Assam, Meghalaya, Nagaland
fu per me quindi una gran sorpresa quando seppi da un mio amico che stava organizzando un viaggio in quelle remote zone, ed accettai senza esitazione di andare anche io.
Il viaggio era finalizzato alla visita delle minoranze etniche della regione e doveva coprire anche le basse terre dell’Arunachal Pradesh, dove vivono etnie animiste e buddhisti Theràvada arrivati in zona in epoche storiche da Myanmar e Thailandia. Sfortunatamente questa tappa, presumibilmente la più interessante del viaggio, è saltata per cause di forza maggiore, ma è stata sostituita da una visita al più scialbo e meno “etnico” Meghalaya, dove, tuttavia, abbiamo potuto godere degli scenari naturali più belli del viaggio, nelle vertiginose gole di Chherrapunjee (la città più piovosa del pianeta terra), traboccanti di rigogliosa foresta tropicale alimentata dagli oltre 15 m di pioggia che ivi si riversano a secchiate durante la stagione monsonica.
1) KOLKATA Il viaggio ha avuto inizio a Kolkata (Calcutta), dove abbiamo visitato il centro di Madre Teresa, un luogo dalla tangibile spiritualità, ed i principali monumenti lasciati dagli inglesi, che elessero questa città, inizialmente solo un piccolo paese, come Capitale dell’India coloniale. L’atmosfera di quel periodo, la vita in epoca coloniale, rivive nelle iscrizioni sulle lapidi tombali che tappezzano la Cattedrale di San Paolo, costruita in uno strano stile: La navata era un po’ chiesa gotica ed un po’ moschea per la sobrietà delle bianche pareti, mentre il corpo centrale, per il tetto a volta ribassata sostenuto da tralicci di ferro, faceva pensare ad una struttura decisamente industriale.
Da qui in poi il nostro viaggio è proseguito sotto un Karma molto negativo, come se le divinità residenti nella valle del Brahmaputra non ci volessero in quel territorio.
l’aereo ad eliche destinato a portarci alla nostra prossima tappa (Dibrugarh, nello stato del’Assam) dapprima non è partito perché la pista di decollo dell’aeroporto di Kolkata è invasa dalla nebbia, poi, dissolta la nebbia, non è partito perché in una tappa intermedia del volo l’aeroporto era allagato.
aspettiamo piu di 2 ore ed alla fine la nostra ostinazione è ripagata: siamo partiti, e senza tappe intermedie, alla volta di Dibrugarh.
2) ASSAM: Dibrugarh Qui, nella capitale del tè dell’Assam, abbiamo visitato le piantagioni di tè e le fabbriche di trasformazione, dove ci è stata illustrata ogni fase, dalla foglia al prodotto finito. Siamo stati alloggiati in 2 distinti cottages molto “anglo-coloniali”, insiti nelle piantagioni a Sud della città. Il giorno successivo abbiamo visitato un villaggio (Nam Phake) di Thailandesi buddhisti Theràvada migrati nel 1600 nell’Assam. Qui ci siamo recati a visitare il tempio, invero piuttosto brutto perché scialbo, moderno, impiastrellato e pieno di oggetti kitsch in plastica; ma molto interessante per la presenza, nella sua piccola biblioteca, di antichissimi codici miniati del 1400, estremamente interessanti, portati da questa gente in Assam dalla Thailandia, rappresentanti il Ramàyana ed altre opere classiche. Le pagine sono di carta di bambù ed i colori, ormai un pò smorti per l’usura e l’umidità dell’aria, sono di origine vegetale. Successivamente abbiamo visitato una casa di questa gente, una palafitta con pareti in bambù intrecciato. Ci è stato gentilmente offerto tè assamico addolcito con jaggery (melassa molto densa, farinosa e veramente deliziosa, derivata dalla canna da zucchero, chiamata il cioccolato dell’India). Abbiamo passato un po’ di tempo con loro ed alcuni di noi hanno acquistato abiti tradizionali in seta.
