Attraverso la Bosnia sulla via per Istanbul

E si, per Istanbul! Così mi rispose diversi anni fa, quando ero un motociclista alle prime armi, un benzinaio di non ricordo che valle del piacentino, alla mia domanda: “Scusi, per Milano?”, dal momento che mi ero perso come un citrullo nel classico bicchier d’acqua. Da allora quella frase continuò a frullare nella mia testa, in ricordo...
Scritto da: Potitorello
attraverso la bosnia sulla via per istanbul
Partenza il: 20/07/2006
Ritorno il: 12/08/2006
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
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E si, per Istanbul! Così mi rispose diversi anni fa, quando ero un motociclista alle prime armi, un benzinaio di non ricordo che valle del piacentino, alla mia domanda: “Scusi, per Milano?”, dal momento che mi ero perso come un citrullo nel classico bicchier d’acqua.

Da allora quella frase continuò a frullare nella mia testa, in ricordo di una simpatica situazione, ma anche per l’idea stessa di raggiungere quella città in moto.

Ancora digiuno da grandi viaggi, la immaginavo come un luogo remoto in chissà che angolo d’oriente, con carretti, mercati all’aperto, gente barbuta con turbante in testa che si aggira per le strade con fare infido e quanto altro la mia fantasia riusciva ad elaborare osservando e ascoltando ciò che l’umanità attorno mi mostrava.

Alle varie pianificazioni dei viaggi che seguirono da allora, ogni volta mi tornò in mente la frase del benzinaio. Chissà come cavolo ci si arriva. Non è come andare a Barcellona, Parigi o Monaco di Baviera, se si è un po’ di fretta si imbocca l’autostrada più vicina e ci si reca in poche ore.

Istanbul no. È la sotto, nel calcagno estremo dell’Europa, dopo i Balcani, i Rodopi e a due passi dal Caucaso. No no, deve essere un bel casino raggiungerla.

Così l’unica volta che ci passammo, il nostro viaggio in Turchia del 2003, fu traghettando dall’Italia alla Grecia. Non diedi retta al benzinaio. Non ci fermammo neppure una notte in città. Dedicare tempo alla vastissima Anatolia o all’antica Costantinopoli. Scegliemmo la prima, con l’attenuante a tale delitto: “Tanto ci possiamo andare quando ci pare in aereo per un po’ di giorni”. Ormai ci sono tanti di quei voli low cost anche per quella destinazione, che ultimamente, anche quell’idea stava diventando sempre più realtà.

NO!! Ecco lo spirito del benzinaio che si ripresenta, mi ossessiona con quella frase e ogni volta che vedevo scritto da qualche parte il nome di quella città o nei lunghi e terribili inverni norditalioti sfogliavo carte stradali e buttavo l’occhio su quella macchia nera tra due continenti, eccolo che si ripresentava, lui, il benzinaio. Non ricordavo assolutamente che faccia potesse avere, ma quella frase… E guai se fossi corso in agenzia a comprare un biglietto aereo, sembrava volermi dire. Fossi ripassato di la a fare il pieno, per ripicca e a mia insaputa, mi avrebbe riempito il serbatoio di gasolio.

Complice la curiosità stuzzicata con il viaggio attraverso l’ex Jugoslavia dell’anno scorso, la voglia di non percorrere troppi chilometri e di fare poi un po’ di giorni di mare, ecco che quest’anno prende forma il “viaggio”. Si va ad Istanbul, via terra, attraversando quello che ormai ignoriamo, ma fino a pochi secoli fa fu l’impero Ottomano.

Partiamo il 20 luglio, circa le dieci della mattina. Caldo terribile, moto cariche del minimo indispensabile e con spazio libero nel baulotto. Servirà per eventuali acquisti, qualcosa mi fa pensare che quest’anno saranno parecchi.

Il serbatoio pieno fino all’orlo, così da percorrere tutto d’un fiato la temibile Milano-Venezia.

Fortunatamente dopo Brescia il traffico diminuisce sensibilmente, così da poter proseguire placidamente fino a Trieste.

Il proposito per il primo giorno è di avvicinarsi il più possibile alla Bosnia. Si guiderà finché saremo esausti.

Il confine Sloveno si passa in un attimo, si attraversano dolci campagne mitteleuropee e in pochi km si giunge a quello Croato, stessa storia di poco prima e via.

Puntiamo x Karlovac, città Croata dove presumiamo producano la squisita birra Karlovacko.

Ancora autostrada noiosa, poco affollata e con l’aria di un asciugacapelli puntata contro.

All’uscita autostradale della città scopriamo che è abbastanza presto, decidendo di procedere ancora e avvicinarsi al confine bosniaco. Sulla strada, che a questo punto è una statale a una sola carreggiata, vediamo molte case di recente ricostruzione e tante con ancora i segni di mitragliate o di esplosioni sui muri. Lascito della guerra 91-93 che portò la Croazia all’indipendenza dalla Jugoslavia. Abbiamo già fatto il callo a certe visioni l’anno scorso, le quali c’impressionano un po’ meno.

Dopo diversi camion sorpassati faticosamente su questa strada tortuosa, eccoci alla svolta per il confine Bosniaco e la cittadina di Bihac. Ci si addentra in una steppa lasciata incolta e dove campeggiano i cartelli che avvertono la presenza di mine. Qualche insensata curva fra i campi ed ecco all’orizzonte la sagoma imponente della dogana.

Svolte le ormai note formalità del passport, carta verde e documenti moto, varchiamo la metaforica soglia dell’impero ottomano.

A dimostrazione di ciò, nella strada che scende verso Bihac, dopo una curva spunta un imponente ma non affascinante moschea. La strada prosegue in discesa e a curve. Due motociclisti locali, ben forniti di cavalleria a giudicare dal baccano che producono, intutati di tutto punto e con il casco per proteggere il gomito, ci danno il benvenuto con un sorriso e un cenno del capo. La consueta cortesia bosniaca.

Pochi minuti e siamo in città. Disorientati ci fermiamo ad un bar in centro a chiedere dove si trova il campeggio di cui conosciamo l’esistenza tramite la guida edt dei Balcani Occidentali.

