Atene, sotto le braci di un paese rurale batteva il cuore del Mediterraneo
In Grecia ha vissuto una grande attrice – giovedì 1 maggio
In Grecia ha vissuto una grande attrice, forse la più grande di sempre. Il suo splendore è stato sfolgorante. Registi e copertine facevano a gara per averla. Bellissima, forte quando occorreva esserlo, raffinata e colta sempre. Il mondo era ai suoi piedi di dea greca. Proprio quando sembrava che la sua luce non conoscesse limiti umani di durata e intensità la sua stella iniziò d’improvviso ad offuscarsi. Le invidie delle colleghe, la difficoltà a ripetersi ad alti livelli, la fortuna che non la baciava più come una volta. Qualche matrimonio sbagliato, violenze passate sotto silenzio e una turbolenta vita privata le tolsero la tranquillità e la luce dagli occhi. Le comparse cinematografiche divennero sempre meno prestigiose fino a un graduale e lento ritiro dalle scene. A distanza di anni la vecchiaia e i dolori della vita le avevano indurito il volto e asciugato il corpo ma ciò nonostante alcuni riuscivano a riconoscerla, omaggiandola con inchini, baciamani e salamelecchi. Lei, con fine dignità, accettava i tributi a un passato che ormai non la rappresentava più. Oggi i suoi nipoti ti accolgono nella sua casa, mausoleo dei suoi tempi d’oro. Educati, cordiali e con un buon inglese, ti mostrano le loro teche con tutti i cimeli sbiaditi ma ben conservati: fulgidi ricordi di quegli anni sfavillanti e di tutti i successi di quella formidabile attrice. Ecco. Se Atene fosse stata una donna questa sarebbe stata la sua vita. Prima di conoscerla avevo sempre pensato, erroneamente, che Atene fosse stata uno degli perni intorno a cui l’Europa si era formata lungo i millenni. O quantomeno questa era l’idea che mi ero fatto durante gli studi liceali. In realtà la stella di Atene ha illuminato l’Europa per circa 200 anni, solo 200 anni, ed è stata tutto quello che altre città non saranno mai per l’eternità: condottiera, maestosa, fucina di democrazia, arti e filosofia.
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Poi un lento declino, seppur i figli di papà di Roma Caput mundi venivano mandati a studiare in Atene per farsi una cultura degna di questo nome. Immeritatamente la storia si dimenticò di Atene, ciclicamente deturpata in durante il suo lungo e letargico medioevo, per poi ricordarsi a metà dell’800 che sotto le braci di quel piccolo paese rurale che contava 10.000 abitanti batteva il cuore della storia del mediterraneo. Tutto ciò che rimane di quei tempi gloriosi, specialmente l’acropoli, oggi è il fulcro intorno al quale ruota l’Atene moderna, che guarda al futuro senza dimenticarsi mai del prestigio delle sue origini.
Oggi l’Atene post-olimpica mostra il suo centro pulito e moderno e accoglie 2 milioni di abitanti, un decimo di tutta la Grecia. E i giovani Ateniesi sono giovani Europei. Più o meno convinti, ma Europei: poliglotti, viaggiatori e pronti a lasciare la loro terra in cerca di fortuna ma altrettanto pronti a decantarla di fronte alle orde di turisti provenienti da tutto il mondo.
La mia storia con Atene inizia la notte dell’1 maggio, o meglio la mattina del 2, quando il bus X95 mi lascia alle 2.00 di fronte al parlamento Greco, lo stesso palazzo che compare al telegiornale quando va in onda il pezzo sulla crisi greca o sulle manifestazioni contro l’austerity. La passeggiata fino all’ Athens Backpackers è breve e tranquilla, e dopo pochi minuti mi stavo già intrufolavo nel dormitorio dell’ostello, già occupato per 3 dei 4 letti. Il russìo è lieve, non avrò problemi ad addormentarmi.