Al ritorno ai tea cottages (e ritorna il Karma negativo del viaggio) veniamo a sapere, dapprima in forma riservata, che ci sono stati più di 70 morti al villaggio di Tinsukia, a 38 km da Dibrugarh, per mano di un manipolo di guerriglieri esaltati (ULFA: United Liberation Front of Asom) che rivendicano l’autonomia dell’Assam dall’India, tuttavia per nulla apprezzati dai locali. Mi è stato spiegato da fonti molto attendibili che questo gruppo, spalleggiato segretamente da Bangladesh e Myanmar, sta molto probabilmente diventando strumento, per questi due paesi, per mettere mano alle risorse di questo stato indiano, molto ricco in petrolio ed agricoltura. L’azione dell’ULFA di quei giorni si è concretizzata con l’uccisione di poveri immigrati del Bihar (lo stato più povero dell’India) che stavano lavorando molto duramente nelle locali fornaci di mattoni, che in stagione secca sono in piena attività. La motivazione ufficiale dell’azione da parte del movimento suona, purtroppo, familiare alle mie orecchie: “questi stranieri vengono qui a rubarci il lavoro, che se ne stessero a casa loro”.
I giorni seguenti il karma negativo del nostro viaggio è proseguito: per ben 2 giorni siamo rimasti confinati ai nostri cottages, col divieto di mettere il naso fuori dal cancello. Effettivamente il pericolo c’era ed io ho potuto sentire con le mie orecchie molte grida ed inni esaltati provenire dalla vicina strada, probabilmente da mezzi in movimento diretti verso nuove mattanze, inoltre credo anche di aver sentito, da palazzine vicine, grida e pianti di disperazione: chiaro segno della presenza del folle gruppo anche a Dibrugarh. Infatti, la mattina successiva siamo venuti a sapere di attentati simili avvenuti anche nel distretto di Dibrugarh e della istituzione di un coprifuoco in tutta la zona, con una cintura militare tutt’intorno la città che impediva l’uscita od entrata di mezzi o persone.
Non abbiamo perduto un secondo di tempo: siamo infilati nelle nostre quattro fuoristrada e ci siamo diretti a tutta birra, appena in tempo prima della chiusura della cintura, verso il Meghalaya, raggiunto molte ore dopo. Qui un sospiro di sollievo: una regione pacifica ed un bellissimo albergo (Ri Kynjai Resort) immerso in un panorama di monti, laghi e boschi di pini (una specie endemica: Pinus Khasiana) a perdita d’occhio.
3) MEGHALAYA Il Meghalaya, pur avendo perso, ad opera dell’evangelizzazione cattolica e luterana, tutte le sue caratteristiche più etniche (infatti è sede di tre interessantissime tribù: i Khasi, i Garo ed i Jaintya), è una regione ancora molto interessante per gli appassionati di botanica poiché ospita moltissime specie endemiche, a causa della sua rara conformazione: è una specie di “mattone” di marmo, granito, arenaria ed altri tipi di roccia, piazzato nel bel mezzo delle pianure indiane orientali, ed una sorta di “calamita” per i monsoni. Per fare un paragone calzante si può tranquillamente dire che è una specie di Colli Euganei del sub-continente indiano.
oltre a ciò vi sono testimonianze storiche interessanti come delle enormi rocce piantate quà e là sulla campagna, tipo dolmen e menhir, a memoria di capi tribù defunti.
Nella capitale dello stato, Shillong, abbiamo visitato un museo piuttosto interessante sulle minoranze etniche tribali dell’India orientale: il Museo Don Bosco. Tuttavia, a mio giudizio, troppe sale dell’imponente museo di 12 piani erano dedicate esclusivamente alla glorificazione della missione cattolica ed alla religione, e credo che i miti e leggende delle tribu locali siano state deliberatamente distore, nei tabelloni dipinti, a favore di un passaggio alla fede monoteista.
Al di là di ciò, vi erano molti ed interessanti reperti etnici anche di altri stati est-indiani: Arunachal Pradesh, Nagaland, Tripura, Manipur, Mizoram.