In ottimo tedesco, che noi assolutamente non conosciamo e qualche accenno stentato di inglese c’indirizzano sulla giusta via.

Il camping fa parte di un complesso alberghiero situato sulla riva del fiume Una. Ben ombreggiato, ordinato, pulito e frequentato da rafter tedeschi, francesi e locali, per i quali la zona pare essere un paradiso.

Montiamo la nostra “piccola tana”, corriamo a fare la doccia e poi in centro a cercare pappa, dal momento che è dalla colazione che siamo digiuni.

Avevamo notato una certa quantità di disco bar fracassoni sulla strada principale. Il fracasso però non dura molto a lungo. Tempo di trovare un bancomat e prelevare e sono quasi le undici. I ristoranti sono in chiusura, restano solo gelaterie e bar. Ci salva un negozio di kebab, dove lo servono in una soffice pagnotta tipo francesa grossa come un mio piede e strabordante di carne, verdure e salsine.

Qualche birra, ovviamente locale ma di cui non ricordo il nome, in un bar li vicino poi ci ritiriamo esausti.

La mattina seguente indugiamo un po’ nella tenda. Dopo una colazione a base di sir pita (specie di sfoglia ripiena di formaggio) e succo di frutta comprate al supermercato, ci dirigiamo nuovamente verso la Croazia per visitare i vicinissimi laghi di Plitvice.

Ripassaggio in dogana e in mezz’ora siamo al parcheggio dei laghi, dove fa effetto vedere il cartello di divieto di sosta e fermata dopo le 22 per presenza di orsi… Ingresso circa 15 euro a testa per trascorrere un pomeriggio intero, ma volendo anche di più a camminare tra i boschi e sui laghi tramite delle passatoie appositamente costruite. Salire e riscendere dai diversi dislivelli a guardare le strane cascate formatesi nel travertino, ci allevia dalla sofferenza del giorno precedente causata da oltre 700 km seduti in moto.

Finita la visita torniamo a Bihac, birra nel bar dove il giorno precedente abbiamo chiesto informazioni. Alcuni degli “informatori” sono ancora presenti e insieme al gestore ci guardano incuriositi, cercando di scambiare con noi qualche battuta. Dopo la doccia andiamo al ristornate vicino al campeggio. Un vecchio mulino magnificamente ristrutturato. Ci sediamo proprio sul ponte di passaggio tra la parte interna e il bel cortiletto esterno, sopra la ruota ancora funzionante. Il gestore, un omone serio e baffuto che in altri tempi avrebbe potuto essere un comandante giannizzero, si rivolge a noi in ottimo tedesco che noi continuiamo a ignorare. Peccato che sia un po’ tardi e hanno quasi finito tutto. Restano un paio di trote, probabilmente provenienti dal fiume appena sotto i nostri sederi, e dei pezzi di maiale allo spiedo, il tutto accompagnato da kartoffelnsalat e insalata mista.

Dopo cena andiamo in uno dei locali fracassoni della sera precedente, dove una folla di gioventù si scalmana davanti a un palchetto dal quale due ragazzi con una tastiera e forte voce zingara, si esibiscono con il meglio del repertorio Turbofolk bosniaco.

Ci aggreghiamo anche noi alla festa, ma nanna comunque non troppo tardi, l’indomani partiremo per Mostar.

La mattina ci aspetta con un sole tiepido trasformatosi in torrido in pochi minuti, proprio durante le operazioni di smontaggio “tana” e caricamento moto e con conseguente sauna per il sottoscritto.

Imbocchiamo la strada per Sarajevo, molto più avanti ci sarà la deviazione per Mostar. Poco fuori Bihac ci fermiamo per fare il pieno. Il benzinaio, un ragazzone con un fisico da lotta greco romana, alla vista di due bizzarri stranieri in moto, merce rara da queste parti, si emoziona. Non riesce ad attivare la pompa, poi quando viene il momento di darci il resto, notiamo un leggero tremore nelle mani, causa di dispersione delle nostre monete a terra. Tutto contento dell’incontro, sorridente, ci saluta e ci augura una sorta di buon viaggio o buona fortuna. Da qui in avanti ci troveremo spesso in questa simpatica situazione.

La strada procede inizialmente dritta e noiosa, contornata solo da campi, boschi e incontrando raramente altri veicoli. Ci spingiamo nel cuore della Bosnia Herzegovina. Entriamo nell’ambigua e politicamente misteriosa Republika Serpska, dove le moschee sono sostituite dalle chiese ortodosse e le indicazioni stradali sono scritte in cirillico. Brevemente: questa repubblica, dove vivono i Serbi di Bosnia, venne costituita con gli accordi di Dayton, che posero fine alle ostilità tra esercito Jugoslavo e resistenza Bosniaca, riconoscendo il nuovo stato della Bosnia Herzegovina. Fa parte della nazione bosniaca, pur avendo una sorta di proprio parlamento, il confine tortuoso, che realmente non ha nessuna funzione e nessuna barriera, salvo i cartelli di “Welcome in Republika Serpska” e i corrispettivi con “Goodbye”, sono segnalati su moltissime carte stradali.

Dopo Jaice, appena “rientrati” in Bosnia la strada si fa più gustosa, in mezzo ai monti e con il fiume a valle. Quando imbocchiamo la strada per Mostar, costeggiamo il fiume Neretva, che ci accompagnerà fino in città, dove una volta passato sotto i famosi ponti, proseguirà verso la Croazia, sfociando nell’adriatico.

Mostar non ha campeggio, cerchiamo quindi un affitta camere, dei quali la città abbonda, ma con l’inconveniente che è sabato e un’orda di turisti di ogni nazionalità, si contende le poche rimaste.

Ne vediamo un paio e decidiamo di sistemarci in uno dei più affascinanti, il Kriva Kupria (Ponte storto), situato vicino all’omonimo ponte. Non è proprio economico, 60 euro a notte per la doppia con colazione, ma la posizione è invidiabile. Proprio nel cuore della città, dal terrazzino della stanza assegnataci godiamo di un bellissimo panorama sul centro storico.

