Un’avventura marina fra Argentario e Giglio

Storia di una fuga marina improvvisata
Scritto da: Arya Tara
un'avventura marina fra argentario e giglio

Un’avventura marina fra Ansedonia e Isola del Giglio

Questa piccola fuga in direzione dell’Isola del Giglio è stata spontanea e fresca come un giorno di primavera. Vivo in Umbria perciò la strada non è molta, ho due giorni liberi e senza impegni e niente mi trattiene.

Mi sveglio quindi un lunedì mattina, faccio colazione velocemente e comincio a preparare un paio di cose da portare via perché il mio intento iniziale è quello di trascorrere una giornata al mare, dormire in zona e rientrare con calma l’indomani. Visto che è ancora primavera, di giorno fa caldissimo ma di notte è ancora freddo perciò metto in valigia sia un costume da bagno che un maglione di lana, una camicia da notte natalizia con su un omino che saluta dalla slitta, pantaloni della tuta e calzini pesanti. Ho una valigia con doppia personalità. Oltre alle cose di base come soldi, documenti eccetera, porto anche un libro, Sorriso africano di Doris Lessing, perché mi piace leggere letteratura di viaggio mentre sono in viaggio.

Anche se faccio sempre dei bagagli minimal, noto che – per quanto cerchiamo di fare valigie leggere – il peso è spesso comunque eccessivo, ingombrante e in parecchi modi limitante. Sono abbastanza sicura che chiunque inventerà e brevetterà un sistema per far camminare/fluttuare i bagagli accanto al viaggiatore diventerà ricco. Le rotelle non valgono, anche se ovviamente sono state una svolta, perché devi comunque trascinare tutto tu, e neanche gli sherpa perché sono difficili da reperire e soprattutto è sfruttamento. Delegare a un altro non significa risolvere il problema, almeno non in questa circostanza.

Insomma, si parte. Salgo in macchina e metto nello stereo il CD che ho finito di masterizzare mezz’ora prima. C’è il sole. Fa caldo. Le schitarrate struggenti del flamenco mi riempiono le orecchie e il cuore e finalmente vengo pervasa da quella sensazione di euforia, piacere e nostalgia che provo all’inizio di ogni viaggio. Mi sento bene. Viva.

Guido tranquilla sulle curve che mi portano verso il mare, passando per strade provinciali dove non si incontra quasi nessuno e che a maggio sono proprio uno spettacolo della magnificenza dell’universo. Papaveri rossi che costeggiano il bordo dell’asfalto e invadono i campi di grano in cui le spighe sono ancora verdi ma già altissime, miriadi di fiori gialli e viola, tipici della mezza stagione, grilli e cicale che friniscono, farfalle che svolazzano.

Continuo a guidare euforica verso il mare, cantando felice, finché non arrivo alla locanda che ho prenotato, un posto non troppo brutto ma letteralmente a 5 centimetri dall’Aurelia, quindi in una location non precisamente romantica. In ogni caso, va benissimo come prima tappa visto che voglio andare a La Torba, una spiaggia di sabbia nera che va dal Forte di Macchiatonda ad Ansedonia.

Mi accoglie una signora sulla cinquantina che parla senza sosta dal primo momento. Dopo neanche tre minuti che sono lì mi ha già raccontato che è appena stata dal dottore perché sono settimane che ha mal di schiena e che i dottori ti danno appuntamento ma poi ti fanno fare sempre tardi. Inoltre, mi informa anche che ieri ha avuto tanto male alla schiena da doversi fare una puntura proprio lì dietro il divano della reception, sperando che non entrasse nessuno mentre aveva i pantaloni calati. Giuro che ha detto proprio così.

Un po’ inquietata e un po’ confusa da tanta confidenza, mi faccio accompagnare alla mia camera. Piccola e spartana ma pulita e munita di tutto il necessario.

Mi preparo la borsa per il mare, mi metto il costume e sono pronta per la spiaggia, che spero sia deserta. Non c’è niente che rovina l’atmosfera di pace e libertà che offre il mare come la gente che si accalca negli stabilimenti. Se devo stare in una spiaggia affollata, preferisco starmene sul divano di casa mia, proprio come il Commissario Montalbano.