Le visite successive sono state al mercato cittadino, angusto ma interessantissimo e traboccante di colori e profumi; e ad un punto panoramico posto a 2000 m, con vista sulla non molto esaltante capitale dello stato.
in seguito la già citata visita a Chherrapunjee, con la vertiginosa vista sulle impressionanti cascate di Nohkalikai: le quarte al mondo per altezza.
Devo dire che Chherrapunjee ha 2 interessanti primati: uno è il già citato primato di precipitazioni, l’altro è il primato di essere l’unico posto dell’India orientale dove i nostri cellulari funzionano, poiché prendono il segnale del Bangladesh, che si trova, a strapiombo, 1400 m più in basso. Infatti scordatevi di poter telefonare nel resto dell’ Est India, dove funzionano solo i cellulari indiani.
4) ASSAM: Namèri National Park Alla fine del nostro periodo in Meghàlaya siamo ripartiti, passando di nuovo per l’Assam, stavolta più pacifico, alla volta del Nagaland. Tuttavia questo viaggio era troppo lungo da fare tutto in un giorno, perciò abbiamo spezzato fermandoci a dormire in Assam ma in un territorio fuori dalle zone ancora “calde”: nel Parco Nazionale di Namèri, nel distretto di Tèzpur, ai piedi dell’Himalaya.
Questa è stata per me una sosta molto gradita, un pò perché finalmente potei vedere, ed attraversare, il Brahmaputra, o Yarlung Tsangpo, fiume sacro del Tibet, ed anche perché la foresta del parco era bellissima, e ben conservata: la classica foresta pluviale con una canopea alta più di 20m. L’ Eco-Lodge dove abbiamo dormito era un luogo assai rilassante e bello, dove ho conosciuto, attorno ad un falò, persone interessantissime provenienti da tutto il mondo con le quali abbiamo parlato a lungo, anche di filosofia buddhista: su come sconfiggere la sofferenza basandosi sulle quattro verità e seguendo l’ottuplice sentiero di Buddha. Era tangibile l’effetto fortemente benefico sul nostro stato d’animo della vicinanza di un importantissimo monastero tibetano (Tawang) ai confini tra Arunachal Pradesh e Bhutan: gli effetti negativi fino ad allora vissuti si annullavano in questo luogo magico, come un demone che veniva soggiogato da un Lama anacoreta con il suo Phurba durante pratiche tantriche. Eravamo in Assam, è vero, ma l’Assam sembrava molto lontano, come se ci fossimo elevati tramite un’ “ascensore” spirituale fino agli aridi pianori del Tibet battuti dal vento. Dell’Eco-Lodge abbiamo avuto l’occasione di conoscere l’interessantissimo Chef, un uomo di mezz’età molto colto e veramente molto interessante, con una capanna colma di libri ed oggetti tribali del vicino Arunachal Pradesh e del Nagaland che ci mostrò con malcelata vanità, come anche uno stupendo Tangkha di Drolma: la Tara verde, che avrei tanto volentieri fatto sparire nel mio zaino (scherzo, non sono un ladro!).
Dalla sua capanna si diffondeva nella jungla tutto il giorno musica lirica cantata da Placido Domingo: una scena veramente degna di Fitzcarraldo! Nel parco abbiamo visitato un villaggio con abitanti di varie etnie accomunati solo dal fatto che le donne erano tutte impegnate nella tessitura di bei sari di seta, che abbiamo comprato, mentre gli uomini con gli occhi spalancati, iniettati di sangue e dall’aspetto minaccioso, erano pesantemente dediti all’alcool.
5) NAGALAND: Kohima e villaggi tribali il giorno dopo siamo partiti in direzione di Kohima, la capitale del Nagaland. Abbiamo ritraversato il ponte sullo Yarlung Tsangpo (o Brahmaputra) all’altezza di Tezpur e ci siamo diretti di nuovo a tutta velocità verso la nostra meta, come se ci scottasse la terra sotto i piedi: in effetti era vero: i pazzi guerriglieri continuavano con la loro folle pulizia etnica e le vittime erano alla fine un centinaio. Ma l’esercito indiano aveva in mano la situazione più di prima: erano arrivati i rinforzi anche dagli altri stati. Nella strada per Kohima ci siamo fermati nella riserva faunistica di Garampani a fare picnic. Questa area è protetta per la presenza di varie specie animali in via di estinzione tra le quali il bucero.