He’s a legend – venerdì 2 maggio
La luce delle 9 è sufficientemente vigorosa per svegliare i miei compagni di stanza, i cui preparativi per uscire svegliano me. Sono 3 giovani studenti americani che girano l’Europa durante una pausa dai loro studi. Una delle due ragazze, la più socievole e curiosa nei confronti di uno strano viaggiatore solitario che si era materializzato in camera durante la notte, mi fa qualche domanda:
“Da dove vieni?”
“Conosci Rimini?…Venezia? Ecco, 300 km più a sud, sulla stessa costa”
“Noi veniamo da Philadelphia. Hai presente dov’è New York?”
“…Philadelphia è in Pennsylvania, no?”
“Ah ok, a volte dobbiamo spiegarlo così” sorride con compiaciuta sorpresa della mia conoscenza.
Facciamo colazione insieme: uova sode, salsiccia cotta alla piastra e qualche verdura. Poi ci salutiamo e ognuno parte per il suo itinerario. Il mio parte con una visita all’Acropoli, la città alta di Atene. Senza consultare la mappa, seguo a vista la possenza del Partenone che fa mostra di sé sulla linea dell’orizzonte. È molto vicino dal mio ostello e dopo 10 minuti di cammino e 5 minuti di fila per il biglietto (8 euro per visitare tutti i luoghi storici di Atene) sono già dentro a passeggiare nella storia. Arrivato in cima devo arrendermi alla banalità del mio stupore. Il Partenone, visto e rivisto in foto e cartoline, mi emoziona. 2400 anni portati con estrema eleganza, trascorsi su un promontorio sul quale i suoi creatori avevano trasportato tonnellate di marmo pentelico e ingegnose gru per dargli vita.
Accanto al Partenone, le signore Cariatidi (copia delle statue originali attualmente al British Museum) osservano con la severità di madri la città che si estende fino a dove l’occhio può arrivare.
Scendendo dall’Acropoli passo dentro un delizioso quartiere che come un edera si arrampica sulle pendici del promontorio ed è fitto di ristorantini che espongono i tavoli lungo le scalinate.
Scelgo quello che mi ispira di più: Anafiotika (Αναφιώτικα), omonimo del quartiere che lo ospita. Birra gelata, acqua e ghiaccio come benvenuto e assaggi di formaggi greci impanati e fritti. La cameriera approva la scelta con un segno di ok, e il mio stomaco conferma non richiedendo più cibo fino a sera. Qualche minuto al sole e proseguo il mio viaggio per l’agorà romana e la biblioteca di Adriano, tributo dell’imperatore romano alla bella e triste Atene dei tempi meno fortunati. Le visite richiedono pochi minuti e così sfrutto il resto del pomeriggio dentro l’Acropolis Museum, il nuovo museo eretto di fronte all’Acropoli, dalle cui pareti in vetro è possibile ammirare il Partenone da una prospettiva privilegiata. Il museo è colmo di reperti ma mi colpiscono alcuni in particolare: statue di donne e manufatti vari, rimasti sotterrati per secoli. Erano stati seppelliti dopo il saccheggio della città ad opera di Serse, re dei Persiani. Decisero di non riparare l’Acropoli ma di lasciare tutto come la barbarie dei Persiani aveva ridotto. E alle statue, oggetti comunque sacri perché dedicate agli dei, venne data degna sepoltura. Arriva la sera e dopo una doccia sono al “rooftop bar” dell’ostello: il tetto su cui è stato allestito il bar ha una splendida vista sul Partenone illuminato.
È proprio davanti al banco del bar che nasce un gruppo improvvisato e spontaneo. Ben e Cath, coppia Neozelandese che girerà il mondo per un anno, Helena e Katrine, danesi di Copenaghen in vacanza tra Atene e Santorini, Katarina, la barista Ateniese che parla con accento British assorbito dal ragazzo inglese, Sebastian, skipper valenciano che si gode le sue ultime ore fuori servizio prima di salpare nuovamente, Tom, corpulento australiano di Melbourne con origini greche diretto a Santorini per visitare i parenti e Mike, Australiano di Sydney ma insegnante elementare a Londra, che si gode qualche giorno di relax.