L’affabile gestore ci spiega che c’è il parcheggio delle moto. Si, nel terrazzo del ristorante e per raggiungerlo bisogna scendere per una lunga scalinata (ovvio in moto!), fare inversione in pendenza, attraversare il Ponte Storto, il quale è sempre a gradini e giungere all’ingresso dell’albergo. Da qui c’è un gradino con un dislivello di 25 cm circa e subito a sinistra altri due della medesima altezza. Arrivano in aiuto due camerieri con un asse di legno più stretta delle mie gomme, dove dopo poco dovrò dilettarmi a fare l’acrobata.

L’asse serve per superare gli ultimi gradini, mi rendo conto dell’assurdità di quanto stiamo facendo e sono dispostissimo a lasciare le moto parcheggiate sulla strada da dove siamo scesi. L’albergatore insiste e da ordine al più giovane dei camerieri di pensare lui a portare le moto fin dentro l’albergo. Senza salire in sella comincia dalla moto di Chiara. Sfriziona, la porta a un miliardo di giri senza spostarla di un millimetro. Nel frattempo una piccola folla radunatasi per ammirare il Ponte, sposta l’attenzione su di noi, veniamo pure filmati da qualche giapponese o coreano.

Invito il cameriere, che non si rassegna facilmente, a lasciar fare a me. In pochi minuti sistemo entrambe le moto percorrendo in totale l’asse per quattro volte. Mentre svolgevo queste operazioni, mi è tornato in mente quando tanti anni fa, da piccolino, vennero dei bizzarri tedeschi nel mio paese, montarono un altissimo traliccio nella piazza principale, dal quale tirarono un cavo che scendeva a terra e si dilettarono e salirlo e scenderlo a piedi e in moto.

Mostar è una città a dir poco bellissima e conseguentemente molto turistica. Dopo esserci ben sistemati e ripuliti usciamo a farci un giro a piedi. Passiamo sul famoso Ponte Vecchio, finito di ricostruire nel 2001 e andiamo nell’altra parte della città, quella che dovrebbe essere musulmana.

Qui le ostilità furono fra Musulmani Bosniaci e Croati che vivevano separati sulle sponde del fiume, ma uniti dai numerosi ponti. La contraddizione di questa città.

Il centro è stato tutto perfettamente ricostruito, sulla strada principale, più spostata dalla parte storica, sono rimasti dei grandi edifici storici sbriciolati dalle bombe e per i quali la ristrutturazione pare ben lontana da venire.

Sulle sponde dei fiumi è un pullulare di bar e ristoranti. C’è addirittura una specie di discoteca situata in un’ampia grotta. Ovvio che con tutto questo fervore, ci sia una gran quantità di gioventù impegnata nel mettersi in mostra, ragazze soprattutto, quelle particolarmente belle, da queste parti non sono assolutamente rarità.

Per cenare troviamo un piccolo negozietto dove cucinano cevapci (polpettine di carne) e altre prelibatezze. Facciamo quasi il giro completo della lista e veniamo a conoscenza della birra locale, Mostarsko, ovvio.

Il giorno seguente lo dedichiamo alla visita un po’ più dettagliata del centro. Non è molto grande, una giornata è sufficiente. Visitiamo un paio di moschee, la più grande è a pagamento e il custode con la scusa che siamo italiani, quindi campioni del mondo, ci fa pagare un solo biglietto d’ingresso. Io salgo sul minareto proprio mentre si scatena un forte temporale. Da li scatto qualche foto alla città che in un attimo è divenuta deserta, dopodiché ce ne stiamo seduti sui tappeti, noi due soli ad aspettare che si plachi un po’ la pioggia.

Facciamo qualche piccolo acquisto di artigianato e poi ci dirigiamo sulla riva del fiume con qualche birra a rilassarci un po’ e ad osservare gruppi di pescatori che a giudicare da quanto non pescano, si incontrano in quel luogo solo per motivi conviviali.

Noi come tanti altri, useremo per sederci e distenderci, gli imponenti pezzi del ponte che venne costruito nel 15° secolo e distrutto nel 1996, ora ripescati e messi li a far mostra silenziosa di se, del loro storico e tragico passato.

La sera ceniamo ancora a varietà di cevapci e andiamo ancora un po’ a zonzo per le vie fino a tardi, ad osservare la strana e variopinta umanità che sostituisce dopo una certa ora, la bella gioventù vista la sera prima.

La mattina seguente, dopo esserci districati dal “parcheggio interno” dell’albergo partiamo per Sarajevo. La strada è poca e scorrevole, concedendoci di percorrerla con calma.

All’orizzonte si vedono dei nuovoloni che non promettono nulla di buono. Arriviamo al campeggio di Ilidza, a circa 10 km dal centro poco prima che si scateni il temporale. Fortunatamente tocca la zona nostra solo marginalmente, lasciandoci montare la tenda tranquillamente. Anche qui hanno il senso di cosa vuol dire campeggiare. Posto pulito, in mezzo al verde quindi ben ombreggiato, bagni spartani ma ben funzionali, puliti e con abbondanza di acqua calda.

In moto raggiungiamo il centro a metà pomeriggio. Parcheggiamo e andiamo a farci un giro per le vie della Bascarsija, la parte vecchia.

Sarajevo è già una nostra conoscenza, ma sempre bella e sorprendente. Adagiata nella sua valle con le colline che la circondano, alcune coperte da cimiteri che presenziano severamente sul futuro della città.

Veniamo però attratti da qualcos’altro nei nostri due giorni di permanenza, il cambiamento velocissimo che è avvenuto nel corso di un anno.

I soldi continuano a confluire dall’unione europea e pare che l’amministrazione locale si stia dando un gran da fare per sfruttarli bene.

Palazzi che l’anno scorso erano solo scheletri bruciati dalle bombe, quest’anno hanno ripreso l’aspetto del cantiere e su alcuni stanno già posando i rivestimenti esterni. Un nuovo e architettonico centro congressi sorge lungo la strada che va all’aeroporto, quello che fu tragicamente noto come viale dei cecchini. I tram che portavano ancora i segni delle mitragliate o dell’abbandono, sono stati ricoperti da pubblicità, tipo quelle che si vedono sui mezzi pubblici a Milano. Non proprio eleganti ma un po’ più decorosi e meno lugubri.

