“Asante Sana Africa”
Tutto è cominciato con una proposta… “Che ne pensi di un viaggio in Africa?” devo dire che questa domanda mi ha lasciato un po’ perplessa! Ero appena rientrata da un viaggio a Londra, il sogno della mia vita… eppure quell’idea mi ha affascinato subito ! “Sarebbe bello.. certo ho ancora il mal di Londra ma sarebbe fantastico” … Lei che c’era già stata in Africa e mi ha risposto “Tranquilla… il mal di Londra farà spazio a qualcosa di molto più grande”. Non capivo quelle parole, eppure oggi so bene a cosa si riferiva!!!
… ed eccomi, dopo qualche settimana, seduta su quell’aereo diretto verso un posto a me sconosciuto…. avevo un mix di emozioni dentro…
Ero spensierata, felice di essere su quel volo con una strana pace dentro.
Siamo arrivati a Dar el Salaam, la capitale di Zanzibar, prestissimo. Osservavo le luci della pista dal finestrino dell’aereo aspettando il segnale dell’apertura delle porte. Sembrava tutto così calmo.. è arrivato il nostro turno, ci avviammo verso la rampa di scale…
Eccolo li: il mio impatto con quella terra! Ho fatto il passo che mi ha portata fuori da quell’aereo ma dentro un nuovo mondo con un sorriso ed un emozione che non avevo mai provato dentro… Son stata assalita da un ondata di caldo, quel caldo che ha caratterizzato tutta la mia vacanza (e non parlo solo del caldo della temperatura). Da quel momento qualcosa in me è cambiato profondamente! è strano come un posto così “vicino” possa essere ancora così “lontano” da noi. Il primo pensiero che mi ha assalito salendo su quel pulmino dopo aver pagato il visto è stato: siamo ancora sullo stesso pianeta?
Era tutto così diverso… Era come se la, in quel posto così affascinante, il tempo si fosse fermato a tantissimi anni fa non preoccupandosi più delle ore o delle cose che avanzavano. Un altro mondo.
Il viaggio che mi ha portato al resort è stato lungo un oretta e mezzo circa, un ora in cui tanti dormivano … io, scrutavo! Mi sentivo come se stessi sbriciando dallo spioncino di un posto rimasto a me segreto per troppo tempo.
Osservavo tutto, avida e curiosa di quelle “stranezze” che divennero con il passare del tempo (almeno per me) normalità. Guardavo fuori dal finestrino e cercavo di concentrarmi sui dettagli, quei dettagli che tutt’ora sono nitidi nella mia mente: c’erano delle persone sedute al centro della strada incuranti del fatto che stesse passando il pullmino, si erano messe li per “seguire” l’ombra della palma perché il sole era già troppo caldo, c’erano bimbi vestiti tutti uguali (gonna blu, camicia bianca per le ragazze, pantaloni neri e camicia bianca per i ragazzi) che correvano per andare a scuola… non capivo il perché di tanta fretta. Qui, nel nostro mondo, i bambini a scuola ci vanno di malavoglia. C’erano donne con il viso totalmente coperto (ed altre no) che trasportavano sulla testa fasci di legna che avrebbero poi usato per fare dei falò dentro casa per scacciare via le zanzare, altre ripulivano il davanzale della loro casa. Casa che era fatta di fango e di sterco di mucca. Solo i più ricchi (ed erano veramente pochissimi) avevano le case fatte anche di mattoni. C’erano uomini che lavoravano la terra, altri che conducevano i carri con i buoi.. c’erano tanti visi, tante storie… ed era solo l’inizio.
Arrivati al Resort (che era bellissimo) non vedevo l’ora di andare in spiaggia. Volevo scoprire cosa mi aspettava, vedere altre cose. Eccolo li………. L’Oceano Indiano. Una distesa immensa di un blu cobalto, così chiaro ma allo stesso tempo intenso, fantastico. Era presto, la spiaggia non era ancora popolata ma qualcosa ha colpito la mia attenzione. C’era qualcuno… un ragazzo alto, magro e adornato da un bellissimo kanga rosso sgargiante… un Masai, quello stesso Masai che ancora oggi sento regolarmente, che è un vero amico e che ha contribuito a rendere quella vacanza unica e speciale. Tra il sistemare le valige, fare il giro del Resort e fare colazione la mattinata è volata via troppo velocemente. In un attimo era già ora di pranzo.
Ci avviammo al ristorante e li ho capito che perché dicono che in Africa tutto si fa “Pole Pole”, piano piano. Abbiamo ordinato una coca quando ci stavamo sedendo ed è arrivata insieme al caffè ! Li non hai fretta. Che fretta può avere la, in quel posto così magico ma difficile la gente?