Bene, siamo tutti. Ora la serata può iniziare. Dal rooftop bar ci spostiamo allo Sport bar lì vicino e da lì in un tradizionale bar greco in cui siamo evidentemente gli ultimi turisti. “He’s a legend! He’s a legend! ” è quello che continua a esclamare Tom surfando le onde di Jack & cola. La leggenda è Maximilian, greco che parla con accento americano da ghetto newyorchese (nei suoi discorsi ci sono più ” fuck” che virgole) che ha un ristorante nel quartiere Plaka. Si beve dell’ouzo con un suo collega e rivale: il ristoratore confinante.
Maximilian non ha grossi meriti per essere ascritto nell’albo delle leggende ma cerca di non disattendere le aspettative chiamando la cameriera e ordinando un giro di ouzo per tutto il gruppo. I maschi australiani e neozelandesi bevono come spugne ma contrariamente a quanto immaginavo si deformano sotto il peso dei bicchieri. Ben, ragazzone atletico di 190 cm, ingaggia una discussione animata e senza senso con Maximilian. Tom, dopo aver vomitato la cena e forse anche la merenda, si sdraia per terra in mezzo al marciapiede. L’anziano proprietario del locale, un uomo dalla volto solcato dal sole e forse dall’ouzo, gli porta premurosamente un bicchiere d’acqua con ghiaccio, un cuscino e gli fa una carezza. E regala un muto sorriso di comprensione quando Tom da terra gli dice “thank you… I can’t move… I can’t move…”. Il gruppo si sfalda e apparentemente nessuno si impietosisce di Tom che è moribondo a terra, dovrebbe tornare in ostello e non saprebbe ritrovare nemmeno le sue tasche. Mentre Ben ed io, gli unici rimasti a dargli una mano, tentiamo di portarlo verso l’ostello, una coppia di giovani ateniesi ci fornisce molto carinamente assistenza psicologica e va addirittura a comprare una bottiglia d’acqua per il moribondo. A un certo punto Ben, che non trova più Cath (la quale con buona probabilità era semplicemente tornata in ostello), tenta senza molta fortuna di guardarmi negli occhi e mi dice “I’m sorry. I have to find Cath. I love her”. E se ne va, lasciandomi solo con Tom. Guido faticosamente i passi del corpulento Tom fino al suo ostello e lo saluto, decretando il termine della mia prima notte ateniese.
Pinocchio! – sabato 3 maggio
Parto in cerca di una lauta colazione e mi dirigo verso Adrianou, il viale che costeggia l’antica Agorà piena di bar e ristoranti. Una volta arrivato scopro però di non avere fame e faccio un giro per il mercato delle pulci. Subito una scena mi rapisce: su una panchina, adibita a vetrina di un negozio di libri, siede una signora sulla settantina con gli occhiali da sole e un Pinocchio di legno a grandezza d’uomo. In piedi accanto alla signora con gli occhiali, una signora più giovane le tiene la mano e continua a porle domande con il tono affettuoso e cantilenante con cui le si pongono a un bambino. La signora con gli occhiali da sole inizia a toccare il burattino vicino a lei ma senza voltare lo sguardo. D’improvviso un sorriso le illumina il volto: forse ha trovato la risposta al quesito che le era stato posto. “Pinocchio!” esclama soddisfatta. Il suo sorriso contagia anche la signora più giovane che le rivolge quelli che suonano come complimenti. Li ho trovati dei sorrisi meravigliosi. Mi infilo nel mercato delle pulci nel quartiere di Monastiraki, ma la realtà non supera le mie già modeste aspettative. Per riavermi dalla delusione prendo parte alla calca che in piazza Avissynias sta aspettando una pita gyros davanti a un bancone. 2 euro per la migliore pita gyros della mia vita. Davanti a Monastiraki si estende l’antica Agorà, la vasta area che costituiva il cuore della democrazia ateniese.
Tra ricostruzioni moderne e testimonianze originali degli splendidi edifici di un tempo, ripercorro gli antichi sentieri di terra battuta che si inerpicano dalla ricostruzione dello Stoà di Attalo, un edificio che potremmo definire una galleria commerciale, fino al tempio di Efesto, il dio della metallurgia.