Vie e cortili in semi abbandono, ripuliti e in alcuni casi con locali nuovi.

Il tutto infarcito da un numero impressionante di turisti. Cosa rarissima l’anno scorso.

Andiamo alla ricerca della fabbrica della Sarajevsko Pivo, nella quale hanno ricavato un’elegantissima birreria e dove vendono ottima birra di produzione propria. Nulla a che vedere con quella mediocre che si compra in bottiglia in giro per la città.

Dissetati, andiamo a zonzo a vedere negozietti e possibili acquisti, attività a cui ci dedicheremo il giorno seguente.

Ceniamo a base di burek e sirkeci (sfoglie ripiene di carne o formaggio) e non troppo tardi torniamo in campeggio.

Il giorno seguente ci soffermiamo per una passeggiata nel vasto parco di Ilidza.

Prendiamo il tram per raggiungere la città. Se le carrozze sono state risistemate, la linea decisamente no. È un divertimento sedersi in fondo o a metà del convoglio e vedere di quanto riesce a sbandare la parte anteriore a causa dell’irregolarità dei binari.

Scendiamo proprio a fianco alla Bascarsija e la prima cosa che ci si para davanti è la biblioteca di Sarajevo. Un palazzo in uno strano stile orientale ma ormai alquanto fatiscente. Venne colpito da una bomba incendiaria durante la guerra e la maggior parte degli antichi volumi contenuti all’interno andò distrutta assieme all’edificio. In memoria di tale barbaro gesto è stata posta una targa sulla facciata, per non dimenticare, semmai ce ne fosse bisogno.

Tralasciamo le visite alle moschee, ne avremo abbastanza a Istanbul. Adocchio un negozio di tappeti gestito da una simpatica signora, ci mostra diversi articoli, ne hanno davvero tanti, e intavoliamo una chiacchierata. Capisce la nostra titubanza all’acquisto, spiegandole che stiamo viaggiando in moto verso Istanbul e quindi un tappeto da scorazzare per così tanti giorni e così tanta strada sarebbe un bell’impiccio.

Nel girovagare troviamo un negozio di CD e con l’aiuto del simpatico proprietario che ci fa ascoltare diverse compilation sul suo rudimentale impianto, scegliamo il nostro.

I prezzi sono molto convenienti e la merce è abbastanza originale.

Bevendo un caffè bosniaco in un locale specializzato in tale bevanda, facciamo conoscenza con una giovane coppia francese che sta girando le repubbliche ex Jugoslave in autobus e con il loro affitta camera. Il gioviale signore ci mostra come si beve questo tipo di caffè in cambio di un po’ di pazienza per ascoltare la pubblicità delle sue belle stanze a due passi dal centro.

Nel frattempo infuria un temporale. Aspettiamo che si plachi, salutiamo i compagni di bevuta e ci dirigiamo verso il mio chiodo fisso del pomeriggio. La tappetara. Nel frattempo io e Chiara abbiamo già fatto tutti i calcoli sul peso e come impacchettare l’eventuale acquisto.

Con gioia ci rivede tornare e dopo chiacchiere e trattative usciamo con circa 4 kg di lana abilmente intessuta e colorata, avvolti in due resistenti buste di plastica per ripararli dalle intemperie che potremmo incontrare strada facendo.

Andiamo in campeggio a riordinarci e torniamo in città sempre in tram, dal momento che il cielo non promette belle cose, per incontrare Zeina, un’amica bosniaca che fu ospite di mia zia in Italia durante la guerra.

Passiamo tre belle ore di conversazione assieme, dando una dose di positività alla sua vita che di negativo ha avuto fin troppo. Ci lasciamo con il magone prima del passaggio dell’ultimo tram, con la solita ripromessa di tornare. Almeno quest’anno siamo stati di parola.

La mattina si parte di buon ora, si fa per dire, già non siamo mattinieri, in più dovendo stivare tenda e bagagli vari, riusciamo a essere in sella alle 10.30. Direzione Bulgaria.

Questa è una delle tappe più significative del viaggio, non tanto per la lunghezza, ma per le difficoltà e l’attraversamento di 4 dogane In uscita da Sarajevo incrociamo due poliziotti in Moto Guzzi, addirittura una Breva 750. Peccato, fossero stati fermi gli avrei scattato una foto.

Rientriamo immediatamente in Republika Serpska e dobbiamo fare molta attenzione ai cartelli in cirillico, non vorremmo sbagliare come l’anno scorso trovandoci su un lungo sterrato. Seguiamo la giusta direzione, percorrendo la “Blue Road”, come veniva chiamata durante la guerra l’unica strada che collegava Gorazde a Sarajevo. Ormai potrei definirla green road, passando in mezzo a bellissimi paesaggi montani e di campagna tramite un asfalto perfetto.

Niente che possa ricordare i pericoli di cui era infestata e il dramma che è significato per gli abitanti di Gorazde durante il conflitto.

Alla visione del ponte di Visegrad, bello ma inquietante, sento una strana fredda sensazione alla gola. Se qualcuno ha letto “il ponte sulla Drina” di Ivo Andric e il più recente “Gorazde, area protetta” di Joe Sacco, capirà. Passiamo velocemente la sua bella ma spettrale visione e da li a poco siamo al confine Bosnia – Serbia. Il poliziotto Bosniaco, prima serio nella sua mansione di controllo documenti per l’uscita, si scioglie in un apprezzamento della mia moto mentre sono intento a riordinare le carte nelle tasche.

Tanti saluti e ci dirigiamo alla tappa successiva: polizia Serba. Con fare glaciale sfoglia la carta verde, il libretto della moto e il passaporto, apponendo un timbro sulla stessa pagina dove si trovano quelli dell’anno scorso.

Il resto lo conosciamo già. Un delirio di guidatori impazziti al volante di qualsiasi mezzo in qualsiasi condizione a velocità folle, sorpassando ovunque, senza farsi scrupoli degli altri occupanti della strada. Tanto per darci qualche sensazione nuova ci si mette anche un temporale.