Dopo pranzo siamo andati in spiaggia e lì è iniziata la nostra avventura. Abbiamo conosciuto un sacco di gente, non turisti, gente del posto. Ci proponevano di tutto: escursioni, tour e ristoranti o serate in discoteca. Quando entrai in acqua per fare il bagno (il mio primo bagno nell’Oceano) notai che un masai si era seduto affianco alla mia roba che avevo adagiato sulla sabbia bianca. Mentre mi dirigevo verso di lui, l’ho visto un po’ stranito: “No No No! Tu non sei in Italia, tu non puoi fare il bagno lasciando la tua roba così…senza che ci sia qualcuno a controllarla”. Ok, non capivo.. era lì per controllarmi la roba? dovevo pagarlo? glielo domandai e ricevetti una risposta inaspettata “Sono un Masai”, non capendo cosa volesse dirmi con quelle parole glielo dissi di nuovo ! La sua nuova risposta mi lasciò senza parole: ” Hakuna Matata” mi disse. Ancora non ne capivo il vero significato.
Le giornate scorrevano veloci: andavamo al mare, facevamo una passeggiata lungo la costa, andavamo a vedere il Villaggio dei Pescatori e programmavamo la serata. Era tutto stupendo… il terzo giorno però, incuriositi da quei colori, ci siamo diretti al villaggio Masai. I ragazzi conosciuti nei giorni precedenti ci avevano invitato un sacco di volte ad andare alle loro “bangè” (bancarelle). Loro si erano spostati li sulla costa di Zanzibar dall’interno della Tanzania per raccimolare qualche soldo per “l’inverno” e per dar da mangiare alle proprie famiglie vendendo gioielli e cimeli fatti a mano da loro. Una volta entrati in quel villaggio, non volevamo più andare via. Appena aperto il cancello che separava il resort dal resto del mondo siamo stati “travolti” da quelli che sarebbero poi diventati “i nostri bambini”. Dei bimbi Masai che erano la alle bangè con le loro madri per portare a casa qualche spicciolo per poter mangiare. Notai subito Graziella e Petra, due bimbe vivaci ed allegre che cercavano “un contatto” con noi pur non capendo perfettamente la nostra lingua. Petra aveva dei segni in testa, chiesi alla mamma cosa aveva avuto, la sua risposta fu come un pugno allo stomaco per me, invece per loro era la normalità: aveva la malaria. Le chiesi come mai era andata all’Ospedale e mi rispose che ci vogliono tanti soldi per il “Dalla Dalla” e ancor di più per l’Ospedale. I Dalla Dalla sono dei “bus” (se così si possono chiamare) pubblici che collegano la capitale, Stone Town, al resto dell’Isola. Mi ha spiegato che non essendo Zanzibarini, non essendo Mussulmani ma Cristiani, i Masai li pagano esattamente come i turisti per il Dalla Dalla e per le cure mediche. La madre di Graziella mi ha detto che anche lei aveva avuto qualche mese prima la malaria e che era stata curata grazie a dei ragazzi Sardi che stavano la a Zanzibar. C’erano altri bimbi.. C’erano Jacopo, Pietro, Nema e tanti altri. Mai avrei immaginato che quei bimbi mi sarebbero entrati così nel cuore.
Una volta rientrati al Resort la mia testa era ancora la, con quei bimbi. Mi chiedevo com’è possibile che tanta gente che sta qui dentro non si chieda “cosa c’è fuori”? com’è possibile che riescano a fregarsene di tutto questo ma pensino solo alla tintarella e al mare?!
Da li iniziò la nostra avventura.
La mattina, facevamo razzia di quello che avanzava dalla colazione e lo portavamo ai bimbi, durante la giornata parlavo con tanta gente, con gli Zanzibarini e con i Masai, cercavo di scoprire i loro “dettagli”, volevo conoscere le loro storie.
Subito notai che Zanzibarini e Masai non andavano per niente d’accordo: forse un po’ per la religione, forse per il loro essere così diversi, eppure entrambi vivevano li, nello stesso posto, con le stesse difficoltà: “non capisco perché si portano dietro il bastone, la spada ed il “rungu”, qu non ci sono leoni da uccidere” mi dicevano gli Zanzibarini “ed io non capisco perché non vanno a scuola visto che a loro è data la possibilità di studiare. In Tanzania, da noi non è così semplice, ci sono le scuole, ma non tutti se le possono permettere e molte volte sono distanti da dove abitiamo e se non hai acqua non puoi camminare per arrivarci”. Entrambi avevano ragione, ma perché farsi la guerra?
Durante la mia permanenza a Zanzibar, oltre a vedere dei posti favolosi (la Laguna Blue, Stone Town, il Tour delle Spezie, la foresta di Jozani, la laguna dei delfini, Prison Island), escursioni fatte esclusivamente con gente del posto e non con quelli del Resort, ho vissuto le difficoltà e la semplicità della gente oltre che la capacità di meravigliarsi difronte a cose che x noi sono di uso quotidiano: non vi dico la fila dei ragazzi che volevano provare il phon quando mi hanno visto asciugarmi la testa, per non parlare della loro sorpresa nell’assaggiare cibi nuovi, anche se molti non volevano neanche provarli e quando ho chiesto loro il perché, per l’ennesima volta, sono rimasta senza parole: “Non ti può mancare e non puoi avere voglia di qualcosa di cui non conosci il sapore”, visto che in Tanzania molti di questi cibi non ci sono e visto che comunque non hanno i soldi per comprarli. Un giorno mi hanno portato dal capo villaggio perchè volevano togliermi la “scimmia zecca” ! Non vi dico la fatica che ho fatto per spiegargli che quello era un neo, non una zecca!!!