Questa agorà, il luogo preferito da Socrate, fu anche lo stesso dove fu condannato per “aver portato strani dei e corrotto la gioventù”. Camminando verso la collina di Filopappo si incontrano anche le “prigioni di Socrate”, le celle ricavate da 3 grotte di roccia in cui trascorse le ultime ore di vita, prima della fatal cicuta. Giunto sulla cima del colle di Filopappo, nuovamente il carisma del Partenone riprende possesso del panorama e mi siedo per plaudire il suo atto di forza e allietare le piante dei miei piedi. Dagli splendori del passato il ritorno al presente è crudele: in piazza Syntagma, a fare da sfondo al folkloristico cambio della guardia, si staglia il palazzo del parlamento che cerca di nascondere con dignità le cicatrici ridipinte sui suoi muri, coriacei simboli di orgoglio greco.
Le guardie che si danno il cambio rubano però il palcoscenico a quell’anonimo palazzo e i turisti osservano assiepati quei curiosi abiti: berretto rosso da militare, divisa blu e camicia con maniche a zampa di elefante, gonnellino, fusò e calzettoni bianchi. Ad arricchire il tutto, una specie di zoccolo olandese con un voluminoso pompon nero in punta. Le movenze e i passi sono altrettanto singolari, soprattutto rispetto ai composti cambi della guardia delle monarchie nordeuropee, e mi ricordano quelle di un volatile dalle zampe lunghe, che ad ogni passo stira e ritira la zampa in aria prima di poggiarla a terra.
Queste guardie repubblicane non hanno nell’estetica un punto di forza ma sono uniche nel loro genere e hanno spiccata personalità. Sono gli Euzoni: soldati scelti di fanteria di montagna. La simbologia di quel buffo gonnellino plissettato richiede più rispetto di quanto l’occhio gliene possa dare: le 400 pieghe applicate ricordano i 400 anni anni di oppressione turca, terminata con un guerra e con il sacrificio di tanti Euzoni. Sì, mi piacciono. Lo stomaco mi dona un paio di diottrie per assecondare le sue esigenze e riesco a scorgere l’insegna di uno Starbucks da 1 km. Preferirei un bar più tipico ma un cappuccino, un burroso muffin e un po’ di wifi per farmi vivo a casa mi paiono appropriati al momento.
Terminato il mio spuntino mi concedo il lusso della metro per tornare all’ostello. E come tutta la città si rivela inaspettatamente pulita ed efficiente. Dopo la doccia d’obbligo torno nuovamente al rooftop bar, in cerca di facce nuove o vecchie. Le prime che incontro sono quella di Tom, l’australiano con la passione per il Jack&Cola, e Haider, un newyorchese di origini pakistane. Tom mi saluta con timidezza e solo quando gli ricordo i trascorsi della sera precedente collega che “the angel” di cui aveva parlato a Haider ero proprio io. Mi ringrazia abbracciandomi ripetutamente per poi giurarmi che non berrà più quel modo. Non fa per lui. Haider è in Atene solo per quella notte e mi propone di seguire lui e Tom a Santorini, dove Tom ha i parenti. Partiranno alle 7 del mattino, ho ancora tutta la notte per pensarci. Tra le facce nuove ci sono quelle di Marty e Stephanie, una coppia di giovani australiani che hanno preso un anno sabbatico e girano il mondo.
La prossima tappa sarà l’Italia e non si fanno sfuggire l’occasione per conoscerla anzitempo ponendomi tutte le domande del caso, anche sull’aspetto gastronomico.
“Turrammesow is my favorite”. Faccio ridere tutto il gruppo quando capisco che si stavano parlando di tiramisù e lo ripeto in italiano. Alle loro orecchie sembra quasi uguale. A me sembrava una lingua elfica. Durante la serata conosco una ragazza di Bruxelles sulla 40ina che fa il medico di base. È una tifosa di calcio e ci scambiamo due opinioni sui Mondiali che stanno per arrivare.