La salvezza è l’autostrada che da Belgrado scende a Nis, dove noi prenderemo la direzione per Sofia. Quest’ultimo tratto passa in mezzo a delle bellissime gole che non riusciremo a goderci a causa di imponenti lavori in corso.

Viene buio, ma decidiamo di proseguire fino al confine, con l’intento di fermarci nel primo motel che troveremo subito dopo.

La frontiera ci accoglie con una fila di circa 6 km di camion fermi, obbligandoci ad andare sempre contromano. I poliziotti Serbi ci fanno passare sempre glacialmente e quasi altrettanto fanno quelli bulgari, distribuendo timbri a tutti. L’unico che ha voglia di chiacchierare è l’addetto al controllo dei bagagli. Non considera minimamente questi, ci chiede dove andiamo e mi fa cenno di dare una bella accelerata con la mia “Moto Guzi” con la z un po’ strascicata.

Peccato che di motel non se ne trovino neanche a pagarne, nel vero senso della parola.

Nulla per km e km, solo strada buia piena di buche e improvvisi lavori in corso. Dobbiamo giungere a Sofia per trovarne uno. Solo che ci invitano a prendere qualcosa da mangiare, ma di stanze non se ne parla. Forse loro sono più abituati, ma Sofia non è proprio un bel posto per mettersi a girare di notte, tanto più in periferia. Preferirei avere un tetto sopra la testa prima della panza piena.

Proseguiamo fino a un incrocio dove si aggirano 5 o 6 cani randagi che trovano un gran divertimento nello sbucare all’improvviso dal buio e rincorrerci abbaiando. Altrettanti poliziotti che però non ci considerano, fermano un auto carica di ragazzi e prima di controllare i documenti gli fanno una bella perquisa con lo sfollagente sempre pronto all’uso.

Ecco un’altra indicazione di motel. All’ingresso c’è una bacheca con esposte foto di diverse ragazze in abiti al di la del succinto e con seni che potrebbero esplodere da un momento all’altro. Non hanno stanze, solo appartamenti. Fra le righe: Fuori dai piedi, la nostra clientela è di altro tipo.

Ripassiamo dall’incrocio dei cani per il loro divertimento e procediamo.

Eccone un altro. Questa volta ci accolgono più gentilmente e ci chiedono 50 euro per la stanza. Decisamente tanti per la Bulgaria, ma non abbiamo altra scelta.

Davanti alla nostra titubanza, l’albergatore ci invita a vedere la “Jacuzi” con la stessa z strascicata di Guzi.

La stanza è grande quanto tutta la mia casa, letto gigantesco, divanetti, lampade, frigobar e televisione dove si esibiscono ragazze molto simili a quelle della locandina del motel precedente. In bagno ecco l’orgoglio del gestore: la Jacuzi. Me lo ha ripetuto quattro o cinque volte nel mostrarmela.

Optiamo per una veloce doccia tralasciando il “gioiello” e ceniamo con quello che abbiamo acquistato la mattina prima di uscire dalla Bosnia, dovendo finire tutti i marchi rimastici. È mezzanotte, quasi 13 ore di viaggio per coprire circa 450 km. Esausti e perplessi per il luogo pacchianissimo dove ci troviamo, ma soddisfatti. Il viaggio del benzinaio prosegue.

Il giorno seguente ci dirigiamo a sud, verso i monti Rodopi e alla ricerca di un luogo più a misura d’uomo.

Inizialmente avevamo pianificato di fare un salto anche a Veliko Tarnovo, l’antica capitale della Bulgaria, decidendo però, strada facendo di cambiare itinerario, dal momento che ci sembrava di dilungarci troppo a nord.

La strada che percorriamo va verso il confine greco. Pensiamo di fermarci per la notte a Sandanski, un paesino ai piedi dei monti Pirin. Arriviamo presto e prima di cercare un alloggio facciamo un salto in un vicino villaggio di montagna dove c’è anche un monastero.

Per strada auto inimmaginabili, da marche tipo Soviet, Uaz, e la più nota Lada a enormi e costosissimi suv. Anche qui il codice della strada è facoltativo.

Dell’impero ottomano, di cui la Bulgaria faceva parte, non resta quasi nulla. Notevole il lascito di decenni di stretta alleanza sovietica: monumenti con raffigurati mastodontici uomini – guerrieri – lavoratori e cemento armato in abbondanza.

Torniamo a Sandanski a metà pomeriggio, troviamo una stanza in un albergo semplice ma pulito e ordinato. La proprietaria che fortunatamente parla francese, si accorge della nostra provenienza, con grande stupore, solo quando mostriamo i passaporti per la registrazione.

La stanza doppia costa circa 16 euro (!) e una bottiglia di birra da 50 cl al bar dell’albergo, meno di un’euro. Ci sediamo a berne un paio per ritemprarci dalla calura che presto si trasforma nel temporale quotidiano che ci perseguita. Alle nostre spalle tre uomini d’affari (chissà di che tipo) confabulano e bevono bicchieri di whiski come fosse te alla menta, arriva la scatola dei sigari e più tardi due fotomodelle ben poco vestite. Evidentemente l’affare si è concluso bene.

Anche a questo genere di cose faremo l’abitudine. L’impressione è che dopo la caduta del muro di Berlino, qui abbia regnato l’anarchia, mascherata da rinnovamento, e la prepotenza. Chi ha mostrato la forza ora è ricchissimo, viaggia su costosissime auto e compra tutto quello che vuole, anche “l’amore”, del quale c’è un mercato fiorente. Chi non ce l’ha fatta campa come può e gira con il carretto.

Ci troviamo in una vivace cittadina termale nella quale sono riusciti a limitare le ciclopiche colate di cemento. Per le strade molti turisti e tantissimi giovani.

Prima di cena andiamo in un bel bar all’aperto (quando ci sono, sono spettacolari) dove uno sveglio barista ci serve birra a un prezzo ridicolo. Ci tiene d’occhio.

Ceniamo abbondantemente a base di prelibatezze locali per una spesa di circa 14 euro e torniamo dal barman precedente. Sfoggia il suo inglese ed avendo intuito i personaggi, ci chiede se vogliamo dei cocktail, mostra una lunga lista e ne elenca qualcun altro di sua conoscenza. Il nostro ringraziare con “merci” transalpino, ci tradisce, dandoci dei francesi. Per la cronaca il grazie in bulgaro è un lungo parolone impronunciabile, hanno pensato bene di adottare la semplice forma francese dopo la 1° guerra mondiale.