Il Nagaland mi ha fatto proprio l’impressione di un paese non molto libero, mi ha un pò ricordato i paesi del socialismo reale: vi è solo un negozio per tutto lo stato abilitato alla vendita dei prodotti artigianali locali, tra l’altro molto belli; e l’alcool è tassativamente vietato in tutto il territorio. Questa seconda restrizione e la sua necessità l’ho compresa solo in seguito: i Naga sono un’insieme di etnie molto bellicose (fino agli anni 60 tagliavano teste) ed irascibili, e sotto l’effetto dell’alcool diventano, come ho potuto constatare, molto violenti, un pò come succede agli Hooligans.
Pur essendo vietato, l’alcool gira liberamente nel mercato nero della piccola capitale e la gente la sera è spesso ubriaca. Da ciò si scatenano, pressoché ogni sera, risse molto spesso mortali.
Io, tuttavia, vedo come causa di tutto ciò non tanto una componente caratteriale, ma più che altro un effetto della perdita dell’identità tribale. Infatti nel Nagaland, come nello stato di Papua, e posso citare anche altri casi nel mondo, l’organizzazione sociale e culturale tribale, in perfetto equilibrio, anche se apparentemente cruenta, è stata turbata, all’epoca delle colonie, dall’arrivo di missionari, che hanno proposto, se non imposto, nuove regole e nuovi costumi, tuttavia non convincenti perché troppo lontani e diversi da quelli locali. Questo ha prodotto nel tempo uno scompenso che ha portato al degrado morale di questa gente, non più tribale e non del tutto integrata nella nuova cultura imposta. Quindi purtroppo sono rimasti in questa sorta di limbo culturale. Ciò è anche accaduto in Nuova Zelanda per i Maori suburbani di Auckland, come si evince dal film “Once were warriors”.
Nel Nagaland abbiamo visitato vari villaggi della tribù Angami: quella più facilmente visitabile perché servita da buone strade. I villaggi sono divisi in più clan, detti Khel, e le facciate delle case sono spesso decorate con bassorilievi lignei con rappresentazioni di corna di mithun: il bovide sacro che viene sacrificato in importanti cerimonie. Molto interessante è la presenza nei villaggi di case per le ragazze ed i ragazzi, dove questi vivono separati fino al matrimonio, e di peculiari piazze tonde o tondeggianti con una panca circolare o con sgabelli lungo il bordo, dove gli anziani di ogni khel si riuniscono a prendere decisioni.
inoltre, ai lati delle porte d’ ingresso di alcuni villaggi, come abbiamo visto a Tuophema, vi sono antichi bassorilievi lignei rappresentanti i tagliatori di teste circondati da sanguinanti teste mozzate e con una testa, sempre grondante, tenuta in mano per i capelli. Questi bassorilievi dovevano probabilmente servire da monito a chi volesse sfidare il villaggio. Altra caratteristica dei villaggi Naga è l’albero delle teste: ne ho visto uno veramente lugubre che sembrava un mostro urlante! a questi alberi, generalmente ficus, venivano appese le teste mozzate dei nemici.