A un certo punto mi fissa e mi dice “sei un artista”.
“In che senso?”
“Nel senso che sei un artista. Mi sbaglio?”
“Temo di sì… “
“Capire le persone è il mio lavoro e quello che mi dicono a volte è solo la versione più esteriore dei fatti. Raramente sbaglio quando vado a cercare più a fondo. E secondo me tu sei un artista, se non di lavoro di animo. Qualcuno ti ha mai detto che hai qualche talento artistico?”
Non voglio darle una delusione e mi aggrappo al motivo per cui sto scrivendo questo racconto “A volte mi dicono che sono bravino a scrivere”.
“Vedi? Fallo, coltivalo”.
Tuttora sto cercando di capire se ho trovato strane le sue parole, lei o io.
Il gruppo decide la destinazione per il sabato sera: Gazi, il quartiere dei divertimenti. Arriviamo con il taxi e migliaia di giovani, che entrano ed escono dai locali e si mischiano nella strada, danno vita a quella che sembra l’ora di punta. Scegliamo uno dei pochi club che non è pieno e il cui buttafuori ci fa entrare. Balliamo insieme un paio d’ore per poi fiondarci nella panineria all’ingresso di Gazi e ordinare ciascuno un sandwich di dimensioni apocalittiche. Saluto tutti i miei nuovi amici e gli auguro una buona permanenza a Santorini. Per me è troppo complicato.
In attesa da sempre della più importante delle visite – domenica 4 maggio
Complice anche la partenza dei miei compagni di stanza, l’orario della sveglia non è propriamente quello da ufficio. Esco con l’idea di farmi un brunch (anche se nessun ristorante lo propone come tale, so bene cosa intendo) ma subito incontro 3 persone con una pettorina da gara e scarpe da runner. Li pedino sperando che mi conducano a una gara ma in realtà stavano solo andando alla loro auto. Delusione.
Torno verso l’acropoli e trovo diverse strade chiuse al traffico. Chiedo quindi a una vigilessa che si stava prendendo degli insulti dalla lunga fila di autisti a cui era stata sbarrato l’accesso e mi conferma che la congestione del traffico era causata proprio da una maratona che aveva preso possesso di alcune arterie principali di Atene. Peccato, vedere una maratona ad Atene avrebbe avuto un sapore particolare: un esercito di emerodromi guidati da Filippide.
Trovo nelle vie del centro un locale che potrebbe darmi la gioia di un brunch ma riesco a negarmela scegliendo una sorta di taco ripieno di verdure, pollo e ordinarietà sotto conservanti.
Per evitare un altro fiasco vado sul sicuro: mi dirigo allo Stadio Olimpico di Atene, perfetta ricostruzione dell’antico stadio in cui si svolgevano le antiche Olimpiadi e che aveva ospitato le prime Olimpiadi moderne nel 1904.
La suggestione e i bambini che si erigono sul podio per festeggiare una vittoria immaginaria rivestono quel luogo di una sacralità inattesa.
Da lì faccio rotta per la teleferica che mi porterà sul monte Licabetto, un monte che l’agglomerato urbano di Atene ha avvolto, forse riconoscendolo come il suo naturale belvedere.
Il viale che mi conduce lì ospita la casa del primo ministro greco ed è popolato da guardie repubblicane con zoccoli e pompon.
Lungo il cammino non riesco a fare a meno di giudicare come infelice la scelta di mettere degli aranci come alberi decorativi: i fiori avevano già lasciato spazio ai frutti che raggiunta la maturità marcivano e si seccavano sul caldo marciapiede. Immeritata sporcizia per il viale e per i pompon delle guardie.
Arrivo alla meta e ammazzo l’attesa di 15 minuti con una birra locale al bar di fronte alla stazione della teleferica.
La cabina della teleferica mi traghetta fino alla sommità passando interamente all’interno del monte. Il buio tunnel è arredato di qualche gioco di luce e opere d’arte contemporanea di dubbio gusto.