Un po’ brilli torniamo in albergo. A parte le terme non ha molto altro da offrirci questa città, decidiamo così di partire l’indomani per la traversata dei Rodopi.

Impresa non facile, la strada tortuosa in mezzo a monti stupendi e selvaggi si alterna a tratti con fondo discreto e altri a groviera (ma seriamente). Capita di trovare centinaia di metri o addirittura qualche km sui quali sembra abbiano appena sganciato delle bombe. Altri non hanno neppure le sembianze dello sterrato, degli indefiniti tracciati a gobbe dove i camion viaggiano a passo d’uomo alzando incredibili polveroni. Tutta viabilità ordinaria.

Sei ore per percorrere poco più di 200 km.

Arriviamo a Smoljan, cittadina in mezzo ai monti che non ci entusiasma per niente. È ancora abbastanza presto così decidiamo di proseguire a quella successiva, Kardzali, che sembra un po’ più grande. Delusione, è un immensa città dormitorio – industriale. L’ultima chance prima che diventi buio è di raggiungere Haskovo, la città successiva sulla stessa strada.

Ci fermiamo nel paesino subito fuori dalle industrie per comprare qualcosa da mangiare in un negozietto. Gli avventori dei bar adiacenti ammutoliscono di colpo e se ne stanno girati a guardarci finchè non ripartiamo, a costo di farsi venire il torcicollo. Noi, invece, assistiamo al ritorno delle mucche a casa. Da sole, verso il tramonto, arrivano dai campi, si mettono in mezzo alla strada bloccando tutto e da li ognuna prende la direzione per la propria stalla o della casa del padrone. Se questi gli ha lasciato il cancello chiuso, cominciano a muggire fino a quando qualcuno non arriva ad aprire.

La strada prosegue scorrevole e in un’ora arriviamo a destinazione. Dalle stalle (per davvero) alle stelle.

Haskovo è una vivacissima città dove si trovano moltissimi locali, discoteche e soprattutto casinò. La città si trova sulla strada principale che unisce Sofia, Plovdiv e il vicino confine con la Turchia.

Troviamo un albergo, do una lauta mancia a un parcheggiatore per controllarci le moto tutta la notte e dopo doccia e cena decidiamo il da farsi.

In due giorni abbiamo attraversato tutta la Bulgaria per le sue strade peggiori, almeno per quanto riguarda la viabilità. Potevamo organizzarci meglio e dedicare un po’ di tempo ad altre città un po’ più importanti. Ormai siamo qui, poca voglia di tornare indietro e la vicinanza con il confine è una forte tentazione per giungere alla tappa topica del viaggio.

Alla mattina non ci pensiamo su troppo e puntiamo dritti in direzione Turchia. La polizia di frontiera mi infarcisce una pagina del passaporto di timbri, visto (10 euro) e firme varie. Quando poi usciremo, sulla stessa pagina ne aggiungeranno altri.

Diretti ad Istanbul.

L’autostrada, che inizia immediatamente dopo la dogana, corre dritta come un fuso in mezzo a campi sterminati di girasole. Le moto sembrano due frecce ben mirate al nostro obiettivo, nulla ci potrebbe spostare o fare desistere.

Alle 17.30 circa siamo in vista della città. Passerà ancora un po’ di tempo e di chilometri prima di giungere all’uscita per il quartiere che ci interessa, dove è situato il campeggio.

Come ogni cosa bella si fa desiderare. L’orizzonte sul mar di Marmara è fosco, non di nebbia ma di smog. 13.000.000 di abitanti… Quartieri formicaio si estendono sotto di noi. Con noi, sulla strada, mezzi pesanti e non, rombano come sempre a velocità folle.

Ecco l’uscita per Bakikoy, si scende per parecchi km verso il mare, qui i nostri parametri di distanza vanno rivisti per eccesso, e finiamo proprio davanti al camping.

Alle 19.15 la tenda è montata e mi giunge un sms da mio fratello che mi avvisa che è nata la mia terza nipote, Arianna. 29 luglio 2006, Ho il timbro di ingresso turco anche sul passaporto, non sarà facile dimenticare due eventi così belli.

La stanchezza è molta ma la curiosità maggiore. Non abbiamo idea di come si giunga in centro e cosa andare a vedere.

Nel non saper ne leggere ne scrivere, chiamiamo un taxi, dei quali non c’è assolutamente penuria in città. Diciamo la parola che ci è più facile pronunciare e che abbiamo letto in continuazione sulle guide turistiche consultate. Sultanhamet.

L’ometto al volante della Tofas (marca automobilistica turca) si trasforma in uno spericolato, ma abilissimo pilota. In una manciata di minuti e innumerevoli colpi di clacson, attraversa 25 km di lungomare coperto di giardini, dove numerosi gruppi di persone sono intenti a grigliare su minuscoli bracieri. Oltre questa umanità si intravedono già le guglie luminose dei minareti e lo splendore che ci attende.

Ci consegna a destinazione di fronte a una Sultanhamet brillante e pullulante di gente festosa.

Restiamo a bocca aperta e senza parole, guardandoci come due bambini davanti a un albero di natale circondato di doni. Ci troviamo nella via che passa tra la moschea di Sultanhamet (Moschea Blu) e la dirimpettaia Aya Sofia. Nei giardini che si trovano tra le due ci sono diverse fontane dove turisti e giovani coppie musulmane si mettono in posa per farsi fotografare. Per loro deve essere una seconda meta di pellegrinaggio dopo la Mecca.

A piedi giriamo disorientati per la zona. Non importa se non sappiamo dove andare, ovunque ci si giri si para davanti a noi lo splendore.