Risalgo in macchina e percorro i 6 km che mi separano dalla riva del mare. Peccato che qui il paesaggio sia stato aggredito così malamente dall’umanità. Ci sono solo capannoni industriali, brutti che anche a farlo apposta non si sarebbero potuti fare più brutti, incroci perfettamente perpendicolari e una generale aria di incuria che fa male agli occhi e allo stomaco.

Quando arrivo al parcheggio già esulto dentro di me: ci saranno sì e no cinque macchine in un parcheggio per mille auto, indice che la spiaggia sarà deserta. E di fatti è così. Chilometri e chilometri di spiaggia vuota. Una vista che mi rimette a posto il cuore dopo la bruttura di prima.

Mi sistemo vicino alla riva ma c’è parecchio vento e l’ombrellone minaccia di volarsene via alla prima occasione. Alla fine non lo fa, però i suoi raggi di metallo cominciano a piegarsi sempre di più col vento, tanto che l’ombra diventa man mano più risicata e sembra che stia per spezzarsi. E lì allora mi chiedo: ma come si fa a costruire un oggetto con materiali così tanto scadenti? Quando ero piccola, mia nonna ne ha comprato uno al negozietto sotto casa per tipo 5.000 lire e ce l’ha ancora oggi. E ho detto tutto sul tipo di società che stiamo costruendo. Tutto è usa e getta.

Mi sdraio sulla sabbia caldissima, rilasso tutti i muscoli del corpo e guardo il cielo terso. Solo ora sento quanto bisogno avevo di staccare davvero. Solo ora mi do il permesso di lasciare andare tutto.

Per un po’ non faccio niente, mi godo semplicemente la mia presenza qui, investita dal vento e con le orecchie piene del rumore ininterrotto delle onde. Negli occhi solo squame di luce accecante, o scaglie di mare per dirla con il mio amato Montale. Dopo una mezz’oretta mi faccio prendere dalla noia, i miei recettori sensoriali richiedono di essere attivati di nuovo, perciò tiro fuori il libro che ho portato. Sono un po’ spaventata perché l’ultima volta che ho provato a leggere qualcosa di Doris Lessing mi sono annoiata ma devo ricredermi subito: il libro è avvincente e affascinante. Narra dei quattro viaggi che ha compiuto l’autrice in Zimbabwe fra l’82 e il ‘92, nella terra da cui era stata esiliata ma dove era cresciuta e vissuta per quasi 30 anni, in un tempo lontano e ormai dai contorni mitici in cui si chiamava ancora Rhodesia del Sud. Parla di ricordi, di viaggi, di politica, di umanità, di guerra e di sogno.

Incredibile quanto siamo più disponibili a leggere quando siamo in vacanza e non solo perché abbiamo effettivamente più tempo: è proprio la disposizione mentale ad essere diversa. Mentre a casa perdo spesso tempo sullo smartphone, quando sono in viaggio vengo presa dalla frenesia di leggere e di emozionarmi per cose autentiche. E così succede anche oggi. Leggo per ore, mentre mi arrostisco pian piano al sole.

Dopo aver mangiato un paio di panini fortunatamente portati da casa (qui fino al primo giugno tutti i bar e gli stabilimenti sono chiusi durante la settimana), decido di fare una passeggiata con i piedi in acqua. Lascio tutte le mie cose al loro destino sotto l’ombrellone e cammino per almeno un’ora. La spiaggia è tanto lunga che sembra non finire mai.

Torno indietro solo quando sono ormai le cinque, giusto in tempo per fare un’oretta di yoga in riva al mare, dietro una cortina di canne che mi proteggono dagli sguardi di quel paio di persone che sono ancora in spiaggia e a cui probabilmente non frega niente di me ma da cui comunque sento di volermi isolare per non sembrare ridicola.

Resto ancora un po’ in spiaggia, sono le sette ormai, e se ne sono andati quasi tutti. Poi raccatto le mie cose e salgo in macchina, alla ricerca di una bottiglia d’acqua che compro al primo distributore.