Arrivato sul punto più alto del Licabetto mi rendo conto che il piccolo punto di osservazione del panorama è circondato da bar e ristoranti, che ospitano per lo più famiglie di turisti abbienti. L’unico edificio che mi appare incontaminato dal turismo è sorvegliato da un guardiano: una vecchina operosa che si dà un gran da fare per rendere accogliente quella piccola chiesa ortodossa.
Entro nella chiesetta e la osservo girare da una parte all’altra in maniera instancabile, prima sulle offerte, poi sulle candele, poi uscire e poi rientrare.
La cura e la dedizione di quella piccola donna mi stregavano: nonostante i turisti arrivassero lì solo per scattare qualche foto e nonostante il loro disinteresse per la preghiera, lei continuava ad armeggiare indefessa con i suoi arnesi. Là, sulla cima di quel monte, mi sono immaginato la vecchina allestire tutti i giorni la piccola cappella, in attesa da sempre della più importante delle visite.
Decido di scendere camminando lungo la strada che serpeggia sul lato del monte e giungo fino ai suoi urbanizzatissimi piedi godendomi il panorama durante la discesa.
La discesa mi mette un appetito mostruoso e mi fiondo nel quartiere “aristocratico” di Kolonaki con fame proletaria.
Il quartiere è considerato quello dello shopping di lusso ma tutto sommato risulta un lusso abbastanza modesto. In mezzo ai suoi viali prosperano alberi centenari, avvolti da tubi luminosi fino alle estremità, che regalano fresco e un’atmosfera di intima penombra.
I ristoranti di Kolonaki si presentano bene e offrono quasi tutti la cucina locale di cui sono in cerca. Scelgo il Ντερλικατέσεν e visto che non c’è posto mi offro di sedermi su un tavolino che era la base d’appoggio per i camerieri.
Degli splendidi souvlaki di carne mista serviti con salse e abbondanti contorni deliziano la mia domenica.
Passo in ostello per una doccia e riparto nuovamente verso il rooftop bar, ormai il mio luogo d’aggregazione preferito. Essendo domenica le presenze di turisti sono ridotte soltanto a me e a Caio, un ragazzo brasiliano con cui è semplice e piacevole socializzare.
Di lì a poco finisco allo Sport Bar insieme ai suoi amici brasiliani, che molto carinamente parlano inglese tra di loro per includermi nella conversazione. Già, il brasiliano parlato tra brasiliani mi è dannatamente ermetico.
Caio è con i due suoi compagni di viaggio, Cambridge e Manuel, che per caso hanno conosciuto due ragazze brasiliane ad Atene.
Cambridge non è il suo vero nome ma è così soprannominato perché è un ricercatore all’università di Cambridge e il suo intelletto, fuori dal comune in tutte le sue manifestazioni, è spesso bersaglio di ironia da parte degli altri due.
Manuel invece è un ragazzo uscito fuori da uno sketch di Benny Hill show: paffutello, goffo, basso, affabile e con viso sempre divertito e sorridente.
Quando le due ragazze decidono di andare a dormire, il trio brasiliano esige la mia presenza per una spedizione in cerca di movida ateniese.
Fermiamo un taxi e ci facciamo portare a Glifada, il quartiere sul mare che ospita vita diurna e notturna. Il tassista si chiama Lukas, porta malissimo i suoi 50 anni e si unisce all’euforia del gruppo inserendosi nelle conversazioni e raccontandoci di lui: aveva lavorato per anni come camionista tra Grecia e l’Europa e in Romania aveva trovato l’amore. Si era sposato con una donna rumena ma dopo una decina d’anni si era divorziato.
Essendo molto impacciato con l’Inglese, preferisce scambiare due battute in rumeno e in quella lingua Lukas mi chiede di appuntarmi il suo numero di telefono. Non vuole perdere la corsa di ritorno e sarà pronto a venirci a prendere quando vorremo tornare in ostello.
Mi è inevitabile mettere in parallelo i lamentosi discorsi di protesta dell’ultimo tassista Romano con cui avevo socializzato è quelli del sorridente e intraprendente Lukas.