Sarà per l’emozione, per la stanchezza del viaggio che si sta sciogliendo, o come la chiama un mio caro amico, “la sindrome di Monte Zuma”, il mio basso ventre comincia a dolorare, fitte sempre più forti e senso di nausea mi impediscono di finire un piccolo kebab che avrebbe dovuto essere la nostra cena. Urge una corsa in taxi verso il campeggio dove rompo le acque e il mio corpo si svuota completamente da ogni via possibile. Segue una notte infernale e insonne tra brividi di freddo e ossa doloranti. Verso l’alba stanco di stare in quel limbo dalla causa inspiegabile, esco dalla tenda per prendere una boccata d’aria. Mi dirigo verso il mare che qui merita il nome di fogna. All’orizzonte che lentamente schiarisce, file di navi attendono di attraversare il Bosforo. Due ragazzi reduci da una notte brava ammirano anch’essi il panorama. Allarmati dal mio aspetto da morto vivente, chiedono se ho bisogno di aiuto. Ringrazio e spiego l’accaduto. Scaturisce una lunga chiacchierata, che fortunatamente ha effetto riparatore sul mio corpo e lo spirito.

Torno in tenda mentre il campeggio ancora dorme, riuscendo a schiacciare un pisolino di qualche ora.

Cerchiamo di programmare la giornata invano, sto meglio ma sono debolissimo, non me la sento di affrontare una giornata da turista giapponese. Riusciamo a smuoverci solo verso le 15.30. A rischio della nostra vita, affrontiamo il caotico traffico di Istanbul per raggiungere Massimiliano, un nostro amico che si trova a Istanbul per lavoro ed è ospite in un vicino albergo. Imparo subito la regola del dito sempre pronto sul clacson.

L’autoscontro turco mi da una botta di vita che incremento nella fresca hall dell’hotel bevendo cay (tè) caldo.

Mi permettono di lasciare la moto nel parcheggio sotterraneo, raggiungendo il centro con metropolitana e tram estremamente moderni.

È tardi e riusciamo solo a visitare l’interno di Sultanhamet, essendo domenica l’ingresso è gratuito. Aya Sofia è già chiusa. Nella piazza antistante un gruppo folcloristico si esibisce in canti e musiche a suon di tamburi e strumenti antichi.

A piedi scendiamo verso il mare attraversando il lungo parco a fianco del Topkapi Saray e passando per quartieri decadenti. La più classica contraddizione di Istanbul.

Ce ne stiamo imbambolati per un po’ su una panchina a fronte Bosforo guardando passare immensi cargo e alle nostre spalle una curiosa giostrina azionata con una mano da un baffuto signore che usa l’altra per divorare pop corn. L’ampio marciapiede è una transumanza di famiglie impegnate nelle vasche domenicali.

Comincia a imbrunire e cerchiamo un luogo per cenare e ristabilire definitivamente l’equilibrio del mio stomaco. Troviamo un anonimo ristorante turistico appena fuori dal gran bazar. Dovremo dividerlo con un gruppo di chiassosissimi americani. In compenso la cena è discreta, vari tipi di spiedi con verdure e riso di contorno. Posso dire di essere tornato normale.

Torniamo all’albergo con gli stessi mezzi dell’andata. Salutato Massimiliano, riprendo possesso della moto e torniamo in campeggio. Finalmente riesco a dormire.

Il giorno che verrà sarà meglio organizzato, grazie anche alla mia salute ristabilitasi.

Raggiungiamo il centro in moto, parcheggiamo su un marciapiede davanti a una banca e a piedi andiamo all’esplorazione del gran bazar. Mi rendo conto che il tappeto di Sarajevo è stato un ottimo acquisto. Qui c’è merce più dozzinale e spesso made in china. Passiamo poi a visitare il Topkapi Saray e il bellissimo Harem al suo interno. Tutta la visita ci impegna per più di tre ore. Da li scendiamo e attraversiamo il Corno d’Oro. Quartiere residenziale e commerciale. Nulla di che. Ci hanno parlato bene del quartiere Taksim, ma è troppo lontano da raggiungere a piedi. Risaliamo per il fiume e lo riattraversiamo, trovandoci nel vecchio quartiere greco ortodosso.

Lentamente ci riportiamo verso Divan Yolu, la strada alle spalle della Moschea Blu, dove avevamo notato una rosticceria con delle ottime verdure ripiene.

Torniamo a recuperare la moto verso mezzanotte. Mentre tolgo la catena si avvicinano due guardie notturne dell’edificio che non è una banca, ma la camera di commercio di Istanbul. Con fare severo e in turco mi fanno capire, aiutati dai gesti, che la moto li dava fastidio. Davanti a un importante edificio, con guardiani e videocamere, non potevo trovare parcheggio migliore, replico. Si mettono a ridere, mi fanno capire che è stata la polizia a lamentarsi, non loro. Mi chiedono se tifo per Milan o Juve. In Turchia, anche per uno che il calcio assolutamente non lo segue come il sottoscritto, è meglio fingersi tifoso di qualcosa. Per i turchi è un istituzione e affermare di non seguire quello sport è come segno di debolezza e inferiorità. Mi spaccio per juventino, il Milan lo collego a Berlusconi e proprio non ce la faccio. Dopo le battute di rito sul caso calciopoli, ci invitano a bere un cay. Mi perdonino i milanisti alla lettura.

La polizia qui è sempre così, onnipresente, spesso sotto forma di esercito, cordiale e disponibile. A giudicare da come viene rispettata, direi anche disposta a spezzare le ossa al minimo accenno di cattiva intenzione.

Il giorno seguente, lo dedichiamo alla parte asiatica. Ci rechiamo con i comodi battelli che fanno la spola tra le due sponde e che vengono usati come tram e metro dagli abitanti. Facciamo una lunga passeggiata, prima perdendoci in viuzze e piccoli bazar, poi sul lungomare che su questo lato è più pulito e vivibile. Molta gente si ritrova su questi scogli per conversare, abbronzarsi e fare un bagno. Giungiamo fino alla stazione degli autobus che partono per tutto il resto della Turchia. Qui facciamo dietrofront per la stessa strada, fino al porto da cui siamo arrivati. Dei simpatici signori di mezza età ci rincorrono per farci assaggiare il pollo che stanno grigliando direttamente sugli scogli. Così, tanto per essere gentili e scambiare qualche battuta con due stranieri. Ci stuzzicano la fame, seguirà così uno spuntino con degli squisiti hamburger che costano 0.35 euro cadauno e birra, che non tutti vendono, in una vicina biranesi (birreria), assistendo ai lavori di realizzazione della metropolitana che passerà sotto il Bosforo. Questa zona è molto piacevole, meno turistica. Un evidente quartiere residenziale benestante dove si trova di tutto, anche la tipica atmosfera turca.

