file mentre i muri perimetrali di mattoni, dallo spessore di quattro metri, sono costruiti con una malta impermeabile. Buona parte dei materiali e delle colonne sono elementi di reimpiego; ne sono testimonianza le enormi teste di gorgone, che fanno da base a due colonne. Curiosamente una è disposta di fianco, l’altra capovolta. Peccato che la musica classica di sottofondo della mia visita precedente, una decina di anni fa, oggi sia sostituita dal vociare delle orde di turisti. Per entrare a Santa Sofia c’è una lunga fila ma scorre veloce e non voglio certo rinunciare alla visita di uno dei monumenti più famosi di tutti i tempi, la cui cupola è entrata nella storia dell’architettura. La basilica voluta da Giustiniano fu trasformata in moschea dopo la conquista ottomana con l’aggiunta dei quattro minareti; Ataturk volle poi che divenisse un museo e tale è rimasta. Superato il doppio nartece, si rimane senza fiato per la vastità dell’ambiente e l’altezza della cupola. Come nella mia precedente visita non mi sembra che i turchi abbiano fatto molto per riparare i danni del tempo, anche se un ponteggio arriva fino alla cupola. Gli elementi cristiani e islamici si trovano uno accanto all’altro, basti pensare all’abside con il mosaico di Maria con il Bambino e il mihrab nella direzione della Mecca. Una scala consente di salire alla galleria che gira tutto intorno. Originariamente destinata alle donne, fu in seguito riservata alla famiglia imperiale; per questo era decorata da splendidi mosaici. Tra quelli sopravvissuti mi colpiscono una deisis del XII sec. Con Gesù tra San Giovanni Battista e la Vergine, e la Vergine con il Bambino tra l’imperatore Giovanni Commeno e l’imperatrice Irene (XI sec.). Lasciata Santa Sofia, faccio una puntata ala Gran Bazar, ormai molto turistico ma sempre interessante per l’intreccio di lunghe gallerie piene di bancarelle e botteghe. I centri commerciali, oggi tanto di moda, non ne sono che i moderni discendenti. Ormai è tempo di tornare in aeroporto, con un’altra corsa nel modernissimo tram e in metropolitana. Il volo Istanbul – Roma si rivela anch’esso molto spettacolare: sorvoliamo tutti i Dardanelli, proseguendo verso le tre dita, protese nel mare, della penisola Calcidica in Grecia; il monte Athos appare collegato al continente da uno stretto ed impervio lembo di terra, lasciando intuire l’origine dell’isolamento dei monaci. Subito dopo scorgo il Monte Olimpo. Giunti a destinazione a Roma, terminiamo in bellezza virando proprio sopra Piazza San Pietro.