Comincio quindi a vagabondare con la mia auto cercando di nuovo di avvicinarmi il più possibile al mare, cosa che dall’Aurelia non è semplicissima. Mi inerpico su una stradina che si fa sempre più ripida e che mi fa scoprire il centro di Ansedonia, composto di case messe proprio a strapiombo sul mare. C’è una bellissima vista, con il sole che sta calando e che regala all’acqua un riflesso dorato e vagamente magico. Scendo di nuovo verso il mare e decido di fermarmi davanti a una spiaggetta ormai quasi completamente all’ombra e su cui l’unica presenza umana è composta da due surfisti tedeschi di mezz’età e una giovanissima bellezza che sta dipingendo un acquarello del tramonto. Mi sento al sicuro e decido di aspettare il buio qui. Mi metto nella posizione del loto, una postura che ti fa davvero sentire raccolto nel tuo mondo interiore escludendo le distrazioni esterne, chiudo gli occhi e ringrazio di essere qui.

Oggi però non riesco a meditare come vorrei, sono distratta da altri pensieri. Mentre guidavo sono passata davanti a un cartello stradale che indicava il molo da cui partono i traghetti per l’Isola del Giglio, a solo un’oretta di navigazione, e la mia fantasia comincia a viaggiare di nuovo. In teoria dovrei tornare a casa domani però non riesco a smettere di pensarci, tiro fuori il telefono e comincio a verificare che la piccola fuga sia fattibile, a che ora partono e arrivano i traghetti, quanto costano eccetera. Si può fare. Sono sempre più convinta e vorrei prenotare un posto per dormire. Ho imparato però che ci sono un sacco di imprevisti e preferisco aspettare la mattina successiva per decidere sul da farsi.

Dopo una mezz’oretta, quando è ormai quasi buio, sento i primi morsi della fame e decido di tornarmene alla locanda, dove finalmente mi faccio una doccia calda, mi preparo un paio di panini e mi butto sul letto stanca ma appagata. Telefono al mio compagno e gli accenno che forse domani voglio andare a vedere i gigli. Non sembra turbato. Bene.

Tiro fuori i tappi per le orecchie, da cui ormai ho una dipendenza decennale, i miei vestiti di cotta di maglia in versione natalizia, e spengo la luce.

Mi sveglio varie volte durante la notte ma alla fine niente di strano. Da sempre ho un sonno abbastanza disturbato, circostanza che va peggiorando notevolmente nella settimana preciclo. Chissà se c’entra col fatto che i miei hanno deciso di mettermi a dormire da sola in camera mia quando avevo quattro mesi. A detta loro, ho smesso quasi subito di piangere disperatamente e quindi si sono convinti di aver fatto la scelta giusta. Da pagare con quarant’anni di insonnia ma certo funzionale a breve termine. Ora vediamo come vanno i prossimi quaranta.

Comunque prima delle 7 sono già in piedi e comincio a fare il travaso bagagli. Se voglio andare sull’isola dovrò abbandonare la macchina e con lei la maggior parte dei miei averi perché se c’è una cosa che proprio non sopporto è trasportare troppo peso sulle spalle: ti rende tutto insopportabile, anche l’escursione più bella del mondo. Che fantastica metafora della vita no?

Quindi lascio tutto nella valigia tranne le scarpe, il costume, l’asciugamano da mare e un paio di mutande di ricambio. Poi scendo di sotto e aspetto che arrivi la signora chiacchieronissima a prepararci la colazione. Siamo in cinque: io, due signori sulla sessantina che si chiedono come mai non abbia ancora aperto il ristorante dell’albergo che a quanto pare è noto per le sue bistecche e due ciclisti veneti con la barba grigia e l’aria simpatica.

Ci fanno sedere in un posto assolutamente inspiegabile per la colazione. Sembra una specie di cantina/stalla/mercatino delle pulci dove regna il buio, piena di un’accozzaglia di cose che non si capisce come siano finite lì. Ci sono radio d’epoca, tavolini in formica degli anni ‘70, una lavagna scolastica con tanto di gessi e cancellino con su scritto Benvenuti Cari Ospiti, animali impagliati e due carlini veri che si intrigano continuamente nel guinzaglio l’uno dell’altro facendo sentire il loro abbaio senza voce.

Ci sediamo e la signora ci chiama per nome. A me mi chiama proprio tesoro, come se fossimo parenti. Mi prepara dei cereali e comincia a versarci su il fondo di un cartone di latte di soia (io sono vegana), poi lo guarda strano, tira fuori un cucchiaino e lo assaggia. Poi dice, sì sì tesoro, non ti preoccupare, è ancora buono.