Una sera, durante un giro a Stone Town, non ci siamo accorti dell’orario ed abbiamo fatto tardi, solo allora ho fatto caso al fatto che li, in tutte quelle case non c’era la corrente. Una su venti la aveva. Pino, uno Zanzibarino mi ha detto scherzando “hai capito perché siamo così tanti ? arriva il buio e non sai cosa fare” ! =) Non vi dico che risate! Anche quella era una risposta inaspettata quanto vera! Durante quelle serate, quelle in cui il generatore del resort si bloccava, abbiamo riscoperto il piacere di una chiacchierata, del parlare veramente, di qualsiasi cosa, di un falò in spiaggia, e li, nonostante fossimo così diversi, in quelle sere eravamo tutti uguali, tutti senza luce, sotto un cielo favolosamente stellato.
Purtroppo, al piacere e alla riscoperta di tante piccole cose che nella nostra società a volte dimentichiamo, ho avuto la possibilità di vedere e vivere le difficoltà dell’Africa. Durante quelle giornate in spiaggia, ho potuto notare che oltre tanta bontà, aiuto e comprensione, c’era tanta ignoranza da parte di chi, come me, andava li in vacanza. Ho visto scene ripugnanti di persone che “additavano” loro solo perché con un colore di pelle più scuro, diverso… che poi quelli diversi la eravamo noi “i Musungu” i bianchi, non loro, quello è il loro colore della pelle, quella è la loro terra e nessuno ha il diritto di andare la e togliergli anche solo per mezzo secondo la dignità, e credetemi, basta e avanza la vita stessa, che troppe volte è troppo crudele con loro. Un ragazzo Masai quando ero la, uno dei nostri amici, un prete, è morto.
Andando a lavoro è stato investito da uno Zanzibarino ed essendo successo in centro, ovviamente, nessuno ha visto nulla.
Ci sono attimi che non si possono descrivere, sensazioni che non si possono raccontare… Certo è che quando tu sei l’unico “filo” che lega loro, i Masai della Costa all’Ospedale, dove dei tuoi amici Italiani si son recati per vedere come stava (sempre per motivi di costo del Dalla Dalla) e vieni a sapere che purtroppo non c’è l’ha fatta e che toccherà a te dirlo ai suoi parenti ed amici … beh qualcosa ti crolla dentro ed è inspiegabile quello che senti, per non parlare di quello che vedi nei loro occhi quando pronunci quelle parole.
Quella sera, alcuni di loro hanno cantato per lui.
Il giorno seguente, quando sono arrivata al villaggio l’aria era triste e tesa, nessuno parlava, quei visi allegri e quei sorrisi che ti scaldano il cuore erano spariti, eppure loro erano la, alle bangè, e quel giorno dovevano lavorare e raccimolare il più possibile per poter riportare Giovanni (il ragazzo Masai che aveva avuto l’incidente) a casa dalla moglie e per potergli fare il funerale. Erano tristi eppure dovevano stare la contro voglia comunque a combattere con la gente che barattava e che invece di dargli “tre euro” per un bracciale voleva dargliene “due”, non sapendo che quei soldi, quella sera andavano a far parte di una colletta comune, perché loro volevano rimandarlo a casa con le loro forze e tutte le volte alla fine vincevano i turisti e i masai rispondevano con quella frase, che da quel giorno, per me ha un valore particolare “Hakuna Matata” … nessun problema.
Le giornate seguenti son trascorse veloci, troppo veloci… tra partite a pallone (masai contro msungu), cene e falò in spiaggia, pomeriggi passati a “bisticciare” sul fatto che era matematicamente impossibile che loro temessero i granchi ma che non avevano paura del leone, giornate passate a giocare con i bimbi che andavo a prendere al villaggio per portarli in spiaggia a fare il bagno, quei bimbi che cercavano di imparare l’Italiano e che subito dopo mi dicevano “ora tocca a te” e mi hanno insegnato l’alfabeto e a contare in swhaili e in Masaai, serate trascorse a raccontarsi, a parlare delle due diverse realtà… delle nostre giornate, di come loro immaginavano la mia terra, a scambiarci video e foto, canzoni sul telefono, serate passate a scommettere al bar su chi vincesse la partita quella sera (e non nego che più di una volta ho dovuto pagare da bere perché ho perso la scommessa).
15 giorni intensi… Vissuti in maniera piena, viva, come mai ti saresti immaginato, ero li da poco ma alcuni di loro era come se li conoscessi da una vita… 15 giorni passati troppo velocemente ed eccoci la,
All’ultimo giorno di vacanza… il giorno dei saluti, dei pianti. Di quel giorno, non voglio e non posso raccontare nulla.
Perché a volte le parole non sanno e non possono esprimere quello che il cuore prova. Posso e voglio solo concludere con 2 parole :
” ASANTE SANA AFRICA “
GRAZIE AFRICA.
A chi mi ha dato l’opportunità di vivere questa magica e favolosa avventura, a tutti coloro che ne hanno fatto parte e soprattutto a chi non c’è più