Glifada è una località turistica marittima, per via della sua mondanità e delle presenze illustri, la chiamano la Beverly Hills greca.
Ci fermiamo in un bar ma dopo poco capiamo che Beverly Hills, almeno nella sua variante greca, non fa per noi. Il sorridente Lukas ci porta allora a Gazi.
Al numero 33 della via dei night club, Triptolemou, c’è il Socialista, uno dei pochi che sembra non risentire dell’imminenza del lunedì lavorativo e pulsa ancora musica tradizionale greca ad alto volume.
Entriamo e ci impossessiamo dell’unico tavolo libero. Non riusciamo a cantare a squarciagola come fanno tutti i greci del locale ma la nostra goffaggine nell’emettere suoni simili ci rende simpatici agli occhi degli autoctoni. È così che conosciamo le ragazze del tavolo vicino, che tra un misto di compassione e interesse cercano di insegnarci quei criptici canti tradizionali.
Sono tre belle ragazze che parlano un inglese fluente: Stella studia “Internet science” e ha un debole per l’Italia, Sofia quando mette i tacchi alti vede il mondo da 195 cm di altezza, studia medicina e fa anche la fotomodella, Alexandra invece è una ragazza laureata in architettura ma visto che non trova lavoro ha trovato da poco un lavoro da commessa. Tutta Europa è paese. Trascorriamo una piacevole serata insieme a loro fino a notte inoltrata. Ci salutiamo e diamo l’addio al wekeend Ateniese.
I motivi per restare appaiono pochi – Lunedì 5 maggio
Arriva la mattina della partenza, meglio chiudere la valigia appena svegli e organizzare la giornata.
Torno a Gazi per la terza volta in 3 giorni: Gazi era un quartiere fatiscente ma dopo delle politiche di riqualificazione dell’area è diventato il fulcro dei divertimenti, che si sviluppano intorno all’ex “gazometro” che dà il nome al quartiere.
Di giorno Gazi ha l’aspetto di una periferia industriale nordeuropea, piena di edifici con mattoni rossi a vista, il famoso gazometro e strade che non lasciano presagire nulla di antico nei dintorni.
Da lì mi dirigo al Pireo con la metro di superficie (e di nuovo il treno mi stupisce per puntualità è pulizia), per mettere il naso in uno dei porti più trafficati d’Europa. Dalla stasi mitologica e fossile dell’antica Grecia, tuffarsi nel Pireo è come una secchiata di acqua gelida. Nemmeno il tempo di scendere dal treno e già ero risucchiato dalla massa di rapidi camminatori che si disperdevano per le strade. Qui tutti sembrano avere fretta nel raggiungere un posto diverso da quello in cui sono, e in effetti i motivi per restare appaiono pochi. E infatti tutti i negozi offrono una via di fuga vendendo viaggi o biglietti di un traghetto. A confermare il fatto che la stanzialità è una merce proibita in quel brulicare, i bar in cui le persone si possono sedere si contano sulla punta delle dita. L’asfalto restituisce il caldo con interessi da strozzino e le correnti del mare restituiscono alla terra lo smog oleoso delle enormi navi che popolano tutta l’area portuale. Ovvero a vista d’occhio. Tra i vari flussi di rapidi camminatori scelgo quello che mi sembra andarsene via dal porto e mi ritrovo in una via con alcune misere bancarelle che simulano un piccolo mercato. Continuo a girare ma non trovo meta degna di questo nome e così, dopo una colazione in uno dei pochi bar avvistati, divento anch’io uno dei rapidi camminatori e faccio rotta verso la stazione.
Ripasso in ostello a prendere il bagaglio e ritorno verso piazza Syntagma, ad attendere quell’X95 con cui la mia avventura era iniziata.
È così che è terminata la mia storia con questa meravigliosa attrice, in grado di stupirmi per la sua appannata bellezza, per la fierezza, per i suoi sorrisi ai turisti che la acclamano, per quegli occhi mai tristi con cui guarda speranzosa all’Europa e per quei sogni vividi di un futuro migliore.