Sono preoccupata ma lo mangio comunque, l’odore effettivamente è ancora buono. Bevo il mio tè verde e intanto guardo gli altri avventori divorare piattate di salumi. In qualche modo si crea un’atmosfera carina, anche se surreale, e ce andiamo tutti salutandoci come amici.

Quando vado a pagare, la signora ne approfitta per raccontarmi altre mille cose e per chiedermi un po’ tutto su di me, da dove vengo, dove vado e perché. Dico una parola su mio figlio e se ne esce con un tono tutto stupito: ma perché, tu hai dei figli? Sì, rispondo. Io sinceramente non ci vedo niente di strano (questo non lo dico ovviamente). E quanti anni ha sto bambino, insiste lei? Nove anni, dico. Ma è impossibile, l’hai fatto al liceo? Ma no, l’ho fatto a trent’anni. Ora ne ho quasi quaranta.

La signora è evidentemente sbigottita. Eppure non è che io sembri chissà quanto giovane. Forse si è fatta confondere dal fatto che ho un paio di piercing, i capelli rasati a zero e viaggio da sola con lo zaino in spalla. Va beh, io alla fine lo prendo come un complimento ma forse invece il senso era che ho un’aria troppo irresponsabile per avere un figlio sopravvissuto illeso fino a quest’età.

La saluto e mi metto in macchina. Sono pronta a partire.

Neanche mezz’ora di auto mi separa dal molo da cui partono i traghetti, a Porto Santo Stefano. C’è tanta gente in giro e una bella aria di primavera che dona a qualsiasi luogo. Parcheggio la mia auto in un deposito, mi compro il biglietto – che costa circa 12 euro a tratta se si va a piedi e più o meno 50 se si ha un mezzo – e mi metto ad aspettare. Che emozione salire su un mezzo che solca le acque. Anche se si tratta sì e no di un’oretta di navigazione, le barche ti portano sempre lontano dalla terra ferma, in una dimensione a sé in cui vigono regole diverse e il tempo procede ad un’altra velocità.

Per tutto il viaggio cerco di leggere sul pontile esterno ma dietro di me c’è l’unica famiglia tedesca sulla terra che fa più casino di una italiana, in particolare la mamma, che strilla come un’aquila. Io in Germania ci ho vissuto tanti anni e vi posso assicurare che è una cosa davvero atipica. È già strano che strillino i figli, i genitori poi è veramente improbabile. Comunque, visto che non riesco a leggere due frasi in fila, chiudo il libro e mi affaccio al parapetto per guardare il mare, un lembo di terra che lentamente si allontana e uno che lentamente si avvicina. Lo spettacolo, come sempre accade sul mare, è avvincente e dolorosamente bello.

Una volta scesa dal traghetto non mi fermo a guardare il paesino, che mi sembra carino ma simile a tanti altri. Chiedo invece indicazioni per le calette che ho visto sulla mappa prima di partire e comincio a scarpinare sotto il sole delle 12. Dopo una ventina di minuti raggiungo la prima spiaggia, piena di ragazzi in gita e fornita di un bar, un ristorante e un servizio di noleggio surf e pedalò: si chiama Le Cannelle. Anche se sembra molto bella non mi convince, stavo cercando qualcosa di più selvaggio. Decido perciò di procedere verso la seconda cala, detta Le Caldane, molto più isolata e raggiungibile solo a piedi. Il sentiero è meraviglioso anche se un po’ ostico, fiorito all’inverosimile con boccioli di ogni colore e con degli scorci di una bellezza straziante sul mare azzurro di zaffiro. Ogni tanto bisogna proprio arrampicarsi sui massi per poter procedere e più volte mi chiedo se sto andando nella giusta direzione ma la fatica e l’incertezza vengono subito dimenticate alla vista della caletta. Una gemma incastonata fra le rocce, dove siedono al massimo quattro persone. Esulto.

In estate dev’esserci parecchio movimento anche qui perché vedo un baretto e qualche ombrellone con lettino ma per il momento è tutto chiuso. C’è anche un mobiletto vintage con libri da leggere, portare via o scambiare.

Appoggio le mie cose sulla sabbia calda, mi metto gli occhialini e mi tuffo subito. Una sensazione di liberazione di invade, in particolare quando immergo la testa e riemergo con i pensieri rinfrescati dall’acqua, resi ora molto più lucidi.