Purtroppo in questo viaggio non abbiamo potuto vedere le etnie ancora veramente tribali poiché queste si trovano in territori impervi e privi di strade, grazie ai quali si sono anche salvate dagli zelanti missionari, nonché dal disturbo dei turisti.
queste etnie sono i Konyak, i più ricchi culturalmente. Tuttavia, raccomando a chi volesse visitare questi gruppi di avere massima prudenza ed entrare nel territorio in punta dei piedi, per non turbare la tranquillità di questa gente. Credo che sia stato un bene che noi non siamo potuti andare là: eravamo un gruppo troppo numeroso ed, ahimè, troppo chiassoso.
solo gli antropologi seriamente interessati a queste etnie dovrebbero recarvisi.
ci sarebbero molte cose da dire sui Naga, ma mi voglio limitare: diverrebbe un poema questo articolo! una cosa la voglio aggiungere: i Naga mangiano carne di cane, di cavia, di topo e vari tipi di larve di coleotteri, come ho potuto constatare al mercato di Kohima, ma anche ottima carne di maiale affumicata ed invecchiata 5 anni sul camino, che anch’io ho mangiato. Vi domanderete: come sopravvivono a tutto ciò? neutralizzando ogni forma di infezione gastrointestinale con il peperoncino più piccante al mondo: il Naga Jolokhya, usato dall’esercito indiano per la confezione di spray anti-uomo!!!! 6) NAGALAND: Dimapur Dal Nagaland ci siamo in seguito diretti, non seza timore, di nuovo verso l’Assam, per visitare il Kaziranga National Park, fermandoci, per pranzare, nel villaggio di Dimapur, capitale economica del Nagaland, posta sul confine con l’Assam e, per questo, fonte di interminabili dispute con questo stato a causa della sua crescita geografica sconfinante in Assam.
Qui abbiamo visto dei monumenti singolari, eretti (è proprio il caso di dirlo!) nel 700 d.C. Dalla tribù assamica dei Kachari: degli enormi simboli fallici, tipo dei lingam ma non proprio, alti 3-6m, realizzati in arenaria rossa decorata a bassorilievo con ghirigori e fiori di loto. Pare fossero steli in memoria di capi tribù morti: più grandi sono più importante era il capo tribù.
7) ASSAM: Kaziranga National Park Il Kaziranga National Park è stato una rivelazione: una magnifica distesa piatta coperta da un misto di prateria alta e jungla fitta, racchiusa tra lo Yarlung Tsangpo ed una serie di colline granitiche piene zeppe di alberi di teak.
abbiamo fatto tre spedizioni nel parco ad orari differenti (la prima alle 5:30 a dorso di elefante: una grande emozione!) per avvistare il raro Rinoceronte asiatico: una specie in via di estinzione che qui ha vivente il 75% della sua popolazione. È un animale dall’aspetto un pò infelice, ricoperto com’è da bitorzolute placche cineree di pelle durissima che sembrano imbullonate tra loro come fossero pezzi di ferro. La povera bestia ha però la fortuna, rispetto al cugino africano, di avere un solo “corno” e non molto sviluppato, così da stimolare meno la cupidigia di certi cinesi senza scrupolo pronti ad usarlo come Viagra.
Ne abbiamo visti davvero parecchi di questi animali, compresa una bella e grossa madre col cucciolo ed anche una coppia in piena copula. Il maschio infastidito dal nostro “voyeurismo” non ha aspettato un secondo a caricarci ed a farci fuggire a gambe levate. Poveretto: gli è andata male per quel giorno.
Oltre a questi “re” della riserva abbiamo visto numerosi branchi di cervi di due distinte specie, elefanti selvatici, caratterizzati dalle lunghe zanne, scimmie di ogni genere, aquile, variopinti parrocchetti alexandre e dal collare, martin pescatori ed anche una tigre. O meglio, la abbiamo sentita a brevissima distanza, da dietro un cespuglio. Aveva avuto un indesiderato incontro con un elefante. Questo ha preso a barrire e lei ha risposto ugualmente indignata ruggendo.