Conclusione: città bellissima, modernissima, legata a grandi tradizioni ma con lo sguardo rivolto all’Europa e al resto del mondo. Il canto del muezzin mischiato con il rock pop turco proveniente da negozi e bar.

In tre o quattro giorni se ne può vedere solo una minima parte. Del resto, oltre alle moschee, le chiese e i vari monumenti, vive di una fiorente economia, di scambi tra i due continenti, della sua posizione strategica e invidiabile di ponte tra oriente e occidente. Per i miei gusti decisamente caotica. Le principali vie cittadine sono come le nostre autostrade, l’automobile è il mezzo di trasporto principale e in bici, viste anche le dimensioni, oltre che la scarsa aspettativa di vita, sarebbe impraticabile. Per questa volta ci può bastare. Siamo al giro di boa ed entriamo nella parte più rilassante del viaggio.

Solo un po’ di stress e fatica nel districarsi, con pochissima benzina nel serbatoio, dalla rete autostradale di Istanbul e percorrere la martoriata statale che corre lungo il mar di Marmara fino a Ipsala, confine greco.

Da li, interminabili rettilinei sulla via Egnatia, accompagnati dal volo delle cicogne, fino alla penisola Halkidiki. Monti e boschi da fiabe, peccato l’attraversiamo all’imbrunire e frettolosi di giungere all’ancora lontano campeggio di Kalamitsi, sulla punta più estrema della penisola Sthonia. Qui ci attendono alcuni giorni di assoluto relax, bagni in un mare a dir poco cristallino e piccole escursioni in un ambiente che ha ancora un bel po’ di selvaggio. A guastare la festa ci pensa ancora la mia salute. Complice l’arietta che tirava sempre ad Istanbul, i 700 km per giungere fino a qui e la vicinanza con il Monte Athos, che per me e Chiara è un noto menagramo, resto con la schiena bloccata per un giorno intero, più qualche altro con molta attenzione per rimettermi in sesto velocemente.

La guarigione definitiva avviene allontanandosi dal temibile monte.

Tagliamo da est a ovest quello che ci resta del nord della Grecia. Passiamo per i monti nei dintorni di Metsovo, perennemente infestati di nubi minacciose. In una lenta sosta a sorseggiare ellenikos kafe, da un benzinaio incontriamo due ragazzi di Bari con una Vespa GT sbarcati la mattina stessa e diretti a Istanbul. Incontro quasi commovente, abbigliamento poco più che da spiaggia, stravolti per una notte sul ponte della nave decisamente non confortevole, poco bagaglio, tenda e sacco a pelo, una carta stradale e un serbatoio che contiene a malapena dieci litri. Niente satellitari, prenotazione, travel cheque o altro. Tanta voglia di avventura e pazienza per assaporare il lento viaggio con lo scooter più antico del mondo. Fanno tesoro dei nostri consigli sui luoghi da cui siamo appena passati. Ci salutiamo e proseguiamo verso lo Ionio. A Ioannina assaporiamo il primo gyros dal nostro ingresso in Grecia, dopodiché la strada sale e scende lungo la catena dell’Epiro. Il sole si abbassa e noi ancora in quota, ci troviamo praticamente sullo stesso asse. Per parecchi km, fino alla sua scomparsa dietro gli ultimi monti che ci attendono, proietta lunghissime ombre con cui rincorrersi un tornante dopo l’altro. Ora distese sull’asfalto, frastagliate su pareti di roccia per poi ricomporsi in varie dimensioni e direzioni.

Il gioco termina in uno dei numerosi paesini che attraversiamo, sotto un nido di cicogne. Al suo interno tre “piccoli”, a turno, si ergono in piedi sul bordo, esercitandosi nei primi tentativi di volo. Spiccano piccoli balzi ma il coraggio e l’esperienza sono ancora insufficienti per abbandonare la casa materna. La già lunga sosta a osservarli, fotografarli e ad essere a nostra volta osservati dalla famiglia che ha il balcone di fronte, sarebbe durata fino al loro volo, non fosse che il buio incalzante, la fame e la voglia di avere un “tetto” sopra la testa ci invita a proseguire.

Giungiamo al campeggio di Plataria, a due passi da Igoumenitsa giusto in tempo per montare nuovamente la tana e correre al ristorante della struttura prima che chiuda.

Siamo come a casa ma ancora in vacanza. Sia per la vicinanza marittima con l’Italia, sia perché è un paesino di poco più di mille abitanti a noi già noto. Il giorno successivo al nostro arrivo, andiamo a trovare Dimitris, proprietario di uno dei numerosi bar vecchio stile che contornano il piccolo porto turistico del paese. Le nostre facce e le imprese dell’anno scorso sono bene impresse nella sua memoria. Tanta è la gioia nel rivederci, che la nostra sosta per un caffè finisce in un pranzo in sua compagnia sui tavolini all’aperto della locanda. Tutto il paese è ora a conoscenza del nostro arrivo e di quello che abbiamo fatto in questo viaggio. Si si, proprio come essere giunti a casa.

Seguono altri giorni di relax marittimo, nuotate nell’enorme piscina del camping, e piccole escursioni. Un giorno di diluvio universale chiusi in tenda a fare strani progetti e a solidarizzare con gli altri campeggiatori che si sono ritrovati la tenda invasa dal fango e poi di nuovo il diluvio che ci attende a poche miglia dal porto di Ancona. Grandine a chicchi grossi come albicocche da ricoprire di un manto bianco i ponti della nave in pochi secondi. A seguire pioggia dal porto fino a oltre Reggio Emilia, Parma, Piacenza (ecco che sulla strada da Istanbul c’entra anche lei) e siamo a casa. Umidi, infreddoliti, un po’ malinconici come sempre, ma soddisfatti per l’ennesima nuova avventura.

Bravo benzinaio!



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