Trascorro tutta la giornata con i piedi che toccano quasi il mare, godendomi lo sciabaccolìo delle onde sulla riva, con la testa protetta dal sole dal mio enorme capello da diva anni ‘60 e il corpo pronto ad accogliere la luce e il calore del sole. Non vorrei andarmene mai ma alla fine mi rendo conto che devo fare parecchia strada per tornare e devo ancora capire dov’è l’albergo che ho prenotato. Ritorno verso il paese con il mio zaino in spalla e mi sento forte, abbronzata ed energica. Felice di quello che ho fatto anche se il ritorno mi sembra più lungo dell’andata.

Una volta in paese mi fermo a comprare un po’ di frutta e verdura e poi parto alla volta dell’albergo Hotel Castello Monticello, che il navigatore indica trovarsi a circa 20 minuti di cammino. Peccato non ci fosse scritto anche che si trattava di 20 minuti talmente in salita da aver paura di cadere all’indietro mentre si cammina. Una faticata epica che mi ha fatto lanciare diversi improperi verso me stessa per non aver approfittato del servizio navetta offerto gratuitamente dall’albergo. Dovevo sospettare che ci fosse un motivo valido per offrirlo gratuitamente ed effettivamente deve essere l’unico modo per non far desistere qualsiasi cliente dall’avventurarsi lassù. Mi sono dovuta fermare diverse volte per arrivare in cima quindi i 20 minuti diventano presto 40 e sono un bagno di sudore, tanto che quasi mi vergogno a presentarmi in queste condizioni alla reception ma d’altro canto che ci posso fare? Il posto è molto bello e la vista anche, quindi ho un’ottima prima impressione.

Mi faccio dare velocemente la chiave e mi butto con tutti i vestiti sotto la doccia, tanto hanno bisogno di essere lavati anche loro. Dalla stanchezza mi tremano i muscoli ma sono comunque contenta quando mi sdraio sul lettone che dalla finestra guarda il mare, mi preparo un’insalata con avocado, pomodorini e cipolla e me la gusto in santa pace. Anche oggi duro poco, dopo un’oretta e mezza sono così stanca che potrei addormentarmi con la luce accesa. Ma forse anche no, visto che io non mi addormento mai con la luce accesa. Quindi spengo, metto i tappi e mi addormento.

Di nuovo dormo un sonno vagamente agitato ma mi sento comunque riposata. Prima ancora di fare le valigie decido di scendere a fare colazione in albergo, dove mi servo latte di soia e dei cereali che dall’aspetto sembravano salutari e ricchi di fibre ma che invece si sono rivelati ripieni di cioccolato scioglievole, una piacevole sorpresa. Dalle enormi finestre della sala colazione si gode una meravigliosa vista sul mare e sulle scogliere.

Dopo una mezz’oretta me ne torno in camera, preparo lo zaino e vado a piedi fino a Giglio Porto. Ora sì che si ragiona: tutta discesa, anche se ripidissima. Quando arrivo sono appena le 9.30 e il mio traghetto è alle 11, perciò decido di fare una passeggiata sul molo e approfitto dell’attesa per mandare qualche messaggio e cominciare a rientrare nella vita di tutti i giorni. Faccio poi un giro  curiosando nei tanti negozietti del porto, senza entrare però: non mi piace particolarmente lo shopping, le commesse mi mettono sotto pressione e mi sembra sempre di comprare roba inutile. In realtà noto che vendono dei vestiti estivi e delle borse da mare molto belle ma io non compro nulla. Poi c’è un piccolo mercato di frutta e verdura e i pescatori che stanno cucendo delle reti probabilmente vecchie di secoli. Un po’ mi spiace di non aver parlato con nessuno su quest’isola ma da un altro punto di vista sono felice di aver potuto passare due giorni praticamente in completo silenzio. Rigenerante oltre ogni dire.

Dopo una breve sosta sulla spiaggetta del porto, arriva il mio traghetto. Salgo un po’ a malincuore e guardo l’isola allontanarsi pian piano, mentre torno alla realtà.

Mi godo ancora il sole accecante durante la traversata, anche stavolta accanto a una bambina che urla come un’ossessa e a sua madre che ha l’aria di essere vicina ad un attacco di nervi.

Tutto va bene.

Grazie.

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