8) ASSAM: Guwahati L’ultima tappa del nostro viaggio prima di fare ritorno a Kolkata e poi a Roma è stata Guwahati, capitale economica dell’Assam (quella amministrativa è la piccolissima Dispur) senza particolari pregi esclusa la bella posizione tra le colline ed il Brahmaputra e la presenza del tempio induista di Kamakhya. Questo è il principale centro di venerazione della dea Kali (alias Shakti, Parvati, Durga etc.) dell’India, nonché l’epicentro del sub-continente per la magia nera. È un tempio dove si va a chiedere alla sanguinaria dea il potere, in tutte le sue forme (si sappia che il tempio è di proprietà del Re del Nepal), in cambio di un sacrificio di sangue. Molti anni fa questo significava sacrifici umani, ora ci si limita a sacrifici animali di agnelli, capretti, polli o piccioni, a seconda dell’importanza della richiesta da fare. Di fronte all’ingresso della sala del tempio c’è una stanza dedicata al sacrificio, con un impressionante patibolo insanguinato. Mentre salivo la scalinata che conduce al tempio le mie gambe vacillavano dal terrore, nonostante che io cerchi sempre di non lasciarmi sopraffare da emozioni irrazionali in questi casi.
veramente un’esperienza impressionante. Dovete sapere che tutta l’India orientale, dal Bengala occidentale all’Assam, esclusi gli stati tribali, è considerata la terra di Kali, ed i templi in suo onore sorgono numerosi, come numerosi sono i suoi adoratori. Questo conferisce una certa caratteristica “malefica” e terrifica a tutta la zona, anche se credo che non si possano esprimere giudizi morali dinnanzi ad una antica divinità.
Da Guwahati infine siamo tornati a Kolkata e da lì in Italia.
Le conclusioni finali su questo viaggio sono: 1- Visitare l’India orientale è ancor oggi un impresa difficile e molto spesso pericolosa, pertanto va limitata a viaggiatori esperti e con spirito di adattamento, possibilmente in gruppi affiatati di non più di 5 persone tra i 20 ed i 60 anni di età.
2- Occorre appoggiarsi ad un tour operator molto competente e che possa fornire adeguata assistenza in loco in casi d’emergenza come è stato il nostro.
3- E’ consigliabile visitare l’area durante l’inverno poiché il clima estivo è soffocante ed a rischio malaria. Tuttavia, è necessario notare che d’inverno la notte, fino alle 9:30 del mattino fa molto freddo anche alle basse quote, un freddo umido molto fastidioso visto che generalmente si dorme in camere non riscaldate, per cui è anche consigliabile portare, se non un bel sacco a pelo, almeno un pigiama felpato pesante, calze e berretto in lana e, per le uscite mattutine, un golf di lana ed un piumino leggero o giacca a vento. Per le zone di montagna si consiglia di vestirsi un pò a cipolla: jeans, t-shirt, polo o camicia a maniche lunghe, pile, giacca a vento. Non dimenticate di portare una torcia elettrica: la luce viene spesso a mancare; inoltre, scordatevi la possibilità di telefonare o messaggiare col cellulare tranne rari casi come a chherrapunjee. Si chiama dai posti di telefonia pubblici, dove si spende, fra l’altro pochissimo.
4- Non aspettatevi di trovare minoranze etniche animiste ancora abbastanza culturalmente intatte se non in zone estremamente remote, perdute tra le impervie montagne, assolutamente non raggiungibili con l’auto ma solo con lunghi e faticosi trekking. 5- Nell’India orientale si va essenzialmente per due motivi: interesse per le minoranze etniche, soprattutto quelle animiste, di grande interesse per gli antropologi; ed interesse per la natura, sia a livello botanico che zoologico, per la grande quantità di specie presenti.
la cosa che ahimè più manca nella regione è la presenza di testimonianze dell’antichissima civiltà indiana sotto forma di monumenti e luoghi di culto (eccetto il tempio di Kamakhya), che invece rendono così affascinanti molte zone del resto del sub-continente, dove è percepibile il respiro della storia. Questa è forse la più grande mancanza della regione che ho visitato, che ha fatto sì che questo viaggio forse non mi si sia realmente rimasto impresso nel cuore come molti altri. Questo era il mio primo viaggio in India, ma questa terra, che io amo moltissimo, mi riprometto di visitarla di nuovo, dando la precedenza ai suoi luoghi più sacri e ricchi di eredità storiche.
Mi raccomando, scrivetemi a giovannisignorini@mac.Com per qualsiasi domanda.